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    L’uccello a rischio di estinzione alle Hawaii

    Oltre ad aver provocato la morte di oltre 110 persone e danni a centinaia di edifici, i recenti incendi boschivi a Maui, nell’arcipelago statunitense delle Hawaii, hanno complicato le attività per la salvaguardia di una specie di uccelli a grave rischio di estinzione: gli ʻakikiki.Al momento in natura ne esistono solo cinque, sulla vicina isola di Kauai, mentre alcuni delle poche decine allevate in cattività hanno rischiato di morire quando un albero è caduto nella riserva di Maui, in cui vivono, proprio a causa di un incendio. A prescindere dagli incendi comunque gli ultimi esemplari esistenti in natura potrebbero avere pochi mesi di vita, e per salvare la specie si sta cercando di eliminare la causa principale della decimazione della sua popolazione: le zanzare.L’ʻakikiki (Oreomystis bairdi), detto anche rampichino di Kauai, è un uccello passeriforme autoctono dell’isola, che si trova nella parte nord-ovest dell’arcipelago, nell’oceano Pacifico. È lungo circa 13 centimetri, pesa più o meno 15 grammi e ha un piumaggio grigio scuro su testa, dorso e fianchi, e più chiaro nella parte inferiore. Negli ultimi anni la sua popolazione si è ridotta così tanto e così velocemente che secondo il dipartimento del Territorio e delle Risorse naturali dello stato le possibilità che la specie riesca a sopravvivere in natura sono «scarse».Alle Hawaii ci sono numerosissime specie di uccelli che sono sopravvissute per milioni di anni sia grazie alla posizione isolata dell’arcipelago, sia perché i loro predatori erano relativamente pochi. Con l’arrivo dei popoli polinesiani prima e di quelli europei dopo, sulle isole furono introdotte nuove specie di animali, tra cui bovini e ovini, che contribuirono a cambiare gli equilibri dell’ecosistema. Il problema più grosso per gli ʻakikiki però è molto più recente, e riguarda anche altre specie di uccelli.Come ha spiegato David Smith, amministratore della divisione di Scienze forestali e Fauna selvatica del dipartimento, il progressivo aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale ha favorito la proliferazione delle zanzare, che hanno facilitato la diffusione della malaria tra gli uccelli. Inizialmente il problema non riguardava gli ʻakikiki, che vivevano a quote più elevate nelle foreste pluviali di Kauai, e fino a una ventina di anni fa gli ornitologi si dicevano «cautamente ottimisti» sulle possibilità di sopravvivenza della specie, visto che quell’ambiente non era adatto alle zanzare. Poi però le cose sono cambiate. Nel 2012 gli ʻakikiki in natura erano meno di 500 e nel 2018 poche centinaia. All’inizio del 2023 alcune decine e a inizio luglio solo 5.Smith ha detto che al momento alle Hawaii ci sono tre specie di uccelli «sul punto di estinguersi», per cui la situazione è «semplicemente critica»: gli ʻakikiki e gli ‘akeke’e a Kauai e i kiwikiu, che vivono a Maui.Il fatto che 500 delle circa 1.700 specie di piante e animali considerate a rischio dall’Endangered Species Act (una delle leggi statunitensi che stabiliscono come proteggere la fauna e la flora) si trovi proprio alle Hawaii ha fatto sì che tra gli scienziati l’arcipelago abbia cominciato a essere conosciuto come «la capitale mondiale delle specie a rischio di estinzione», ha notato in un recente articolo il Washington Post.Il biologo Justin Hite ha spiegato che il programma per cercare di portare in salvo i cinque ʻakikiki che vivono in natura è stato sospeso perché l’operazione li sottoporrebbe a uno stress che probabilmente li porterebbe comunque alla morte. Raccogliere le uova non ancora schiuse e provare a favorire la loro riproduzione altrove è «l’ultimo tentativo per salvare la specie», ha aggiunto Jennifer Pribble, che segue il programma per la loro conservazione nella riserva gestita dallo zoo di San Diego a Maui, dove al momento ne vivono 34. L’altra riserva si trova sull’isola di Hawaii e invece ne ospita 17.Gli esemplari cresciuti in cattività vivono in gabbie dotate di zanzariere, in modo da non essere punti. Al contempo gli addetti provano a facilitare la loro riproduzione, sia simulando le condizioni ambientali e meteorologiche di Kauai con foglie di felce, muschio e un sistema di acqua a spruzzo, sia incoraggiando lo stesso tipo di relazioni che si creerebbero in natura. Dal momento che gli ‘akikiki sono monogami, gli scienziati cercano di far scegliere a una femmina il maschio preferito in modo da aumentare le probabilità che le uova vengano deposte, ha spiegato sempre Hite.C’è poi un intervento molto più strutturato, che come anticipato punta alla causa del problema: è un progetto proposto da un insieme di stati federali, agenzie statali e organizzazioni non profit che prevede per così dire di sterilizzare le zanzare.– Ascolta anche: Vicini e Lontani: “Nemico pubblico”I maschi di zanzara che vivono alle Hawaii sono portatori di un parassita appartenente al genere chiamato Wolbachia e si riproducono con femmine che hanno il medesimo tipo di parassita. Gli scienziati stanno quindi infettando i maschi con un diverso tipo di Wolbachia incompatibile con le femmine, in modo da impedire la riproduzione. In base al progetto le prime zanzare dovrebbero essere rilasciate entro la fine di quest’anno o l’inizio dell’anno prossimo attraverso droni, prima a Maui e poi a Kauai.Smith ha osservato che le zanzare non sono native delle Hawaii e «non hanno un ruolo ecologico fondamentale», pertanto a suo dire eliminandole ci sarebbero «enormi vantaggi ambientali e quasi nessuno svantaggio». Non tutti però sono convinti del progetto, che come ha notato il Washington Post è già costato decine di milioni di dollari e potrebbe richiedere anni prima di funzionare. Un gruppo ambientalista, Hawaii Unites, ha chiesto di bloccare il progetto sostenendo che non siano stati fatti studi ambientali adeguati e che la presenza di altre zanzare potrebbe avere effetti indesiderati per altri animali.Hite ha detto che gli ʻakikiki non sono una specie particolarmente conosciuta dalle persone anche perché non hanno piume molto colorate né melodie elaborate o riconoscibili. A suo dire comunque non intervenire per la loro salvaguardia oggi potrebbe significare perdere uccelli «molto molto belli e colorati» più avanti.– Leggi anche: Gli incendi a Maui c’entrano con le piante portate dalla colonizzazione statunitense LEGGI TUTTO

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    Perché c’è una certa attenzione per una nuova variante del coronavirus

    Da alcune settimane le principali istituzioni sanitarie stanno tenendo sotto controllo una nuova variante del coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia iniziata nel 2020, che presenta numerose mutazioni ed è stata rilevata in almeno tre continenti. È stata chiamata BA.2.86 ed è alquanto diversa dalle varianti già in circolazione, con differenze soprattutto nella proteina “spike”, che il virus utilizza per legarsi alle cellule e replicarsi portando avanti l’infezione.Per ora la variante non suscita particolari preoccupazioni, considerati i livelli di immunizzazione ormai raggiunti tra la popolazione, ma offre comunque nuovi elementi sulla circolazione del coronavirus in una fase in cui pochissime persone fanno ancora i test e sono state ridotte al minimo le attività di rilevazione delle nuove infezioni da parte delle istituzioni.L’identificazione di BA.2.86 ha qualcosa in comunque con quanto avvenne con la variante Omicron nella seconda metà del 2021. All’epoca quella versione del virus si era fatta notare in alcuni paesi dell’Africa meridionale per avere caratteristiche molto particolari, tali da determinare nei mesi successivi nuove ondate di COVID-19 in buona parte del mondo. Le cose da allora sono però cambiate enormemente grazie all’immunizzazione offerta dai vaccini o a quella naturale (e molto più rischiosa) ottenuta con la malattia: secondo gli esperti è improbabile che BA.2.86 possa causare ondate simili a quelle di Omicron.BA.2.86 è stata legata ad almeno 6 casi in quattro paesi: Regno Unito, Stati Uniti, Israele e Danimarca. Il numero di infezioni dovuto alla variante è sicuramente più alto, ma non essendoci più sistemi di rilevazione paragonabili a quelli di un paio di anno fa è difficile fare stime sull’effettiva diffusione della variante. Anche per questo motivo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) l’ha definita «variante da tenere sotto controllo», in attesa che siano effettuati nuovi studi e analisi sulle sue caratteristiche e sulla sua presenza tra la popolazione.Stando alle prime analisi, comunque, la proteina “spike” di BA.2.86 ha almeno 34 differenze significative rispetto a BA.2, una delle subvarianti di Omicron già nota da tempo. L’ipotesi è che il virus sia mutato in seguito a un caso di COVID-19 durato a lungo, come avvenuto in passato con altre varianti con numerose mutazioni. Le differenze riguardano alcune aree della proteina “spike” cui si collegano gli anticorpi neutralizzanti prodotti dal nostro organismo per impedire al virus di legarsi alle cellule. C’è quindi la possibilità che la nuova variante riesca a eludere parte delle difese immunitarie maturate con precedenti infezioni o in seguito alla vaccinazione.Per fare valutazioni più accurate sarà necessario raccogliere un maggior numero di campioni da persone infettate da BA.2.86, ma la loro ricerca potrebbe non essere semplice. La maggior parte delle persone ha smesso di fare tamponi e test quando ha sintomi simili a quelli influenzali, di conseguenza è probabile che negli ultimi mesi molte persone abbiano avuto un’infezione da coronavirus senza saperlo, e che magari l’abbiano trasmessa a qualcun altro. Il fatto che la variante sia stata identificata in posti distanti tra loro e con casi all’apparenza non collegati suggerisce inoltre che BA.2.86 sia già particolarmente diffusa.Nonostante qualche titolo allarmato sui giornali, è comunque presto per trarre qualche conclusione o preoccuparsi più di tanto, considerato che BA.2.86 potrebbe fare la fine di diverse altre varianti rilevate nell’ultimo anno, che sono sostanzialmente scomparse nel giro di qualche mese. Nel caso di un’infezione, la maggior parte delle persone dovrebbe comunque sviluppare sintomi molto lievi grazie all’immunità ormai acquisita, ma è bene ricordare che ci sono persone fragili più a rischio di altre, che potrebbero avere complicazioni anche a distanza di quasi quattro anni dall’inizio della pandemia.Per ora in Italia la situazione continua a rimanere sotto controllo. Negli ultimi giorni si è rilevato un minimo aumento dei casi rilevati, dei pochi che ancora si sottopongono ai test, comunque non paragonabile all’aumento dei casi (comunque contenutissimo se paragonato alle ondate dei primi tempi) rilevato tra aprile e maggio. LEGGI TUTTO

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    La maggior parte delle api non è in pericolo, e anzi

    Il MoMA di New York, uno dei più importanti musei di arte moderna e contemporanea al mondo, ha recentemente mostrato sul suo profilo Instagram quattro arnie fatte costruire sul tetto dell’edificio «come parte della missione di sostenibilità del MoMA», per «il ruolo essenziale che le api svolgono nel nostro ecosistema». Per l’installazione delle arnie il MoMA aveva contattato a febbraio Andrew Coté, presidente dell’Associazione degli apicoltori di New York, che aveva però rifiutato. La motivazione di Coté era che la popolazione già esistente di api occidentali – uno dei nomi comuni dell’Apis mellifera, la specie di ape più diffusa al mondo – sarebbe responsabile dell’esaurimento delle limitate risorse floreali presenti in città per gli insetti impollinatori.La convinzione che le api stiano diminuendo pericolosamente cominciò a diffondersi nei primi anni Duemila, quando la popolazione di api mellifere si era ridotta fortemente a causa di un anomalo spopolamento degli alveari. Furono fatti molti studi e una lunga serie di iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il cui successo ebbe tra i suoi vari effetti una grande attenzione al tema e una rapida espansione delle attività di apicoltura. Questa espansione è ancora oggi sostenuta in alcuni casi dalla convinzione, ormai infondata, che la popolazione delle api stia diminuendo.Tra il 2011 e il 2021, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), il numero di alveari nel mondo è cresciuto del 26 per cento, passando da 81,4 a 101,6 milioni. Alle ragioni storiche della diffusione delle api occidentali, allevate su larga scala per l’impollinazione oltre che per la produzione del miele e della cera, si intersecano da qualche anno interessi più ampi e di tipo diverso, tra cui il desiderio delle persone e delle aziende di mostrare un segno visibile di particolare sensibilità e attenzione per l’ambiente.L’attuale sovrappopolazione di api occidentali pone tuttavia numerosi rischi per l’ambiente e, nello specifico, per migliaia di altre specie di api e di insetti impollinatori con cui le api occidentali competono per le stesse risorse. E per salvaguardare la biodiversità alcuni apicoltori hanno cominciato a suggerire ai loro clienti interessati all’installazione di arnie nelle proprie strutture – di solito sui tetti degli edifici – di scegliere altri modi di tutelare l’ambiente. Suggeriscono di installare cassette per altri insetti, per esempio, o mettere a dimora piante che incrementino la disponibilità di nettare, cioè la risorsa necessaria per gli impollinatori.– Leggi anche: Sulle Alpi austriache si discute di genetica delle apiCome raccontato dal giornalista David Segal in un recente articolo sul New York Times l’idea che le api siano in pericolo e il desiderio di molti di difenderle allevandole in una o più arnie risalgono storicamente alla semplificazione dei fenomeni, ancora non del tutto spiegati, che determinarono uno spopolamento degli alveari negli anni Duemila.Un apicoltore statunitense, David Hackenberg, notò nel 2006 che in molti dei suoi circa 400 alveari le api erano scomparse. E la stessa cosa fu riferita in seguito da altri apicoltori in altri paesi nel Nord America e in Europa: il fenomeno, definito sindrome dello spopolamento della colonia (Colony Collapse Disorder, CCD), fu oggetto di diversi studi che non riuscirono a chiarirne esattamente le cause. Alcune ricerche attribuirono lo spopolamento all’uso di certi pesticidi, altre ipotizzarono che potesse essere causato da un virus e da un fungo parassita, e altre ancora citarono la scarsità di foraggio disponibile per le api e il cambiamento climatico.Un’ape raccoglie il polline dai fiori di un ciliegio selvatico vicino a Berlino, in Germania, il 25 aprile 2013 (Sean Gallup/Getty Images)Le molte campagne di sensibilizzazione avviate in quel periodo resero il ripopolamento degli alveari un obiettivo noto e largamente condiviso dall’opinione pubblica. Fu in generale la prima volta che un così gran numero di persone si interessò agli insetti impollinatori, ha detto al New York Times Scott Hoffman Black, direttore dell’organizzazione internazionale non profit Xerces Society for Invertebrate Conservation. Ma il rovescio della medaglia fu che nel dibattito andarono perse tutte le sfumature di una questione complessa e condizionata da fattori economici.Negli Stati Uniti per esempio circa un milione di alveari è trasportato ogni anno in paesi come la California, dove le api sono fondamentali per l’impollinazione dei mandorli – un mercato da cinque miliardi di dollari all’anno – e di altri raccolti le cui coltivazioni dipendono da colonie di api numerose e in buona salute. È un’industria estesissima, in parte descritta anche in un recente articolo del New Yorker, e attrezzata per sopperire a una quantità preventivata di perdite stagionali. Una quota compresa tra il dieci e il 20 per cento degli alveari, indipendentemente dalla sindrome dello spopolamento, non sopravvive durante i mesi invernali.Una parte di queste perdite è correlata all’evoluzione stessa delle tecniche e dei mezzi utilizzati per prolungare il rendimento degli alveari, in cui le api regine vengono spesso sostituite prima del tempo con esemplari più giovani, scrive il New Yorker, e in cui parte del miele che potrebbe servire alle api per superare l’inverno viene prelevato prima che abbiano la possibilità di mangiarlo. Nonostante gli alti tassi di mortalità delle api, la progressiva intensificazione degli sforzi per allevarle su larga scala ha fatto sì che ci siano sul pianeta «più api mellifere oggi di quante ce ne siano mai state nella storia dell’umanità», ha detto Black al New York Times.– Leggi anche: È stato approvato il primo vaccino per le apiIl dibattito dell’ultimo decennio ha generato inoltre confusione e superficialità riguardo alle api che hanno bisogno di essere salvate. A parte le api mellifere – l’unico gruppo che alimenta un’industria multimiliardaria e che non ha bisogno di aiuto – esistono oltre 20mila specie di api selvatiche (il nome improprio con cui sono di solito definite le api diverse dall’Apis mellifera). Non producono miele e vivono perlopiù in nidi nel terreno o in cavità nei tronchi d’albero, ma sono indispensabili impollinatori di piante, fiori e colture. Eppure molte di queste specie, le cui popolazioni sono effettivamente in declino, non ricevono le attenzioni delle api mellifere.Un apicoltore controlla le arnie costruite sul tetto del grande magazzino Fortnum & Mason a Londra, nel Regno Unito, il 22 luglio 2008 (Peter Macdiarmid/Getty Images)Nella letteratura scientifica l’ape occidentale è a volte paragonata alle specie invasive e definita una «specie controllata introdotta in modo massiccio» (Massively Introduced Managed Species, o MIMS), la cui popolazione è in aumento in quasi tutti i continenti a scapito di altri impollinatori selvatici. Secondo una ricerca del 2020 la densità delle colonie di api nel bacino del Mediterraneo, che ospita circa 3.300 specie di api selvatiche, è aumentata in modo esponenziale tra il 1963 e il 2017. Ma le api selvatiche sono state gradualmente sostituite dall’Apis mellifera: il rapporto tra api selvatiche e fiori era quattro volte maggiore rispetto a quello tra api mellifere e fiori all’inizio del periodo, e le proporzioni di entrambi i gruppi sono diventate più o meno simili 50 anni dopo.– Ascolta anche: “Vicini e lontani”, un podcast sulle specie alieneIl crescente interesse per la costruzione di arnie sui tetti e le terrazze di edifici commerciali come hotel e B&B negli Stati Uniti e in Europa, ha scritto Segal, asseconda in parte un diffuso desiderio di fare qualcosa di positivo per l’ambiente e riflette un’accresciuta attenzione per le iniziative ecosostenibili. Da questo punto di vista le api mellifere sono uno dei modi più popolari e visibili per attuare questa sorta di «greenwashing apiario», anche in paesi – come la Slovenia, per esempio – in cui esiste per giunta una lunghissima tradizione di apicoltura.Secondo un rapporto del 2020 del Royal Botanic Kew Gardens, l’istituto di ricerca del più grande giardino botanico di Londra, il foraggiamento delle moltissime colonie di api presenti in città rischia di soppiantare altre specie di api. «L’apicoltura per salvare le api potrebbe in realtà avere l’effetto opposto», era scritto nel rapporto. Ad aggravare la situazione contribuisce il fatto che le api mellifere siano diventate una sorta di trofeo vivente che le aziende desiderano mostrare, ha detto al New York Times Richard Glassborow, presidente dell’Associazione degli apicoltori di Londra.Un’ape selvatica raccoglie il polline da un fiore in un campo vicino a Wernigerode, in Germania, il 18 giugno 2022 (AP Photo/Matthias Schrader)Persone come Coté e Glassborow, ha scritto Segal, si trovano nella particolare condizione di essere appassionati di api da miele in luoghi con troppe api da miele. A fronte dell’interesse per l’installazione di nuove arnie cercano piuttosto di convincere le aziende a costruire cassette per insetti diversi dalle api, per esempio i bombi, o piantare alberi e fiori in modo da aumentare gli approvvigionamenti alimentari per gli insetti impollinatori: inclusi quelli meno considerati e in declino come le falene e le vespe, essenziali per l’impollinazione delle piante selvatiche e di molti raccolti.– Leggi anche: Dovremmo conoscere meglio le vespeIn particolare nelle aree urbane gli alveari sono così diffusi da aver provocato una riduzione anziché un incremento della quantità di miele che riescono a produrre. In Slovenia, secondo dati del governo citati dal New York Times, la produzione di miele è inferiore a quella di 15 anni fa nonostante il numero di alveari nel paese sia più che raddoppiato. E questo succede perché non c’è abbastanza nettare per tutti, secondo l’apicoltore sloveno Matjaz Levicar, e le api mellifere lo usano per alimentarsi anziché trasformarlo in miele. «In Slovenia dobbiamo nutrire le colonie di api mellifere con lo zucchero per la maggior parte dell’anno», ha detto Levicar. LEGGI TUTTO

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    L’ultima grande epidemia di colera in Italia, 50 anni fa

    Il 20 agosto 1973, cinquant’anni fa, una donna inglese morì all’ospedale dei Pellegrini di Napoli: le era stata diagnosticata una enterocolite, un’infiammazione intestinale, ma poi si sarebbe scoperto che era stata la prima persona morta per l’epidemia di colera che interessò la città e poi si estese in altre parti dell’Italia meridionale nelle settimane successive, diventando l’ultima grande epidemia di colera nel paese.Il colera è un’infezione dovuta al batterio Vibrio cholerae che ha come sintomo principale la diarrea, e che nei casi più gravi porta alla morte per disidratazione. Il batterio si trasmette per via orale, diretta o indiretta, se in qualche modo del materiale fecale entra in contatto con degli alimenti (crudi o poco cotti) o con l’acqua che si beve: per questo le epidemie di questa malattia sono legate a problemi dei sistemi fognari e nell’approvvigionamento di acqua potabile. Dato che il batterio del colera può vivere anche nei fiumi e nelle zone costiere, le epidemie possono essere legate al consumo di molluschi.In origine il colera era endemico, cioè periodicamente presente, in India e in Bangladesh. Nel resto del mondo si è diffuso più volte a partire dall’Ottocento, dando origine a sei pandemie che causarono la morte di milioni di persone. La settima iniziò in Asia nel 1961 e arrivò a essere contenuta nel 1975, ma in un certo senso si può considerare ancora in corso perché i ceppi batterici che ne furono responsabili sono tuttora in circolazione: di fatto ha reso la malattia endemica in molti altri paesi. Fu proprio nel corso di questa pandemia che il colera arrivò a Napoli.Un cartello vieta la raccolta di mitili nello specchio di mare antistante il Castel dell’Ovo, a Napoli, il 21 ottobre 1973 (ANSA/ARCHIVIO CARBONE/PRIMA PAGINA)Le prime infezioni note si ebbero nei giorni dopo Ferragosto. Dopo Linda Heyckeey, la donna inglese, morirono il 22 agosto Adele Dolce e, all’ospedale Maresca di Torre del Greco, un comune vicino a Napoli, Rosa Formisano il 26 agosto e Maria Grazia Cozzolino il 27. Fu il primario dell’ospedale di Torre del Greco, Antonio Brancaccio, a ipotizzare che la malattia che aveva causato la morte delle donne potesse essere una forma di colera. Il 29 agosto il Mattino diffuse la notizia dell’epidemia, parlando di cinque morti e cinquanta persone infette ricoverate.Napoli era già stata interessata da grandi epidemie di colera in passato, nel 1837, nel 1884 e nel 1910-11, ma si pensava che in un paese ormai industrializzato non potesse più succedere. In ogni caso già il primo settembre cominciò una campagna vaccinale, che venne portata avanti nei luoghi più diversi, dalle farmacie alle sezioni dei partiti politici, a un palazzetto. In alcuni casi le tante persone radunatesi per farsi vaccinare protestarono contro la lentezza delle procedure e le lunghe attese; ci furono anche tentativi di assalto ai centri di vaccinazione e ai furgoni che trasportavano i vaccini. Nonostante questo moltissime persone furono vaccinate in poco tempo: più di un milione in una settimana.– Leggi anche: Il 1973 fu anche l’anno dell’austerity per la crisi petroliferaLa campagna vaccinale contribuì ad arginare la diffusione del batterio insieme ad altre pratiche igieniche e alla chiusura temporanea di luoghi di socialità. A Napoli l’ultimo caso fu registrato il 19 settembre e già il 12 ottobre l’epidemia poteva considerarsi conclusa nella città. Le morti accertate furono 24, la maggior parte (15) a Napoli; le altre città dove ci furono più infezioni furono Bari (6 morti) e Foggia, in Puglia. È possibile comunque che sia i casi di infezione che i morti siano stati di più.All’epoca la diffusione del colera venne ricondotta all’importazione di cozze dalla Tunisia, dove il colera si era diffuso nel maggio del 1973, e si pensò che i molluschi fossero il principale mezzo di trasmissione del batterio e per questo vennero distrutti gli allevamenti di cozze presenti lungo le coste napoletane. In realtà poi si verificò che nei molluschi non era presente il ceppo responsabile dell’epidemia, che era invece diffuso nelle acque marine (dove ad agosto in molti facevano il bagno) a causa dell’inadeguatezza del sistema fognario di Napoli, che risaliva agli anni Ottanta dell’Ottocento.Un gruppo di vigili del fuoco distrugge delle cozze nel mare di Napoli, il 9 settembre 1973 (AP Photo, LaPresse)Dopo il 1973 non ci furono più estese epidemie di colera in Italia. Nel 1994 a Bari ci fu una ventina di casi, legati a problemi di igiene nel mercato del pesce ed efficacemente curati fin dall’inizio. Quest’estate in due occasioni si è parlato di presunti nuovi casi di colera in Italia: all’inizio di luglio in Sardegna e all’inizio di agosto a Lecce, in Puglia. In entrambi i casi è stato verificato che sebbene nelle feci dei pazienti in questione ci fossero batteri Vibrio cholerae, non erano dei ceppi che causano la malattia.– Leggi anche: Perché Napoli non è Londra, spiegato col colera da Antonio Pascale LEGGI TUTTO

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    La sonda russa Luna-25 si è schiantata sulla Luna

    Caricamento playerLa sonda della missione spaziale russa Luna-25 si è schiantata sulla Luna, dove sarebbe dovuta atterrare per attività di esplorazione e ricerca. Lo ha fatto sapere l’agenzia spaziale russa Roscosmos, dicendo di aver perso il contatto con la sonda sabato. La missione Luna-25 era partita su un razzo Soyuz da Vostochny, nell’estremo est della Russia e non lontano dal confine cinese, l’11 agosto; avrebbe dovuto raggiungere il suolo lunare lunedì. Non si sa cosa abbia causato la «situazione d’emergenza» che ha portato allo schianto. Roscosmos ha detto che farà un’indagine in merito.Luna-25 era la prima missione lunare russa in quasi cinquant’anni: la precedente, Luna-24, fu lanciata nel 1976, quando ancora era in corso la “corsa allo Spazio” tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Nominando la nuova missione Luna-25, il governo russo del presidente Vladimir Putin ha voluto sottolineare la continuità con la stagione piuttosto importante dell’esplorazione spaziale sovietica e cercare di dimostrare che la Russia è tornata a essere un paese capace di operare nello Spazio. Oltre agli obiettivi scientifici, la missione aveva anche un evidente valore politico e simbolico, che si è amplificato ulteriormente con l’inizio della guerra in Ucraina.Se tutto fosse andato come da programmi, la sonda avrebbe dovuto raggiungere il suolo lunare sul polo sud del satellite, dove avrebbe prelevato e analizzato campioni di terreno e ghiaccio dal polo sud lunare. Il polo sud lunare è anche l’obiettivo della missione spaziale indiana Chandrayaan-3, partita il 14 luglio: la sua sonda è attualmente in orbita attorno al satellite e dovrebbe cercare di atterrarci nei prossimi tre o quattro giorni.La Russia avrebbe voluto arrivare prima dell’India perché il polo sud lunare è stato poco esplorato e nessuna nave spaziale è mai allunata in questa regione; le missioni finora si sono concentrate nella zona equatoriale. Il polo sud lunare è considerato interessante per la presenza di acqua sotto forma di ghiaccio, che in futuro potrebbe essere sfruttata per il mantenimento di una base con esseri umani. LEGGI TUTTO

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    C’è un grande punto interrogativo nello Spazio

    Caricamento playerIl 26 luglio il sito del James Webb Space Telescope (JWST), il più grande e potente telescopio spaziale mai realizzato, ha diffuso una fotografia di due stelle in formazione che si trovano a 1.470 anni luce di distanza dalla Terra, nella costellazione delle Vele. L’immagine è piuttosto spettacolare come tutte quelle fatte dal JWST, uno strumento sofisticatissimo che ci permette di vedere ammassi di galassie lontane miliardi di anni luce da noi. Varie persone però hanno notato soprattutto un dettaglio secondario rispetto al soggetto della fotografia: una forma luminosa apparentemente a forma di punto interrogativo.La si distingue in basso a destra rispetto alla nebulosa in cui si stanno formando le due stelle, nella versione in alta risoluzione della fotografia. Sui social network l’immagine è stata commentata scherzosamente ipotizzando che l’Universo voglia chiederci qualcosa.Fotografia della coppia di stelle in formazione nella nebulosa Herbig-Haro 46/47 realizzata dal James Webb Space Telescope e diffusa il 26 luglio 2023; l’apparente punto interrogativo è in basso a destra rispetto alla nebulosa (NASA, ESA, CSA, Joseph DePasquale (STScI), Anton M. Koekemoer (STScI))Dettaglio ingrandito della fotografia in cui è indicata la posizione del “punto interrogativo” (NASA, ESA, CSA, Joseph DePasquale (STScI), Anton M. Koekemoer (STScI))Chris Britt, astronomo dello Space Telescope Science Institute, il centro di ricerca che gestisce il JWST, ha spiegato al New York Times che un’altra formazione a forma di punto interrogativo era già stata osservata: è una fusione galattica, cioè due galassie in grande avvicinamento, chiamata II Zwicky 96 e molto più vicina alla Terra. Entrambe le formazioni sono così lontane che è difficile capire meglio come siano fatte e perché sembrino avere questa forma particolare.Anche questo “punto interrogativo” potrebbe essere dovuto alla fusione di due galassie. È una delle ipotesi che lo Space Telescope Science Institute ha menzionato al sito di divulgazione Space.com: «La loro interazione potrebbe aver causato la forma distorta che sembra un punto interrogativo». Matt Caplan, professore di fisica della Illinois State University, ha detto al sito che la parte superiore del punto interrogativo potrebbe essere una parte di una galassia più grande modificata dalla fusione.Sappiamo in ogni caso che si tratta di qualcosa di molto distante per via del suo colore rossastro, e potrebbe essere la prima volta che viene osservato. È così per molti oggetti spaziali fotografati dal JWST, che ha una risoluzione molto maggiore di quella di Hubble, il precedente più grande telescopio spaziale costruito dall’umanità. Il nuovo telescopio, realizzato dalla NASA, l’agenzia spaziale statunitense, insieme all’Agenzia spaziale europea (ESA) e a quella canadese (CSA) e lanciato nello Spazio alla fine del 2021, è in grado di vedere galassie distanti anche più di 13 miliardi di anni luce, cioè che esistevano solo 450 milioni di anni dopo il Big Bang.Dennis Overbye, il giornalista scientifico autore dell’articolo del New York Times, ha osservato che se si accettano le regole della meccanica quantistica «bisogna accettare che il caso fa parte della fondamentale realtà delle cose»: nell’enormità dell’Universo è possibile che si veda qualcosa con una forma che su questo pianeta ha un significato.– Leggi anche: Il significato del punto LEGGI TUTTO

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    Ötzi aveva la pelle più scura di quanto credessimo 

    Un gruppo di ricerca internazionale ha analizzato più approfonditamente il DNA di Ötzi, l’uomo vissuto oltre 5.300 anni fa i cui resti furono trovati nel 1991 sulle Alpi tra l’Italia e l’Austria. Le analisi hanno permesso di ricostruire in modo più accurato il genoma di Ötzi, che è la più antica mummia umana naturale mai trovata in Europa, e alcune sue caratteristiche fisiche: principalmente il fatto che avesse la pelle più scura di quanto si pensasse in base a precedenti studi meno approfonditi e che verosimilmente avesse sviluppato una calvizie più o meno pronunciata.Lo studio ha anche ricostruito che Ötzi – così chiamato dal nome austriaco della regione dove fu trovato, Ötztal – discendesse soprattutto da popolazioni agricole dell’Anatolia, più o meno nell’odierna Turchia. Sono informazioni importanti, che aggiungono nuovi elementi non solo alle conoscenze su Ötzi ma anche a quelle sulle origini delle persone europee, di cui contribuiscono a sfatare alcuni pregiudizi ancora esistenti su una presunta “purezza” delle popolazioni europee, associata a una serie di caratteristiche fisiche a partire dalla pelle chiara.L’analisi dei geni responsabili del colore della pelle della mummia dice che la sua pelle conteneva molta più melanina di quanto si pensasse, e che era mediamente più scura delle tonalità di pelle più scure oggi presenti in Europa. Per farsi un’idea più precisa Johannes Krause, genetista dell’Istituto Max Planck (Germania), uno degli enti di ricerca che hanno partecipato allo studio, ha spiegato: «Direi che basti guardare la mummia. Probabilmente rappresenta il colore della pelle di Ötzi piuttosto bene. È relativamente scura, anche più scura dei più scuri toni di pelle comuni nel sud dell’Europa odierno, ad esempio in Sicilia e in Andalusia. Non scura come quella delle persone originarie delle regioni a sud del Sahara».La scoperta spiega peraltro proprio l’attuale colore della mummia, che in passato si supponeva fosse legato al processo di mummificazione ma non era mai stato veramente spiegato. Rende inoltre imprecisa l’attuale ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano dove la mummia è conservata: tale ricostruzione è la seconda che sia mai stata fatta ed era stata realizzata dopo le prime analisi genetiche, poco più di dieci anni fa. In realtà da vivo Ötzi aveva la pelle più scura e probabilmente non molti capelli, dato che i suoi geni indicano una predisposizione per la calvizie e all’epoca della morte aveva circa 45 anni. Quest’ultimo dettaglio contribuirebbe a spiegare perché non furono trovati molti capelli attaccati alla mummia.La ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano (ANSA / UFFICIO STAMPA MUSEO ARCHEOLOGICO DI BOLZANO)Il ritrovamento di Ötzi (o “Uomo del ghiaccio”, come è anche chiamato) nel 1991 fu un evento straordinario per la gran quantità di informazioni che sono state ottenute studiandolo. Si stima che Ötzi sia vissuto tra il 3350 e il 3120 avanti Cristo. Secondo le ricostruzioni sarebbe morto colpito alla schiena da una freccia: il suo corpo rimase congelato nel ghiaccio, che contribuì alla sua conservazione. Fu trovato da alcuni escursionisti: aveva ancora addosso alcuni indumenti, oltre a un’ascia e un arco.Nel 2012 furono pubblicati i risultati del primo sequenziamento del genoma della mummia: secondo quelle analisi Ötzi aveva la pelle chiara, gli occhi marroni (in precedenza si riteneva che fossero azzurri) e ascendenze steppiche (aveva cioè antenati provenienti dall’Europa orientale e Asia centrale). Quest’ultimo dato era considerato abbastanza sorprendente: le ascendenze steppiche sono piuttosto comuni tra le odierne popolazioni dell’Europa meridionale, ma secondo le conoscenze attuali gli umani appartenenti a questa componente ancestrale comparvero in Europa ben dopo la morte di Ötzi.A sinistra la prima ricostruzione del volto di Ötzi, a destra la seconda: nessuna delle due mostra quello che era il vero colore della pelle di Ötzi (ANSA / ANDREE KAISER – NATIONAL GEOGRAPHIC)Le analisi appena pubblicate sono state svolte con tecnologie di sequenziamento più sofisticate, accurate e approfondite rispetto a quelle disponibili nel 2012, a partire dal DNA estratto dall’osso dell’anca di Ötzi: lo studio, accessibile e leggibile a questo link, è stato pubblicato sulla rivista Cell Genomics. Vi ha partecipato anche l’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research di Bolzano.Secondo lo studio, contrariamente a quanto si era pensato finora, nel DNA di Ötzi non ci sono tracce di ascendenze steppiche e il 92 per cento della sua ascendenza genetica è associato a quello di antiche popolazioni dell’Anatolia, probabilmente migrate verso il nord dell’Europa attraverso la penisola balcanica, che praticavano l’agricoltura.Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research, ha detto che lo studio potrebbe contribuire a decostruire l’erronea credenza di una qualche “purezza” della popolazione europea: «Sono proprio studi come questi che dimostrano che i nostri antenati sono tutti migrati in un momento o nell’altro, che siamo tutti un grande miscuglio genetico», ha detto.– Leggi anche: Ci sono altre mummie preistoriche come Ötzi sulle montagne? LEGGI TUTTO

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    Probabilmente quel superconduttore rivoluzionario non è nemmeno un superconduttore

    Nelle ultime settimane fisici di diverse parti del mondo hanno provato a verificare la presunta scoperta di un materiale apparentemente dotato di superconduttività a temperatura e pressione ambiente che era stata annunciata da un gruppo di studiosi sudcoreani. Se confermata, la scoperta sarebbe stata rivoluzionaria perché avrebbe avuto enormi ripercussioni pratiche su tutto ciò che funziona grazie all’energia elettrica. Ma non è andata così: non solo il materiale LK-99 non è un superconduttore a temperatura e pressione ambiente, come sostenevano gli studiosi sudcoreani, ma non ha caratteristiche superconduttive nemmeno a temperature bassissime, cioè nelle condizioni in cui funzionano i materiali superconduttori attualmente noti.La superconduttività è la qualità dei materiali in cui la corrente elettrica passa quasi senza incontrare resistenza. Infatti quando gli elettroni scorrono in un materiale conduttivo normale, come un filo di alluminio, incontrano un certa resistenza che riduce la corrente elettrica a parità di tensione applicata e provoca una dispersione sotto forma di calore. Se negli impianti e negli apparecchi elettrici potessimo usare dei superconduttori, basterebbe meno energia per farli funzionare. Il problema è che i superconduttori attualmente noti sono tali solo a temperature nell’ordine di -200 °C o ad altissime pressioni, o entrambe le cose, mentre non hanno la stessa proprietà in condizioni più normali e quindi possono essere usati in pochissimi contesti e con alti costi.– Leggi anche: La superconduttività, spiegata con un po’ di parole in piùLa scoperta di superconduttori a temperatura e pressione ambiente sarebbe quindi dirompente e avrebbe enormi ripercussioni, e per questo ogni volta che un gruppo scientifico annuncia qualcosa del genere (era già successo più volte, ma finora non sono mai state vere scoperte) c’è grande interesse, non solo tra i fisici della materia, ma anche tra aziende e semplici appassionati del tema.L’annuncio del gruppo sudcoreano aveva attirato grandi attenzioni ed entusiasmi, ma gli scienziati erano stati da subito scettici. Lo studio in merito non era stato sottoposto a una revisione di scienziati terzi (la peer review), e c’erano dubbi anche sulle competenze dei suoi autori. Parlando con Science Michael Norman, un fisico teorico dell’Argonne National Laboratory, uno dei più grandi laboratori di ricerca statali degli Stati Uniti, nato a partire dalle ricerche di Enrico Fermi, li ha definiti «veri dilettanti». «Non sanno molto della superconduttività e il modo in cui avevano presentato alcuni dei dati era sospetto», ha detto.Quello che più conta comunque sono le verifiche di quanto affermato da Sukbae Lee, Ji-Hoon Kim e dagli altri autori dello studio diffuso il 22 luglio. Gli studiosi sudcoreani avevano spiegato nel dettaglio le caratteristiche del materiale LK-99, che essendo fatto di elementi relativamente comuni come piombo, rame e fosforo è sia facile da produrre in laboratorio sia da studiare teoricamente.Più di dieci gruppi di ricerca hanno analizzato la questione e condiviso i propri risultati su arXiv, la principale piattaforma utilizzata per la condivisione veloce di studi scientifici: anche in questo caso sono studi senza peer review (un processo per cui è necessario del tempo), ma il loro numero, l’attenzione che la questione ha generato nella comunità scientifica e il fatto che siano più o meno concordi ha già praticamente azzerato le aspettative nei confronti dell’LK-99.Per la maggior parte le analisi sul materiale sono teoriche, ma alcune sono state fatte riproducendo dei campioni di LK-99. Né un gruppo di ricerca del Laboratorio nazionale di fisica (CSIR–NPL) dell’India né tre scienziati del Centro internazionale per i materiali quantistici (ICQM), un istituto di ricerca che ha sede a Pechino, hanno trovato proprietà superconduttive nel materiale a temperatura ambiente. I due studi non giungono esattamente alle stesse conclusioni, ma attribuiscono un fenomeno che secondo Lee e Kim era legato alla superconduttività ad altre caratteristiche.I sudcoreani infatti sostenevano che l’LK-99 respingesse i campi magnetici, una caratteristica che i superconduttori hanno per via dell’effetto Meissner e che è alla base delle tecnologie utilizzate da alcuni treni a levitazione magnetica, che viaggiano senza stare a contatto con i binari e quindi sperimentano attrito solo con l’aria. Questa proprietà però è ben più comune nei materiali diamagnetici, cioè quelli che hanno una magnetizzazione con verso opposto al campo: secondo il gruppo indiano l’LK-99 avrebbe appunto questa proprietà. Invece per il gruppo cinese il materiale sarebbe lievemente ferromagnetico, cioè può essere magnetizzato sotto l’azione di un campo magnetico.Un altro gruppo cinese, dell’Università di Nanchino, ha fatto altre verifiche sperimentali e dice che l’LK-99 mostra qualità superconduttive ma solo a temperature molto basse, peraltro inferiori a quelle in cui si manifesta la superconduttività in altri materiali noti: non rappresenterebbe dunque un avanzamento tecnologico.Considerando questi e altri studi il Condensed Matter Theory Center (CMTC) dell’Università del Maryland, un centro di ricerca di fisica della materia condensata, quella branca scientifica in cui ci si occupa anche di superconduttori, ha concluso che l’LK-99 non sia un superconduttore. Gli studi sul materiale sono ancora in corso, ma ormai sembra che si possa escludere che ci cambierà la vita.– Leggi anche: Che cos’è l’energia LEGGI TUTTO