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    Manca tantissimo per sfruttare la fusione nucleare

    Caricamento playerLa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha citato l’importanza della fusione nucleare per produrre energia elettrica nel corso del suo discorso alla 29esima conferenza delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico (COP29), prospettando un futuro che è però ancora molto lontano e secondo i più scettici addirittura impossibile da realizzare. Nel suo intervento Meloni ha detto che, oltre a mantenere i propri impegni nella riduzione delle emissioni di gas serra e nel sostenere i paesi in via di sviluppo, l’Italia è «in prima linea» nello sviluppo della fusione nucleare e che questa sarà essenziale per arricchire la varietà di risorse impiegate per produrre energia elettrica senza ricorrere ai combustibili fossili. In realtà, sarà ancora necessario tantissimo tempo per avere qualche risultato.
    Nonostante anni di lavoro, la ricerca nel settore è infatti ancora indietro e potrebbero essere necessari decenni prima di avere un impiego a livello commerciale delle tecnologie legate alla fusione. Per questo motivo molti esperti ritengono che indicare la fusione nucleare come la soluzione a buona parte dei problemi delle emissioni, che contribuiscono al riscaldamento globale, sia una distrazione e che ci si dovrebbe concentrare sulle tecnologie già disponibili per produrre quanta più energia elettrica possibile utilizzando fonti rinnovabili e – in una certa misura – le tecnologie nucleari di cui già disponiamo basate sulla fissione.
    Da più di mezzo secolo produciamo infatti energia elettrica dal nucleare attraverso la fissione, cioè una reazione in cui i nuclei di atomi pesanti (come gli isotopi plutonio 239 e uranio 235) vengono indotti a spezzarsi, con un processo che libera una grande quantità di energia termica. Questa viene sfruttata per trasformare acqua ad alta pressione in vapore, che fa poi girare turbine cui sono collegati alternatori per produrre energia elettrica. È un sistema che dopo gli importanti investimenti iniziali per costruire un reattore, dove la reazione di fissione viene tenuta sotto controllo, permette di produrre energia elettrica a costi contenuti e con un basso impatto ambientale rispetto alla produzione dai combustibili fossili.
    La fissione comporta però la produzione di residui altamente pericolosi, le “scorie radioattive”, che devono essere conservati con cura e isolati dall’ambiente circostante. Per questo da tempo si cercano alternative, provando a imitare la fonte più grande di energia nelle nostre vicinanze: il Sole.
    Mentre nella fissione i nuclei pesanti vengono spezzati in frammenti più piccoli, nella fusione si uniscono i nuclei leggeri (come quello dell’idrogeno) per ottenerne di più pesanti. Nel processo si formano nuovi nuclei la cui massa è minore rispetto alla somma delle masse di quelli di partenza: ciò che manca è emesso come energia, che può poi essere sfruttato. È un processo semplice da descrivere, ma estremamente difficile da riprodurre artificialmente sulla Terra in modo da ottenere più energia di quanta ne venga immessa nel sistema.
    I nuclei di deuterio e di trizio (due forme più pesanti di idrogeno) si uniscono formando un nucleo di elio; la reazione libera un neutrone ed energia (Zanichelli)
    I nuclei degli atomi tendono a respingersi a vicenda (repulsione elettrica) e sono quindi necessarie temperature nell’ordine di vari milioni di °C per farli unire. Negli anni si è ottenuto qualche risultato su piccola scala, ma nelle sperimentazioni si consuma quasi sempre più energia per gestire il processo rispetto a quella che si ottiene alla fine. Il bilancio energetico è quindi negativo e il sistema non è efficiente a sufficienza. I progressi annunciati negli ultimi anni spesso con grande enfasi sono quasi sempre legati al raggiungimento di una migliore efficienza, ma i risultati sono distanti da un sistema che possa essere impiegato su larga scala e con chiari vantaggi economici.
    L’ambito di ricerca è talmente vasto e articolato da avere portato negli anni all’avvio di alcune collaborazioni internazionali, con l’obiettivo di condividere le conoscenze e i risultati. Tra le più importanti c’è ITER, progetto che coinvolge più di 30 paesi per costruire un primo reattore sperimentale a Cadarache, nel sud della Francia. Al consorzio partecipano tra gli altri l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’India e il Giappone. ITER ha subìto numerosi ritardi, ha richiesto svariati miliardi di investimenti e si stima che una centrale dimostrativa basata sulle ricerche di ITER non sarà pronta prima del 2050, ammesso sia possibile realizzarne una.
    Il sito di ITER in fase di costruzione in Francia (Commissione europea)
    Negli ultimi anni la Cina ha investito grandi risorse nella ricerca sulla fusione. All’Istituto di fisica del plasma dell’Accademia delle scienze a Hefei gli esperimenti principali sono legati al “Tokamak superconduttore avanzato sperimentale” (EAST), una sorta di grande ciambella dove si provano a riprodurre le reazioni nucleari che avvengono nel Sole. In media vengono effettuati circa 100 test al giorno, contro i 20-30 realizzati quotidianamente nel principale centro di ricerca sulla fusione in Europa. I ritmi dei gruppi di ricerca cinesi sono serrati per recuperare il divario tecnologico e rendersi ancora più competitivi.
    I tokamak sono grandi macchine sperimentali a forma di ciambella (“toroidali”) nelle quali si producono il vuoto e un intenso campo magnetico necessari per isolare (o per meglio dire “confinare”) il plasma (un fluido estremamente caldo e carico elettricamente), in modo che non entri in contatto con le pareti della ciambella. Si ritiene che in questo modo si possano creare le condizioni per la fusione termonucleare in modo controllato, ma per farlo sono necessari un importante dispendio di energia e la regolazione della densità del plasma stesso, cioè della quantità di particelle presenti al suo interno.
    Il Tokamak di JET nell’Oxfordshire, nel Regno Unito (JET)
    Più il plasma è denso e più frequentemente le particelle possono scontrarsi e fondersi, liberando energia. Un plasma molto denso è però più difficile da confinare con il campo magnetico generato dal tokamak e si deve quindi trovare un equilibrio tra la densità e la qualità del confinamento. Solo in questo modo si ottiene una reazione di fusione attiva e sostenibile, producendo più energia di quella necessaria per mantenere il plasma confinato.
    Nella primavera di quest’anno, un gruppo di ricerca della National Fusion Facility di San Diego (California) ha annunciato di avere ottenuto per un paio di secondi un progresso significativo nella densità del plasma, pur mantenendo un buon confinamento grazie a una nuova configurazione del tokamak. Le conoscenze acquisite con l’esperimento potrebbero essere applicate al reattore di ITER, migliorando la sua capacità di produzione dell’energia elettrica, ma anche per questo saranno necessari anni di lavoro.
    Un approccio alternativo ai tokamak prevede invece l’impiego di potenti laser, che convogliano in contemporanea un impulso luminoso verso un minuscolo cilindro di metallo, che raggiunge in pochi istanti una temperatura intorno ai 3 milioni di °C. Il cilindro viene vaporizzato e si produce un’implosione che comprime una sfera di pochi millimetri di deuterio e trizio, due forme più pesanti di idrogeno. L’implosione fa sì che i due elementi fondano in elio, producendo la fusione vera e propria. Anche in questo caso, il problema rimane il bilancio energetico.
    Alla COP29 Meloni ha citato la fusione nucleare anche per ricordare il recente incontro del World Fusion Energy Group, un gruppo di lavoro organizzato dal ministero degli Esteri e dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) che si è riunito per la prima volta a Roma lo scorso 6 novembre. Il gruppo ha lo scopo di promuovere la cooperazione internazionale tra governi, centri di ricerca e imprese per la condivisione di conoscenze sulla fusione e la definizione di standard condivisi. Il governo ha legato il suo avvio alle attività connesse alla transizione energetica, ma al momento appare improbabile che una tecnologia distante decenni da eventuali applicazioni commerciali possa avere un ruolo nel passaggio dal consumo dei combustibili fossili a fonti sostenibili per la produzione di energia elettrica.
    Fare previsioni sulla fusione nucleare è pressoché impossibile e secondo i più scettici non si riuscirà mai a ottenere sistemi efficienti per la produzione di energia elettrica. Al di là degli annunci politici, le aspettative rimangono comunque alte, con miliardi di euro investiti a livello mondiale per finanziare ricerca e sviluppo per una tecnologia che segnerebbe una trasformazione radicale nella produzione di energia elettrica, che diventerebbe enormemente più economica e accessibile. LEGGI TUTTO

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    «L’Italia è all’avanguardia sulla fusione nucleare»

    Mercoledì la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni è intervenuta alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite in corso a Baku, in Azerbaijan, e nel suo discorso ha parlato di fusione nucleare. Secondo Meloni l’Italia «è all’avanguardia» in questo ambito, e ha menzionato la fusione tra le forme di produzione di energia da utilizzare nel processo di transizione energetico necessario alla riduzione delle emissioni di gas serra.La fusione nucleare tuttavia è una tecnologia non ancora utilizzata commercialmente. Secondo la maggior parte degli esperti internazionali di energia nucleare, nessun paese sarà in grado di produrre energia da fusione nucleare su larga scala prima del 2050 circa. I più cauti parlano di 2060. Ma l’aumento delle temperature globali dipende in gran parte da quanto si riusciranno a diminuire le emissioni di gas serra già nel prossimo decennio. Per questo la fusione non può essere considerata tra le tecnologie che permetteranno ai paesi del mondo di rispettare i termini dell’accordo di Parigi del 2015, il cui obiettivo più ambizioso è mantenere l’aumento di temperatura rispetto ai livelli pre-industriali inferiore a 1,5 °C.
    Meloni più precisamente ha detto:
    Abbiamo bisogno di un mix energetico bilanciato nel processo di transizione, dobbiamo usare tutte le tecnologie disponibili, non solo le rinnovabili, ma anche il gas naturale, i biocarburanti, l’idrogeno, la cattura di CO2 e, in futuro, la fusione nucleare, che potrebbe produrre energia pulita, sicura e senza limiti. L’Italia è all’avanguardia sulla fusione nucleare. Nel contesto della nostra presidenza del G7 abbiamo organizzato il primo incontro del World Fusion Energy Group, patrocinato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Vogliamo usare questa tecnologia che potrebbe segnare una svolta, trasformando l’energia da un’arma geopolitica a una risorsa largamente accessibile.
    La fusione non va confusa con la fissione nucleare, la tecnologia utilizzata nelle centrali nucleari esistenti. In una reazione di fissione i nuclei di atomi di elementi come il plutonio e l’uranio vengono indotti a spezzarsi e nel processo viene liberata una grande quantità di energia termica: nelle centrali questa energia è usata per trasformare acqua ad alta pressione in vapore, che fa poi girare turbine cui sono collegati alternatori per produrre energia elettrica.
    Nella fusione invece si uniscono i nuclei leggeri (come quello dell’idrogeno, un elemento diffusissimo sul pianeta) per ottenerne di più pesanti. Questo processo porta alla formazione di nuovi nuclei la cui massa è minore rispetto alla somma delle masse di quelli di partenza: la massa che manca è emessa come energia, che poi può essere sfruttata.
    Nelle ultime settimane diversi esponenti del governo italiano hanno parlato della possibilità di costruire una centrale nucleare, di nuova generazione, ma comunque a fissione. Se ne è discusso anche per via della possibilità, per il momento molto ipotetica, di costruirla a Marghera, vicino a Mestre, in Veneto. Meloni non ha menzionato la fissione nucleare nel suo discorso.

    – Leggi anche: Il governo sta lavorando alla reintroduzione del nucleare in Italia

    Per quanto riguarda le centrali a fusione, Eni, la più grande azienda energetica petrolifera italiana, sta partecipando a un progetto di studio del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston che prevede la realizzazione di un primo impianto in grado di immettere energia elettrica in rete «entro i primi anni Trenta».
    In passato l’Italia aveva delle centrali nucleari a fissione che però sono state dismesse in seguito al referendum abrogativo del 1987. Le scorie nucleari prodotte da quelle centrali e da altri usi industriali dovranno essere collocate in un deposito nazionale di lungo periodo, di cui si discute da anni senza riuscire a trovare un comune idoneo e favorevole a ospitarlo, almeno per il momento.

    – Leggi anche: Perché la fusione nucleare ci interessa tanto LEGGI TUTTO

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    La ricercatrice che si è iniettata dei virus per curarsi un tumore

    Caricamento playerIn Croazia una ricercatrice ha sperimentato su sé stessa un trattamento che consiste nell’iniettare virus nei tessuti tumorali, in modo da indurre il sistema immunitario ad attaccarli, con l’obiettivo di curare in questo modo anche la malattia. A quattro anni di distanza, il tumore non si è più presentato e sembra quindi che la terapia abbia funzionato, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire. Non è la prima volta in cui viene provato un trattamento di questo tipo, ma il fatto che la ricercatrice lo abbia provato su di sé e al di fuori di un test clinico vero e proprio ha aperto un ampio dibattito, soprattutto sull’opportunità dell’iniziativa da un punto di vista etico.
    Beata Halassy ha 53 anni ed è una virologa dell’Università di Zagabria. Nel 2020 le era stato diagnosticato un tumore al seno in un’area già trattata in precedenza per un tumore dello stesso tipo. Non volendosi sottoporre a una chemioterapia per trattare la nuova recidiva, Halassy aveva iniziato a documentarsi su alcuni approcci alternativi e sperimentali per provare a trattare i tumori, arrivando alla conclusione che potesse applicarne uno direttamente a sé stessa, al di fuori delle normali sperimentazioni.
    Durante le ricerche Halassy si era in particolare concentrata sulla “viroterapia oncolitica” (OVT), cioè un tipo di trattamento che prevede l’impiego di particolari virus per indurre il sistema immunitario a reagire più efficacemente contro le cellule tumorali. L’OVT ha una storia relativamente lunga di test clinici su gruppi di pazienti con tumori ormai in stadio avanzato, mentre viene sperimentata da meno tempo sulle forme tumorali ai loro primi stadi. In alcuni paesi è permesso l’impiego di alcune tecniche specifiche di OVT per trattare i melanomi metastatici (i tumori della pelle che si diffondono ad altri tessuti), mentre a oggi non ci sono terapie autorizzate per trattare altre forme di tumore, come quello al seno.
    Da virologa, Halassy aveva le conoscenze e i mezzi per coltivare in laboratorio i virus che avrebbe poi potuto usare su sé stessa per tentare una OVT, a scopo sperimentale anche senza particolari autorizzazioni. Decise di utilizzare il virus del morbillo e il virus della stomatite vescicolare (VSV), che infetta principalmente il bestiame e che negli esseri umani causa sintomi simili a quelli di una lieve influenza. Entrambi i virus sono usati da tempo nelle sperimentazioni per infettare i tipi di cellule tumorali come quelle che aveva sviluppato Halassy, anche se con esiti alterni.
    In generale, un virus si lega alla membrana cellulare e inietta poi il proprio materiale genetico all’interno della cellula, sfruttandola per farle produrre nuove copie di sé stesso. Alla morte della cellula, le copie si diffondono e si legano ad altre cellule, iniettano il loro materiale genetico e la replicazione del virus prosegue. L’OVT ha tra i propri scopi lo sfruttamento di questo processo per far sì che i virus causino la morte delle cellule tumorali, attirando intanto l’attenzione del sistema immunitario che intercetta la presenza dei virus e reagisce distruggendo le cellule infettate che sono quelle che stanno causando il tumore (spesso il sistema immunitario non riesce a riconoscere come pericolosa una cellula tumorale e non interviene).
    Halassy ha utilizzato forme attenuate dei due virus per non ammalarsi, un po’ come si fa con i vaccini che contengono virus resi innocui, ma la cui presenza è sufficiente per insegnare al sistema immunitario a riconoscerli per eventuali incontri futuri coi virus veri e propri. Nel corso di due mesi, la virologa ha preparato più trattamenti a base dei virus che sono stati poi iniettati direttamente nell’area del suo tumore al seno. L’oncologa che l’aveva in cura ha accettato di seguirla durante la sperimentazione, in modo da intervenire rapidamente nel caso in cui si fosse reso necessario un ritorno a trattamenti più convenzionali basati sulla chemioterapia.
    Nel corso del trattamento, il tumore si è via via ridotto e si è separato dall’area in cui stava crescendo, rendendo più semplice la successiva rimozione chirurgica. I tessuti asportati sono stati poi analizzati ed è stata rilevata un’alta concentrazione di cellule immunitarie, il cui scopo è quello di segnalare e distruggere sia i virus sia le cellule infettate, che erano quelle tumorali.
    Considerati i risultati della sperimentazione, Halassy aveva pensato che potesse essere utile rendere pubblico il proprio caso personale, ma aveva faticato prima di trovare una rivista scientifica disposta a pubblicare il suo studio. La ricerca è stata infine pubblicata su Vaccines lo scorso agosto, ma è diventata molto commentata e discussa soprattutto nelle ultime settimane dopo essere stata notata da alcuni esperti. Nello studio Halassy spiega che dopo l’intervento chirurgico ha assunto per un anno il trastuzumab, un farmaco antitumorale che si è mostrato efficace nel bloccare la crescita e la diffusione di alcuni tipi di cellule del cancro al seno.
    È difficile stabilire che ruolo abbia avuto il trattamento adiuvante con trastuzumab nell’evitare nuove recidive negli ultimi quattro anni. La presenza di un’alta concentrazione di cellule del sistema immunitario suggerisce comunque che il trattamento con i due tipi di virus sia stato efficace proprio nello stimolare una risposta immunitaria, che insieme all’azione dei virus ha reso possibile la distruzione delle cellule tumorali.
    Diversi osservatori hanno fatto notare come Halassy abbia effettuato la sperimentazione su sé stessa senza organizzare un test clinico con più persone e senza seguire i criteri solitamente adottati in questi casi, facendo rientrare il proprio caso nell’aneddotica medica con una scarsa rilevanza. È difficile infatti derivare da un unico caso dati che possano essere applicati in generale a gruppi di persone più ampi con problemi di salute simili. L’autosomministrazione porta inoltre con sé numerose implicazioni etiche.
    Halassy si è assunta non pochi rischi per la salute: i virus del morbillo e della stomatite vescicolare sono considerati relativamente sicuri, ma l’uso di preparati virali non di grado clinico, prodotti in laboratorio e sottoposti a processi di purificazione fai-da-te, può rendere poco sicuro il trattamento. Halassy era chiaramente consapevole dei rischi e dei benefici del trattamento, ma data la propria condizione di paziente la sua stessa valutazione del rischio potrebbe essere stata deformata: per questo motivo di solito è prevista una revisione da parte di un comitato etico, proprio per valutare in maniera indipendente il rapporto tra i rischi e i benefici di una sperimentazione.
    È stato inoltre osservato come il lavoro di Halassy possa creare false speranze o incoraggiare altri pazienti, in difficoltà a causa della loro malattia, a cercare di replicare il suo trattamento, mettendo a rischio la loro salute. Halassy ha detto di ritenere basso il rischio di emulazione, considerato che il trattamento richiedeva comunque una particolare preparazione dei virus che non può essere effettuata in tutti i laboratori e che richiede diverse conoscenze, sia sul piano teorico sia su quello pratico. LEGGI TUTTO

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    Il 2024 sarà l’anno più caldo mai registrato

    Caricamento playerAlla COP29 di Baku, in Azerbaijan, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) ha presentato un rapporto provvisorio sullo stato del clima nel 2024 che dice che quest’anno sarà il più caldo mai registrato in termini di temperature medie globali. Tra gennaio e settembre la temperatura media terrestre è stata maggiore di 1,54 °C rispetto ai livelli preindustriali, cioè rispetto al periodo compreso tra il 1850 e il 1900, con un margine di errore di poco più di un decimo di grado. A questo aumento della temperatura ha contribuito “El Niño”, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e influenza il meteo di gran parte del pianeta, ma il suo effetto si è sommato a quello del riscaldamento causato dai gas serra prodotti dalle attività umane.
    Detto in altre parole, nei primi nove mesi dell’anno è stato superato il limite di 1,5 °C fissato come obiettivo più ambizioso dall’accordo sul clima di Parigi del 2015, il più importante trattato internazionale degli ultimi anni per contrastare il riscaldamento globale. Non significa però che l’accordo di Parigi sia fallito, ha sottolineato la segretaria generale della WMO Celeste Saulo: si potrà considerare sfumato solo se la temperatura media globale sarà superiore di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale per almeno vent’anni. Se si considerano gli ultimi vent’anni le medie sono ancora al di sotto del limite.
    Il limite di 1,5 °C è più politico che scientifico, ma ha un forte valore simbolico: durante la COP21, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite durante la quale l’accordo venne ultimato, fu scelto sotto le pressioni dei paesi più colpiti dalle conseguenze negative della crisi climatica e tuttora, nonostante sembri sempre più difficile riuscire a rispettarlo, la comunità internazionale sta cercando di non superarlo.
    L’anno scorso l’Organizzazione meteorologica mondiale aveva stimato come molto probabile che la temperatura media globale, calcolata su un anno intero, sarebbe stata superiore di più di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale entro il 2027.
    Il rapporto della WMO dice anche che i dieci anni compresi tra il 2015 e il 2024 risulteranno il decennio più caldo mai registrato, e segnala che una serie di fenomeni legati al riscaldamento globale stanno accelerando: la perdita di ghiaccio dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e il riscaldamento degli oceani. Tra il 2014 e il 2023 il livello del mare medio globale è aumentato di 4,77 millimetri all’anno, più del doppio del tasso di aumento registrato tra il 1993 e il 2002. Per quanto riguarda i ghiacciai, il rapporto dice che nel 2023 hanno perso una massa di ghiaccio pari al quintuplo dell’acqua contenuta nel mar Morto, in Medio Oriente: dal 1953, cioè da quando si è cominciato a stimare la perdita di massa dei ghiacciai, non c’era mai stata una diminuzione di portata comparabile.
    Il precedente anno più caldo mai registrato era stato il 2023. LEGGI TUTTO

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    Con una proboscide ci fai di tutto

    Caricamento playerAndrew Schulz è un ingegnere meccanico e biofisico al Max Planck Institute, una delle istituzioni scientifiche più importanti della Germania, e da qualche tempo si è appassionato agli elefanti, in particolare alle loro proboscidi. Osservandole in pachidermi di diverse età, si è chiesto come mai fossero già rugose alla nascita e da quella curiosità è nata una ricerca, che segnala come le rughe siano essenziali per rendere mobili e snodate le proboscidi, uno degli organi più versatili dell’intero regno animale.
    Gli elefanti sono sicuramente i proboscidati per antonomasia, ma a ben guardare le proboscidi sono diffuse in molte altre specie, spesso minuscole. Le farfalle e le mosche hanno proboscidi (tecnicamente “spiritrombe”) per raggiungere il cibo e nutrirsi, mentre altri mammiferi hanno proboscidi più corte e tozze come quelle del tapiro e dell’elefante marino. La parola stessa deriva dal greco antico προβοσκίς, cioè “davanti” (προ-) e “nutrire” (βόσκω), che descrive efficacemente la funzione di avvicinare il cibo alla bocca.
    Nel caso degli elefanti, la proboscide è un’estensione flessibile e a forma di tubo del naso e del labbro superiore della bocca. È un organo con alle spalle milioni di anni di evoluzione, si stima infatti che i primi animali proboscidati fossero comparsi in Africa durante il Paleocene superiore, quasi 60 milioni di anni fa. Erano animali piccoli se confrontati con gli elefanti dei giorni nostri ed erano probabilmente anfibi. Nel corso del Miocene inferiore, quindi circa 18 milioni di anni fa, i discendenti di quelle prime specie iniziarono a diffondersi nell’Eurasia e più tardi nel Nord America. In questo periodo sarebbero comparsi i primi mammut e i gomfoteri, che possiamo considerare come il ramo evolutivo da cui ebbero poi origine gli elefanti odierni.
    Oggi ci sono solamente tre specie viventi di elefanti: l’elefante asiatico (Elephas maximus), l’elefante africano (Loxodonta africana) e l’elefante africano di foresta (Loxodonta cyclotis), questi ultimi due strettamente imparentati. Gli elefanti africani e indiani hanno avuto una storia evolutiva distinta per milioni di anni e questo spiega alcune delle loro diversità, dovute a mutazioni casuali e alle diverse condizioni ambientali in cui si sono diffusi nel corso del tempo. Le differenze, per quanto all’apparenza minime, riguardano anche le proboscidi.
    Gli elefanti africani hanno due “dita” sulla punta della proboscide: sono un paio di protuberanze triangolari che permettono di pinzare e afferrare gli oggetti, anche di piccole dimensioni, con movimenti molto fini e precisi per animali che possono raggiungere un’altezza di quasi 4 metri e un peso intorno alle 10 tonnellate. A differenza dei loro colleghi africani, gli elefanti asiatici hanno un solo “dito” e questo si riflette sulla loro capacità di afferrare gli oggetti: invece di pinzarli, li raccolgono avvolgendoci intorno la proboscide. L’ipotesi più condivisa è che questa differenza sia derivata da condizioni ambientali per la diversa disponibilità di cibo: gli elefanti africani hanno una dieta più varia, mentre quelli asiatici si nutrono principalmente di erba, foglie e fronde che possono raccogliere facilmente avvolgendoci intorno la proboscide.
    Le due “dita” sulla punta della proboscide di un elefante africano (Mark Kolbe/Getty Images)
    Il peso di una proboscide di un individuo adulto è in media intorno ai 130 chilogrammi e può sollevare pesi fino a 250 chilogrammi. È una capacità notevole se si considera che la proboscide è priva di un’impalcatura rigida formata da ossa e che è per lo più formata da decine di migliaia di fasci muscolari, tenuti insieme dal tessuto connettivo: la pressione del sangue contribuisce a mantenerla tonica e al tempo stesso flessibile (per questo viene definita un “idrostato muscolare”). E proprio grazie alla flessibilità, gli elefanti possono usarla per una grande varietà di scopi, non solo per raccogliere il cibo ma anche per percepire l’ambiente che hanno intorno.
    La proboscide è in primo luogo un naso e gli elefanti hanno un senso dell’olfatto estremamente spiccato, tanto da poter odorare a distanza di chilometri la presenza di una pozza d’acqua utile per abbeverarsi. Il modo in cui odorano è comune tra i mammiferi, esseri umani compresi, e comprende i recettori nel naso che rilevano la presenza di particolari molecole sospese nell’aria e il bulbo olfattivo, il principale centro nervoso per distinguere gli odori. Ma a differenza di altri animali, gli elefanti hanno più recettori e soprattutto il bulbo olfattivo più grande tra tutti i mammiferi, e lo sanno usare molto bene.
    Qualche tempo fa, un gruppo di ricerca lo ha messo alla prova offrendo ad alcuni elefanti la scelta tra due bidoni, all’interno dei quali era rispettivamente nascosta una pianta di cui vanno ghiotti e una con un odore molto simile, ma che non incontra i loro gusti. Gli elefanti sono riusciti a distinguere facilmente la loro pianta preferita solo dall’odore e ci sono riusciti anche in un altro esperimento più elaborato, dove dovevano seguire un percorso a bivi, con una strada che portava verso il loro pasto preferito e un altro verso quello che odora quasi allo stesso modo, pur essendo meno appetitoso.
    Avere un ottimo olfatto è utile anche per tenersi alla larga da eventuali predatori, percependone la presenza a grande distanza, e per riconoscere gli individui appartenenti al proprio gruppo. Gli elefanti vivono in strutture sociali complesse, organizzate in gruppi di femmine imparentate tra loro e che fanno poi riferimento a una matriarca che orienta e guida l’intero gruppo. È di solito la matriarca a produrre un verso molto forte, un barrito, aiutandosi con la proboscide per diffondere onde sonore che grazie alla propagazione anche nel suolo possono essere percepite a chilometri di distanza da altri gruppi di elefanti. Quando poi avviene un incontro, gli elefanti usano la proboscide per odorarsi e indagare la bocca degli altri individui, per riconoscersi e mantenere una certa gerarchia. Il ricongiungimento con i gruppi di maschi, che talvolta si allontanano per lungo tempo dal gruppo di femmine con i piccoli, è mediato da queste attività rese possibili dalla proboscide.
    Avere un naso mobile lungo tra il metro e il metro e mezzo offre comunque molte altre opportunità, che ogni individuo interpreta a proprio modo, a ulteriore dimostrazione della versatilità della proboscide. Questa può essere usata per staccare delle fronde da usare per scacciare mosche e altri insetti volanti, oppure per raccogliere della sabbia da spruzzarsi addosso per raffreddarsi in una giornata particolarmente calda. E la proboscide serve naturalmente anche per bere, anche se non nel modo in cui immaginano in molti.
    (Cameron Spencer/Getty Images)
    Gli elefanti non usano la proboscide per bere direttamente l’acqua, cosa che sarebbe poco pratica e fastidiosa, come sa chi “beve” un po’ d’acqua col naso quando fa una nuotata. Durante una bevuta, un elefante aspira e raccoglie nella proboscide fino a 8-10 litri di acqua, poi la orienta verso la bocca e se li spruzza in gola per ingerirli. E a proposito di nuoto, specialmente gli individui più giovani usano la proboscide come una sorta di boccaglio per respirare quando sono sott’acqua, lasciando che la sua estremità affiori sopra il pelo dell’acqua.
    Un elefante appena nato ha già una buona padronanza della propria proboscide ed è stata questa caratteristica a incuriosire Schulz, il ricercatore che ne ha studiato le rughe. Inizialmente pensava che le proboscidi diventassero rugose col tempo e con l’uso, un po’ come avviene con le rughe di espressione negli esseri umani. Schulz con il suo gruppo di ricerca ha studiato fotografie, individui conservati nei musei di storia naturale e altri vivi negli zoo, mettendo a confronto elefanti di diverse età e provenienze, sia africane sia asiatiche.
    Lo studio ha permesso di identificare la presenza di rughe con caratteristiche simili in punti specifici delle proboscidi, in corrispondenza dei punti in cui sono maggiormente snodate. Ne hanno osservate in media 126 ricorrenti nelle proboscidi degli elefanti asiatici e 83 in quelli africani. La maggiore quantità di rughe negli elefanti asiatici potrebbe derivare dal fatto che le punte delle loro proboscidi sono meno prensili, avendo un solo “dito”, e che quindi debbano disporre di una maggiore flessibilità per compiere con l’intera proboscide alcuni movimenti per afferrare gli oggetti.
    (Royal Society Open Science)
    Il gruppo di ricerca ha poi studiato alcuni feti di elefante conservati nei musei di storia naturale e immagini da archivi e altri studi di feti in varie fasi del loro sviluppo. In questo modo ha potuto ricostruire lo sviluppo della proboscide e delle sue rughe. Queste fanno la loro comparsa circa 20 giorni dopo l’inizio della lunga gravidanza degli elefanti, che ha una durata di 22 mesi. Nei cinque mesi successivi la quantità di rughe aumenta enormemente, con una maggiore concentrazione nel punto di maggiore flessibilità della proboscide.
    Con la crescita e il tempo, alle rughe presenti dalla nascita si aggiungono quelle dovute all’utilizzo, la cui disposizione varia da elefante a elefante. Ogni individuo ha infatti una direzione preferita per avvolgere la proboscide, verso destra o verso sinistra, un po’ come un essere umano è destrimane o mancino. Osservando la disposizione delle rughe è possibile capire da che parte preferisca girare la proboscide ogni individuo, perché si formano meno pieghe sulla parte che rimane verso l’esterno.
    Il gruppo di ricerca ha notato che la disposizione dei peli sulla proboscide può essere un buon indicatore per capire come viene piegata da ogni individuo. I peli sono più radi sulla parte della proboscide che rimane esposta verso l’esterno, probabilmente perché striscia con maggiore frequenza contro il suolo mentre un elefante prova ad afferrare qualcosa.
    Capire meglio come sono fatti e si comportano gli animali che condividono con noi il pianeta è interessante di per sé, ma Schulz da ingegnere meccanico vede nel proprio studio anche uno sbocco utilitaristico. Comprendere come funzionano le proboscidi potrebbe consentire di migliorare i robot che utilizzano parti molli e fluidi, sia per muoversi sia per svolgere alcuni compiti per esempio nella ricerca di persone disperse tra le macerie e i detriti di un edificio, attraversando passaggi troppo stretti e pericolosi per il personale di soccorso. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Questa settimana diverse fotografie di animali sono in qualche modo legate all’attualità, a quello che succede nel mondo intorno a noi: ci sono cavalli in fuga dagli incendi in California e altri in mezzo a un fiume in piena nel sud della Spagna; c’è un cane a Kharkiv che corre mentre i militari ucraini sparano verso le posizioni russe e un bovino al confine tra Libano e Israele. Poi ci sono fotografie da un safari notturno in Thailandia con un orso labiato, un fenicottero rosso e una gru coronata grigia. Per finire con un diavolo della Tasmania. LEGGI TUTTO

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    Un pinguino imperatore è arrivato per sbaglio in Australia

    Caricamento playerVenerdì scorso su una spiaggia australiana è stato trovato un animale finito decisamente fuori strada: un pinguino imperatore, specie che vive solo in Antartide. Per arrivare fino a Denmark, in Australia Occidentale, l’uccello deve quindi aver nuotato per almeno 3.400 chilometri.
    Il pinguino è stato avvistato da Aaron Fowler, un muratore di 37 anni. Ha detto al New York Times di aver notato qualcosa uscire dall’acqua, e di essersi subito accorto che era troppo grosso per essere un uccello marino comune. I pinguini imperatore (Aptenodytes forsteri) sono in effetti la specie più grossa e pesante di pinguino: in media sono alti poco più di un metro.
    Secondo quanto detto da Fowler, il pinguino non sembrava intimidito dal nuovo ambiente né dalle persone presenti, anzi appariva «per nulla timido» e «molto amichevole». I pinguini imperatore sono considerati l’unica specie di pinguino non territoriale. Fowler ha anche detto che il pinguino avrebbe provato a scivolare sulla pancia, come fanno solitamente i suoi simili fra i ghiacci antartici. Si sarebbe però «piantato con la faccia nella sabbia» bianca della spiaggia, per poi rialzarsi e scrollarsi dalla sabbia.

    Il pinguino è stato preso in carico dal Dipartimento per la Biodiversità, la Conservazione e le Attrazioni dell’Australia Occidentale (lo stato federato australiano dove si trova Denmark). Un portavoce del dipartimento ha detto a CNN che il pinguino era malnutrito e la sua riabilitazione, presso un centro locale per la fauna selvatica, richiederà alcune settimane.
    Nonostante siano animali prevalentemente associati all’Antartide, le 18 specie esistenti di pinguino sono diffuse sulle coste di tutto l’emisfero sud del mondo: anche sull’isola principale dell’Australia esistono popolazioni autoctone di pinguino, ma non di pinguino imperatore. Sulle coste meridionali australiane, inclusa la zona di Denmark, vivono i pinguini minori blu, mentre nei vari territori antartici australiani vivono diverse altre specie, fra cui i pinguini imperatore.

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    La specie non è in grave pericolo di estinzione, ma è comunque messa in difficoltà dai cambiamenti climatici: vivono gran parte della loro vita sui ghiacci marini dell’Antartide, le cui dimensioni si stanno riducendo negli ultimi anni. Gli studi condotti su diverse colonie di pinguini imperatore in Antartide indicano che per i pulcini è sempre più difficile sopravvivere. Con la scomparsa dei ghiacci alcuni pinguini si sono spostati alla ricerca di nuove zone per riprodursi.
    La professoressa Dee Boersma dell’Università di Washington ha detto al New York Times che non è insolito che i pinguini imperatore si spostino anche molto alla ricerca di cibo. Inoltre i giovani pinguini imperatore sono noti per esplorare molto le zone attorno alle colonie. Il viaggio del pinguino trovato a Denmark è però straordinariamente lungo: forse è stato portato fuori strada dalla corrente. Secondo Boersma comunque finché c’è abbondanza di cibo il pinguino dovrebbe trovarsi abbastanza bene.
    Nel 2011 ci fu un caso simile: un pinguino imperatore divenne famoso per essere finito in Nuova Zelanda, circa 3.200 chilometri a nord delle coste antartiche. Aveva quindi fatto un viaggio di qualche centinaio di chilometri più corto di quello trovato venerdì. Non poteva essere riportato in Antartide perché nel viaggio aveva contratto malattie non presenti sul continente, e quindi le autorità neozelandesi avevano pensato di lasciarlo morire sulla spiaggia, che si trova vicino alla capitale Wellington. La reazione della gente, che lo aveva soprannominato Happy Feet (come il famoso film di animazione del 2006), spinse invece a farlo curare: dopo un percorso di riabilitazione fu rimesso in mare, ma dopo circa tre anni il dispositivo che lo monitorava smise di inviare segnali, forse perché Happy Feet era stato mangiato.
    In qualche caso ci sono stati avvistamenti di pinguini anche sulle coste dell’Alaska e del Canada, cioè vicino alle parti all’estremo nord del mondo, anziché in quelle all’estremo sud dove vivono solitamente i pinguini. Quasi sicuramente arrivano lì dopo essere stati caricati a bordo dei pescherecci che lavorano nell’oceano Pacifico. Nel 1958 fu invece un giornalista italiano, Antonello Marescalchi (in seguito divenuto corrispondente da New York per la Rai) che decise di portare due pinguini in Alaska, essenzialmente per ottenere un po’ di notorietà (gli animali morirono nel giro di due mesi).

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    Dovremmo masticare un po’ più a lungo

    Chi mangia velocemente si è sentito dire almeno una volta nella vita di masticare piano perché “la prima digestione avviene nella bocca”. Questo invito è di solito accompagnato dal consiglio di masticare un preciso numero di volte: 32, cioè tante quanti i denti che si hanno in bocca, oppure per i credenti 33 “come gli anni di Cristo”. Benché non ci sia in realtà una quantità universalmente riconosciuta, e buona per tutte, indugiare un poco sulla masticazione a ogni boccone può essere una buona pratica per digerire più facilmente gli alimenti e perfino per rendere più efficace una dieta dimagrante.Impariamo a masticare da piccoli e continuiamo a farlo per tutta la vita quando mangiamo qualcosa. I denti sono i principali protagonisti della masticazione: ci aiutano a strappare il cibo e a sminuzzarlo, riducendolo in frammenti sempre più piccoli. Lingua e palato favoriscono questo processo insieme alla produzione di saliva, che si mischia al cibo sminuzzato contribuendo ad ammorbidirlo e ad amalgamarlo in modo da poterlo ingoiare e aiutare il suo passaggio nell’esofago, il “tubo” che mette in comunicazione la bocca con lo stomaco.
    Una volta raggiunto lo stomaco, il cibo masticato e ingoiato si tuffa nei succhi gastrici, la cui forte acidità contribuisce a scomporlo nelle sostanze nutrienti che saranno poi assimilate dall’intestino. Lo stomaco ha una grande capacità digestiva, ma avendo a disposizione solamente strutture molli e non ossee come la bocca può impiegare molto tempo a scomporre parti di cibo poco sminuzzate, magari ingoiate durante un pasto fatto di fretta.
    Alcuni alimenti, infatti, non possono essere sempre scomposti dallo stomaco se sono stati ingeriti interi. Il rivestimento esterno del mais, per esempio, difficilmente si scompone in seguito all’azione dei succhi gastrici, ed è il motivo per cui dopo un’abbuffata di pop-corn o una più sobria insalata mista talvolta si trova con sorpresa un chicco di mais rimasto intero nonostante il lungo viaggio attraverso tutto l’apparato digerente. La presenza giallo vivo prima di azionare lo sciacquone è la dimostrazione che alcuni alimenti se non sono sminuzzati con la masticazione rimangono poco o per nulla accessibili e non vengono digeriti.
    Qualche chicco di mais mal digerito ogni tanto non è certo un problema, ma ci sono casi in cui una masticazione scorretta può avere conseguenze. Le persone con problemi ai denti, o all’articolazione che comprende la mandibola, non riescono a sminuzzare più di tanto gli alimenti e di conseguenza hanno maggiori probabilità di avere problemi digestivi. Tra i più frequenti ci sono un senso di fastidio, o dolore, nella parte superiore dell’addome in prossimità della parte alta dello stomaco (dispepsia) e acidità o crampi addominali.
    Oltre a favorire la digestione, masticare con una certa calma aiuta l’organismo a sviluppare la sensazione di sazietà. L’apparato digerente impiega infatti un po’ di tempo prima di inviare i segnali al cervello per far percepire la pienezza dello stomaco. Alcuni segnali sono legati all’espansione dello stomaco stesso, ma altri sono dovuti ai nutrienti che entrando in contatto con le pareti interne soprattutto dell’intestino inducono la produzione di alcuni ormoni, che hanno il compito di ridurre il senso di fame.
    Una revisione sistematica e una meta analisi (in sostanza uno studio di studi scientifici) ha segnalato qualche anno fa come una maggiore attenzione alla masticazione si traduca in una gestione migliore dell’appetito e di conseguenza della quantità di cibo ingerita. Le persone che si abituano a masticare più a lungo dicono di sentire meno il senso di fame, mentre si è anche registrata una maggiore produzione degli ormoni che regolano la fame.
    Alcuni studi hanno rilevato che le persone obese masticano poco e per poco tempo rispetto alle persone di peso normale. Anche per questo motivo quando viene prescritta una dieta dimagrante tra i consigli c’è quello di abituarsi a masticare più a lungo, in modo da favorire la digestione e soprattutto percepire meglio il senso di sazietà.
    Tornando alle 32 o 33 proverbiali volte in cui masticare, non c’è naturalmente un numero preciso e che si possa applicare a tutte le persone del pianeta. Ci sono persone che masticano poco e non hanno nessun problema di digestione, altre che si impegnano a masticare più a lungo, ma alla fine si ritrovano con i pasti sullo stomaco, e altre che non si pongono il problema. Molto dipende anche dal tipo di pasto, dagli alimenti che vengono consumati e dalla loro quantità. Passare la vita a contare i movimenti della mandibola non sarebbe molto pratico, né consigliabile, ma abituarsi a fare più attenzione a ogni boccone può rivelarsi utile anche per apprezzare di più aromi e sapori quando ne vale la pena. LEGGI TUTTO