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    Weekly Beasts di sabato 8 aprile 2023

    Nelle foto di animali raccolte in giro per il mondo nell’ultima settimana ci sono i bellissimi colori di una lucertola spinosa del Guatemala, una piccola tartaruga con la testa così grande da non poterla ritrarre nella corazza, uno scoiattolo teso verso una mano umana e un macaco che si lecca le dita. Insieme a un po’ di foto da una nuova sezione dello zoo Taronga di Sydney dedicata alle specie australiane, come i dingo, gli emu, i koala e i wallaby..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Quanto sono pericolosi gli orsi?

    Mercoledì sera è avvenuta la prima aggressione mortale di un orso in Italia nella storia contemporanea. Andrea Papi, un ragazzo di 26 anni di Caldes, in provincia di Trento, è stato ucciso nei boschi della zona mentre stava tornando da una corsa sul monte Peller. Il suo corpo era stato ritrovato nella notte fra mercoledì e giovedì dopo alcune ore di ricerche, e aveva segni compatibili con l’aggressione di un orso. L’autopsia ha dato la conferma ufficiale delle cause della morte. Il corpo del ragazzo presentava graffi, segni di un morso al braccio, ferite profonde al torace e al collo.Il presidente della provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti ha firmato un’ordinanza che prevede la cattura e l’abbattimento dell’orso, che dovrebbe essere riconosciuto grazie a test genetici svolti su campioni organici ritrovati sul luogo dell’attacco. La morte di Papi ha riaperto una discussione che in Trentino e in Alto Adige, dove vive una delle rare popolazioni di orsi bruni (Ursus arctos secondo la classificazione scientifica) d’Italia, ricompare ciclicamente quando un orso attacca un uomo: quanto sono pericolosi gli orsi?Da un punto di vista statistico, come ha sottolineato il Guardian nel 2022, è più probabile morire perché colpiti da un fulmine che essere uccisi da un orso. Secondo un articolo scientifico pubblicato su Nature nel 2019 c’è però la percezione che questi animali siano particolarmente pericolosi per gli esseri umani, soprattutto perché «tra tutti i grandi predatori terrestri e acquatici, gli attacchi perpetrati da orsi bruni sono quelli più raccontati dai media internazionali». «Anche se gli attacchi dell’orso bruno sono meno frequenti di quelli di altri predatori, questa specie ha il potere di attirare l’attenzione amplificata dei mass media, che ha il potenziale per influenzare negativamente l’atteggiamento del pubblico», spiega Nature.Secondo lo stesso studio, tra il 2000 e il 2015 si sono verificati 664 attacchi di orsi a livello mondiale, di cui 95 sono risultati mortali. La maggior parte di queste morti sono avvenute in Nord America, sia da parte di orsi bruni che di orsi grizzly, che ne sono una sottospecie. Prima di quest’anno, in Italia erano state registrate quattro aggressioni in 150 anni, nel 2014, nel 2015 e due nel 2020: nessuna era risultata mortale.In un’intervista a Repubblica in seguito alla morte di Papi, Pietro Genovesi, uno dei maggiori esperti mondiali di orsi bruni e responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ci ha tenuto a sottolineare che «gli attacchi con feriti, in tutta Europa, ci sono tutti gli anni, ma le aggressioni mortali sono molto rare». In Svezia, dove vivono tra i 4 e i 5mila esemplari di orsi a fronte dei circa cento che vivono in Trentino, si registra circa un incidente all’anno, ma quelli mortali negli ultimi 15 anni sono stati soltanto due. In Romania, dove ci sono oltre 6mila orsi, molti dei quali abituati all’uomo, gli attacchi mortali sono stati 11 in 15 anni.«Esperimenti effettuati in Scandinavia hanno dimostrato che la reazione dell’orso, se si accorge della presenza di un umano, è sempre di allontanarsi: perciò non basta avvicinarsi all’orso perché ci sia pericolo», spiega Genovesi.Secondo una pagina informativa della provincia autonoma di Trento, gli orsi bruni diventano pericolosi solo in rare e particolari condizioni: quando sono feriti; se sono femmine con cuccioli appresso; se vengono sorpresi su carcasse o altre fonti di cibo; se vengono colti all’improvviso in un modo che li possa spaventare; se vengono disturbati nella propria tana; se si sentono troppo a proprio agio attorno agli esseri umani. Gli orsi infatti sono animali prevalentemente vegetariani e salvo eccezioni non vedono una minaccia nelle persone, e nemmeno sono interessati ad avvicinarle. Se però un orso si abitua alla presenza degli esseri umani potrebbe avvicinarsi più spesso, aumentando la possibilità di incontri e quindi di rischio per le persone.«È importante ricordare che è assolutamente negativo e pericoloso sia per l’uomo che per l’orso cercare di attirare quest’ultimo con esche alimentari allo scopo di osservarlo, fotografarlo o filmarlo», ricorda per esempio la pagina della provincia autonoma di Trento. «Con questa pratica il plantigrado perde il timore nei confronti dell’uomo, associando anzi la presenza umana alla possibilità di reperire cibo in modo facile».Ad aumentare il pericolo è il fatto che, in posti come il Trentino-Alto Adige, le popolazioni di orsi siano state reintrodotte soltanto di recente, dopo un periodo di estinzione dovuto alla caccia: in queste regioni spesso le pratiche di prevenzione e interazione con gli orsi sono andate perdute e le persone del posto (oltre che i turisti) non sono più abituate a condividere il paesaggio con un grosso animale onnivoro.Secondo gli esperti, residenti e turisti che si addentrano nei boschi e in altre zone abitate dagli orsi bruni dovrebbero ricordare di restare sui sentieri; parlare a voce alta; tenere il proprio cane al guinzaglio; non avvicinarsi alla fauna selvatica, nemmeno per scattare una fotografia; non lasciare cibo a disposizione degli animali; restare fermi o allontanarsi lentamente in caso di incontro ravvicinato, e non colpire gli animali. In paesi in cui la popolazione di orsi è presente da anni, come il Canada, queste raccomandazioni sono contenute in centinaia di cartelli sparsi nelle zone più frequentate dagli orsi.Parlando al Corriere del Trentino nel 2017, Andrea Mustoni, biologo responsabile dell’Area ricerca scientifica e divulgazione del Parco Adamello Brenta, spiegò che «posto che il rischio zero non esiste, è dimostrato a livello globale che più comunicazione si fa, e meno aggressioni ci sono». LEGGI TUTTO

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    Il più importante studio cinese sull’inizio della pandemia

    Un gruppo di ricercatori cinesi ha pubblicato un nuovo studio sui dati relativi ad alcuni campioni raccolti all’inizio del 2020 nel mercato di Wuhan, la città cinese dove ormai più di tre anni fa erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Lo studio era molto atteso ed è stato molto commentato perché è il primo effettuato sui prelievi fatti nel mercato di Wuhan a essere sottoposto a una revisione esterna: i dati sui prelievi, finora, erano stati trattati dalla Cina con scarsa trasparenza, cosa che aveva contribuito ad aumentare le polemiche.Lo studio non offre comunque conclusioni definitive: non chiarisce se il coronavirus abbia iniziato a diffondersi proprio dal mercato né se la diffusione dei contagi sia partita dagli animali. Secondo i ricercatori, i campioni raccolti dalle superfici del mercato contenevano sia tracce di materiale genetico degli animali selvatici venduti al mercato sia tracce di coronavirus: sono dati importanti perché lo studio cinese fornisce gli indizi più solidi finora del fatto che nelle primissime fasi della pandemia gli animali venduti al mercato di Wuhan fossero venuti a contatto con il coronavirus, anche se non ci sono ancora prove certe del fatto che gli animali fossero infetti.Le analisi sono state svolte da alcuni ricercatori del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie e sono state pubblicate mercoledì sulla rivista scientifica Nature. La sua pubblicazione era attesa anche perché a lungo la Cina non era stata particolarmente collaborativa nelle ricerche internazionali sulle origini del coronavirus.I dati derivano dalla raccolta di campioni effettuata nei primi giorni del 2020 al mercato del pesce Huanan di Wuhan. Oltre a vendere pesce, alcune bancarelle del mercato vendevano anche varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili ai clienti. I ricercatori avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato, ma anche da scaffali, gabbie e macchinari all’interno.L’analisi dei ricercatori era stata anticipata all’Organizzazione Mondiale della Sanità e pubblicata in una versione preliminare nelle scorse settimane, ma senza rendere note le informazioni genetiche relative ai campioni raccolti, che sono invece contenute nello studio completo. Secondo le analisi, alcuni campioni risultati poi positivi al coronavirus erano compatibili con materiale genetico riconducibile ad animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio, tra cui zibetti e cani procione (che non sono imparentati con i procioni ma sono chiamati così perché gli assomigliano).Secondo alcuni scienziati, questa potrebbe essere un’ulteriore prova che l’origine della pandemia derivi dalla trasmissione (spillover) del virus dagli animali alle persone. Altri invece invitano a usare grande cautela, anche perché non è chiaro come mai i risultati delle analisi siano stati condivisi più di tre anni dopo la raccolta dei campioni, i cui dati peraltro erano stati pubblicati e poi rimossi dalle autorità cinesi da uno dei principali archivi online per la virologia.Gli stessi ricercatori cinesi chiariscono che i campioni «non confermano» che gli animali fossero effettivamente infetti, e che di conseguenza lo studio non offre «prove definitive» per determinare che l’origine della pandemia sia dovuta a uno spillover, un passaggio tra specie diverse. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva anzi ipotizzato che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e che si fosse semplicemente diffuso da lì.A più di tre anni dall’inizio della pandemia ci sono ancora diverse teorie e ipotesi sull’origine del coronavirus, ma non ci sono prove sufficienti per chiarire dove e come tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe essere molto utile per ridurre il rischio che in futuro si verifichino nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze sperimentate in questi anni sia in termini di morti che di cambiamenti di abitudini di vita.Sull’origine del coronavirus ci sono ancora ampie polemiche. Alcune agenzie statunitensi (ma non tutte) ritengono che l’origine della pandemia possa essere legata a un incidente di laboratorio avvenuto in Cina, un’ipotesi che era già emersa nell’ottobre del 2021, quando erano stati resi pubblici alcuni documenti dell’intelligence americana. Altre agenzie di intelligence statunitensi continuano invece a sostenere ipotesi diverse sull’origine del coronavirus e ritengono che le valutazioni che hanno portato a quelle considerazioni siano deboli. La Cina ha sempre respinto con forza l’ipotesi di un incidente di laboratorio, citando anche le conclusioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che l’ha definita «molto improbabile».– Leggi anche: La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo LEGGI TUTTO

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    Il “cappello” a un annoso problema matematico

    Caricamento playerImmaginiamo che Roger abbia comprato un monolocale con una metratura infinita e voglia posarci un pavimento di piastrelle. Roger però è un tipo particolare e vuole che per l’intero pavimento siano utilizzate piastrelle tra loro tutte uguali e che accostate producano un motivo che non si ripete mai uguale (aperiodico), all’infinito. In altri termini, Roger è alla ricerca di un “einstein”, non nel senso di Albert Einstein, ma di un “tassello non periodico”, una forma che riempia il piano geometrico con un motivo che non si ripete mai allo stesso modo. La parola einstein in questo caso deriva dal tedesco “ein Stein”, letteralmente “una pietra”, intesa con una certa approssimazione come una piastrella o ancora più in generale una forma.Quello di Roger è un problema matematico, perché un comune pavimento di piastrelle può teoricamente proseguire all’infinito, ma intere sue sezioni potranno sempre essere sovrapposte perfettamente l’una sull’altra perché si ripetono in qualche modo: per quanto sia enorme ed esteso un singolo motivo, infatti, prima o poi accade sempre. Nel caso dei tasselli non periodici invece questa perfetta sovrapposizione non può essere effettuata, ma non è semplice trovare le giuste forme dei tasselli per poterlo fare. Specialmente se si vuole utilizzare sempre e solo una forma, un einstein appunto. Fino a qualche tempo fa sembrava essere un problema irrisolvibile, ma ora un appassionato di matematica e geometria dice di esserci riuscito e le dimostrazioni che ha presentato sono piuttosto convincenti.L’annuncio ha fatto molto discutere gli esperti di tassellazioni, cioè chi studia i modi per ricoprire un piano con una o più figure geometriche che si ripetono all’infinito e senza sovrapposizioni. Farlo periodicamente, quindi con ripetizioni, è sostanzialmente la norma, ma da decenni i matematici si chiedono quali siano i modi migliori per farlo aperiodicamente. All’inizio sembrava pressoché impossibile, poi a partire dagli anni Sessanta iniziarono a esserci studi e ricerche sulla produzione di motivi non periodici utilizzando migliaia e poi centinaia di tasselli diversi tra loro.Un importante progresso fu ottenuto negli anni Settanta dal matematico britannico Roger Penrose, quando dimostrò che con due soli tasselli fosse possibile ottenere una tassellazione di superfici infinite in modo aperiodico. Nel 2020, Penrose ha vinto il premio Nobel per la Fisica, ma per i suoi studi su oggetti molto più sfuggenti delle piastrelle: i buchi neri.(Penrose, 1974)Con il suo studio, Penrose aprì la strada allo sviluppo di numerose combinazioni di coppie di tasselli diversi sufficienti per raggiungere lo scopo. Il catalogo delle coppie di forme possibili divenne sempre più grande, ma i più ambiziosi continuavano a chiedersi se non ci fosse il modo di raggiungere il medesimo risultato con un solo tassello: un einstein, appunto. Tra i più interessati a riuscirci c’era David Smith, un ex tecnico di stampa britannico di 64 anni appassionato di forme geometriche e di come si dispongono sul piano.Smith non ha una grande preparazione matematica, ma usa l’intuizione quando si tratta di lavorare con i tasselli, procedendo per prove ed errori e migliorando via via le forme che ritiene più promettenti; utilizza anche alcuni software che consentono di simulare la costruzione di poligoni. Ha stampato i più promettenti in decine di copie e ha provato poi a unirli tra loro a mano su una superficie, osservando i motivi che formano e verificando se possano o meno ripetersi dopo un certo numero di aggiunte di nuovi tasselli. È un po’ come fare un puzzle, ma senza sapere quale disegno apparirà.Dopo molte prove e fallimenti, lo scorso novembre Smith ha elaborato un tassello che pareva fare al caso suo: non sembrava ripetere mai lo stesso motivo. Pensando di avere infine tra le mani un einstein, si mise in contatto con l’informatico Craig Kaplan dell’Univerisità di Waterloo (Canada) con il quale aveva già collaborato in passato.Kaplan inserì la forma in un simulatore che aveva sviluppato per produrre tassellazioni sempre più grandi, notando che anche aumentandone enormemente la superficie non si creavano discontinuità sul piano: i tasselli si incastravano tra loro sempre perfettamente. In seguito Smith e Kaplan determinarono il modo in cui, partendo da una specifica tassellazione, se ne può ottenere una più grande con le stesse caratteristiche di base e capirono come il metodo potesse essere esteso potenzialmente all’infinito, ottenendo una dimostrazione sufficiente per affermare di avere infine trovato un einstein, come spiegano nella loro ricerca scritta insieme a Joseph Samuel Myers e Chaim Goodman-strauss.Il tassello “the hat” (“il cappello”) trovato da Smith (David Smith et al.)Smith ha chiamato il suo tassello “the hat” (“il cappello”) perché gli ricorda un Fedora, anche se a osservarlo sembra più un body per neonati o una t-shirt. È una forma costituita da otto aquiloni nel senso geometrico del termine: potete considerarli parenti del rombo (che è un aquilone convesso con tutti e quattro i lati congruenti). Se si disegnano molti esagoni contigui, si può formare “il cappello” prendendo alcuni loro pezzetti con relativa facilità, ma evidentemente fino a Smith nessuno aveva intravisto le potenzialità di quel tassello.(David Smith et al.)C’è però un piccolo particolare che non sembra ancora mettere tutti d’accordo sull’einstein di Smith. Il suo tassello permette di raggiungere l’aperiodicità solo se viene utilizzata anche la sua versione speculare nella formazione della tassellazione. Alcuni si sono chiesti se questo dettaglio non faccia sì che in realtà i tasselli siano due e non uno solo, di conseguenza squalificando “il cappello” come einstein. C’è comunque un certo consenso sul fatto che un singolo tassello possa essere considerato tale anche se viene impiegata la sua versione speculare per riempire il piano.Lo studio di Smith e degli altri autori è stato molto commentato e per ora non sono stati rilevati errori o stranezze, ma la ricerca è comunque in attesa di una revisione formale prima di essere pubblicata su una rivista scientifica. Nel frattempo è già partita la corsa alla ricerca di un einstein che permetta di formare tassellazioni non periodiche senza dover utilizzare anche la sua immagine speculare. LEGGI TUTTO

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    La NASA ha presentato il primo equipaggio del programma lunare Artemis

    Nel corso di una conferenza stampa organizzata oggi a Houston, in Texas, la NASA ha annunciato l’astronauta e i tre astronauti che faranno parte della missione spaziale Artemis II, la prima con equipaggio del programma Artemis per l’esplorazione con esseri umani della Luna.Il comandante della missione sarà l’astronauta Reid Wiseman, che aveva già condotto una missione sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2014, oltre a essersi occupato della selezione della nuova classe di astronaute e astronauti della NASA.L’astronauta Victor Glover è stato scelto come pilota, dopo la sua esperienza nello stesso ruolo a bordo della missione Crew-1 di SpaceX verso la Stazione Spaziale Internazionale.L’astronauta Christina Koch è stata scelta come specialista di missione: nel 2019 aveva partecipato a una spedizione sulla Stazione Spaziale Internazionale.Come da accordi, ai tre membri dell’equipaggio statunitensi si aggiunge un astronauta dell’Agenzia spaziale canadese (CSA), Jeremy Hansane, che ha collaborato in più occasioni con la NASA, e sarà alla prima missione nello Spazio.Il lancio di Artemis II è in programma per il mese di novembre del 2024, ma la data potrebbe slittare e cambiare nei prossimi mesi, a seconda dei progressi nello sviluppo e nella sperimentazione di altri sistemi legati al programma Artemis. L’equipaggio effettuerà un volo sperimentale simile a quello di Artemis I, fatto lo scorso anno senza equipaggio: raggiungerà la Luna, vi orbiterà intorno e tornerà sulla Terra, senza effettuare un allunaggio previsto invece per la missione Artemis III. Reid Wiseman, Victor Glover, Christina Koch e Jeremy Hansen (NASA, CSA) LEGGI TUTTO

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    Sappiamo ancora poco degli effetti dei tatuaggi sulla salute

    Caricamento playerIn Italia oltre 7 milioni di persone hanno almeno un tatuaggio e la pratica di decorarsi la pelle con scritte e disegni permanenti è sempre più seguita in molte aree del mondo. Nonostante i tatuaggi siano tra gli interventi più praticati di modificazione del corpo, a oggi non ci sono molti dati chiari sui loro effetti sulla salute, sul perché alcune volte sbiadiscano e soprattutto su cosa determini la loro presenza per il nostro sistema immunitario, che è fatto per distruggere ciò che di estraneo si intrufola nell’organismo.La forma più conosciuta e diffusa per tatuarsi è quella “ad ago”, dove l’inchiostro viene introdotto nella pelle con un ago che pratica tante minuscole punture. È una tecnica diffusa da millenni e che nel suo principio di base non è sostanzialmente cambiata se non per l’attenzione all’igiene. Una volta introdotte nella pelle a qualche millimetro di profondità, le molecole di inchiostro rimangono intrappolate tra le cellule dove rimarranno per sempre, costituendo ciò che rende visibile il tatuaggio. L’inchiostro è però una sostanza estranea e la sua presenza determina una reazione da parte del sistema immunitario, che vorrebbe liberarsene. Come e perché non ci riesca è oggetto di dibattito da tempo, ma negli ultimi anni alcune ricerche hanno portato nuovi dati e valutazioni, come ha raccontato di recente Katherine J. Wu sull’Atlantic.Un gruppo di ricerca internazionale ha per esempio studiato la presenza di particolari sostanze, come lo zinco e il cobalto, nei pigmenti utilizzati per gli inchiostri dei tatuaggi. Quando finiscono nella pelle, determinano una reazione da parte dei macrofagi, le cellule del sistema immunitario che hanno il compito di inglobare e poi distruggere i patogeni (come virus e batteri) e più in generale di fare pulizia. I macrofagi provano a fare altrettanto anche con le molecole di inchiostro, ma queste sono troppo grandi per loro e non riescono a digerirle.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sui tatuaggiIl periodo di vita di un macrofago può variare a seconda delle circostanze, ma in media non va oltre qualche giorno o settimana. Quando la cellula immunitaria muore, l’inchiostro che era riuscita a catturare torna libero e diventa preda di un nuovo macrofago, che a sua volta tenterà invano di distruggere quelle strane molecole. Alla sua morte ne subentrerà un altro e così via, potenzialmente per tutta la vita, anche se non è chiaro se dopo un certo periodo subentri un certo adattamento alla situazione.Questo processo potrebbe essere una delle cause per cui con il passare del tempo i contorni dei tatuaggi diventano meno netti, con le scritte e i disegni che appaiono quasi sfumati. I nuovi macrofagi nelle vicinanze, che ereditano dai loro predecessori il compito di occuparsi del problema, spostano lievemente le molecole dei pigmenti, che quindi cambiano di qualche frazione di millimetro la loro posizione. Il cambiamento dei tatuaggi nel tempo è probabilmente dovuto ad altri fattori aggiuntivi, per esempio al modificarsi delle cellule della pelle, che invecchiando tendono a essere meno toniche e a cedere a causa dell’effetto della gravità.Altre ricerche hanno invece evidenziato come minuscole parti dei tatuaggi possano essere trasportate dalle cellule immunitarie verso i linfonodi, strutture molto importanti per il sistema immunitario. Nelle persone molto tatuate è stata osservata una colorazione di alcuni dei loro linfonodi, si sospetta proprio a causa della migrazione dei pigmenti. Anche in questo caso gli studi sono per ora parziali e non ci sono elementi per valutare gli eventuali effetti sulla salute di questo spostamento.La difficoltà nell’avere elementi chiari dipende da una condizione piuttosto comune in medicina: siamo sostanzialmente tutti diversi e reagiamo in modo diverso a molte delle sostanze con cui entriamo in contatto e a cui siamo esposti. Nelle ore e nei primi giorni dopo un tatuaggio alcune persone avvertono un lieve fastidio, mentre altre sviluppano irritazioni della pelle più importanti, che tendono comunque a risolversi con il tempo. Queste derivano dalle sollecitazioni meccaniche dell’ago sulla pelle e da una risposta del sistema immunitario, che porta i tessuti a infiammarsi in modo da renderli meno ospitali per agenti che potrebbero infettarli, come i batteri.Le infezioni per lo più batteriche interessano fino al 6 per cento circa delle persone che si sottopongono ai tatuaggi (le stime variano molto) e di solito possono essere risolte applicando creme antibiotiche, o altri farmaci su indicazione del medico. Le complicazioni sono più rare rispetto a un tempo soprattutto grazie al miglioramento delle tecnologie utilizzate e a una maggiore attenzione all’impiego di materiale sterile. La reazione dei primi giorni al tatuaggio lascia poi spazio a una condizione che sembra essere costante, ma di minore entità, legata all’attività dei macrofagi e di altre cellule immunitarie.Alcuni studi hanno riscontrato che le persone che si tatuano di frequente tendono ad avere livelli più alti di anticorpi e altre sostanze del sistema immunitario, rispetto alle persone che si tatuano meno. Un’ipotesi è che a ogni tatuaggio l’organismo sia stimolato ad aumentare l’attività immunitaria, ma non si può invece escludere che la correlazione sia inversa, e cioè che le persone con un sistema immunitario più attivo tendano a tatuarsi più spesso perché non avvertono gli effetti meno piacevoli, come i giorni di infiammazione e prurito del tratto di pelle interessato.Non è inoltre chiaro se la costante sollecitazione dovuta alla presenza dell’inchiostro distolga parti del sistema immunitario da altre attività. Una ricerca segnalata da Wu e pubblicata lo scorso anno aveva segnalato che i pigmenti dei tatuaggi potrebbero interferire su alcune proteine, che i macrofagi utilizzano per comunicare con altre cellule, che di conseguenza sarebbero meno preparate ad affrontare eventuali minacce. Il sistema immunitario è però estremamente complesso e articolato, può aumentare enormemente le proprie capacità nel caso in cui sia necessario un intervento massiccio, di conseguenza sembra improbabile che altri patogeni o processi pericolosi possano sfuggirgli, mentre una sua parte è alle prese coi tatuaggi.Considerate le grandi incertezze e le difficoltà nel condurre studi che devono durare anni, gli inchiostri per i tatuaggi sono altamente normati e sottoposti a numerosi principi di precauzione. Nel 2015, per esempio, la Commissione Europea chiese all’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) una valutazione dei rischi per la salute delle sostanze chimiche contenute negli inchiostri per i tatuaggi e in quello che viene definito “trucco permanente”, che è comunque un tatuaggio. Dopo circa cinque anni di lavoro, nel luglio del 2020 l’ECHA propose alla Commissione alcune limitazioni dei prodotti fino ad allora impiegati. Sulla base di quelle indicazioni, la Commissione aveva poi definito nuove regole entrate in vigore all’inizio del 2022.I tecnici dell’ECHA avevano valutato alcune sostanze in maniera esclusivamente qualitativa, senza indicarne una dose massima considerata la mancanza di soglie di sicurezza per quelle sostanze. Tra queste ne erano comprese di note per essere cancerogene e per causare mutazioni del materiale genetico, oppure per contenere tracce di piombo. Le analisi semi-quantitative avevano invece interessato diverse altre sostanze per le quali erano disponibili dati tossicologici. Infine, l’ECHA aveva condotto analisi sull’esposizione, perché non tutti i tatuaggi sono uguali e l’esposizione a certe sostanze varia a seconda della loro grandezza.Le limitazioni alla fine avevano interessato circa 4mila sostanze, tra le proteste di molti operatori del settore. L’entrata in vigore delle nuove regole li aveva costretti a gettare parte delle loro scorte di inchiostri, non più utilizzabili, ad avere difficoltà nel reperire quelli nuovi perché i produttori dovevano cambiare le formulazioni e a imparare a lavorare con inchiostri di nuovo tipo, quindi con rese e caratteristiche diverse dalle precedenti anche in merito alla loro pigmentazione.Come in molte altre circostanze, l’ECHA ha mantenuto un approccio di precauzione, in attesa che nuove ricerche offrano elementi più solidi su alcune sostanze sulle quali ha imposto limitazioni, che in futuro potrebbero rivelarsi non necessarie oppure molto importanti. L’attenzione in questi anni si è concentrata soprattutto sui rischi legati ai tumori, ma come ricorda l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a oggi è impossibile dire se le persone tatuate abbiano un rischio più alto di sviluppare un tumore.L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), che fa parte dell’OMS, ha avviato alcuni importanti studi epidemiologici sui tatuaggi. Le analisi richiederanno però decenni per essere svolte, proprio per poter osservare eventuali effetti dei tatuaggi nel lungo periodo, e non saranno quindi disponibili ancora per molto tempo. Per questo motivo prevale il principio di precauzione con alcune sostanze, già osservate e studiate in altri ambiti legati alla valutazione del rischio in ambito tumorale.Come per tutte le altre cose che comportano una modifica al nostro organismo, molto temporanea come l’assunzione di un determinato farmaco o nel lungo periodo come nel caso di una protesi o di un tatuaggio permanente, è importante che la persona coinvolta sia informata e consapevole degli eventuali rischi. Oltre ad assicurarsi delle condizioni igieniche delle strumentazioni con cui si verrà tatuati, può essere utile informarsi sui tipi di inchiostri che saranno utilizzati e che devono riportare la lista delle sostanze che li compongono.Nel caso dell’Unione Europea, per essere venduti e utilizzati gli inchiostri devono essere in regola con le normative più recenti. Sulle confezioni devono essere riportate indicazioni come «Preparazione per l’impiego nei tatuaggi e nel trucco permanente» e deve essere riportato un lotto di produzione, che consenta di risalire al produttore e al momento in cui è avvenuta la sua preparazione. Gli inchiostri che non osservano le indicazioni UE devono contenere l’esplicita indicazione: «Non utilizzabile nell’Unione Europea».Per le persone tatuate da tempo è quasi sempre impossibile sapere quali sostanze fossero state impiegate. Tuttavia, i colori possono fornire qualche indizio. I tatuaggi monocolori di solito utilizzano solo il nero che viene prodotto utilizzando pigmenti a base di ferro o carbonio; i colori più brillanti sono ottenuti partendo da tinture organiche mentre i vecchi colori più spenti possono contenere maggiori quantità di metalli.È importante ricordare che il fatto che determinate sostanze siano studiate, analizzate e sottoposte a limitazioni non implica necessariamente che siano pericolose per la salute. Le ricerche servono proprio per verificarlo e gli esiti stessi possono cambiare nel corso del tempo, sulla base dei nuovi studi e di sistemi di analisi più precisi.Tatuarsi implica comunque effettuare una modifica permanente al proprio corpo, che non può essere portata indietro nemmeno nel caso in cui il tatuaggio venga poi rimosso. Come spiega sempre l’OMS, a oggi non ci sono metodi sicuri per rimuovere i tatuaggi, anche se alcune tecniche sono considerate meno a rischio di altre. Il metodo più diffuso consiste nell’utilizzare il laser: la procedura permette di distruggere i pigmenti iniettati nella pelle, ma fa anche sì che una grande quantità di sostanze potenzialmente tossiche finiscano in giro per il resto dell’organismo.Non ci sono ancora molte ricerche in merito, ma si ritiene che la distruzione dei pigmenti sia probabilmente più rischiosa del mantenere gli stessi pigmenti nella loro forma più “stabile” e poco solubile nella pelle. Il laser è inoltre più efficace su alcuni tipi di pigmenti rispetto ad altri, quindi può essere necessaria più di una seduta per effettuare la rimozione e con risultati non sempre corrispondenti ai desideri di chi vorrebbe far sparire un tatuaggio. L’OMS su questo ha un consiglio piuttosto netto: «Il modo più sicuro per evitare di dover rimuovere un tatuaggio è semplicemente non tatuarsi». LEGGI TUTTO

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    I T-Rex avevano le labbra?

    Nel film di Steven Spielberg Jurassic Park, del 1993, in una notte piovosa il Tyrannosaurus rex (T-Rex) che porta scompiglio e distruzione nel parco riesce a uscire dal proprio recinto, mangiarsi un tizio che aveva trovato rifugio in un WC chimico e avvicinarsi con le sue enormi fauci al dottor Alan Grant. Prima che decida di risparmiarlo, un primo piano mostra efficacemente i denti acuminati del T-Rex, talmente grandi da sporgergli sempre dalla bocca.Secondo una nuova ricerca, però, è probabile che i T-Rex e i loro parenti più stretti fossero un po’ diversi da come ce li immaginiamo dai tempi di Jurassic Park soprattutto per un particolare: sembra che i loro denti fossero nascosti da labbra squamose, simili a quelle delle lucertole dei giorni nostri.Negli anni Novanta Spielberg si prese non poche licenze (prima fra tutte: nonostante il titolo molti dei dinosauri mostrati non erano del Giurassico), ma forse è proprio quello ciò che rende speciale il film, al punto da essere considerato ancora oggi il migliore del suo genere. A sua difesa, le illustrazioni prodotte fino ad allora di molti dinosauri contenevano vari elementi di fantasia, derivanti per lo più dalle scarse conoscenze sulle caratteristiche di questi grandi animali, comparsi circa 230 milioni di anni fa.I teropodi, cioè il gruppo di dinosauri di cui facevano parte per esempio i T-Rex e i velociraptor, venivano disegnati in quel modo anche a causa delle osservazioni sui lontani cugini dei dinosauri che vivono ancora oggi sulla Terra, come i coccodrilli, e l’unico gruppo di dinosauri ancora esistente: gli uccelli. Entrambi hanno intorno alle loro mascelle del tessuto rigido e immobile, a differenza delle labbra squamose delle lucertole (iguane, camaleonti, gechi, varani e via discorrendo). Di conseguenza, aveva senso supporre che i teropodi avessero labbra rigide.Intorno a questa ipotesi c’era da tempo un acceso confronto tra paleontologi e pochi dati su cui confrontarsi. Fu così che una decina di anni fa un gruppo di ricerca internazionale (Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Cina) decise di approfondire la questione. I molti anni di studio hanno ora portato alla pubblicazione di una ricerca sulla rivista Science che porta nuovi elementi su una questione annosa e non secondaria per lo studio di animali che dominarono le terre emerse per circa 165 milioni di anni.Come spiegano nel loro studio, i ricercatori hanno prima di tutto studiato i denti dei T-Rex, perché negli animali che li hanno sempre esposti si riscontra una maggiore usura della dentatura: è per esempio il caso dei coccodrilli. L’analisi al microscopio di fossili di teropodi non ha però portato a osservare danni paragonabili a quelli che si osservano tra i coccodrilli dei giorni nostri.Denti di teropodi (A) e di coccodrilli (F) a confronto (Thomas M. Cullen et al., Science 2023)Il gruppo di ricerca ha poi messo a confronto alcune caratteristiche delle mascelle di lucertole e coccodrilli. Quelle delle lucertole con le labbra sono dotate di un numero molto limitato di fori in cui passano i vasi sanguigni e i nervi verso le gengive, mentre quelle dei coccodrilli hanno un numero molto più alto di queste piccole aperture.Come ha spiegato Mark P. Witton, uno dei ricercatori: «Abbiamo notato che le mascelle dei teropodi assomigliano di più a quelle delle lucertole e hanno un minor numero di aperture vicino ai margini mascellari. La stessa cosa vale per gli antichi parenti dei coccodrilli ora estinti. Ciò implica che l’insolita anatomia facciale dei coccodrilli attuali si sia evoluta per conto proprio, non come una caratteristica condivisa con il gruppo dei dinosauri/uccelli».(Thomas M. Cullen et al., Science 2023)Nella ricerca è stata anche presa in considerazione la grandezza dei denti, che per alcune specie di dinosauro erano talmente grandi da rendere potenzialmente difficile la presenza di labbra adeguate per nasconderli. Il gruppo di ricerca ha calcolato il rapporto tra altezza dei denti e lunghezza del cranio nei teropodi, poi l’ha messo a confronto con quello dei varani di Komodo (Varanus komodoensis), le uniche lucertole con labbra ad avere abitudini alimentari confrontabili con quelle dei T-Rex e dei loro parenti.Dal confronto è emerso che – fatte le dovute proporzioni – nessun dinosauro carnivoro avesse denti più grandi rispetto ai varani. Lo stesso non vale invece per i coccodrilli, che hanno in proporzione denti molto più grandi dei teropodi: «Non c’è quindi motivo per pensare che i denti di dinosauro fossero troppo grandi per essere coperti dalle labbra», ha spiegato Witton.Cranio di T-Rex (A), simulazione di un T-Rex senza labbra con la dentatura esposta (B) e di un T-Rex con le labbra (Thomas M. Cullen et al., Science 2023)I dati raccolti per lo studio sono stati poi utilizzati in alcuni modelli per simulare le modalità di chiusura delle mascelle dei teropodi, arrivando alla conclusione che in mancanza di labbra i T-Rex e gli altri non avrebbero mai potuto tenere la bocca completamente chiusa. La mancanza di una chiusura adeguata avrebbe compromesso la loro salute orale e facilitato la disidratazione.Sulla base di tutti questi elementi, lo studio conclude che fosse molto probabile che i teropodi avessero labbra squamose e sottili, ma che non fossero in grado di muoverle autonomamente come fanno per esempio i mammiferi. La nuova ricerca ha suscitato grande attenzione nella comunità scientifica perché potrebbe offrire nuovi spunti importanti non solo per capire meglio alcune caratteristiche di questi animali ormai estinti da tempo, ma anche i processi evolutivi che interessarono gli animali che osserviamo oggi. LEGGI TUTTO

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    Il suono che fanno le piante

    Caricamento playerLe persone appassionate di giardinaggio dicono spesso che parlare alle piante le aiuti a crescere, anche se la questione è ancora dibattuta e non ci sono molti elementi scientifici per sostenerlo. Sembra invece certo che le piante parlino, a loro modo, e che i loro suoni possano aiutare a comprendere se hanno bisogno di acqua o se sono sotto particolari stress.Un gruppo di ricerca dell’Università di Tel Aviv, in Israele, ha provato ad ascoltare le piante utilizzando microfoni molto sensibili e in ambienti isolati acusticamente, riuscendo a registrare i suoni che producono a seconda delle circostanze e della loro specie di appartenenza. Lo studio si è concentrato sulle piante del tabacco (Nicotiana tabacum), del pomodoro (Solanum lycopersicum) e del grano tenero (Triticum aestivum), rendendo possibile la registrazione di suoni che devono essere poi elaborati per poter essere ascoltati con le nostre orecchie.Lo studio spiega che i suoni emessi dalle piante hanno una frequenza compresa tra i 20 e i 100 kilohertz, troppo alta per essere percepita dal nostro udito. I suoni registrati ricordano quelli dei chicchi di mais quando si prepara il pop corn, ma secondo il gruppo di ricerca sono dovuti alla cavitazione (formazione e implosione) delle piccole bolle d’aria che si producono all’interno dello xilema, il tessuto vegetale dentro cui passa la linfa, contenente acqua e sostanze nutrienti per la pianta.Pomodoro LEGGI TUTTO