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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’autunno

    Caricamento playerAlle 8:50 di sabato 23 settembre è finita l’estate e iniziato l’autunno. L’equinozio d’autunno è quel momento dell’anno in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Spesso si parla dell’equinozio come di un giorno intero ma è tecnicamente scorretto, perché è solo l’istante preciso in cui si verifica un fenomeno astronomico. E l’ora in cui avviene quell’istante cambia ogni anno.Visto che l’equinozio d’autunno può essere in giorni diversi, le stagioni non cambiano sempre lo stesso giorno. Il giorno dell’equinozio d’autunno ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno – l’altro è l’equinozio di primavera – in cui il dì ha la stessa durata della notte (anche se poi non è esattamente così a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre).L’inizio delle stagioni è scandito da eventi astronomici precisi: l’estate e l’inverno cominciano con i solstizi, in cui le ore di luce del giorno sono al loro massimo (estate) o al loro minimo (inverno); mentre la primavera e l’autunno cominciano il giorno degli equinozi, i momenti in cui la lunghezza del giorno è uguale a quella della notte.Tuttavia, oggi in Italia il giorno sarà ancora un po’ più lungo della notte per qualche minuto e la vera parità tra dì e notte sarà tra qualche giorno. Questo si deve a un fenomeno chiamato “rifrazione atmosferica” per cui la luce del Sole è curvata dall’atmosfera: è quella cosa per cui vediamo il Sole qualche minuto prima che sorga effettivamente.Gli equinozi e i solstizi (e le durate del dì e della notte) sono determinati dalla posizione della Terra nel suo moto di rivoluzione intorno al Sole, cioè il movimento che il nostro pianeta compie girando intorno alla sua stella di riferimento. L’equinozio è il momento in cui il Sole si trova all’intersezione del piano dell’equatore celeste (la proiezione dell’equatore sulla sfera celeste) e quello dell’eclittica (il percorso apparente del Sole nel cielo). Al solstizio invece il Sole a mezzogiorno è alla massima o minima altezza rispetto all’orizzonte.Le variazioni del momento in cui avvengono equinozi e solstizi sono causate dalla diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario (è il motivo per cui esistono gli anni bisestili, che permettono di rimettere “in pari” i conti).In Italia, la primavera cade tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre, l’inverno tra il 21 e il 22 dicembre. Oltre alle stagioni astronomiche, poi, ci sono anche quelle meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.Il momento dell’equinozio non c’entra con quello del cambio dell’ora, che quest’anno andrà spostata indietro tra sabato 28 e domenica 29 ottobre. LEGGI TUTTO

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    La più antica struttura in legno mai scoperta

    Una ricerca pubblicata mercoledì sulla rivista Nature sostiene che due tronchi incastrati insieme e trovati in un sito archeologico in Zambia, in Africa, costituiscano la più antica struttura in legno prodotta da una specie umana mai scoperta finora. Secondo lo studio hanno più di 450mila anni e precedono quindi di oltre 100mila anni i più antichi resti di Homo sapiens, l’unica specie umana attualmente esistente, la nostra. In precedenza la più antica struttura in legno mai trovata risaliva ad appena 9mila anni fa: si trattava dei resti di alcune piattaforme trovate in un lago nel Regno Unito. È ancora più vecchio il più antico oggetto manufatto di legno mai rinvenuto, il frammento di un’asse scoperto in Israele e risalente a 780mila anni fa, ma se l’abilità di altre specie umane estinte di realizzare piccoli strumenti era nota, non si sapeva che costruissero anche strutture più grandi e complesse.I due tronchi trovati nel 2019 in Zambia, e più precisamente nella riva del fiume Kalambo presso una cascata vicino al confine con la Tanzania, sono incrociati ad angolo retto. Secondo i ricercatori che li hanno studiati sono stati modificati dall’azione umana con degli strumenti di pietra, in modo che potessero incastrarsi. I risultati della datazione implicherebbero che la struttura possa essere stata costruita da ominini (il termine per definire le specie più vicine agli esseri umani moderni) come Homo erectus o Homo naledi, specie che si evolvettero dagli stessi antenati da cui proviene Homo sapiens. Si stima che la nostra specie sia comparsa circa 300mila anni fa, quindi successivamente alla realizzazione della struttura trovata in Zambia.Rispetto ai reperti in pietra, è molto più difficile che reperti in legno così antichi si conservino. In questo caso, i tronchi si trovavano immersi nell’acqua di una falda sotterranea, che ha permesso loro di preservarsi per quasi mezzo milione di anni senza andare incontro al decadimento naturale che interessa normalmente il legno. La datazione è avvenuta tramite lo studio della luminescenza dei sedimenti che li ricoprivano, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. Il noto metodo di datazione con il carbonio-14 permette di stimare l’età di materiale organico vecchio fino a 50mila anni fa.La struttura al momento della scoperta e in uno schema (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno analizzato la struttura – appartenenti a università e istituzioni britanniche, all’Università di Liegi, in Belgio, e al Museo Moto Moto di Mbala, in Zambia – sono quasi certi che i tronchi siano stati modificati dall’azione umana: per verificarlo sono state prodotte delle repliche degli utensili di pietra trovati nel sito sotto la cascata del Kalambo e le hanno usate per lavorare legni con caratteristiche simili a quello dei tronchi. I segni lasciati dalle repliche sono analoghi a quelli ritrovati sui reperti, per cui si pensa che furono fatti «intenzionalmente con utensili di pietra».La scoperta potrebbe significare che l’abilità di usare il legno per costruire degli oggetti è molto più antica di quanto noto finora e ampliare la nostra conoscenza di altre specie di ominini. Inoltre potrebbe mettere in dubbio la nozione che i primi esseri umani conducessero esclusivamente una vita nomade. Il più piccolo dei due tronchi è lungo 1 metro e mezzo: complessivamente le loro dimensioni indicano che probabilmente facevano parte di una struttura abbastanza grande. Anche se non è possibile dire con certezza che degli ominini si fossero stabiliti permanentemente nella zona della cascata, la realizzazione di una struttura come quella trovata avrà sicuramente richiesto sforzi notevoli, difficilmente spiegabili se il sito era solo un accampamento.La struttura (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno partecipato allo studio ritengono che la complessità della struttura implichi la possibilità che fu progettata e costruita da ominini che potevano collaborare in modo efficace grazie all’uso del linguaggio. Un’altra ipotesi del gruppo di ricerca è che la struttura non fosse parte di una vera e propria abitazione: poteva essere parte delle fondamenta di un riparo, di un camminamento o di una piattaforma per pescare nel fiume, ma è molto difficile giungere a conclusioni precise al riguardo.Al momento i tronchi sono conservati in Inghilterra, dove sono stati studiati, in una cisterna che replica le condizioni in cui sono stati preservati naturalmente per centinaia di migliaia di anni. Ma saranno riportati in Zambia per essere esposti al pubblico.– Leggi anche: La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    La scomparsa dei crateri

    Caricamento playerFlagstaff è una città al centro dell’Arizona (Stati Uniti), ci vivono circa 66mila persone e non ha particolari attrattive se non quella di essere una delle vie di accesso per raggiungere il Grand Canyon, a un’ora di auto più a nord. L’enorme gola è la principale attrazione turistica nella zona, una delle migliori e più evidenti testimonianze dei lenti processi geologici che in milioni di anni plasmano la Terra. Ma c’è un’altra attrazione meno nota una sessantina di chilometri a est di Flagstaff che mostra invece come una grande area del nostro pianeta possa cambiare in pochi istanti. È il Meteor Crater, un grande cratere largo 1,2 chilometri e profondo 170 metri che si formò in seguito all’impatto di un meteorite circa 50mila anni fa.Il cratere si formò quando l’altopiano del Colorado aveva un clima più fresco e umido dell’attuale: era un ampio pianoro erboso popolato da molti animali compresi i mammut. Un giorno in cielo apparve una grande meteora, probabilmente con un diametro di una cinquantina di metri, che iniziò a sgretolarsi nell’atmosfera prima di raggiungere il suolo ad alta velocità. L’energia liberata al momento dell’impatto fu enorme (10 megatoni), produsse un’ampia depressione con un margine alto una sessantina di metri, un effetto che ricorda quello che si osserva nell’acqua nei primi istanti dopo aver lanciato un sasso in una pozzanghera.Complice la sua giovane età, il Meteor Crater è considerato uno dei crateri meglio conservati della Terra, anche se i processi di erosione hanno fatto sì che le creste lungo la sua circonferenza perdessero una ventina di metri di altezza. Lentamente, ma inesorabilmente, il cratere continuerà a modificarsi fino a diventare sempre meno visibile. Accadrà in tempi lunghissimi per noi umani, ma relativamente brevi per i processi geologici che in milioni di anni cambiano il nostro pianeta. E sono proprio questi fenomeni a rendere difficile lo studio degli impatti con meteoriti che hanno riguardato la Terra e che potrebbero aiutarci a comprendere molte cose del suo passato.(NASA)Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Geophysical Research: Planets ha segnalato che le tracce dei crateri più antichi, dunque molto più vecchi rispetto al Meteor Crater, stanno scomparendo e sono ormai difficili da studiare. Secondo l’analisi, i crateri più vecchi di due miliardi di anni sono probabilmente ormai indistinguibili dalle altre formazioni rocciose, soprattutto a causa dei fenomeni di erosione naturale. Due miliardi di anni sono una dimensione temporale difficile da immaginare per i nostri tempi umani, ma non sono moltissimi per un pianeta come il nostro che ha circa 4 miliardi e mezzo di anni.La ricerca cita in particolare il caso del cratere Vredefort, il più grande cratere meteoritico conosciuto della Terra, che si trova in Sudafrica. Quando si formò a causa del grande impatto, la struttura aveva un diametro massimo stimato tra i 180 e i 300 chilometri. Si formò poco più di due miliardi di anni fa nel Paleoproterozoico, la prima delle tre ere geologiche del Proterozoico, in cui i continenti iniziarono a stabilizzarsi e iniziarono a emergere i primi lontani parenti degli eucarioti, che avrebbero poi portato a buona parte delle forme di vita che conosciamo oggi.Ciò che resta del cratere Vredefort (NASA)Secondo i calcoli dello studio se il cratere si fosse formato 200 milioni di anni prima, oggi non sarebbero più visibili le sue tracce, già ampiamente ridotte rispetto a quanto poteva essere osservato nei milioni di anni dopo l’impatto. Il fatto che i crateri scompaiano non è certo una novità, ma soffermarsi sulle implicazioni del fenomeno può aiutare a mettere nella giusta prospettiva un pezzo importante della storia del pianeta.I dati satellitari, le ricognizioni aeree e lo studio dei minerali hanno permesso di identificare con certezza circa 200 crateri dovuti a un impatto con un meteorite. I più antichi hanno intorno ai 2 miliardi di anni, proprio come nel caso del cratere Vredefort, ma secondo gli autori dello studio è probabile che i crateri siano molti di più. Non sappiamo di preciso dove avvennero alcuni degli impatti più importanti, ma sappiamo che si sono verificati perché ancora oggi possiamo riscontrarne gli effetti per lo meno indiretti.Per capire quando l’erosione fa sì che un cratere non possa essere più definito tale, semplicemente perché sono scomparse le sue strutture più rilevanti e si sono modificate le caratteristiche geologiche del territorio interessato, il gruppo di ricerca ha studiato il cratere Vredefort, concentrandosi sui minerali che si trovano nella zona dell’impatto. I ricercatori hanno raccolto campioni per 20 chilometri, mettendo a confronto le caratteristiche fisiche delle rocce presenti nel cratere con quelle che non avevano invece subito gli effetti dell’impatto, con la produzione di alte temperature che modificano la struttura dei minerali.Dal confronto è emerso che ormai le rocce legate all’impatto sono indistinguibili da quelle che non erano state coinvolte dall’arrivo del meteorite. Nel corso di miliardi di anni di piogge, vento, altri processi di erosione e geologici le differenze sono scomparse. «A un certo punto, perdiamo tutte le caratteristiche che rendono un cratere un cratere» ha spiegato uno degli autori della ricerca.Su una scala ancora più grande del cratere Vredefort, la ricerca segnala che probabilmente una parte rilevante della storia geologica del nostro pianeta è persa per sempre. La riduzione delle differenze tra aree di impatto e non, fino al loro azzeramento, è la causa principale della grande difficoltà nell’identificare zone di impatto molto antiche che potrebbero aiutare i gruppi di ricerca a comprendere altri processi. Gli impatti non solo determinarono il repentino cambiamento di ampie aree, ma ebbero probabilmente un influsso sulla formazione dei primi esseri viventi, senza contare eventi più catastrofici come quello legato all’estinzione dei dinosauri, forse il caso di impatto meteoritico più conosciuto e ancora oggi molto discusso.È probabile che crateri molto antichi siano sommersi nelle profondità oceaniche, dove la raccolta dei minerali per compiere analisi e fare confronti è più difficoltosa e richiede importanti investimenti economici. I sistemi per rilevare a distanza le caratteristiche dei fondali, nell’ambito dei progetti per mapparli, offrono talvolta indizi sulla presenza di siti anticamente interessati da un impatto meteoritico. Come mostra il caso di Vredefort, comunque, più si va indietro nel tempo più diventa difficile distinguere quelle zone.Il cratere lunare Shackleton (NASA)Per trovare nuovi spunti di ricerca e comprendere meglio le caratteristiche dei crateri alcuni gruppi di ricerca preferiscono guardare verso l’alto, spingendosi oltre l’atmosfera terrestre. La Luna, il nostro satellite naturale, è famosa per avere una grande quantità di crateri che si sono formati in seguito a impatti con meteoriti di varie dimensioni. A differenza della Terra, la Luna ha un’atmosfera del tutto trascurabile ed è quindi meno interessata dai processi di erosione, circostanza che porta i suoi crateri a non modificarsi più di tanto nel corso del tempo. LEGGI TUTTO

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    Abbiamo usato per anni farmaci contro il “naso chiuso” inefficaci

    Dopo anni di studi, test clinici e ricorsi, la scorsa settimana una commissione della Food and Drug Administration (FDA, l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci) ha definito inefficaci i farmaci orali che contengono fenilefrina, venduti da quasi vent’anni come una soluzione per alleviare la congestione nasale dovuta al raffreddore e all’influenza. I farmaci che la contengono sono molto diffusi negli Stati Uniti, ma alcune versioni simili sono vendute anche in Europa e in Italia, insieme ad altri principi attivi: come il Tachifludec, il prodotto da banco contenente fenilefrina per uso orale più venduto e pubblicizzato proprio per le sue proprietà decongestionanti.Sulla base delle conclusioni della commissione, la FDA dovrà decidere che cosa fare dei farmaci di questo tipo, che secondo la stessa agenzia negli ultimi anni hanno portato a vendite annuali intorno agli 1,7 miliardi di dollari, numero che probabilmente sottostima l’effettivo giro di affari di questi medicinali. In Italia si stima che nel 2022 siano stati venduti tra 3,5 e 4 milioni di confezioni di farmaci orali con fenilefrina indicati come decongestionanti. In entrambi i casi sono volumi di vendite ingenti per un principio attivo sul quale c’erano forti dubbi per lo meno sul suo impiego per via orale già da tempo.La fenilefrina era stata approvata dalla FDA a metà degli anni Settanta, ma aveva iniziato a essere presente nei farmaci contro il “naso chiuso” soprattutto dopo il Duemila, in seguito alla decisione di imporre maggiori limitazioni all’utilizzo della pseudoefedrina, una molecola dalla provata efficacia nel ridurre la congestione nasale. La decisione di limitarla, prima a livello statale e poi federale, derivava dal tentativo di ridurre la produzione illegale di alcune sostanze come le metanfetamine sfruttando i composti della pseudoefedrina. Messe davanti alle limitazioni che avrebbero reso più complicata la vendita dei loro prodotti, varie aziende farmaceutiche decisero di passare alla fenilefrina, nonostante circolassero già molti dubbi sull’efficacia della molecola nei prodotti orali (l’efficacia della molecola negli spray nasali è ancora dibattuta, invece).Le farmacie iniziarono a consigliare i decongestionanti con fenilefrina ai propri clienti e alcuni segnalarono ai loro medici di non avere trovato giovamento dalla terapia. Tra questi c’era Randy Hatton, oggi professore di farmacia all’Università della Florida, che fece richiesta per ottenere la documentazione utilizzata dalla FDA che aveva portato all’approvazione per quell’uso del principio attivo negli anni Settanta. Dall’analisi del materiale emerse che la FDA si era basata su 14 studi e che cinque di quelli che riportavano esiti positivi erano stati effettuati dallo stesso centro di ricerca, con risultati migliori rispetto alle altre ricerche. Escludendo quei cinque studi, la fenilefrina per uso orale ai dosaggi studiati non sembrava essere un decongestionante particolarmente efficace.Gli studi erano comunque datati ed era difficile trarre qualche conclusione più solida. Nel 2007 Hatton presentò insieme ad alcuni colleghi una petizione alla FDA, chiedendo che fosse rivista la dose di fenilefrina da impiegare arrivando a un dosaggio tale da sortire qualche effetto. La richiesta non era quindi di interrompere l’impiego della molecola, visto che il riesame delle analisi condotte negli anni Settanta aveva evidenziato qualche stranezza, ma nulla che facesse mettere completamente in dubbio il processo di approvazione o l’efficacia in assoluto della fenilefrina.In seguito alla petizione la FDA attivò un nuovo gruppo di lavoro per fare il punto sulla situazione. Furono presentati alcuni dati raccolti da un’azienda farmaceutica – poi confluita dentro Merck (al di fuori del Nordamerica è nota col nome Merck Sharp Dohme o MSD) – che voleva utilizzare la fenilefrina in un proprio prodotto contro le allergie. I dati erano a dir poco deludenti: il gruppo di ricerca per conto dell’azienda farmaceutica aveva rilevato che dopo l’ingestione buona parte della fenilefrina veniva disgregata nell’apparato digerente, con bassissime percentuali (intorno all’1 per cento) di principio attivo che finiva poi in circolazione nel sangue. La quantità di fenilefrina che raggiungeva le mucose nasali era quindi trascurabile al punto da non poter intervenire per ridurre la congestione. Erano stati inoltre segnalati studi nei quali era emerso come la fenilefrina non fosse meglio di una sostanza che non fa nulla (placebo) nel trattare la congestione nasale dovuta alle allergie da pollini.Nonostante i nuovi elementi, i lavori della commissione consultiva si conclusero senza decisioni sulla fenilefrina per uso orale: i farmaci che la impiegavano come decongestionanti potevano continuare a essere venduti, ma si richiedevano nuovi studi per capire se dosi maggiori del principio attivo portassero a qualche risultato, come già richiesto nella petizione inviata da Hatton e colleghi.I più interessati a proseguire le ricerche erano gli scienziati di Merck, alla ricerca di un prodotto per trattare le allergie. Effettuarono due test clinici i cui risultati furono pubblicati nel 2015 e nel 2016 dai quali emerse che anche aumentando molto i dosaggi, fino a quattro volte, non si riscontravano effetti nel ridurre la congestione nasale.Dopo la pubblicazione di quegli studi, Hatton e colleghi presentarono una nuova petizione alla FDA che ha infine portato alle conclusioni della scorsa settimana di un nuovo gruppo di lavoro dell’agenzia. Dei suoi sedici componenti, tutti hanno votato a favore del parere non vincolante sull’inutilità della fenilefrina. Sulla base di questa indicazione, la FDA nei prossimi mesi deciderà che cosa fare, ma secondo gli esperti appare improbabile che non siano assunte decisioni più incisive sulla questione rispetto al passato.Le decisioni della FDA potrebbero avere qualche conseguenza anche nell’Unione Europea, dove la responsabilità sui farmaci è dell’Agenzia europea per i medicinali e delle agenzie nazionali, come l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) in Italia. Nell’Unione Europea sono venduti vari prodotti decongestionanti che oltre alla fenilefrina comprendono altri principi attivi, come per esempio il paracetamolo o antinfiammatori non steroidei. In alcuni casi queste altre molecole hanno un blando effetto decongestionante, legato alla loro capacità di ridurre l’infiammazione: un minimo risultato c’è, ma non è legato alla fenilefrina.A differenza degli Stati Uniti, nell’Unione Europea sono inoltre reperibili con maggiore facilità i farmaci che contengono pseudoefedrina, la cui capacità decongestionante è nota da tempo. La molecola è presente in numerosi prodotti da banco come Actigrip e Aspirina Influenza e Naso Chiuso in Italia, con chiare indicazioni sui potenziali effetti indesiderati legati alla pseudoefedrina. Nel nostro paese questo tipo di farmaci ha fatto registrare più del doppio delle vendite rispetto a quelli con fenilefrina.In futuro anche la pseudoefedrina potrebbe essere limitata nell’Unione Europea come negli Stati Uniti, ma per motivi diversi. A febbraio di quest’anno, l’EMA ha infatti avviato una revisione in seguito a un piccolo numero di casi in cui l’assunzione di farmaci contenenti la molecola è avvenuta in persone che hanno sofferto di alcune patologie ai vasi sanguigni cerebrali. La valutazione è ancora in corso e richiederà del tempo per analizzare tutti i dati disponibili, le segnalazioni da parte della farmacovigilanza e le conoscenze maturate sulla pseudoefedrina. Al termine del processo, se necessario, la Commissione Europea adotterà nuove regole vincolanti per tutti gli stati membri. La procedura viene svolta per numerosi principi attivi e non sempre porta a nuove regole e limitazioni. LEGGI TUTTO