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    Come mai a un certo punto cominciano a piacerci anche i broccoli

    Nelle conversazioni ricorrenti sul cibo capita a volte di parlare della qualità delle materie prime descrivendo un certo alimento di base, dalla frutta al pane agli ortaggi, come diverso rispetto al passato: spesso meno gustoso. Le ragioni dell’evoluzione sono di volta in volta attribuite a fattori eterogenei come il clima, i processi industriali o le tecniche di conservazione. È invece più raro che in queste conversazioni emerga una considerazione su quanto il nostro stesso gusto sia complesso, influenzato da altre percezioni e, soprattutto, in continua evoluzione mentre cresciamo e invecchiamo.È piuttosto comune e raccontata, per esempio, una certa tendenza ad apprezzare in età adulta cibi e bevande che prima dell’adolescenza erano considerati disgustosi, come verdure e frutti dal sapore amarognolo, aspro o acidulo. In parte è una questione di gusti personali che cambiano, ma in parte no: diverse ricerche mostrano come preferire certi cibi e non altri, a seconda della particolare fase della vita, rifletta anche una certa biologia di base in evoluzione.In un citato articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista scientifica Physiology & Behavior e ripreso in diversi studi successivi, le autrici Julie Mennella e Nuala Bobowski, analizzando i risultati della ricerca sperimentale sul gusto nei bambini, scrissero che questi preferiscono livelli più elevati di dolce e sono più sensibili al gusto amaro fino all’adolescenza. Dopodiché il gusto comincia a diventare più complesso: a subire cioè l’influenza crescente di altri sensi e degli stimoli che i sensi forniscono per formare reti neuronali variamente interconnesse nel sistema nervoso.Secondo diverse ricerche sull’evoluzione del gusto, l’infanzia è uno dei momenti in cui i sensi subiscono più cambiamenti, mediando tra predisposizioni biologiche comuni e condizionamenti ambientali variabili a seconda del contesto. In un certo senso, secondo Mennella e Bobowski, è come se i bambini vivessero in mondi sensoriali completamente diversi da quelli che vivranno in seguito da adolescenti e da adulti. Studi sull’evoluzione del gusto nei primati suggeriscono che la sensibilità dei primati umani rispetto al dolce (da cui sono attratti) e all’amaro (che genera repulsione) nelle prime fasi della vita sia in gran parte un riflesso della loro biologia.I nostri sistemi sensoriali si sono evoluti per rilevare e preferire i cibi ipercalorici e un tempo difficili da reperire, e la dolcezza è una specie di “segnale” naturale di questi cibi. Il gusto salato, per cui i bambini hanno un’altra propensione insieme a quella per il dolce, segnala invece la presenza di minerali. In termini evolutivi, la predisposizione verso cibi dolci e salati deriva da tempi relativamente recenti della storia della specie, in cui i bambini avevano bisogno di tutta l’energia e i minerali disponibili per sopravvivere fino all’età adulta.Per ragioni biologiche siamo quindi molto attratti nei primi anni di vita da fonti di energia e cioè dal dolce, dal momento che dolce e ipercalorico coincidevano nell’ambiente in cui ci siamo evoluti: un ambiente privo di dolcificanti ipocalorici e zuccheri raffinati. Un discorso simile, ma in senso di repulsione anziché di attrazione, vale per l’amaro: come la dolcezza segnala fonti di energia, l’amarezza segnala un possibile pericolo. L’ipersensibilità dei bambini per i sapori amari, secondo le ricerche sui fattori evolutivi del gusto, agisce come un meccanismo di protezione dalla possibile ingestione di tossine durante l’infanzia.– Leggi anche: Perché alcuni cibi ci disgustano?Le predisposizioni filogenetiche della specie interagiscono però con l’insieme dei processi di sviluppo dell’individuo (ontogenesi), condizionati dall’ambiente in cui i bambini crescono. A seconda del contesto e di quanto familiarizzano con determinati sapori a loro disposizione durante l’infanzia, come dimostrato da studi sperimentali, i bambini modellano la loro sensibilità e sviluppano il senso di cosa dovrebbe o non dovrebbe avere un sapore dolce, e quanto dolce rispetto ad altri sapori. Familiarizzano progressivamente anche con i sapori amari, una volta appreso che determinati cibi che hanno quel sapore sono sicuri da mangiare.Secondo i risultati di uno studio pubblicato nel 2022 sulla rivista Psychological Science che coinvolse un gruppo di donne incinte tra la 32a e la 36a settimana di gestazione, le capacità sensoriali legate al gusto potrebbero cominciare a subire un’evoluzione persino prima della nascita, in base all’alimentazione della madre. Già durante lo sviluppo intrauterino, deglutendo e inalando il liquido amniotico, i feti possono percepire i sapori del cibo mangiato dalle madri.Per avere una prova diretta di questa capacità, gli autori e le autrici dello studio osservarono e analizzarono tramite ecografie tridimensionali le reazioni facciali dei feti quando le madri mangiavano determinati cibi. I feti erano più inclini a mostrare espressioni sorridenti quando le madri assaporavano una carota, mentre mostravano smorfie e reazioni di disgusto quando le madri mangiavano cavolo. In questo caso, e non in quello della carota, i risultati mostrarono inoltre che le reazioni facciali diventavano via via più complesse man man che i feti maturavano.(Beyza Ustun, Nadja Reissland, Judith Covey, Benoist Schaal, Jacqueline Blissett, “Flavor Sensing in Utero and Emerging Discriminative Behaviors in the Human Fetus”, 2022, Psychological Science/SAGE Open)Man mano che i bambini crescono e superano l’infanzia e poi l’adolescenza, l’ipersensibilità iniziale all’amaro e la predilezione per il dolce e il salato vengono meno, e a seconda dell’esperienza e dell’esposizione a determinati sapori i gusti cambiano e diventano più complessi. Capita spesso che durante questa fase cibi un tempo disprezzati come cavolo, broccolo e barbabietola, diventino cibi apprezzati e graditi.La maggiore complessità dei gusti è determinata dalle esperienze e dall’apprendimento, che contribuiscono ad accrescere e articolare le interazioni del gusto con altri stimoli sensoriali fondamentali. In un esperimento di psicologia molto conosciuto e citato, i cui risultati furono pubblicati nel 2004 sulla rivista Journal of Sensory Studies, gli autori dimostrarono che il sapore riferito delle patatine in busta cambiava a seconda della croccantezza percepita.I partecipanti potevano ascoltare attraverso le cuffie il suono prodotto dal loro morso, ma non sapevano che i suoni provenienti dal microfono, prima di essere rimandati nelle cuffie, subivano un’equalizzazione per eliminare o accentuare di volta in volta determinate frequenze. Alla fine dell’esperimento, dopo aver descritto alcune patatine come più fresche di altre, quasi nessuno dei partecipanti riuscì a riconoscere che le patatine utilizzate dagli sperimentatori erano tutte uguali.– Leggi anche: Quanto contano gli altri sensi per il gustoUn’altra evoluzione significativa del gusto legata a fattori principalmente biologici avviene intorno ai 50-60 anni, quando cambia il ritmo di rigenerazione cellulare delle circa 9-10mila papille gustative con cui nasciamo. Come spiegò a NPR l’otorinolaringoiatra dell’Albany Medical Center di New York Steven Parnes, ogni papilla gustativa è un fascio di cellule sensoriali (specializzate cioè nel ricevere e tradurre gli stimoli ambientali in segnali elettrici per il sistema nervoso), raggruppate insieme come petali intorno al bocciolo di fiore.Le papille gustative, che coprono la lingua e inviano i segnali al cervello attraverso i nervi, variano nella loro sensibilità ai diversi tipi di gusti. Alcune saranno particolarmente in grado di percepire la dolcezza, altre l’amarezza e così via. Questi recettori del gusto hanno un eccezionale ritmo di ricambio cellulare: muoiono e si riformano più o meno una volta ogni dieci giorni. È il motivo per cui, per esempio, quando capita di bruciarsi la lingua con una bevanda o un cibo troppo caldo, recuperiamo in tempi relativamente brevi la capacità di gustare ciò che mangiamo.Intorno ai 50 anni la frequenza di rigenerazione cellulare delle papille gustative cambia, e questo porta a una progressiva diminuzione dei canali attraverso cui i recettori del gusto inviano segnali sensoriali al cervello. La stessa cosa vale per i recettori olfattivi, che smettono di rigenerarsi rapidamente come prima, man mano che l’età avanza. Questa diminuzione della frequenza di ricambio cellulare può determinare una serie di cambiamenti più o meno rilevanti anche nel gusto, a cui l’olfatto è strettamente legato.I cambiamenti del gusto in età avanzata possono tuttavia essere anche molto limitati e sottili, ha detto Mennella alla rivista di divulgazione scientifica Discover. E in molti casi riguardano soltanto un particolare odore o sapore, non limitano interamente l’esperienza del gusto: «Qualcuno per esempio potrebbe diminuire la propria sensibilità all’odore delle rose, ma non rispetto a quello dell’aglio. Non è una perdita omogenea». LEGGI TUTTO

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    La ricerca della balena che abbiamo solo sentito

    La varietà e la complessità dei canti dei cetacei sono conosciute e studiate da decenni. Nel 1970 il biologo statunitense Roger Payne raccolse quelli delle megattere durante il periodo degli accoppiamenti e ne fece un disco, che vendette oltre 100mila copie ed espanse notevolmente la consapevolezza comune dell’intelligenza di questi mammiferi. Un fatto meno noto è che esiste con molta probabilità almeno una specie di cetacei odontoceti (o dentati, il sottordine di cui fanno parte delfini, capodogli e orche) che non abbiamo mai visto e che distinguiamo da altre specie conosciute soltanto per i suoni che emette.La specie sconosciuta e identificata soltanto per i suoi versi caratteristici, in attesa di ulteriori ricerche che ne confermino l’esistenza, è definita balena dal becco di Cross Seamount da un gruppo di ricercatori e ricercatrici della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa di studi meteorologici e oceanici, e di altri istituti di ricerca sugli ambienti marini. Cross Seamount, una montagna sottomarina che si trova circa 300 chilometri a ovest delle isole Hawaii, è l’area del Pacifico in cui fu rilevato per la prima volta nel 2005 il particolare richiamo della balena, poi registrato sporadicamente altre volte negli anni successivi.Tra i biologi marini non c’è uniformità di opinioni riguardo alla balena dal becco di Cross Seamount. Secondo alcuni potrebbe essere una specie conosciuta: il mesoplodonte di Nishiwaki e Kamiya, detto ginkgodens per l’insolita forma (a foglia di pianta di ginkgo) dei due denti presenti sulla sua mandibola. Una delle ragioni che complicano l’identificazione della specie misteriosa è che la famiglia di cetacei odontoceti a cui probabilmente appartiene – gli Zifidi, o balene dal becco – è una delle meno conosciute al mondo tra i grandi mammiferi. Alcune delle 24 specie note sono state scoperte soltanto nell’ultimo ventennio, e lo stesso ginkgodens è una di quelle di cui sappiamo meno in assoluto, e principalmente dagli spiaggiamenti.– Leggi anche: Il fascino gigantesco del calamaro giganteIl gruppo di ricerca che si occupa da quasi vent’anni di analisi dei suoni emessi dagli odontoceti al largo delle Hawaii ritiene che ci siano elementi sufficienti per considerare la balena dal becco di Cross Seamount una specie a sé stante. I suoni che emette differiscono infatti in termini di frequenza, durata e pause intermedie rispetto a quelli di altre balene dal becco conosciute. Sulla base dei rilevamenti è possibile ipotizzare che sia una specie imparentata con lo zifio di Cuvier, diffuso anche nel Mediterraneo, e il mesoplodonte di True, ma con comportamenti diversi rispetto a queste due specie.Tutte le balene dal becco, animali piuttosto timidi e diffidenti, si immergono abitualmente in profondità fino a 3mila metri e per un tempo di oltre un’ora. Riemergono in superficie soltanto per pochi minuti, cosa che rende difficile avvistarle. È difficile anche distinguere le specie: i biologi di solito ci riescono osservando i denti nei maschi, dato che le femmine – anche quelle di specie diverse – sono molti simili, ha spiegato a Hakai Magazine la biologa della NOAA Jennifer McCullough, coautrice di una ricerca sulla balena dal becco di Cross Seamount pubblicata ad agosto sulla rivista Marine Mammal Science.Una femmina di mesoplodonte di De Blainville al largo delle Bahamas (MatthewGrammatico/Wikimedia)Molto di ciò che sappiamo delle balene dal becco, ha detto McCullough, lo sappiamo dall’analisi dei suoni che emettono, raccolti tramite strumenti di monitoraggio acustico che permettono di stimare solo molto approssimativamente la popolazione di passaggio in una determinata area. Come gli altri odontoceti – e i pipistrelli – le balene dal becco utilizzano l’ecolocalizzazione, la capacità di percepire l’eco delle onde sonore emesse e che rimbalzano sull’ambiente circostante. Nel loro caso non sono canti né fischi, come quelli di megattere e orche, ma brevi impulsi sonori, singoli o a raffica, come quelli dei capidogli. Sono emessi nel contesto dell’accoppiamento o per individuare le prede (principalmente calamari), per esempio, ma possono anche avere funzioni sociali più complesse.– Leggi anche: Come gli animali percepiscono il mondoI suoni emessi dalle diverse specie conosciute di balene dal becco sono sequenze di “clic” abbastanza simili tra loro: hanno una frequenza molto alta, impercettibile per l’udito umano. Gli odontoceti in generale emettono suoni tra 5 e 150 kHz, mentre l’intervallo di frequenze rispetto alle quali gli esseri umani sono più sensibili è tra 2 e 5 kHz. Per analizzare le piccole differenze tra i diversi richiami gli scienziati si servono soprattutto degli spettrogrammi, grafici che permettono di valutare l’intensità di un suono in funzione del tempo e della frequenza. E la frequenza, la durata e le pause intermedie tra i suoni emessi dalle balene dal becco cambiano da specie a specie.Una sequenza di suoni emessi da uno zifio di Cuvier, a velocità ridotta a 0,30x (NOAA.gov) LEGGI TUTTO

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    È morta a 95 anni Gao Yaojie, dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta

    È morta a 95 anni Gao Yaojie, una dottoressa cinese che contribuì a rendere nota l’epidemia di AIDS nella Cina rurale negli anni Novanta. Gao scoprì che le scarse norme igieniche nelle cliniche per la donazione di sangue a pagamento avevano contribuito a diffondere l’AIDS anche nelle zone rurali della Cina. All’epoca in Cina era diffusa la convinzione che l’AIDS fosse trasmesso solo tramite i rapporti sessuali non protetti e dalla madre al feto durante la gravidanza. Gao, già in pensione, visitò cittadine e famiglie colpite dalla malattia, donò anche cibo e stampò volantini educativi sull’AIDS, spesso a sue spese.La vendita di sangue fu vietata negli anni Novanta, ma secondo Gao continuò in maniera illegale anche negli anni successivi. La dottoressa non fu la prima a scoprire l’epidemia, ma permise che fosse conosciuta in Cina e all’estero avvisando il New York Times. Nel 2009 Gao si trasferì a New York, negli Stati Uniti, a causa della crescente ostilità delle autorità cinesi nei suoi confronti, fra cui l’arresto e la detenzione per 20 giorni ai domiciliari da parte del governo provinciale dell’Henan, la provincia in cui fu più attiva, nel 2007. Il governo centrale in seguito annullò l’arresto.– Leggi anche: Dobbiamo parlare diversamente di HIVL’AIDS è una sindrome che porta il sistema immunitario a perdere la capacità di contrastare anche le infezioni più banali. Si raggiunge a uno stadio avanzato dell’infezione del virus HIV (Human Immunodeficiency Virus). Grazie alle moderne terapie antiretrovirali oggi chi è positivo al virus può condurre una vita quotidiana normale, anche dal punto di vista dell’attività sessuale. Le condizioni sono che l’infezione sia diagnosticata per tempo, e che ci sia la possibilità di accedere alle cure. (AP Photo/Greg Baker, File) LEGGI TUTTO

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    “Attenborough e il mostro marino gigante”

    Qualche anno fa passeggiando lungo la costa della baia di Kimmeridge, a sud di Bournemouth, nell’Inghilterra del sud, un appassionato di fossili chiamato Philip Jacobs notò qualcosa di particolare tra i ciottoli della spiaggia: capì subito che si trattava di qualcosa di eccezionale e contattò così Steve Etches, un paleontologo dilettante che gestisce un museo dedicato agli animali marini preistorici nella zona. L’area in cui si trovava Jacobs fa parte di un lungo tratto del Dorset soprannominato “Jurassic Coast” per via del gran numero di reperti geologici risalenti alla preistoria, e lui aveva appena trovato la parte anteriore del muso di un Pliosaurus, un grande rettile marino vissuto circa 150 milioni di anni fa.La storia del modo rocambolesco con cui è stato scoperto, ritrovato e recuperato l’intero teschio di questo animale, che si è conservato in ottime condizioni, sarà raccontata in uno speciale condotto dal noto naturalista e divulgatore scientifico David Attenborough in onda il prossimo primo gennaio su BBC One: “Attenborough and the Giant Sea Monster”, Attenborough e il mostro marino gigante.Il Pliosaurus era un genere di rettile appartenente allo stesso gruppo dei plesiosauri (Plesiosauria): poteva raggiungere una lunghezza di dodici metri, aveva un cranio che ricorda un po’ quello di un coccodrillo e quattro lunghe pinne che gli permettevano di spostarsi in acqua a una velocità di quasi 50 chilometri orari. Attenborough ha detto che aveva «più o meno le stesse dimensioni di un doubledecker», alludendo ai tipici bus londinesi a due piani, mentre Andre Rowe dell’Università di Bristol lo ha paragonato a «una specie di T-Rex subacqueo».Era infatti il principale predatore marino di cui si abbia traccia nel Giurassico Superiore, il periodo in cui viveva, e nelle parole di Attenborough «uno dei più grandi predatori che siano mai esistiti». Si cibava di altri rettili come appunto i plesiosauri o gli ittiosauri, che ricordavano un po’ i delfini, ma alcuni fossili scoperti già in passato avevano permesso di ipotizzare che probabilmente mangiava anche altri pliosauri. Nonostante non sia stato facile recuperarlo, il teschio scoperto nel Dorset – lungo circa due metri – è uno dei più completi e meglio conservati tra quelli recuperati delle varie specie di questo animale.La parte anteriore del suo muso era caduta sulla spiaggia, ma era troppo pesante per poterla portare via. Prima di avvertire Etches, quindi, Jacobs lo aveva ricoperto di sabbia: dopodiché, i due erano riusciti a ricostruire il punto da cui era precipitato con l’aiuto di un drone, e avevano messo insieme una squadra di paleontologi e ricercatori per recuperare anche il resto.«Era tutto molto entusiasmante, ma a livello logistico non un posto ottimale per raccogliere un fossile», ha raccontato Etches al Guardian: il resto del cranio infatti era rimasto all’interno della scogliera, a 11 metri sopra il livello della spiaggia e a 15 dalla sommità, in un punto difficile sia da raggiungere che da scavare. Il documentario di Attenborough mostrerà il lungo e delicato processo con cui i ricercatori lo hanno recuperato, sospesi a mezz’aria, assicurati a funi, rischiando di scivolare o di farsi cadere rocce in testa.I resti sono stati studiati da scienziati delle Università di Bristol, di Southampton e dell’Imperial College London.La mandibola dell’animale era schiacciata sotto alla parte superiore del suo cranio, un po’ come se fosse stato ancora vivo. Etches ha detto che sono pochissimi i fossili preservati così bene, e che se vengono trovati spesso mancano dei pezzi, ma in questo caso le ossa ci sono tutte. I suoi 130 denti erano lunghi e affilati, ma soprattutto dotati di molte scanalature, che con ogni probabilità aiutavano l’animale a sfilarli con agilità dalla carne della sua preda per prepararsi a morderla nuovamente. Tra le altre cose, la parte anteriore del muso era provvista di minuscoli fori che si ipotizza ospitassero particolari ghiandole in grado di interpretare le variazioni nella pressione dell’acqua prodotte dagli altri animali, in poche parole da possibili prede.La paleontologa dell’Università di Bristol Emily Rayfield inoltre ha esaminato le aperture sulla parte posteriore del teschio per calcolare la forza del morso dell’esemplare, che secondo le sue stime sarebbe di 33mila newton. Per fare un confronto, la forza del morso di un T-Rex era di 64mila newton, quella di un leone 4mila e quella dei coccodrilli, gli animali più simili al pliosauro tuttora esistenti, 16mila (quella dell’essere umano 700). Rayfield in effetti ha notato che quando mordono qualcosa i coccodrilli ruotano il capo, probabilmente per staccare una parte della preda: è una caratteristica dei rettili che hanno la testa piuttosto estesa sul retro, e che si trova anche nel Pliosaurus.Etches dice di scommettere «sulla [sua] vita che il resto dell’animale sia lì», cioè all’interno della scogliera, che come ha ricordato Attenborough al tempo non era altro che il letto fangoso della porzione di mare in cui si era depositato il cadavere dell’animale. Conta anche sul fatto che nei prossimi anni se ne trovino le tracce, visto che la scogliera è particolarmente vulnerabile all’erosione e si ritira di circa 30 centimetri all’anno. Prossimamente il teschio verrà messo in mostra al museo che gestisce a Kimmeridge e che porta il suo nome, l’Etches Collection Museum of Jurassic Marine Life.– Leggi anche: L’ultimo pasto di un giovane tirannosauro LEGGI TUTTO

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    L’ultimo pasto di un giovane tirannosauro

    Le analisi dei fossili di un tirannosauride vissuto nel Nord America circa 75 milioni di anni fa hanno mostrato qualcosa di piuttosto sorprendente: tra le ossa della sua cassa toracica sono state osservate tracce di ossa appartenenti ad altri due dinosauri più piccoli, il suo ultimo pasto prima di morire. La scoperta è stata descritta in uno studio pubblicato venerdì sulla rivista Science Advances, e ha permesso di fare alcune ipotesi sia sulla dieta di questa specie di dinosauro, sia dell’evoluzione delle sue abitudini alimentari con la crescita.I resti analizzati appartenevano a un individuo adolescente di Gorgosaurus libratus, un teropode dello stesso gruppo di cui facevano parte i Velociraptor e i Tyrannosaurus rex (T. rex, o più amichevolmente e meno scientificamente T-Rex). Questi tirannosauridi vivevano nel Cretacico superiore, il periodo compreso tra 99 e 66 milioni di anni fa, prima dei T-Rex, ed erano leggermente più piccoli rispetto a loro. Da adulti comunque diventavano «tirannosauri grossi e massicci», ha detto a BBC News François Therrien, paleoecologo del Royal Tyrell Museum of Paleontology dell’Alberta e tra gli autori principali dello studio.Il fossile era stato scoperto nel 2009 nel parco provinciale dei dinosauri dell’Alberta, che si trova a est di Calgary, nel Canada occidentale; ci sono tuttavia voluti anni per recuperarlo, per rimuovere la roccia che si era solidificata all’interno della cassa toracica e per analizzare il suo contenuto con le dovute precauzioni.(Royal Tyrell Museum of Palaeontology)L’individuo di Gorgosaurus aveva tra i 5 e i 7 anni, era lungo quasi quattro metri e il suo bacino era alto più o meno come un essere umano di oggi. Al momento della morte pesava circa 330 chili, ma se si fosse sviluppato fino all’età adulta avrebbe potuto superare le tre tonnellate.Durante lo studio dei suoi resti, i ricercatori del Royal Tyrell Museum of Palaeontology e dell’Università di Calgary hanno notato altre piccole ossa corrispondenti agli arti inferiori di due Oviraptorosauria, cioè due piccoli teropodi più simili agli uccelli, con pancia profonda e zampe anteriori corte. Entrambi gli esemplari avevano meno di un anno, e dall’analisi delle ossa è emerso che erano stati mangiati in due momenti diversi, ad alcune ore di distanza l’uno dall’altro.«Sappiamo che questi [tirannosauri] adolescenti cacciavano dinosauri più giovani e piccoli», ha detto sempre a BBC News Darla Zelenitsky, paleontologa dell’Università di Calgary e una delle autrici principali dello studio. Tuttavia «questo individuo è unico» perché permette di dire che i Gorgosaurus più giovani avevano «strategie per nutrirsi molto diverse» rispetto a quelli adulti: a suo dire lo studio offre anche «prove concrete» del fatto che i tirannosauri tendevano a cambiare «drasticamente» la propria dieta con l’età.(Royal Tyrell Museum of Palaeontology)In base all’osservazione dei fossili di altri individui della stessa specie, gli scienziati erano riusciti a concludere che i Gorgosaurus adulti mangiavano un po’ di tutto, compresi dinosauri erbivori molto grossi che vivevano in gruppo. Therrien ha spiegato che probabilmente gli adulti assalivano la loro preda e strappavano la loro carne con i loro denti, che per quanto affilati erano piuttosto arrotondati, tanto da essere soprannominati “banana killer”. È tuttavia probabile che gli individui più giovani, che avevano corpi più agili, zampe più lunghe e denti più affilati, fossero troppo deboli per assaltare facilmente prede più grandi di loro.In effetti le analisi sulle ossa dei due piccoli dinosauri avevano segni tali da far ipotizzare che l’individuo adolescente li avesse morsi con i denti fino all’osso, fino a staccare i loro arti inferiori e inghiottirli completamente. Secondo Zelenitsky il fatto che siano state trovate solo queste ossa inoltre può voler dire che il predatore aveva azzannato di proposito le cosce, cioè i loro arti più carnosi.Hans-Dieter Sues, paleontologo dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington l’ha definita «decisamente una scoperta importante». Sues, che non ha partecipato allo studio, ha detto che «anche se il cambio di abitudini alimentari tra giovani e adulti in tirannosauri come il Gorgosaurus non è una sorpresa, è meraviglioso che adesso se ne abbia la prova concreta».– Leggi anche: Magnifici dinosauri sbagliati LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Lo zoo di Londra ha approfittato dell’arrivo di dicembre per allestire alcuni calendari dell’avvento e fotografare gli animali mentre ci interagivano, come nel caso di questo saimiri. Poi ci sono un po’ di apparizioni umane: un veterinario che visita un cucciolo di rinoceronte di Sumatra, l’etologa Jane Goodall con una tartaruga, una biologa con due lupi gridi della Tundra. Nella raccolta di animali della settimana trovate anche le prime nevi a fare da sfondo a cavalli, linci, fagiani e merli, ma per chi non è pronto per l’inverno ci pensa questo scoiattolo a coprire l’eventuale preferenza di una scena autunnale..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Una pillola per allungare la vita dei cani

    Caricamento playerA fine ottobre in Portogallo è morto Bobi, quello che secondo il Guinness World Records era il cane più anziano del mondo: aveva 31 anni e mezzo. La notizia era stata ripresa dai giornali e discussa sui social network, con qualche dubbio sull’effettiva età del cane al momento della morte, e aveva portato a nuovi dibattiti e riflessioni sulla longevità dei cani in generale e su come cambia il nostro rapporto con loro, man mano che invecchiano.L’aspettativa di vita di un cane varia moltissimo a seconda della razza e della taglia. Chi decide di crescerne uno sa che molto probabilmente farà parte di una porzione relativamente ridotta della sua esistenza e che gli sopravviverà. È inevitabile e per questo riscuotono un certo successo i prodotti, come mangimi e integratori, che vengono venduti come soluzioni specifiche per contribuire a mantenere in salute i cani anziani. Le confezioni e le pubblicità di questi prodotti non promettono esplicitamente di allungargli la vita, ma comunicano qualcosa che ci si avvicina e che risponde al comprensibile desiderio di prolungare il più possibile la convivenza con il proprio cane.È un settore economicamente florido e che potrebbe presto arricchirsi di farmaci sviluppati proprio con lo scopo di rendere più longevi i cani. Le sperimentazioni sono già in corso, in alcuni casi sono alquanto avanzate, e potrebbero un giorno offrire spunti e dati importanti per il passaggio successivo: rallentare il processo di invecchiamento negli esseri umani.Tra le società del settore più citate negli ultimi anni c’è Loyal, una startup di San Francisco (California) fondata nel 2019 con l’obiettivo esplicito di prolungare la vita dei cani. In poco tempo, l’azienda ha raccolto finanziamenti per circa 60 milioni di dollari e ha curato lo sviluppo di due principi attivi sperimentali. Lo scorso martedì 28 novembre uno di questi, per ora definito con il nome di sviluppo LOY-001, ha ricevuto un primo parere positivo da parte della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di farmaci.– Leggi anche: Perché può essere così difficile elaborare il lutto per la morte di un animale domesticoUn gruppo di lavoro della FDA ha inviato una comunicazione a Loyal specificando che: «I dati che ci avete fornito sono sufficienti per dimostrare una ragionevole aspettativa di efficacia» nel principio attivo sperimentale. L’autorizzazione per poterlo commercializzare è ancora distante, ma la dichiarazione è comunque un passaggio importante per raggiungere la cosiddetta “approvazione condizionale estesa”, una procedura prevista dalla FDA per accelerare l’autorizzazione di un farmaco in ambito veterinario. Riguarda di solito principi attivi che rispondono a esigenze per cui non ci sono ancora trattamenti e che richiedono test clinici complessi e di lunga durata.La FDA deve ancora analizzare molti altri dati forniti dall’azienda legati anche alle garanzie offerte da Loyal sulla sicurezza del farmaco e della sua produzione. Se non ci saranno inconvenienti, la startup potrebbe ricevere un’autorizzazione preliminare intorno al 2026, seppure vincolata ad alcune condizioni. Il trattamento potrebbe quindi essere poi messo in vendita come prodotto per estendere la vita dei cani. Nel frattempo dovrà però continuare a svolgere i test clinici su una grande quantità di animali, in modo da fornire ulteriori dati su sicurezza ed efficacia alla FDA.Non ci sono molti dettagli intorno a LOY-001 sia perché sul principio attivo non ci sono stati ancora molti studi, sia perché Loyal mantiene riservate alcune caratteristiche in modo da tutelarsi contro la concorrenza in un settore che si sta velocemente popolando con iniziative simili. L’azienda prevede di somministrare LOY-001 periodicamente dal veterinario per intervenire sul fattore di crescita insulino-simile 1 (IGF-1), un ormone molto presente nella fase della pubertà e coinvolto nei meccanismi della crescita. I cani di grande taglia hanno spesso valori di IGF-1 molto più alti dei cani di dimensioni più ridotte, a parità di età, e secondo alcune ricerche questi alti livelli potrebbero essere responsabili dell’invecchiamento più rapido.Un cane di grossa taglia arriva ad avere 28 volte i livelli di IGF-1 di un cane di piccola taglia. Questa disparità è stata probabilmente causata dai numerosi incroci effettuati nei secoli scorsi per selezionare nuove razze canine. L’aspettativa di vita di un chihuahua è per esempio di 15 anni contro gli 8 di un alano danese.(Jack Taylor/Getty Images)I gruppi di ricerca di Loyal si sono quindi chiesti se portare i livelli di IGF-1 nei cani di grande taglia a quantità comparabili con quelli dei cani più piccoli potesse avere qualche effetto, per lo meno per le numerose razze canine di grandi dimensioni. Lo hanno fatto partendo da precedenti ricerche che avevano già esplorato il ruolo di quell’ormone nei processi di invecchiamento, svolti in laboratorio su piccoli organismi come i nematodi o nei topi. In quegli esperimenti era stato rilevato un allungamento della vita degli animali nel momento in cui si riduceva IGF-1 e un accorciamento della vita nel caso di un aumento dei livelli dell’ormone.Loyal ritiene che l’invecchiamento accelerato dei cani di grande taglia debba essere considerato come una condizione medica e che quindi debba essere trattata per prevenirla. Oltre alle iniezioni, la società sta lavorando a un’ulteriore versione del farmaco da somministrare sotto forma di pillole. La società non ha ancora pubblicato uno studio scientifico, ma ha segnalato l’esito di un test su piccola scala dal quale è emerso che LOY-001 sembra agire su alcuni meccanismi del metabolismo riconducibili ai processi di invecchiamento.È un risultato importante, ma l’azienda non ha ancora dimostrato che in questo modo si possa allungare la vita dei cani. Per farlo, Loyal dovrà organizzare un test clinico su larga scala, raccogliere una grande quantità di dati e derivare poi da questi le informazioni per confermare l’efficacia e la sicurezza del trattamento. Alcuni test sono già in corso, ma richiedono molto tempo e secondo altri esperti sarà difficile stabilire con chiarezza i benefici in termini di un eventuale allungamento della vita.L’approccio seguito da Loyal è simile a quello seguito da altri gruppi di ricerca, ma dedicato a un’altra molecola: la rapamicina, normalmente impiegata per ridurre il rigetto nelle persone che vengono sottoposte a un trapianto d’organi. La sostanza interviene sulla proteina mTOR, che ha il compito di trasmettere i segnali degli ormoni della crescita alle cellule. Ne riduce le funzioni e in varie sperimentazioni si è visto che può allungare la vita di alcuni tipi di lievito, di nematodi, moscerini e ratti.Gli effetti della rapamicina sui cani sono stati testati di recente su due piccoli gruppi di individui: il primo aveva ricevuto la molecola, mentre il secondo una sostanza che non faceva nulla (placebo). Al termine dei sei mesi della sperimentazione, il 27 per cento delle persone i cui cani appartenevano al primo gruppo ha segnalato miglioramenti nel comportamento e nella salute dei propri animali; nel gruppo del placebo gli stessi risultati sono stati segnalati circa nell’8 per cento dei cani.L’impiego della rapamicina è discusso da tempo anche per eventuali terapie per rallentare l’invecchiamento negli esseri umani, ma i dati per ora a disposizione sono limitati e sono stati rilevati alcuni effetti avversi da non sottovalutare. I più importanti sono a carico del sistema immunitario e per questo i dosaggi devono essere regolati attentamente a seconda dei pazienti, in modo da tenerli sotto controllo. LOY-001 sembra dare meno problemi, almeno secondo Loyal che ha segnalato per lo più eventi avversi gastrointestinali nei cani ai quali è stato somministrato. Anche in questo caso, però, servono più dati e su un numero maggiore di cani.(Matt Cardy/Getty Images)Lo sviluppo di farmaci di questo tipo si porta inoltre dietro numerose implicazioni etiche che secondo gli esperti dovrebbero essere approfondite, insieme a quelle prettamente cliniche. LOY-001 è stato pensato come molecola da somministrare a cani che sono in salute per provare a farli vivere più a lungo, la sua somministrazione dovrebbe quindi iniziare prima che il cane diventi anziano. Sarebbe una forma di prevenzione diversa da quella che si dovrebbe sempre fare, curando per esempio l’alimentazione e l’attività fisica.Non è soprattutto chiaro come i cani trattati con farmaci di questo tipo vivrebbero i loro ultimi anni, se con altri problemi di salute non letali, ma che comportano comunque un peggioramento della qualità della vita come artriti, difficoltà respiratorie o problemi cognitivi. Il prolungamento della loro esistenza sarebbe inoltre per il loro bene o per quello delle persone che non vogliono separarsene? Le società come Loyal ritengono che il problema non si porrebbe, perché semplicemente i cani diventerebbero vecchi più lentamente, ma si porrebbero comunque problemi legati al loro mantenimento in salute.Su scale e implicazioni naturalmente molto diverse, gli stessi problemi si porrebbero anche nel caso in cui dai cani si passasse a molecole che aiutano gli esseri umani a rallentare l’invecchiamento, un ambito in cui la ricerca investe molte risorse da tempo. I cani in questo senso sono visti come un buon modello di partenza per acquisire conoscenze, che potrebbero essere poi impiegate su di noi.Lo studio di cani molto longevi potrebbe offrire qualche ulteriore spunto alla ricerca, anche se le cause per cui a volte alcuni cani arrivano a vivere molto a lungo continuano a essere sfuggenti. Bobi, il cane del record di longevità, apparteneva alla razza “rafeiro do Alentejo” di taglia medio-grande i cui individui di solito vivono molto meno di 31 anni e mezzo. La famiglia che aveva cresciuto Bobi in un paese nel Portogallo centrale ha detto che il cane era libero di girare come preferiva e che viveva insieme ad altri animali. La famiglia non aveva mai adottato particolari accorgimenti, ma ha detto di essere convinta che Bobi avesse buoni geni visto che la madre aveva vissuto fino a 18 anni.La storia di Bobi ha raccolto un certo scetticismo tra i veterinari, sia per la mancanza di prove molto convincenti sul fatto che fosse nato nel 1992 sia per la scarsa probabilità di un cane di quella razza che viva così a lungo. Hanno inoltre segnalato che il record precedente era più verosimile: apparteneva a Spike, un chihuahua morto nel 2022 nell’Ohio (Stati Uniti) quando aveva 23 anni e sette giorni. I cani di questa razza sono piuttosto longevi anche per via della loro taglia più piccola. LEGGI TUTTO

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    Non riusciamo a capire perché ci siano così tante orchidee

    Nero Wolfe, l’eccentrico investigatore inventato dallo scrittore statunitense Rex Stout, passa molto tempo delle proprie giornate a riflettere mentre cura la propria collezione di orchidee nella sua serra privata all’ultimo piano della sua casa di New York. In una delle sue prime avventure sentenzia che «nella vita tutto, tranne la coltura delle orchidee, deve avere uno scopo».Per Wolfe è un’attività fine a se stessa, ma non per questo meno importante visto che coltivarle lo aiuta a pensare e a concentrarsi sui casi da risolvere. Non ambisce a collezionarle tutte, considerato che ne esistono circa 28mila specie note e che molte altre probabilmente non sono state ancora scoperte e catalogate. Perché siano così tante è ancora oggi un mistero, la cui soluzione sfuggirebbe persino a Nero Wolfe.Le orchidee sono uno dei gruppi più grandi e vari delle angiosperme, quelle che comunemente e con una certa approssimazione chiamiamo “piante da fiore”. Le specie appartenenti alla famiglia delle Orchidacee sono estremamente diversificate, per forma e colori, tanto da avere affascinato nella storia una grande quantità di botanici, semplici appassionati e persone di scienza. Tra queste ci fu anche il naturalista Charles Darwin, che oltre alle proprie ricerche sull’evoluzione dedicò un intero libro ai metodi «col mezzo dei quali le orchidee vengono fecondate dagli insetti». Darwin era rimasto colpito dai vari modi in cui si riproducono queste piante, dando spesso origine a nuovi incroci e generazione dopo generazione a nuove specie. Erano una sorta di laboratorio evolutivo fiorito.Ancora oggi il lavoro di Darwin è un importante punto di partenza per chi studia le orchidee e vuole capire da cosa derivi la loro alta differenziazione, che le ha portate a popolare tutti i continenti fatta eccezione per l’Antartide. Chi coltiva le orchidee come Wolfe sa quanto siano delicate e difficili da mantenere, ma negli ambienti selvatici queste piante proliferano e si riproducono velocemente. Sono talmente diffuse da rendere molto probabile un loro avvistamento durante una passeggiata in un parco, o in modo diverso mentre assaggiamo un gelato alla vaniglia: uno degli aromi più utilizzati in pasticceria è infatti derivato da un’orchidea originaria del Messico.Da specie a specie cambiano forme e colori dei fiori, ma non le strutture fondamentali: tre sepali superiori (le foglie modificate che fanno parte del calice) e tre petali inferiori, uno dei quali assolve la funzione di “labello”, una sorta di base di atterraggio e decollo per attirare gli insetti impollinatori. Il fiore dell’orchidea possiede sia gli organi femminili sia quelli maschili, riuniti nel ginostemio, una particolare struttura tipica di alcune famiglie di piante. La vicinanza tra questi organi spiega almeno in parte il successo delle orchidee, che possono comunque riprodursi anche per via asessuata, cioè con una pianta che genera autonomamente una copia identica di se stessa.1. labello; 2. petali; 3. sepali (Wikimedia)La riproduzione sessuata si verifica per impollinazione incrociata oppure per autoimpollinazione. La prima è la più frequente tra le orchidee e coinvolge nella maggior parte dei casi gli insetti impollinatori, per lo più imenotteri (come le api) e con i quali c’è spesso un’alta selettività (significa che una certa specie di orchidea ha un impollinatore specifico). Come altre piante da fiore, le orchidee attirano gli insetti impollinatori producendo una sostanza zuccherosa e nutriente: il nettare. L’insetto si posa sul labello, entra più in profondità nel calice e inizia a nutrirsi di nettare; nel frattempo il suo corpo si ricopre del polline dell’orchidea, organizzato in particolari masse ciascuna delle quali si chiama pollinio. Visitando altri fiori, l’insetto trasporterà i pollinii e in questo modo feconderà la pianta che potrà quindi riprodursi.Non tutte le orchidee sono così generose con gli insetti impollinatori da offrire loro il nettare. La produzione di questo fluido viscoso e zuccheroso costa energia e alcune piante hanno sviluppato la capacità di imitare le specie nettarifere nell’aspetto, ma non nella sostanza: sono le cosiddette “orchidee ingannevoli”. L’insetto plana sul fiore e quando scopre che non c’è nettare è ormai troppo tardi e si è ricoperto comunque dei pollinii prodotti dalla pianta.In altri casi ingannevole è l’orchidea più di ogni cosa. Esistono infatti specie che utilizzano una forma particolare di mimetismo: il loro labello assume una forma e un colore, talvolta persino una pelosità, che ricorda quella di particolari insetti impollinatori. Producono inoltre sostanze (feromoni) tipicamente prodotte dalle femmine degli insetti per attirare i maschi, che si illudono di avere trovato una compagna e tentano quindi un amplesso con il labello. Il tentativo di approccio fa sì che i pollinii aderiscano al corpo e possano poi essere trasportati verso altri fiori.Alcune orchidee preferiscono fare da sole, sfruttando la vicinanza e la particolare conformazione dei loro organi sessuali. L’autofecondazione in alcune specie avviene semplicemente con i pollinii che cadono sullo stigma, la parte che riceve il polline durante l’impollinazione. Altre specie attuano la cleistogamia, un processo nel quale l’autoimpollinazione avviene senza che prima si apra il fiore, oppure si fecondano grazie alla particolare conformazione delle appendici filamentose sulle quali si ammassano i pollinii.(Getty Images)La particolare varietà di fecondazione può spiegare in parte come mai esistano così tante specie di orchidee, visti i numerosi incroci che si possono verificare, ma è anche vero che molte piante sfruttano meccanismi simili, pur non essendo così diffuse in tutto il mondo. Secondo alcuni gruppi di ricerca per capire meglio il mistero della grande varietà ci si deve concentrare sui semi.In un certo senso, quando si tratta di semi le orchidee puntano più sulla quantità che sulla qualità. Molte piante producono pochi semi attrezzati di sostanze nutrienti che saranno usate nella fase di quiescenza e fino al momento della germinazione. Le orchidee producono invece migliaia di minuscoli semi, leggeri e facilmente disperdibili dal vento in ampie porzioni di territorio. Non avendo un bagaglio sufficiente di sostanze nutrienti, devono ricevere un aiuto dall’ambiente e in particolare da alcune specie di funghi, che forniscono l’energia iniziale per la germinazione. Quando questa avviene e la pianta inizia a svilupparsi, il fungo riceve la propria ricompensa in termini di sostanze nutrienti con cui crescere e riprodursi.In alcune specie questa simbiosi dura per tutta la vita della pianta, con alcuni tipi di orchidee che affidano buona parte del lavoro al loro fungo di riferimento, riducendo al minimo le proprie attività metaboliche. È un sistema che non rende naturalmente possibile la germinazione di tutti i semi prodotti da un’orchidea, ma è una buona garanzia sul fatto che sulla quantità alcuni portino a termine la loro missione. È necessario che nell’ambiente ci siano i funghi adatti per innescare la simbiosi e questo spiega perché ci sono specie di orchidee tipiche di determinati ecosistemi.Circa il 70 per cento delle orchidee ha sviluppato inoltre la capacità di crescere non ancorandosi al suolo, ma ai rami e ai tronchi degli alberi (epifitismo). Sfruttano le altre piante come punti di appoggio, ma non utilizzano i loro nutrienti come fanno per esempio i funghi. Le loro radici aeree hanno un rivestimento di cellule ormai morte che proteggono le parti più intime, mentre le punte sono esposte all’ambiente circostante e sono importanti per la raccolta di acqua, attraverso l’umidità dell’aria. In Europa le orchidee sono quasi sempre terricole, con radici e bulbi affondati nel terreno, ma anche in questo caso con una grande varietà nella loro forma a seconda delle specie.Radice aerea di un’orchidea (Wikimedia)Tutte queste caratteristiche aiutano a farsi un’idea della grande complessità con cui si devono confrontare i gruppi di ricerca desiderosi di risolvere i misteri delle orchidee. Nel 2003, per esempio, uno studio provò a trovare qualche risposta in Ecuador, che ospita oltre 3.700 specie conosciute di orchidee. Dall’analisi era emerso che l’alto numero di semi prodotti da ogni orchidea e le caratteristiche dell’ambiente andino hanno favorito una rapida diffusione di queste piante, con un adattamento marcato nel corso di varie generazioni.Nel 2015 una ricerca a più ampio spettro provò a ricostruire il complesso albero evolutivo delle orchidee, utilizzando la genetica e le analisi dei fossili. Lo studio dice che le orchidee ebbero origine in un periodo compreso tra 120 e 102 milioni di anni fa, probabilmente in quella che oggi chiamiamo Australia. All’epoca i continenti erano diversi dagli attuali, e attraverso i loro semi le orchidee si espansero via via verso i tropici e in generale nell’attuale Sudest asiatico, dove si può osservare la maggiore varietà di specie finora catalogate.C’è però uno studio diffuso a settembre, per ora preliminare e non ancora sottoposto ai processi di verifica e controllo (“peer review”), che mette in dubbio la ricostruzione finora più condivisa. La ricerca si è basata sull’analisi del materiale genetico di quasi duemila specie di orchidee e ha ipotizzato che il loro antenato comune fosse nel Cretacico superiore (tra 100 e 65 milioni di anni fa) in una parte di ciò che era rimasto della Laurasia, la più settentrionale delle due grandi masse terrestri che formavano la Pangea. Le numerose specie di orchidee iniziarono a proliferare molto tempo dopo, circa cinque milioni di anni fa, portando poi alla distribuzione che osserviamo oggi con la forte presenza di queste piante in alcune aree.Il nuovo studio ha fatto discutere e aggiunge spunti importanti per ricostruire l’evoluzione delle orchidee, ma non è stato trovato molto convincente rispetto alla precedente ipotesi. Capire dove e quando tutto abbia avuto origine per queste piante è comunque importante per ricostruire le loro molteplici e variegate evoluzioni. Lo è non soltanto per arricchire le conoscenze su una famiglia di angiosperme così diffusa, ma anche a fini di conservazione. Il riscaldamento globale sta infatti modificando numerosi ecosistemi ed è uno fattori nell’impoverimento della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente. La grande diversità potrebbe non essere più un tratto peculiare delle orchidee, con una conseguente perdita di numerose specie e l’impossibilità di studiare le loro origini.Xanthopan morganii (Wikimedia)Nel suo trattato sulle orchidee, Charles Darwin raccontò di essere rimasto colpito dall’orchidea cometa (Angraecum sesquipedale) nativa del Madagascar, perché ha un prolungamento del calice molto profondo in cui si accumula il nettare. Si chiese come potesse raggiungerlo un normale insetto impollinatore e ipotizzò che potesse esistere una farfalla o una falena con una spirotromba (il piccolo tubo con cui si nutrono) sufficientemente lunga per raggiungere il fondo della cavità. La sua ipotesi fu commentata con un certo distacco dagli entomologi dell’epoca, che si dovettero però ricredere quando fu scoperta una falena (Xanthopan morganii) con una spirotromba decisamente lunga e che faceva da insetto impollinatore di quella specie di orchidea. È per questo motivo che informalmente oggi viene chiamata “orchidea di Darwin”. LEGGI TUTTO