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    Cosa ha detto davvero l’OMS su aspartame e cancro

    L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha consigliato di moderare il consumo di aspartame, un dolcificante ampiamente utilizzato nelle bibite “zero” o “light”, perché potrebbe essere una possibile causa di cancro. Il rischio è però molto basso per i normali consumatori di questa sostanza e ci sono ancora pareri discordanti sulle conclusioni della nuova valutazione, arrivata al termine di due distinti lavori di analisi che possono apparire in contraddizione tra loro. Secondo vari esperti, la confusione derivante dall’annuncio rischia di portare a incertezze non solo intorno all’aspartame, ma in generale al lavoro che viene svolto dalle autorità sanitarie per stimare la pericolosità delle sostanze con cui siamo di frequente in contatto.– Ascolta anche: La decisione dell’OMS su aspartame e cancro, senza allarmismiIl primo rapporto citato dall’OMS è stato diffuso dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) che ha inserito l’aspartame nel “Gruppo 2B”, che comprende le sostanze “possibilmente cancerogene”. Fanno parte di questa classe circa 300 sostanze per le quali i risultati delle ricerche sono limitati negli esseri umani e meno che sufficienti negli animali. È un gruppo relativamente ampio e che comprende molti prodotti compresi i sottaceti, per esempio. Per lo IARC le sostanze certamente cancerogene finiscono invece nel “Gruppo 1”, dove sono disponibili dati più che sufficienti e solidi per dimostrare che una certa sostanza faccia aumentare inequivocabilmente l’insorgenza di un tumore. In questo gruppo sono compresi l’alcol (vino, birra e simili), gli insaccati, il fumo e l’amianto.Gli scienziati che fanno parte della IARC non effettuano studi, ma analizzano tutte le ricerche esistenti condotte in giro per il mondo, da quelle realizzate sugli esseri umani esposti a una determinata sostanza a quelle sugli animali, ai quali vengono per esempio somministrate le sostanze per vedere che effetto fanno. Le ricerche vengono confrontate, i dati contenuti analizzati con metodi statistici e infine viene emesso un parere per la classificazione della sostanza.La classificazione IARC, che prevede appunto vari gruppi, non indica quali sostanze sono “più” o “meno” cancerogene, ma semplicemente esprime quanto si è sicuri che una sostanza sia davvero cancerogena. Per le sostanze nel “Gruppo 1”, quello dell’alcol, la certezza è ormai consolidata, per quelle comprese nel “Gruppo 2A” il livello di certezza è minore, ancora meno per quelle nel “Gruppo 2B” come l’aspartame da poco inserito, e così via. Man mano che si accumulano nuovi studi e conoscenze le cose possono cambiare, con lo spostamento di alcune sostanze da un gruppo all’altro (difficilmente quelle comprese nel “Gruppo 1” saranno riclassificate, considerato il livello di certezza sui loro effetti).Il secondo rapporto utilizzato dall’OMS è stato invece diffuso dal Comitato congiunto FAO/OMS di esperti sugli additivi alimentari (JECFA), che ha confermato quanto era già stato deciso in precedenza circa il consumo generalmente sicuro dell’aspartame a patto che non ne siano assunte quantità molto grandi. Questo secondo rapporto sembra essere in contraddizione con il primo, ma in realtà le differenze derivano dal fatto che le due istituzioni hanno diverse competenze.Come abbiamo visto la IARC si occupa di valutare se una sostanza possa causare qualche danno, mentre il JECFA fa una valutazione del rischio sull’insorgenza del cancro in seguito all’assunzione di una determinata sostanza. La cancerogenicità è una caratteristica intrinseca: qualcosa è cancerogeno o non lo è. Al tempo stesso, non tutto ciò che è cancerogeno ha gli stessi effetti sul nostro organismo. Ogni sostanza cancerogena fa aumentare in una certa misura il rischio individuale di avere un certo tipo di tumore: alcune lo fanno aumentare di molto, altre di poco. Per esempio, nel caso delle bevande alcoliche non c’è un consumo minimo sicuro, ma gli effetti negativi possono essere di diversa entità: l’alcol è sicuramente pericoloso, ma se bevi un solo bicchiere di vino in tutta la vita, il rischio sarà irrilevante nello sviluppo di un tumore.I responsabili dell’OMS che si sono occupati della nuova valutazione hanno chiarito che il consumo occasionale di aspartame, per esempio da parte di chi ogni tanto si beve una lattina di una bibita “zero”, non costituisce particolari preoccupazioni. Francesco Branca, direttore del Dipartimento per la nutrizione e la sicurezza alimentare dell’OMS, ha detto: «Non stiamo consigliando alle aziende di ritirare i loro prodotti né stiamo dicendo alle persone di interrompere il consumo e basta, stiamo solo consigliando un minimo di moderazione».Per numerose sostanze è possibile calcolare le dosi giornaliere di sicurezza, mentre per altre no, a prescindere dalla loro cancerogenicità. IARC non dà mai indicazioni sulle quantità, mentre JECFA ha confermato la precedente valutazione sulla dose massima giornaliera di 40 milligrammi di questa sostanza per ogni chilogrammo di massa corporea. Una persona che pesa 75 chilogrammi, per esempio, dovrebbe consumare circa 15 lattine di una bevanda “zero” o “light” per superare la dose massima. Qualche preoccupazione in più c’è per i bambini, considerata la loro minore massa corporea, ma anche in questo caso il consumo dovrebbe essere comunque di 4-5 lattine prima di superare la soglia.È difficile stabilire quante persone consumino così tante bevande “zero” o altri alimenti che contengono aspartame nel corso di una giornata. È improbabile che il limite massimo sia raggiunto non solo con un consumo moderato di prodotti a base di aspartame, ma anche con uno più intenso. Quindici lattine equivalgono a quasi 5 litri di una bevanda con aspartame; inoltre, varie bibite contengono diversi altri dolcificanti, con dosi minime di aspartame quando presente.La IARC ha basato le proprie conclusioni soprattutto su tre grandi studi osservazionali, effettuati cioè valutando comportamenti e reazioni di grandi gruppi di persone, che avevano indagato in passato la correlazione tra tumore al fegato e consumo di aspartame. Per quanto piuttosto estesi, quegli studi non avevano rilevato alcun nesso di causalità e per stessa ammissione dell’OMS quelle ricerche presentavano comunque vari problemi che rendevano poco affidabili le loro conclusioni.A oggi non è nemmeno disponibile il lavoro finale della IARC sull’aspartame, che sarà pubblicato nei prossimi mesi. L’OMS ritiene che i nuovi sviluppi possano essere un’importante opportunità per effettuare nuovi studi e ricerche sull’aspartame e sui sostituti dello zucchero in generale, con nuove e più approfondite valutazioni sui loro eventuali rischi. La scelta di presentare i risultati parziali in questo modo ha però suscitato qualche perplessità tra gli addetti ai lavori, specialmente per la difficoltà nel comunicare il giusto messaggio sulle effettive conoscenze legate all’aspartame e al suo consumo entro i limiti consigliati, che di fatto già avviene per la maggior parte delle persone. LEGGI TUTTO

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    L’Italia ha eliminato la rosolia, ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità

    La rosolia non è più endemica in Italia, ha annunciato la Commissione di verifica regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l’eliminazione del morbillo e della rosolia in Europa: è la terza malattia prevenibile a essere eliminata dal paese grazie alle vaccinazioni dopo il vaiolo, che fu eradicato dal mondo nel 1980, e la poliomielite, dichiarata eliminata dall’Europa nel 2022. Non è una malattia pericolosa nella grande maggioranza dei casi, i sintomi principali sono febbre non molto alta e pustole sulla pelle, ma se contratta in gravidanza può avere conseguenze gravi: può causare aborti spontanei o gravi anomalie congenite nei feti, tra cui sordità e disabilità intellettive.L’OMS parla di “eliminazione” di un virus in un paese o in una più ampia area geografica quando non ci sono trasmissioni endemiche, cioè locali, della malattia in questione per almeno 12 mesi. Ma perché l’eliminazione sia ufficiale è necessario che un paese fornisca una documentazione che certifichi che non ci sono state trasmissioni endemiche per almeno 36 mesi. Oltre che in Italia, la rosolia è stata dichiarata eliminata in altri 47 paesi dell’Europa. Resta comunque la possibilità che il virus venga trasmesso da persone che ne sono state infettate in altri paesi: per questo fino all’eradicazione della malattia, cioè finché non sarà eliminata in tutti i paesi del mondo, continueranno le campagne vaccinali. In particolare è importante che le donne intenzionate ad avere figli sappiano se sono immuni dal virus prima di iniziare una gravidanza e che si vaccinino in caso contrario.La rosolia è una malattia causata da un virus del genere Rubivirus e si trasmette nell’aria attraverso gli starnuti e i colpi di tosse delle persone infette. È la principale causa di difetti congeniti prevenibili nel mondo ma in Italia è dal 2019 che non ci sono casi di sindrome da rosolia congenita.Il principale vaccino usato contro la rosolia è il cosiddetto “trivalente”, perché copre anche dal virus del morbillo e da quello della parotite e si indica con l’acronimo MPR. (Diana Bagnoli/Getty Images) LEGGI TUTTO

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    Luci e sirene delle ambulanze servono raramente

    Caricamento playerIl fenomeno degli accessi impropri in pronto soccorso, cioè quelli che non richiedono un intervento medico immediato, è uno dei fattori che contribuiscono ad aumentare i tempi di attesa in ospedale, intasare i reparti e peggiorare la qualità dei servizi sanitari. Vale per l’Italia, ma anche per altri paesi europei e per gli Stati Uniti, dove è in corso da qualche anno un dibattito più specifico, relativo all’eccessivo utilizzo dei fari e delle sirene di emergenza da parte delle autoambulanze.Un recente articolo sul sito d’informazione medica STAT, riprendendo un’ampia letteratura scientifica sul tema, ha descritto l’utilizzo improprio di luci e sirene delle ambulanze come una pratica molto diffusa e causa di un aumento significativo dei pericoli sulla strada. In sostanza, suggerisce STAT, sulla base dei dati disponibili è probabile che allo stato attuale luci e sirene portino più danni che benefici.Oltre tre quarti degli interventi di pronto soccorso richiesti tramite 911 – il numero telefonico per le emergenze negli Stati Uniti – determina un trasporto a sirene spiegate e fari accesi verso le strutture mediche. Ma meno del 5 per cento dei pazienti che ricevono poi le cure nelle strutture trae benefici clinici concreti da quel tipo di trasporto d’emergenza. L’utilizzo congiunto di luci e sirene permette di risparmiare in media tra 42 secondi e 3,8 minuti di viaggio, e triplica la possibilità di incidente con un paziente a bordo.– Leggi anche: Troppa gente va al pronto soccorsoIn teoria luci e sirene servono a salvare vite umane perché permettono alle autoambulanze di trasportare i pazienti in pericolo di vita il più velocemente possibile. Anche pochi minuti possono infatti essere fondamentali in diverse circostanze cliniche: arresti cardiaci, ostruzioni delle vie respiratorie, traumi gravi, ictus, emorragie ed emergenze ostetriche o di altro tipo, che hanno tempi di intervento molto ristretti e non possono essere risolte dagli operatori intervenuti sul luogo della richiesta di soccorso. Non tutte le persone che chiedono aiuto telefonando al numero delle emergenze presentano però problemi di questo tipo e hanno bisogno di un trasporto di emergenza verso l’ospedale (“in ritorno”, come sono chiamati i trasporti con il paziente a bordo, per distinguerli da quelli “in andata”).In uno studio pubblicato nel 2019 sulla rivista Annals of Emergency Medicine un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della University of Texas segnalò la necessità di condurre maggiori ricerche per trovare un migliore compromesso tra il rischio di incidenti e qualsiasi beneficio clinico di un trasporto più veloce. Aggiunse che la maggior parte dei fornitori di servizi medici di emergenza negli Stati Uniti è consapevole di quel rischio e cerca di limitare l’uso di luci e sirene, per quanto possibile, ma l’attivazione o meno di questi segnali dipende da molteplici fattori.La tendenza a utilizzare luci e sirene più spesso del dovuto nelle fasi di trasporto “in andata” riflette in molti casi l’incertezza di chi telefona al numero delle emergenze e non è in grado di descrivere con precisione la situazione per cui richiede un intervento. I ricercatori aggiunsero che una futura, auspicabile inversione della tendenza all’utilizzo eccessivo e improprio di luci e sirene potrebbe richiedere in alcuni casi e contesti anche una certa capacità umana di gestire le aspettative del pubblico. Le persone tendono infatti a considerare il proprio caso un’emergenza ma il più delle volte non sono nelle condizioni di poter soppesare il rischio di incidenti rispetto all’eventuale beneficio determinato dall’uso di luci e sirene.In Italia le telefonate verso il numero unico per le emergenze – 112, attivo in diverse regioni – vengono gestite dalle centrali operative: raccolgono le prime informazioni sull’emergenza segnalata e agiscono da filtro smistando le richieste valide verso i servizi di competenza (soccorso sanitario, vigili del fuoco, polizia o carabinieri). In caso di richiesta di soccorso sanitario la centrale del 118 con competenza territoriale invia i mezzi idonei all’emergenza e stabilisce il livello di priorità dell’intervento, sulla base di quanto appreso nella telefonata.Ogni intervento ha un codice di gravità che può variare nelle diverse fasi del soccorso a seconda dell’evoluzione delle condizioni cliniche del paziente, delle valutazioni del personale intervenuto sul luogo del soccorso e di altre variabili. Soltanto nel caso di interventi indifferibili-urgenti (codice giallo) o di emergenza (codice rosso) è ammesso l’utilizzo delle sirene e delle luci lampeggianti. E solo in questo caso, in base all’articolo 177 del codice della strada, i conducenti dei mezzi di soccorso «non sono tenuti a osservare gli obblighi, i divieti e le limitazioni relativi alla circolazione», né la segnaletica stradale, pur «nel rispetto comunque delle regole di comune prudenza e diligenza».La gestione dei servizi di soccorso sanitario può essere di competenza regionale, e in alcuni casi provinciale o locale. E le autoambulanze possono essere di proprietà dei servizi di soccorso di emergenza ma anche di ospedali, cliniche e associazioni di pubblica assistenza o volontaristiche riconosciute. È quindi difficile avere dati omogenei su quanti eventuali utilizzi impropri delle luci e delle sirene si verifichino sul piano nazionale nei trasporti “in ritorno”, quelli con il paziente a bordo.I dati relativi agli accessi nei pronto soccorso – che però includono sia quelli in ambulanza che su mezzi privati, e non indicano il livello di priorità dell’intervento al momento dell’arrivo in pronto soccorso – sono raccolti e pubblicati dall’Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. E indicano che nel 2021, prendendo in considerazione il dato cumulativo di tutti gli ospedali italiani, nel 51,7 per cento dei casi di accesso al pronto soccorso nella fascia oraria dalle 8 alle 20 dei giorni feriali sono stati assegnati codici verdi o bianchi (oltre 2,6 milioni). Nelle ore notturne e nei giorni festivi quella percentuale è stata invece del 38 per cento.– Leggi anche: Il numero unico 112 funziona male?Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in altri paesi, scrive STAT, è emersa un’inclinazione a chiedere al personale che gestisce le richieste di soccorso sanitario di autorizzare l’utilizzo di luci e sirene sulla base delle reali necessità del paziente e con la stessa attenzione con cui viene prescritto qualsiasi trattamento medico. Da marzo scorso nella contea di Mecklenburg in North Carolina è in vigore un nuovo piano che limita l’utilizzo di luci e sirene soltanto a ferite da arma da fuoco al petto, emorragie massicce e pazienti incoscienti: riguarda casi del genere circa una chiamata su cinque. Per tutti gli altri casi il personale alla guida dell’ambulanza guida come farebbe con qualsiasi altro mezzo.I provvedimenti presi in alcuni stati riflettono in parte le preoccupazioni emerse in molti contesti locali in seguito a incidenti stradali, anche mortali, in cui sono state coinvolte ambulanze, la cui necessità di utilizzare luci e fari e quindi non rispettare la segnaletica stradale durante il trasporto del paziente in ospedale è stata in alcuni casi contestata.Un’ambulanza nel quartiere Borough Park, a New York, il 28 settembre 2020 (Spencer Platt/Getty Images)Nei primi anni di istituzione dei servizi di emergenza sanitaria l’utilizzo di luci e sirene replicava l’utilizzo che di quei segnalatori già facevano i vigili del fuoco. Come si pensava che un incendio potesse propagarsi molto rapidamente, per cui prima arrivavano i vigili del fuoco, maggiori erano le probabilità di salvare vite e proprietà, allo stesso modo si pensava che più velocemente un paziente poteva essere trasportato in ospedale, maggiore era la probabilità di salvarlo. I primi autisti di ambulanze non seguivano quindi alcuna formazione specifica, come invece succede oggi, ed erano autisti con gli stessi requisiti richiesti loro per altri servizi: essere bravi e veloci alla guida.Ancora oggi, in molti casi, le agenzie che forniscono servizi medici di emergenza negli Stati Uniti sottoscrivono contratti di prestazione con le città o le contee in cui è esplicitamente richiesto che le ambulanze arrivino sul luogo della richiesta di soccorso entro un limite di tempo prestabilito (di solito otto minuti o anche meno). Come ha spiegato a STAT Douglas Kupas, direttore dell’associazione nazionale dei tecnici di medicina di emergenza (Emergency medical technician, EMT, il personale in servizio sulle ambulanze), molti di quei tempi prestabiliti sono ancora basati sui risultati di uno studio del 1979 secondo cui i pazienti con arresto cardiaco avevano bisogno di rianimazione cardio-polmonare (RCP) entro quattro minuti e cure stabili entro dieci minuti.– Leggi anche: Il volto più baciato del mondoSecondo Kupas sono requisiti perlopiù anacronistici, perché lo studio risale a un’epoca in cui non c’era l’attuale disponibilità di defibrillatori automatici. E perché c’erano molte meno persone di quante ce ne siano oggi in grado di praticare una rianimazione cardio-polmonare in attesa dell’arrivo di un’ambulanza. «Trasportarti velocemente in ospedale non è più il valore della medicina di emergenza», ha detto Kupas. Spesso, come vale anche in Italia per il personale medico a bordo delle ambulanze, i medici di emergenza hanno le attrezzature e la preparazione per curare i pazienti o stabilizzare le loro condizioni sul luogo dell’intervento. E questo primo intervento può anche rendere il trasporto in ospedale meno urgente di quanto inizialmente stabilito dagli operatori al telefono.In molti casi negli Stati Uniti i medici nell’ambulanza possono applicare lacci emostatici alle ferite, curare gravi reazioni allergiche e overdose tramite iniezione di farmaci e anche intubare pazienti che non sono in grado di respirare autonomamente. Soltanto una chiamata su 14 riguarda questo tipo di interventi, secondo un’analisi nazionale condotta nel 2018 su circa 9 milioni di telefonate al 911. E altri studi suggeriscono che le emergenze mediche per cui il tempo è un fattore di vitale importanza costituiscono tra il 4,5 e il 5,3 per cento di tutto il volume delle chiamate.Secondo Rick Ferron, responsabile dei servizi di medicina di emergenza nella municipalità canadese di Niagara, nell’Ontario, dare troppa enfasi alla velocità dei servizi «è un po’ come cercare di determinare chi ha vinto una partita di calcio tenendo d’occhio la velocità della corsa dei giocatori anziché il risultato», scrive STAT. «Ci chiamiamo servizi medici di emergenza ma è un termine un po’ improprio, non possiamo trattare tutto come se fosse un’emergenza», ha detto Ferron, che ha segnalato che nella municipalità di Niagara luci e sirene sono ora utilizzate soltanto nel 5-10 per cento delle chiamate.Nello studio del 2019 pubblicato su Annals of Emergency Medicine il gruppo di ricercatori della University of Texas rilevò che su circa 20 milioni di trasporti in ambulanza verso le strutture sanitarie i tassi di incidenti erano più che raddoppiati quando luci e sirene erano accese. Oltre che mettere in pericolo la vita delle persone coinvolte, gli incidenti hanno ripercussioni anche quando non provocano morti: rallentano il soccorso al paziente, impegnano ulteriore personale medico chiamato a intervenire e, in caso di ferite e infortuni, costringono i servizi di emergenza a rimanere senza uno o più medici per settimane o mesi. Senza considerare l’aumento dei costi legati alla sostituzione o riparazione dei veicoli, o all’aumento dei premi assicurativi.Sebbene difficile da rilevare e quantificare con precisione, è inoltre noto il fenomeno del cosiddetto «effetto scia» dei mezzi di soccorso, espressione utilizzata per definire gli incidenti stradali che si verificano in seguito al passaggio di un’ambulanza ma che non coinvolgono né sono causati direttamente dalle ambulanze. Sono generalmente incidenti dovuti al comportamento imprevedibile e atipico degli altri conducenti sulla strada, che per esempio frenano bruscamente a un incrocio o sterzano improvvisamente per permettere il passaggio dell’ambulanza.– Leggi anche: Perché collaboriamoL’eccessivo utilizzo di luci e sirene, ha detto a STAT un medico di emergenza della Pennsylvania, può anche interferire con il lavoro a bordo dell’ambulanza e rendere più complicato il genere di valutazione che invece serve proprio a determinare la priorità del trasporto verso l’ospedale. «È più complicato per me valutare e curare il paziente lungo il tragitto se non riesco ad alzarmi, ad auscultare i polmoni né a comunicare con un collega, a causa delle sirene spiegate» e della velocità di viaggio, ha detto.La corsa verso l’ospedale può anche provocare ulteriore stress fisiologico a un paziente in condizioni critiche, aumentando la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca in situazioni in cui l’ossigeno è invece una preziosa riserva. Le sirene possono essere causa di rischi per la salute anche per il pubblico in generale e fonte di pericoli nel caso di persone con deficit visivi, uditivi o altri deficit percettivi.Una delle principali difficoltà nel cercare di porre limiti condivisi e nazionali all’utilizzo improprio di luci e sirene, secondo STAT, è che il settore dei servizi di emergenza è gestito a livello di città e contee da differenti organi, agenzie e strutture, pubbliche e private, ciascuna con un proprio regolamento o un proprio insieme di prassi e abitudini. Alcune agenzie utilizzano volontari qualificati, altre impiegano professionisti a tempo pieno; alcune sono senza scopo di lucro, altre sono servizi privati a pagamento.Nel 2022 la National EMS Quality Alliance, un’organizzazione impegnata nel miglioramento degli standard dei servizi medici di emergenza, ha avviato con 50 agenzie che forniscono questo tipo di servizi un programma per ridurre l’utilizzo di luci e sirene, e collaborare allo sviluppo di linee guida nazionali. Oltre che approvare la riduzione dell’utilizzo di luci e sirene, un gruppo di 14 associazioni che rappresentano le agenzie ha inoltre reso noto un documento condiviso in cui, tra le altre misure, richiede che sia garantita una formazione migliore per i conducenti delle ambulanze e un miglioramento del triage telefonico, cioè la procedura con cui gli operatori danno informazioni e consigli a chi è incaricato di soccorrere la persona che ha bisogno dell’ambulanza. LEGGI TUTTO

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    Oggi il Sole illuminerà quasi tutti nello stesso momento

    Sabato 8 luglio la quasi totalità della popolazione umana sulla Terra sarà esposta a qualche raggio solare nello stesso momento, grazie alla particolare posizione del nostro pianeta in questo periodo dell’anno rispetto al Sole. È un fenomeno che si verifica ogni anno e che riguarda in misura di poco minore anche altre settimane dell’anno: non è quindi particolarmente insolito o speciale, ma è comunque poco conosciuto. Intorno alle 13 di oggi (ora italiana) il 99 per cento delle persone riceverà la luce solare, anche se non tutti gli 8 miliardi degli abitanti della Terra saranno illuminati allo stesso modo.Nei paesi molto a oriente come il Giappone ci sarà solamente una luce molto debole dopo il tramonto, mentre molto più a ovest come in California lo stesso fenomeno si verificherà con il bagliore nelle ore intorno all’alba. Per tutto ciò che rimane nel mezzo, come il resto delle Americhe, l’Europa, l’Africa e una parte importante dell’Asia, ci sarà piena luce. Le uniche terre emerse che rimarranno al buio saranno la Nuova Zelanda, l’Australia e le altre isole dell’oceano Pacifico.Il fenomeno di oggi non è comunque raro, anzi. Qualcosa di simile si verifica in buona parte del periodo compreso tra maggio e luglio, con circa il 98 per cento della popolazione mondiale che riceve un poco di luce solare allo stesso momento. La circostanza ha ottenuto un certo interesse negli ultimi anni soprattutto in seguito a una mappa che era stata condivisa tre anni fa su Reddit, nella quale era evidente l’esposizione al Sole di buona parte dei continenti nel medesimo momento.Da allora, la mappa è tornata a circolare sui social network ogni estate, suscitando nuove curiosità e discussioni sulla sua accuratezza. Nel 2022 il sito Time and Date aveva fatto alcune verifiche, concludendo che la descrizione fosse accurata, per quanto con qualche riserva. Una effettiva esposizione al Sole (quando ci si trova tra alba e tramonto) nel momento di picco riguarda l’83 per cento della popolazione mondiale, mentre il restante 16 per cento può osservare un debole chiarore in cielo non sempre percepibile, per esempio se ci si trova in luoghi con inquinamento luminoso come le grandi città.La parte del pianeta che rimane di più al buio nel momento di picco del fenomeno è quella occupata dall’oceano Pacifico, un’area molto ampia e che copre quasi un terzo dell’intera superficie terrestre. Le aree illuminate dal Sole sono invece quelle in cui si concentra la maggior parte della popolazione mondiale.La grande area occupata dall’oceano Pacifico (Google Earth)Il momento in cui più persone ricevono contemporaneamente la luce solare, con tutte le eccezioni del caso che abbiamo visto, non va confuso con il solstizio d’estate nel nostro emisfero, cioè con il giorno in cui la quantità di ore di luce è massima (relativamente al luogo in cui ci si trova). Dopo il solstizio, che quest’anno si è verificato il 21 giugno, la durata del dì nel nostro emisfero ha iniziato a ridursi, ma la posizione che ha raggiunto la Terra rispetto al Sole ha fatto sì che più persone siano esposte a maggiori quantità di luce più verso sud rispetto a prima. LEGGI TUTTO

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    A cosa servono le zanzare?

    Caricamento playerIl nostro rapporto con le zanzare ha picchi periodici di conflittualità, di solito in corrispondenza della stagione calda quando questi insetti sono più presenti e interessati al nostro sangue per potersi riprodurre. Si sente spesso dire che “le zanzare sono inutili” e che il loro unico scopo sia dare fastidio agli esseri umani, specialmente nel cuore della notte quando ci ronzano nelle orecchie. Le zanzare non hanno una buona fama anche per via delle numerose malattie che possono trasmettere, come la malaria, eppure svolgono un ruolo importante – e spesso poco conosciuto – negli ambienti in cui vivono.Chiedersi in generale perché esistano le zanzare è un po’ come chiedersi perché esistano gli elefanti, o qualsiasi altro essere vivente che popola il nostro pianeta. Che scopo ha un elefante oltre a quello di sopravvivere e riprodursi? Che cosa giustifica e che cosa dà senso alla sua esistenza? Sono ottime domande per le speculazioni filosofiche, ma difficilmente nel quotidiano viene da chiedersi qualcosa del genere sugli elefanti o buona parte degli altri animali. Con le zanzare è diverso perché nel nostro percepito la loro esistenza è strettamente legata a procurare grandi fastidi e in alcuni casi seri pericoli per la salute. È una percezione che si rinnova ogni estate e da qualche anno anche in parte della stagione fredda, a causa dell’arrivo di specie esotiche che si sono adattate al nostro clima.A oggi sono state censite circa 3.500 specie di zanzara, moltissime delle quali non hanno nulla a che fare con gli esseri umani o buona parte degli altri animali. Per la maggior parte della loro breve vita (circa un mese, ma la durata può variare molto) le zanzare si nutrono degli zuccheri che riescono a ottenere dalle piante, per lo più sotto forma di nettare. I maschi di zanzara si nutrono esclusivamente di queste sostanze zuccherine, mentre le femmine passano al sangue quando hanno bisogno di più energie e proteine per riprodursi: è in questa fase che vanno alla ricerca di un animale, Homo sapiens compresi, per ottenere il sangue di cui hanno bisogno.Posandosi sulle piante e sui fiori, le zanzare contribuiscono all’impollinazione, cioè al trasferimento dei pollini che per molte specie vegetali è essenziale per produrre i frutti e potersi riprodurre. È ancora dibattuto quale sia l’effettivo contributo delle zanzare all’impollinazione, ma esistono studi e osservazioni a proposito da circa un secolo e mezzo. La difficoltà nel determinare il loro ruolo in questo processo è dovuta soprattutto al fatto che molte specie di zanzare sono più attive nelle ore intorno all’alba e al tramonto. Le osservazioni devono quindi essere effettuate in scarse condizioni di luce e con grandi cautele, considerato che appena vengono disturbate le zanzare preferiscono allontanarsi, a differenza di altre specie di insetti che hanno un grande ruolo nell’impollinazione come le api.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle zanzareLe zanzare sono tra gli insetti volanti più antichi che esistano e sembra che una parte importante della loro evoluzione abbia avuto a che fare con i fiori. Alcuni studi genetici hanno per esempio segnalato come le zanzare iniziarono a differenziarsi in numerose specie nella fase in cui iniziarono a comparire le prime angiosperme, le piante che hanno un fiore e successivamente producono un seme protetto da un frutto. Alcune tracce della loro presenza sono state trovate in alcuni fossili di fiori risalenti a 79-145 milioni di anni fa.È stato osservato che le zanzare vanno alla ricerca dei fiori utilizzando non solo il proprio apparato visivo, ma anche l’olfatto. Alcune delle molecole che rendono odorosi certi tipi di fiori sono uguali a quelle prodotte dagli esseri umani con la sudorazione e in generale la traspirazione. Si ipotizza quindi che la particolare preferenza delle zanzare per alcune di queste molecole abbia anche favorito il loro rapporto con la nostra specie e in particolare con il nostro sangue.(Jon Cherry/Getty Images)Le zanzare utilizzano comunque vari sistemi per scoprire la presenza delle loro prede, facendo soprattutto affidamento sull’anidride carbonica che emettono e che riescono a rilevare a decine di metri di distanza. L’insistenza con cui provano a pungere deriva dalla necessità di ottenere a tutti i costi qualche goccia di sangue, essenziale per le femmine per avere energie per sopravvivere nella fase della riproduzione. In un certo senso, per molte specie ottenere del sangue è una questione di vita o di morte.L’impollinazione ha una grande importanza nel mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità, come è diventato evidente negli ultimi anni anche a causa della grave moria di api in molte aree del mondo. La perdita di grandi quantità di insetti mette a rischio questo processo e di conseguenza la preservazione degli ecosistemi con la loro grande varietà di specie viventi. Ma per le zanzare non ci sono solo fiori e nettare.Le zanzare sono anche ghiotte di melata, la sostanza zuccherina che emettono vari insetti che si nutrono della linfa delle piante, come gli afidi. Procurarsi la melata non è sempre semplice, per questo alcune specie di formiche hanno strette frequentazioni con gli afidi e hanno anche un modo particolare di condividere le loro secrezioni. Se una formica ha raccolto molta melata, una sua simile può indurla a rigurgitarne una parte strofinandole le antenne, in modo da potersene nutrire. Alcune specie di zanzara hanno fatto proprio il trucco e lo utilizzano per prelevare la melata dalle formiche inducendole a rigurgitarla.Ma le zanzare hanno anche un ruolo importante nella preservazione di particolari ecosistemi. In alcune aree del mondo può accadere di incappare in enormi sciami con decine di migliaia di esemplari, in alcuni casi in grado di uccidere animali di piccola-media taglia. Lo sanno bene le renne che vivono nella tundra e nelle regioni subartiche e che nei mesi estivi sono un bersaglio costante delle zanzare, al punto da dover cambiare le loro abitudini. Le renne provano a disfarsene correndo nel vento, di conseguenza privilegiano le aree di territorio più ventose. La loro permanenza nelle zone con aria stagnante e più umida si riduce molto d’estate e questo permette alle piante di crescere senza essere distrutte dai loro zoccoli o di essere masticate. Alcuni gruppi di ricerca ipotizzano che in assenza delle zanzare le renne sarebbero molto più libere di muoversi sul territorio, distruggendo le piante nelle zone più umide e delicate, riducendo di conseguenza la biodiversità.Le zanzare sono del resto molto presenti nelle zone umide e con acqua stagnante, le loro larve si nutrono soprattutto dei prodotti della decomposizione di alghe e altre sostanze nelle pozze d’acqua. In pochi litri d’acqua possono essercene migliaia, che diventano una fonte di cibo per pesci, anfibi e uccelli. Le larve che sopravvivono e terminano lo sviluppo diventano le zanzare per come siamo abituati a vederle, spiccano il volo e iniziano a costituire una risorse diversa per gli ecosistemi. Si spostano tra pianta e pianta favorendo l’impollinazione, le femmine scelgono le loro prede per succhiare il sangue e diventano a loro volta prede di altri animali.(CDC)Si nutrono di zanzare adulte gli uccelli, le rane, i pipistrelli, i ragni e vari insetti. Quelle che non finiscono nella bocca di qualche altro animale o spiaccicate contro il muro con una pantofola arrivano alla fine del loro ciclo vitale, cadono al suolo, si decompongono e diventano sostanze nutrienti per le piante. Può sembrare poca cosa, viste le dimensioni di una zanzara, ma ogni giorno in tutto il mondo muoiono miliardi di questi insetti. Si stima che solo in Alaska, dove sono molto presenti nei mesi estivi, le zanzare raggiungano un peso complessivo (o per meglio dire una biomassa) di oltre 43mila tonnellate.La loro presenza a latitudini come quelle delle zone subartiche aiuta a sfatare almeno in parte il mito secondo il quale le zanzare proliferano quando fa molto caldo. Lo pensano in molti perché se si pensa a questi insetti vengono soprattutto in mente le zone tropicali o molto calde come quelle del sud-est asiatico, ma in realtà anche in quei luoghi le zanzare sono presenti per lo più negli ambienti umidi e freschi, per esempio nelle acque stagnanti protette dall’ombra delle fronde degli alberi. È assai raro trovare zanzare in luoghi completamente esposti alla luce solare e questo spiega perché molte specie si fanno vedere solo all’alba o al tramonto.Molto dipende comunque dalle specie, ci sono zanzare con abitudini diverse tra loro compresi gli orari della giornata in cui sono più attive. Alle nostre latitudini accade sempre più spesso di essere morsi da una zanzara anche in pieno giorno a causa della presenza di alcune specie invasive come la zanzara tigre (Aedes albopictus), originaria dell’Asia orientale e da una trentina di anni presente in Italia. Arrivò a causa dei commerci internazionali, trasportata in alcune merci, e la sua presenza sempre più massiccia insieme a quella di altre specie deriva dal modo in cui viene gestito il territorio e dagli effetti del cambiamento climatico, con una stagione calda sempre più lunga che favorisce lo sviluppo e la riproduzione di questi insetti.Soprattutto in Africa, dove le zanzare sono tra le principali cause di morte per via della trasmissione del parassita che causa la malaria, si utilizzano repellenti, insetticidi e barriere fisiche come zanzariere per tenerle a debita distanza. Queste soluzioni non sono però sufficienti e gli insetticidi causano inoltre gravi problemi negli ecosistemi, uccidendo diverse altre specie importanti per l’impollinazione e che costituiscono le prede di altri animali. Negli ultimi anni è iniziata la sperimentazione di sistemi per rendere sterili le zanzare, in modo da ridurre le loro popolazioni intorno alle aree abitate, dove il rischio di trasmissione della malaria e di altre malattie è maggiore.Bambini riposano protetti da una zanzariera a Prey Mong ko, Cambogia (Paula Bronstein/Getty Images)La modifica genetica delle zanzare per renderle meno prolifiche è molto dibattuta, non solo dal punto di vista etico, ma anche perché non tutti sono convinti dell’efficacia del sistema e ci si interroga su quali conseguenze potrebbero esserci per specifici ecosistemi. Queste tecniche hanno portato qualche concretezza in più alla domanda che si fanno in molti, soprattutto dopo essere stati disturbati da una zanzara: “Che cosa accadrebbe se eliminassimo tutte le zanzare?”. Trovare una risposta non è semplice, anche perché è molto difficile fare simulazioni sul cambiamento di interi ecosistemi nel momento in cui si interviene per modificarli, eliminando o introducendo nuove specie.Interventi di questo tipo portano quasi sempre a risultati imprevisti, con la proliferazione di altre specie o una riduzione della biodiversità, che influisce poi sulla tenuta degli ecosistemi specialmente quando questi vengono messi sotto forti stress per esempio a causa di importanti cambiamenti climatici, come quelli che stiamo vivendo in questi anni. I più ottimisti dicono che se scomparissero le zanzare ci sarebbero semplicemente altri insetti che prenderebbero il loro spazio, riconfigurando gli equilibri all’interno degli ecosistemi. I più scettici ritengono che invece si avrebbe un impoverimento, difficile da prevedere, ma comunque tangibile, della biodiversità e la perdita ulteriore di insetti molto importanti per numerose altre specie non solo animali, ma anche vegetali. LEGGI TUTTO

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    L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha dato un parere positivo a rinnovare l’autorizzazione all’utilizzo del glifosato

    L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha detto di non aver individuato problemi per la salute umana riguardo all’utilizzo del glifosato, una sostanza chimica largamente utilizzata in numerosi insetticidi: tra questi uno dei più noti è il Roundup, prodotto dal grande gruppo farmaceutico Bayer, il cui uso è approvato in 130 paesi compresi quelli dell’Unione Europea. Negli Stati Uniti sono state intentate numerose cause contro Bayer nel corso dell’ultimo decennio, per via dei presunti effetti cancerogeni del prodotto.L’autorizzazione concessa dall’Unione Europea per l’utilizzo del glifosato scadrà a dicembre di quest’anno: la Commissione Europea dovrà ora decidere se proporre il rinnovo dell’autorizzazione, basandosi proprio sul parere dell’EFSA e degli stati membri.La decisione dell’Autorità è stata criticata da numerose ONG ambientaliste. Nel 2015 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) inserì il glifosato nella lista delle sostanze “probabilmente cancerogene”. La decisione arrivò in seguito a uno studio dell’Agenzia Internazionale per la ricerca contro il cancro (IARC) secondo cui sarebbe probabile che il glifosato sia cancerogeno, ma non ci sarebbero sufficienti prove per stabilirlo con certezza. Nel 2017 anche l’Agenzia europea delle sostanze chimiche (ECHA) aveva deciso di non classificare il glifosato come sostanza cancerogena, ritenendo che non ci fossero abbastanza prove per sostenerlo. (Photo by Sean Gallup/Getty Images) LEGGI TUTTO

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    Ci saranno probabilmente altri giorni “più caldi mai registrati” quest’estate

    Caricamento playerMartedì 4 e mercoledì 5 luglio sono stati definiti i giorni più caldi mai registrati, a pari merito. E già lunedì 3 luglio la stima della temperatura media globale aveva superato i record precedenti: gli ultimi giorni insomma sono stati i più caldi sul pianeta dal 1979. I dati del Servizio meteorologico nazionale degli Stati Uniti su cui sono basate le stime sono ancora preliminari, ma poco sorprendenti. Gli esperti avevano previsto che probabilmente nel corso di quest’estate sarebbero stati raggiunti record di questo tipo, e dicono anche che da ora alla fine di agosto ce ne saranno altri.All’effetto del riscaldamento globale dovuto alle attività umane si sono infatti aggiunti due fenomeni naturali che causano un aumento delle temperature: l’estate nell’emisfero boreale e El Niño, quel periodico insieme di condizioni atmosferiche che avviene nell’oceano Pacifico ma influenza il clima di gran parte del pianeta. A giugno ne è cominciato uno nuovo e per quest’anno ci si aspetta un particolare aumento della temperatura media.Tutti i record di questo tipo avvengono quando è estate nell’emisfero boreale, quello in cui si trova anche l’Italia, perché la temperatura superficiale ha variazioni più ampie sulle terre emerse che sugli oceani. Dato che ci sono molte più terre emerse nell’emisfero settentrionale rispetto a quello meridionale, è il primo a influenzare di più le variazioni della temperatura media globale. Le temperature medie più alte si registrano dunque durante l’estate boreale, quelle più basse durante l’inverno boreale.Negli ultimi anni i valori delle temperature medie globali sono cresciuti progressivamente: nell’agosto del 2016 la temperatura media era di 16,92 °C; secondo le prime stime, lunedì di questa settimana era di 17,01 °C mentre martedì e mercoledì di 17,18 °C. Possono sembrare valori relativamente bassi, ma per interpretarli correttamente va ricordato che nell’emisfero australe siamo in inverno e che parliamo di una media.La temperatura media globale giornaliera viene stimata utilizzando modelli computazionali, cioè simulazioni basate su grandi modelli calcolati con i computer, che sono usati per fare previsioni meteorologiche e si basano su tantissimi valori di temperatura misurati in giro per il mondo e da dati ottenuti dai satelliti.Quando riferendosi alla temperatura si dice “mai registrata” si intende tecnicamente dal 1979 ad oggi: in quell’anno le tecnologie satellitari raggiunsero un livello tale da permettere misurazioni accurate. Si può andare però anche molto più indietro nel tempo grazie allo studio della climatologia, che si basa su dati di tipo diverso: per esempio quelli che si possono ottenere dai sedimenti marini, dai prelievi a grande profondità di ghiaccio dei ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide. Grazie alla climatologia sappiamo per esempio che per trovare un clima globale caldo come quello degli ultimi anni bisogna andare indietro di 120mila anni, al cosiddetto periodo Eemiano.I record degli ultimi giorni sono stati rilevati dal sistema di previsioni meteorologiche della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. È un sistema che permette di produrre stime molto velocemente, già il giorno successivo a quello su cui si vogliono ottenere informazioni. È meno avanzato di altri modelli, come l’“ERA5” del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (ECMWF), ma solitamente quando si tratta di variazioni notevoli delle medie globali, i risultati dei due modelli sono coerenti.Per ora l’ECMWF ha diffuso i propri dati relativi a lunedì 3 luglio e per tale giornata ha confermato il record. Sono diverse solo le stime della temperatura: per Copernicus due giorni fa è stata registrata una media globale di 16,88 °C, mentre il record dell’agosto del 2016 era di 16,80 °C. Le differenze con le stime statunitensi dipendono dai metodi leggermente diversi usati dai modelli computazionali e dai diversi insiemi di dati utilizzati. Sul fatto che siano giorni più caldi del solito sono comunque concordi.📈 According to preliminary data from the #ERA5 dataset, the global average 2m #temperature reached 16.88°C on Monday, breaking the previous record of 16.80°C from August 2016.Get the data 👉 https://t.co/V3rirrGxRD#Climate #ClimateChange pic.twitter.com/gwVEYxfPok— Copernicus ECMWF (@CopernicusECMWF) July 5, 2023– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027 LEGGI TUTTO

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    Come funziona il “digiuno intermittente”, se funziona

    Complici alcune dichiarazioni di personaggi famosi e la pubblicazione di libri che se ne occupano, negli ultimi mesi è tornato di moda ed è diventato molto discusso il cosiddetto “digiuno intermittente”. Secondo chi lo pratica, non solo aiuterebbe a perdere peso velocemente, ma anche a mantenersi in salute e in generale a sentirsi meglio. Di recente l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto di avere «perso 6 chili grazie al digiuno intermittente», aggiungendosi alla lista piuttosto lunga di persone che hanno detto di essere dimagrite seguendo questa pratica. In precedenza se ne era parlato molto in seguito ad alcune dichiarazioni di Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova, molto presente in televisione negli ultimi anni come esperta di cose intorno alla pandemia da coronavirus.Il digiuno intermittente ha ottenuto un certo successo perché viene spesso presentato come una soluzione per perdere rapidamente peso, con minori sacrifici rispetto a quelli richiesti dalle classiche diete. Chi lo pratica difficilmente si consulta prima con una persona che ha studiato nutrizione, ritenendo di dovere applicare solo qualche semplice regola per iniziare a dimagrire. È un approccio che può comportare qualche rischio, soprattutto per le persone con particolari problemi di salute, magari legati proprio al loro metabolismo e dei quali non sono pienamente consapevoli.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” sul digiuno intermittenteA digiunoLa percezione di dover seguire regole molto semplici deriva probabilmente dal fatto che di per sé digiunare non è complicato: consiste nello smettere di mangiare e in alcuni casi di bere per un certo periodo di tempo. È una pratica che viene seguita da millenni, per motivi culturali e religiosi a seconda delle popolazioni e dei contesti interessati. Nell’antica Grecia si digiunava prima di consultare gli oracoli, mentre nello sciamanesimo in varie culture africane era praticato prima di poter “comunicare” con gli spiriti. Il digiuno è inoltre visto come una via per avere esperienze mistiche, come per esempio nel buddhismo. In molte religioni è un modo per fare penitenza, per meditare e per concentrarsi su necessità diverse da quelle terrene: durante il mese del Ramadan, centinaia di milioni di persone musulmane nel mondo digiunano nelle ore di sole. In un digiuno prolungato consiste anche lo sciopero della fame, forma di protesta adottata spesso dalle persone detenute.Uno degli effetti del digiuno prolungato è inevitabilmente il dimagrimento, perché in mancanza del cibo il nostro organismo prova a compensare utilizzando ciò di cui dispone, come le riserve di grasso e le proteine presenti nei tessuti muscolari. Partendo da questo presupposto, già all’inizio del Novecento alcuni gruppi di ricerca iniziarono a chiedersi se una versione attenuata con brevi periodi di digiuno potesse essere impiegata per trattare l’obesità. Erano i primi esperimenti e tentativi in genere poco sistematici e strutturati, che portarono a pochi studi e non molto rilevanti. Le cose cambiarono a partire dagli anni Sessanta, quando iniziarono a essere pubblicate ricerche un poco più estese e articolate.Nelle prime esperienze documentate, erano previsti periodi di digiuno che variavano da un giorno a un paio di settimane a seconda dei casi. Già all’epoca si potevano trovare articoli entusiastici sul digiuno intermittente anche se non c’erano molti elementi per determinarne efficacia e sicurezza. Sperimentare e studiare le diete è sempre molto difficile, sia perché ogni persona è fatta diversamente e reagisce in modo diverso a trattamenti e terapie, sia perché seguire per lungo tempo un numero ragionevole di persone per determinare l’efficacia di una dieta richiede grandi risorse e soprattutto una certa dedizione da parte dei partecipanti allo studio. Questo spiega perché, a distanza di quasi un secolo dai primi studi, ancora oggi non ci sono elementi chiari sull’utilità del digiuno intermittente, come del resto è avvenuto per molti altri tipi di diete.I digiuni intermittentiNon esiste del resto un solo tipo di digiuno intermittente: ci sono più varianti e ognuno finisce col personalizzare le proprie abitudini alimentari come meglio crede, talvolta con qualche rischio per la salute. In linea generale, il digiuno intermittente consiste nell’astenersi dal cibo e dalle bevande caloriche per un certo periodo di tempo nel corso della giornata o della settimana. Frequenza e durata dei cicli di digiuno variano molto a seconda dei casi, ma si possono identificare due grandi categorie.La prima è quella delle diete a “digiuno periodico” nelle quali si alternano giornate intere di digiuno, o comunque di forte restrizione calorica, e giorni in cui si mangia normalmente. La seconda è la categoria delle diete con alimentazione a restrizione oraria: si mangia solo in alcune ore della giornata.In questi due filoni si inseriscono numerose diete che combinano fasi di digiuno alla normale alimentazione, in modi talvolta creativi e che ricordano un poco la regolazione del traffico a targhe alterne. C’è il digiuno a giornate, che prevede un giorno in cui si digiuna alternato a uno in cui si mangia; c’è la dieta 5:2 con due giorni di digiuno e cinque liberi; c’è la dieta “mima digiuno” dove viene consigliato il consumo soprattutto di verdure e che ha una durata di cinque giorni, nei quali si riduce progressivamente l’apporto calorico. Altri sistemi prevedono di mangiare in un intervallo di 8-10 ore e di digiunare per le restanti 16-14 ore: sono tra quelli più seguiti, semplicemente perché è relativamente più immediato saltare un pasto e sfruttare il sonno durante il quale già normalmente si digiuna.Roditori e umaniChi promuove il digiuno intermittente fa spesso riferimento agli studi effettuati su topi e altri roditori negli ultimi anni, dove si segnala come l’alimentazione a giorni alterni mantenga questi animali magri e più sani secondo alcuni parametri, per esempio con un aumento della durata della loro vita. Non è ancora completamente chiaro perché ciò avvenga, ma si ipotizza che in mancanza di nutrienti introdotti con l’alimentazione, l’organismo passi a utilizzare in modo più intensivo le risorse di glicogeno, una delle principali riserve energetiche dell’organismo, e il grasso corporeo.Negli esseri umani è più difficile replicare le medesime condizioni ottenute con i roditori e di conseguenza non ci sono elementi chiari per sostenere che il digiuno intermittente sia più efficace, o più sicuro e sano, rispetto alle classiche diete. Lo scorso anno un gruppo di ricerca aveva diviso 139 persone con obesità in due gruppi per sottoporle a due diversi tipi di diete: una di restrizione calorica classica, mangiando meno ai soliti pasti, e una di digiuno intermittente con pasti consentiti solo tra le otto del mattino e le quattro del pomeriggio. Per entrambi i gruppi era prevista nel complesso l’assunzione di 1500-1800 chilocalorie al giorno per gli uomini e di 1200-1500 chilocalorie per le donne.Al termine della sperimentazione durata circa un anno, il gruppo di ricerca ha riscontrato valori simili di perdita di peso tra i due gruppi, così come ha riscontrato dati paragonabili nella riduzione del grasso corporeo, della pressione sanguigna e dei livelli di glucosio nel sangue. I due regimi calorici avevano in sostanza dato i medesimi risultati, suggerendo che non ci siano particolari differenze tra i due approcci e soprattutto che il digiuno intermittente non comporti miglioramenti significativi nella perdita di peso rispetto a una dieta normale.Mangiare menoCi sono vari elementi per ritenere che il digiuno intermittente funzioni solo quando porta a una riduzione delle calorie assunte ogni giorno rispetto alle proprie abitudini. È del resto una conclusione piuttosto intuibile, che sfata però uno dei miti o delle convinzioni di molte persone che seguono un digiuno intermittente, sostenendo di mangiare ciò che vogliono e nelle quantità che preferiscono nelle ore “consentite”, immaginando che in qualche modo il metabolismo cambi e provveda al dimagrimento nel resto delle ore della giornata.In realtà, se si verificano le dichiarazioni di chi sostiene il digiuno intermittente, per esempio tra persone con una certa visibilità pubblica, si nota che il principale motivo del dimagrimento è la riduzione della quantità di cibo assunta e che questa è molto più rilevante rispetto al periodo della giornata in cui si mangia o si digiuna. Renzi ha per esempio detto di avere ripreso a correre con maggiore assiduità, mentre Viola ha spiegato di avere eliminato quasi del tutto il consumo di bevande alcoliche, che sono particolarmente caloriche. In entrambi i casi ci sono stati cambiamenti nelle abitudini che vanno al di là dei giorni in cui si mangia o meno.Per molte persone il digiuno intermittente funziona meglio di altre diete perché si deve rispettare un programma orario rigido che riduce le possibilità di sgarrare, fare eccezioni o cedere a qualche tentazione. Gli orari di alcune versioni del digiuno intermittente favoriscono inoltre il salto o la riduzione di alcuni pasti, come la cena: se si deve fare l’ultimo pasto entro le 16 è probabile che si abbia meno fame essendo ancora sazi dal pranzo e che si vada a dormire prima che venga nuovamente fame, per esempio. Il numero inferiore di pasti aiuta ovviamente a mangiare meno ed è un’ulteriore dimostrazione che il digiuno intermittente è paragonabile a una dieta.Un dimagrimento sano passa di solito da una relativa riduzione delle calorie che si introducono con gli alimenti ogni giorno e dal praticare attività fisica. Diete con una marcata riduzione delle calorie dovrebbero essere seguite sotto la supervisione di medici e mediche, che a seconda dei casi possono raccomandare esami e accertamenti di vario tipo prima di prescrivere una dieta. LEGGI TUTTO