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    Le tartarughe del Mediterraneo nidificano sempre più a nord e a ovest

    Tra il 27 e il 30 agosto sulla spiaggia di Laigueglia, in Liguria, sono nate 92 tartarughe marine della specie Caretta caretta, la più diffusa nel mar Mediterraneo, da una buca nella sabbia scavata alla fine di giugno. In questi mesi il nido era stato osservato con grande attenzione da un gruppo di studiosi e volontari, non solo per proteggere lo sviluppo delle uova, ma anche per l’eccezionalità del luogo in cui erano state deposte. Infatti finora ci sono stati solo cinque casi noti di nidificazioni di tartarughe Caretta caretta in Liguria: uno nel 2021, uno nel 2022 e tre quest’estate. Secondo vari studiosi l’aumento delle temperature sta spingendo le tartarughe del Mediterraneo a spostarsi verso nord e verso ovest per nidificare, per cui nei prossimi anni i nidi nella regione, e in Italia in generale, potrebbero aumentare.Storicamente le Caretta caretta sono le uniche tartarughe marine che nidificano in Italia. Gli animali adulti si trovano un po’ in tutto il Mediterraneo, ma la deposizione delle uova – tra la fine di maggio e l’inizio di agosto – avviene generalmente nella regione più orientale del bacino e principalmente in Grecia e in Turchia. Il requisito indispensabile delle spiagge affinché una tartaruga ci possa deporre le uova è che siano sabbiose: le femmine adulte devono poter scavare una buca e deporvi in sicurezza le uova. La temperatura della sabbia, che si scalda molto durante il giorno, permette poi l’incubazione delle uova.
    Anche le spiagge sabbiose italiane sono frequentate dalle Caretta caretta, ma fino a poco tempo fa i nidi si trovavano soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, non più a nord. Dal 2013 però sono osservati nidi in Toscana, lungo le coste del Tirreno, e più di recente in Liguria e, sull’Adriatico, ancora più a nord, in provincia di Rovigo e di Venezia. E anche nelle regioni in cui i nidi erano fatti da tempo, le nidificazioni osservate sono aumentate. Da maggio al 20 agosto di quest’anno ce ne sono state almeno 531, secondo i dati raccolti da Tartapedia, un’associazione di esperti e appassionati di tartarughe che portano avanti un monitoraggio nazionale. Negli ultimi vent’anni inoltre sono stati trovati sempre più spesso dei nidi anche sulle coste spagnole, ben più a ovest.

    L’attenzione alle tartarughe marine, anche da parte di chi lavora sulle spiagge o le frequenta per fare il bagno, «è sicuramente cresciuta», spiega la biologa Chiara Mancino, ricercatrice dell’Università La Sapienza di Roma che studia questi animali, ma anche escludendo gli effetti di tale sensibilizzazione sulle segnalazioni di nidi si osserva un aumento del loro numero verso l’ovest del Mediterraneo.
    Mancino lo ha verificato insieme ad alcuni colleghi con uno studio pubblicato nel 2022: negli anni Sessanta il centro della distribuzione spaziale dei nidi di Caretta caretta era a sud-est dell’isola di Creta, nel mar Egeo, stando alle osservazioni scientifiche; già negli anni Settanta questo punto ideale si era spostato verso ovest, nel mar Ionio, e nell’ultimo decennio è arrivato vicino alla Sicilia. Le zone con maggior densità di nidi sono tuttora nel Mediterraneo orientale ma, è sicuramente in corso un ampliamento della regione di nidificazione verso nord e verso ovest.
    «È una conoscenza comune che le tartarughe depongono le uova dove sono nate», aggiunge Mancino, «e per questo molte volte mi è stato chiesto se il fatto che oggi ci siano nidi in Liguria non significhi che c’erano anche anni fa: in realtà non è detto, è stato dimostrato che la “filopatria”, la tendenza a tornare nel luogo di nascita, è influenzata anche dai cambiamenti ambientali».
    Secondo vari biologi che studiano le Caretta caretta infatti l’ampliamento dell’areale di riproduzione delle tartarughe è probabilmente dovuto al cambiamento climatico. In tutto il mondo i suoi effetti hanno già varie ripercussioni sulla vita delle tartarughe marine, così come altri effetti delle attività umane. Ad esempio l’innalzamento del livello del mare riduce le spiagge sabbiose adatte per la deposizione delle uova, che già spesso sono diventate inospitali per le tartarughe a causa degli stabilimenti balneari e dell’illuminazione notturna, che le disturba. Gli eventi meteorologici estremi inoltre contribuiscono ad aumentare l’erosione delle spiagge.
    Ci sono poi dei problemi legati alla temperatura media della sabbia, che sta aumentando insieme a quella dell’atmosfera e dell’acqua del mare. Nei rettili la temperatura in cui si sviluppano gli embrioni nelle uova influenza il sesso dei nascituri, e più è alta più femmine nascono: questo potrebbe creare degli squilibri demografici nelle popolazioni di tartarughe e potenzialmente causare una riduzione del loro numero a lungo andare. E se le temperature aumentano troppo può anche succedere che le uova non si schiudano proprio.
    Lo studio di Mancino del 2022 ha trovato un legame tra l’ampliamento della regione in cui le Caretta caretta nidificano e l’aumento della temperatura media dell’acqua del Mediterraneo. Le spiagge più adatte per la deposizione delle uova, stando ai dati di cui disponiamo, sono quelle dove la temperatura superficiale dell’acqua del mare è di 25 °C. Le spiagge sabbiose dell’est del bacino mediterraneo continuano a essere adatte per i nidi, e quelle disponibili sono praticamente tutte usate; l’aumento delle temperature intanto sta rendendo più accoglienti le spiagge italiane e spagnole. Mancino continua a spiegare: «Può darsi che la popolazione delle tartarughe sia aumentata al punto da non trovare più spazio nel bacino orientale e si stia espandendo verso ovest dato che le condizioni attuali lo consentono. Ma questa ipotesi dobbiamo ancora verificarla».
    Le Caretta caretta non sono le uniche tartarughe del Mediterraneo di cui sono stati osservati dei nidi in località nuove negli ultimi anni. Proprio nel luglio del 2024 un gruppo di volontari del WWF di Vibo Valentia ha visto una tartaruga verde tentare di nidificare su una spiaggia della costa ionica della Calabria. Le tartarughe verdi (secondo la nomenclatura scientifica Chelonia mydas) sono l’altra specie di tartarughe marine presenti e nidificanti nel Mediterraneo, ma nidificano sulle spiagge più orientali, in particolare di Turchia, Siria, Libano, Israele ed Egitto: finora mai in Italia.
    Secondo un altro studio a cui ha lavorato Mancino, pubblicato a dicembre su Scientific Reports di Nature, ulteriori aumenti delle temperature dovuti al riscaldamento globale renderanno altre regioni del Mediterraneo più accoglienti dal punto di vista climatico anche per i nidi delle tartarughe verdi. Si tratta però di aree più antropizzate, cioè sfruttate e frequentate dalle persone, dunque potenzialmente insidiose per i nidi e le tartarughe appena nate.
    Inoltre anche se l’ampliamento dell’area di riproduzione potrebbe facilitare un aumento del numero di tartarughe marine nel Mediterraneo, e quindi in un certo senso si può dire che il cambiamento climatico le stia favorendo, le temperature più alte nell’est del bacino potrebbero avere l’effetto opposto. In Turchia è stato osservato che tra le nuove nate le femmine sono più numerose dei maschi e quando le temperature aumentano eccessivamente le uova non si sviluppano correttamente e non nasce nessuna tartaruga.
    «Poi bisogna vedere se le nuove spiagge trovate dalle tartarughe sono davvero idonee», aggiunge Mancino: «Può darsi che il successo di schiusa sia bassissimo, è quello che sto studiando ora».
    Per chi si occupa di studiare le tartarughe marine e difenderle dalle minacce alla loro sopravvivenza dovute alle attività umane l’ampliamento del loro territorio di nidificazione rappresenta una sfida, perché richiede di mettere a conoscenza delle buone abitudini per non danneggiare i nidi nuove comunità di persone. Nel caso dei nidi di Laigueglia, Arma di Taggia e Alassio, le tre località liguri dove sono state osservate le nidificazioni di quest’anno, gli scienziati dell’Acquario di Genova e dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure (ARPAL) hanno collaborato coi gestori degli stabilimenti balneari dove sono stati trovati i nidi, isolando una porzione della spiaggia. Se in futuro i nidi aumenteranno «bisognerà fare tanta sensibilizzazione», conclude Mancino. LEGGI TUTTO

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    Produrre cibo dalla plastica, o almeno provarci

    Ogni anno vengono prodotti oltre 400 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti dall’impiego dei vari tipi di plastica usati per gli imballaggi, i contenitori, gli abiti sintetici e molti altri prodotti. Una percentuale crescente di questi rifiuti viene riciclata, ma l’impatto della plastica è ancora oggi una delle principali preoccupazioni legate alla contaminazione degli ecosistemi e alla tutela della nostra salute. Mentre si fatica a concordare nuovi trattati internazionali per ridurre la produzione e gli sprechi di plastica c’è chi sta sperimentando una via alternativa un po’ più creativa: renderla commestibile.L’idea non è completamente nuova, ma negli ultimi anni ha avuto qualche maggiore attenzione in seguito a una iniziativa della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che si occupa dello sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare in ambito militare. Nel 2019, la DARPA invitò i gruppi di ricerca interessati a proporre nuovi sistemi per ridurre la quantità di rifiuti prodotti dai soldati quando sono in guerra o lavorano per dare sostegno alla popolazione in seguito a emergenze e disastri naturali. L’agenzia era interessata a trovare sistemi per convertire gli imballaggi in nuovi prodotti, possibilmente sul posto, in modo da ridurre la produzione di rifiuti e rendere meno onerosa la loro gestione.
    La richiesta portò alla presentazione di progetti da vari centri di ricerca e al finanziamento da parte della DARPA di alcuni di quelli più promettenti. Uno di questi è gestito dalla Michigan Technological University (MTU) e consiste nell’impiegare sostanze e microorganismi per degradare la plastica e trasformarla in qualcos’altro. Il sistema per ora è dedicato a ricavare materiale organico che sia commestibile, mentre solo in un secondo momento si penserà ai modi in cui utilizzarlo.
    La plastica viene triturata e successivamente inserita in un reattore dove viene aggiunto l’idrossido di ammonio (il composto chimico che in soluzione acquosa chiamiamo ammoniaca) ad alta temperatura. Non tutta la plastica è uguale, la parola stessa è un termine ombrello che usiamo per riferirci a materiali molto diversi tra loro, di conseguenza non tutto ciò che viene sottoposto al trattamento reagisce allo stesso modo.

    Alcuni tipi di plastica come il polietilene tereftalato (PET), il materiale con cui sono solitamente fatte le bottiglie, si disgrega dopo questo primo passaggio, mentre altre plastiche hanno necessità di ulteriori trattamenti ad alte temperature e in assenza di ossigeno, che vengono effettuati in un reattore a parte. Le plastiche di questo tipo possono essere convertite in carburante oppure in sostanze lubrificanti, entrambe utili in un ipotetico scenario in cui il processo possa essere eseguito direttamente sul campo dai soldati come richiesto dalla DARPA.
    Ciò che si è ottenuto dal PET con il passaggio nel reattore viene invece dato in pasto a colonie di batteri, in grado di nutrirsi della plastica, che ha tra i propri componenti anche composti organici. Come ha raccontato al sito Undark, il gruppo di ricerca della MTU inizialmente riteneva che trovare i batteri più adatti per nutrirsi della plastica processata avrebbe richiesto molto tempo, ma le cose sono andate diversamente. In breve tempo, il gruppo di ricerca ha infatti notato che i batteri che normalmente degradano il compost (fatto per lo più di rifiuti e scarti alimentari) si adattano facilmente alla plastica trattata nel reattore. L’ipotesi è che la struttura a livello molecolare di alcuni composti delle piante abbia alcune caratteristiche in comune con ciò che viene processato con l’idrossido di ammonio, favorendo il banchetto dei batteri.
    Dopo che i batteri hanno consumato e trasformato la plastica, la poltiglia che si ottiene viene fatta essiccare fino a ottenere una polvere che contiene i principali macronutrienti: proteine, carboidrati e grassi. Il gruppo di ricerca ne ha elencato le caratteristiche in uno studio pubblicato lo scorso anno sulla rivista Trends in Biotechnology, ma il passaggio dal bidone della plastica alle razioni dei soldati o dei piatti in qualche ristorante non sarà così immediata.
    Da tempo si discute sull’opportunità di utilizzare particolari batteri e altri microrganismi come fonte di proteine e di altre sostanze nutrienti. La loro coltivazione richiede meno risorse e acqua rispetto a ciò che viene coltivato nei campi e per questo c’è chi sostiene che potrebbero affiancare la produzione di cibo più tradizionale riducendo l’impatto ambientale dell’intera catena alimentare. Le stime variano sensibilmente, ma si ritiene che circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra sia prodotto dal settore alimentare.
    La polvere ottenuta dal processo messo a punto dalla MTU è stata testata senza trovare per ora sostanze note per essere tossiche. Il preparato è stato dato in pasto ad alcuni nematodi (vermi cilindrici) senza conseguenze e sono stati avviati test sui ratti, per effettuare osservazioni in periodi di tempo più lunghi rispetto alle settimane di vita dei nematodi. I risultati dai test sui ratti saranno essenziali per procedere con una prima richiesta alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che tra le altre cose si occupa di sicurezza alimentare, per dichiarare il consumo della plastica trasformata in cibo sicuro per gli esseri umani.
    Non è comunque ancora detto che la sperimentazione porti a qualche risultato concreto, come del resto spesso avviene con i progetti finanziati dalla DARPA. L’agenzia è nota per promuovere iniziative di ricerca molto ambiziose se non impossibili da realizzare, confidando che almeno alcune delle sperimentazioni avviate portino da qualche parte. Il cibo dalla plastica potrebbe rivelarsi molto utile per migliorare la gestione della logistica, considerato che il trasferimento di cibo e rifornimenti è uno degli aspetti più onerosi per gli eserciti soprattutto se attivi in territori lontani dal loro paese, come avviene quasi sempre nel caso degli Stati Uniti.
    Se dovesse rivelarsi sicuro e affidabile, il sistema per convertire alcuni tipi di plastica in cibo potrebbe essere adottato in futuro per scopi civili, ma lo stesso gruppo di ricerca della MTU ha qualche dubbio in proposito. Stephen Techtmann, uno dei responsabili del progetto, ha detto sempre a Undark che potrebbe essere molto difficile convincere le persone a mangiare qualcosa che è stato ottenuto mettendo all’ingrasso dei batteri con la plastica, mentre ci potrebbero essere maggiori opportunità in particolari circostanze legate a strette necessità di sopravvivenza nelle emergenze: «Penso ci possa essere qualche preoccupazione in meno sul fattore disgusto nel caso in cui si tratti di un: “Questo mi terrà in vita per un altro paio di giorni”».
    I batteri sono comunque strettamente legati alla nostra alimentazione, come alcuni tipi di funghi e altri microrganismi. Li ingeriamo quando mangiamo un vasetto di yogurt, assaggiamo un formaggio o proviamo del kimchi e altri cibi fermentati. Oltre a rendere più semplici e sicuri da conservare alcuni elementi, contribuiscono alla salute del microbiota, cioè l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro intestino e che ci aiutano a digerire gli alimenti e a regolare numerose altre attività dell’organismo. Naturalmente non tutti i batteri sono commestibili (alcuni possono causare gravi danni) e per questo sono necessarie verifiche sulla sicurezza alimentare.
    I batteri impiegati da millenni per la produzione dello yogurt partono dal latte, quindi da una sostanza che sappiamo essere commestibile e l’idea di usarli fa sicuramente un effetto diverso rispetto alla trasformazione in alimenti della plastica, di cui sono noti gli effetti inquinanti e tossici. Ma in chimica una sostanza può sparire nel corso di una reazione, semplicemente perché si trasforma in qualcosa di diverso, che in questo caso secondo il gruppo di ricerca potrebbe aiutare almeno in parte a sfamare il mondo. LEGGI TUTTO

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    Animali fotografati benissimo

    © Jason Gulley/Wildlife Photographer of the YearIl Wildlife Photographer of the Year è un importante concorso di fotografia naturalistica organizzato dal Museo di storia naturale di Londra, che ogni anno premia le migliori tra le decine di migliaia di immagini che vengono inviate da fotografi professionisti e non. Nei giorni scorsi l’organizzazione ha diffuso alcune tra le foto degne di nota – le cosiddette highly commended – in attesa di annunciare le vincitrici, che saranno comunicate a ottobre. Questa è la 60esima edizione del concorso e tra le immagini che si possono già vedere ci sono due leoni durante l’accoppiamento, un giaguaro che afferra un caimano, la cattura di uno squalo, il salto di un ermellino e una suggestiva foto di due pavoni, scattata da una bambina. LEGGI TUTTO

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    Crolla il solaio per una fuga di gas, paura a Napoli: tre feriti

    L’esplosione ha provocato un forte boato che ha spaventato i residenti del quartiere, molti dei quali sono scesi in strada per la paura.Crolla il solaio per una fuga di gas, paura a Napoli: tre feriti – Nanopress.itI vigili del fuoco stanno verificando la sicurezza dell’edificio e degli edifici vicini. Crolla il solaio per una fuga di gas, paura a Napoli: tre feritiTre persone sono rimaste ferite a Napoli a causa del crollo del solaio di un’abitazione in vico Pace, nel rione Forcella. L’incidente è stato causato probabilmente dall’esplosione di una bombola di gas o da una fuga di gas. Fortunatamente, nessuno dei feriti è in gravi condizioni.L’esplosione ha provocato un forte boato che ha spaventato i residenti del quartiere, molti dei quali sono scesi in strada per la paura. Le otto famiglie residenti nello stabile sono state evacuate per precauzione. I vigili del fuoco stanno verificando la sicurezza dell’edificio e degli edifici vicini. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Una collaborazione iniziata nel 2020 tra lo zoo di Miami, in California, e lo zoo di San Antonio, in Texas, ha permesso di far nascere una settantina di nuove lucertole cornute del Texas – una specie in via di estinzione chiamata anche frinosoma cornuto o rospo corneo – nello zoo di Miami, che ne ha creato una sorta di colonia incubandone le uova. Ora che la maggior parte di esse si è schiusa saranno trasportate allo zoo di San Antonio e rilasciate in habitat selezionati del Texas per garantirne una maggiore diffusione. Nella raccolta animalesca delle settimana vediamo uno di questi individui, grande quanto una moneta. Poi troviamo migliaia di pittime reali, un ragno-granchio e un panda appena nato, insieme a uno che fa vent’anni. Per finire con un grande classico: un’ape piena di polline vicino a un fiore. LEGGI TUTTO

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    Incidente sull’autostrada A23 tra Gemona e Carnia, 7 chilometri di coda

    L’incidente ha coinvolto numerosi veicoli e ha causato il ferimento di circa 26 persone, di cui tre in modo grave.Incidente sull’autostrada A23 tra Gemona e Carnia, 7 chilometri di coda – Nanopress.itAttualmente, il traffico è ancora molto intenso. Incidente sull’autostrada A23 tra Gemona e Carnia, 7 chilometri di codaUn grave incidente si è registrato questa mattina sull’autostrada A23 tra Gemona e Carnia. L’incidente ha coinvolto numerosi veicoli e ha causato il ferimento di circa 26 persone, di cui tre in modo grave. I feriti sono stati trasportati negli ospedali di Udine e Tolmezzo.La centrale operativa regionale Sores Fvg ha inviato tutti gli equipaggi e i velivoli disponibili sul posto. L’autostrada è stata chiusa al traffico in direzione nord, ma è stata riaperta intorno alle 14:00. Attualmente, il traffico è ancora molto intenso, con code che si stanno lentamente riducendo. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico fa allungare le giornate

    Caricamento playerLa fusione dei ghiacci e altri effetti collegati al cambiamento climatico stanno contribuendo a fare aumentare lievemente la durata dei giorni sulla Terra. Il fenomeno è noto da tempo, ma una ricerca pubblicata nel corso dell’estate ha segnalato che le giornate si stanno allungando più velocemente rispetto a quanto calcolato in passato, cosa che potrebbe avere conseguenze sulle tecnologie che si basano sull’ora esatta come per esempio i sistemi di navigazione satellitare.
    Il moto di rotazione della Terra non è regolare – a causa dell’influenza della Luna e di altri fattori – e ciò comporta che con il passare del tempo il nostro pianeta accumuli un certo ritardo, rispetto agli orologi atomici con i quali calcoliamo con maggiore precisione il trascorrere del tempo. Il rallentamento è in parte prevedibile e calcolabile, ma può cambiare nel caso in cui cambino alcune variabili.
    Per questo un gruppo internazionale di ricerca finanziato in parte dalla NASA ha utilizzato dati storici e osservazioni satellitari per valutare i cambiamenti nella distribuzione delle masse d’acqua nella Terra. Lo studio si è concentrato in particolare sui cambiamenti determinati dalla fusione dei ghiacci polari, che porta nuove masse d’acqua a distribuirsi intorno all’equatore facendo sì che il nostro pianeta, che non è una sfera perfetta, appaia lievemente schiacciato ai poli.
    Questa diversa distribuzione delle masse d’acqua, insieme ad altri fattori, fa sì che la Terra rallenti lievemente il proprio moto di rotazione e che le giornate si allunghino. Per intendersi, è un fenomeno simile a quello che avviene quando i pattinatori su ghiaccio si abbassano e allargano le braccia per ridurre la loro velocità di rotazione, o quando si gira su se stessi stando seduti su una sedia da ufficio e si allargano o chiudono le braccia modificando la velocità di rotazione.

    Lo studio ha valutato le variazioni prendendo in considerazione il periodo tra il 1900 e il 2018 e ha notato un’accelerazione nell’allungamento delle giornate a partire dal 2000. Negli ultimi 18 anni si è arrivati a una media di allungamento della durata del giorno di 1,33 millisecondi per secolo, il dato più alto mai registrato rispetto ai cento anni precedenti quando la variazione oscillava tra 0,3 e 1 millisecondi (la variazione non è costante e ci sono oscillazioni nel corso del tempo).
    Secondo il gruppo di ricerca il lieve allungamento delle giornate dovuto alla fusione dei ghiacci e alla ridistribuzione delle masse d’acqua, che si aggiunge agli altri fattori che determinano il fenomeno, potrebbe decelerare entro il 2100 nel caso dell’adozione di politiche efficaci per ridurre le emissioni di gas serra. Come per altri fenomeni legati al cambiamento climatico, infatti, anche se smettessimo oggi di immettere nell’atmosfera nuova anidride carbonica e altri gas serra sarebbero comunque necessari decenni prima di riscontrare benefici significativi, a causa di una certa inerzia del sistema.
    Lo studio ha inoltre calcolato che, nel caso di ulteriori aumenti delle emissioni, l’allungamento del giorno dovuto al cambiamento climatico potrebbe arrivare a 2,62 millisecondi per secolo, superando quindi gli effetti della Luna e degli altri fattori che contribuiscono al rallentamento del moto di rotazione. LEGGI TUTTO

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    Quando un secolo fa si pensò di aver captato i marziani

    Caricamento playerNegli ultimi giorni di agosto di un secolo fa, nel cielo sopra Washington, DC molte persone osservarono un dirigibile. Era stato collocato a circa 3mila metri di altitudine sopra allo United States Naval Observatory, una delle più importanti istituzioni scientifiche del paese, per provare a captare un messaggio radio proveniente da Marte in modo da confermare le ipotesi sull’esistenza di una popolazione aliena nel nostro sistema solare.
    L’esperimento in un certo senso funzionò: qualcosa fu effettivamente captato, ma nessuno fu in grado di comprenderne la fonte e ancora oggi quella trasmissione rimane per molti un mistero. Ciò che avvenne in quell’estate del 1924 contribuì comunque a rinfocolare una certa curiosità nei confronti di Marte e dei suoi presunti occupanti, condizionando parte del dibattito sulla domanda che ci facciamo praticamente da sempre: siamo soli nell’Universo?
    L’idea di realizzare una grande antenna da collegare a un dirigibile per captare messaggi provenienti dallo Spazio era venuta a Charles Francis Jenkins, un inventore ricordato soprattutto per i suoi prototipi per lo sviluppo della televisione, e ad alcuni suoi colleghi. La fine di agosto del 1924 sembrava il momento ideale per farlo: nel loro errare periodico nel cosmo seguendo le proprie rispettive orbite, Marte e la Terra non erano mai stati così vicini dall’estate del 1845 e non lo sarebbero più stati per almeno ottant’anni. Se c’era qualcosa su Marte da scoprire, quello era il momento buono e Jenkins non era stato certo l’unico ad avere quell’intuizione.
    Complici le dichiarazioni di alcuni scienziati e di semplici appassionati, che avevano trovato ampio spazio sui giornali soprattutto negli Stati Uniti, si era generata una certa frenesia per quello che era stato definito uno degli eventi astronomici più rilevanti dell’epoca. La Terra e Marte si sarebbero trovati a circa 54,7 milioni di chilometri di distanza rispetto alla media di 225 milioni di chilometri. Molti osservatori organizzarono eventi notturni e iniziative per osservare Marte con i loro telescopi, mentre altri si dedicarono a una delle tecnologie del momento: la radio.
    Marte e la Terra alla fine di agosto 1924 (Solar System Scope)
    La Marina militare statunitense aveva proposto e ottenuto che tra il 21 e il 24 agosto di quell’anno fosse mantenuto un silenzio radio per cinque minuti ogni ora, in modo da poter intercettare più facilmente eventuali messaggi marziani. L’idea era intrigante, considerato che all’epoca si sapevano pochissime cose su Marte e che mancavano più di trent’anni all’inizio delle esplorazioni spaziali, ma come captare efficacemente un segnale fu oggetto di numerose discussioni e speculazioni.
    L’astronomo statunitense David Peck Todd, diventato famoso soprattutto per le sue osservazioni di Venere, pensò che la persona giusta per provarci fosse Jenkins, che con le sue invenzioni aveva ottenuto progressi nelle tecnologie per le comunicazioni radio. Nel suo laboratorio, Jenkins disponeva di una radio SE-950, costruita nel 1918 e pensata come un dispositivo portatile che avrebbero potuto usare i soldati statunitensi per comunicare sui campi di battaglia. La radio non era mai stata testata per questi scopi ed era diventata uno degli strumenti utilizzati da Jenkins per i suoi esperimenti.
    Radio SE-950 (Henry Ford Museum)
    Sollecitato da Todd, Jenkins ipotizzò insieme ad altri che per captare segnali provenienti da un altro mondo fosse necessaria un’antenna più grande del solito e fu quindi elaborato il piano del dirigibile. L’idea è che fosse parte integrante dell’antenna stessa orientata verso Marte e che inviasse poi un segnale alla SE-950 nel laboratorio di Jenkins in modo da riceverlo, amplificarlo e trasferirlo su carta.
    Jenkins insieme ad altri collaboratori aveva infatti costruito una “radio fotocamera” per convertire i segnali radio in impulsi luminosi, che lasciavano poi una traccia su un rullino di carta fotografica. Appena un anno dopo Jenkins avrebbe ottenuto uno dei primissimi brevetti per la trasmissione di immagini e suoni in contemporanea, diventando uno dei pionieri della televisione, ma in quell’estate del 1924 la sua “radio fotocamera” era ancora rudimentale e soprattutto non era detto che i marziani volessero trasmettere qualche immagine.
    Qualcosa fece comunque imprimere sulla carta fotografica un’immagine. Tra le 13:00 del 22 agosto e le 17:00 del 23 agosto 1924, l’antenna-dirigibile captò un segnale che fu trasmesso alla radio SE-950 e poi tradotto in una serie di immagini dalla “radio fotocamera”. Era una sorta di spettrogramma (una rappresentazione grafica dell’intensità e della frequenza di un suono nel tempo), ma tale era il desiderio di avere un messaggio da Marte che fu interpretato da molti come la rappresentazione di un viso.

    Non è chiaro se esista ancora l’originale di quel segnale tradotto in immagini, ma grazie a diverse copie e citazioni in studi e ricerche successive possiamo ancora oggi vedere come era fatto. Intravedere un viso tra la combinazione di punti e linee più scure richiede una certa dose di immaginazione, ma è importante ricordare che un secolo fa non c’erano le conoscenze scientifiche di oggi, che il mondo era meno connesso e che per diverso tempo si era creduto genuinamente all’esistenza dei marziani, anche a causa di un italiano.
    Nella seconda metà dell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli aveva osservato Marte in un’altra occasione in cui si trovava particolarmente vicino alla Terra. Notò alcune linee sulla superficie del pianeta e ipotizzò che si trattasse di corsi d’acqua naturali, dei “canali” come li definì nei suoi studi. Per un errore di traduzione in inglese i canali divennero “canals”, parola solitamente usata per indicare i canali artificiali, e non “channels” che si usa invece per definire i canali derivanti da fenomeni naturali. Negli anni seguenti l’astronomo statunitense Percival Lowell fu tra i primi a proporre che Marte fosse popolato da una civiltà evoluta, sostenendo che se c’erano effettivamente dei canali artificiali qualcuno doveva pur averli costruiti.
    La questione dei canali divenne centrale nel costruire il mito dei marziani e più in generale di mondi lontani dal nostro popolati da altre civiltà. Intorno agli anni Dieci del Novecento quella convinzione era stata ormai smentita grazie a nuove osservazioni, ma l’idea che Marte fosse popolato aveva fatto presa nell’immaginario collettivo e non stupisce quindi che nel 1924 così tante persone fossero alla ricerca di segnali radio marziani. Captarli sarebbe stato difficilissimo, ma valeva la pena provare.
    Fu in quel contesto che nella striscia di carta fotosensibile di Jenkins molti videro un volto e che si costruì il mistero intorno al segnale che lo aveva generato. È vero che non sapremo mai per certo che cosa fosse quel segnale, ma è altrettanto vero che disponiamo di spiegazioni convincenti, come ha ricordato al New York Times Kristen Gallerneaux, una delle curatrici dell’Henry Ford Museum dove è conservata la radio SE-950: «Si era alla ricerca di un segnale indirizzato verso di noi dentro una cosa che non era mai stata progettata per essere una rappresentazione visiva riconoscibile. È rumore di fondo. Eppure le persone ci vedono ancora delle cose dentro e pensano che si tratti di un tipo di comunicazione intelligente».
    L’antenna sul dirigibile aveva probabilmente captato del rumore di fondo, cioè interferenze dovute ad altre trasmissioni o alle condizioni ambientali, inoltre gli strumenti stessi per captare e amplificare i segnali radio possono produrlo alterando ulteriormente la ricezione. È un problema con cui si confrontano ancora oggi i gruppi di ricerca che usano i radiotelescopi e più banalmente chi ascolta musica alla radio. Un secolo fa gli strumenti di ricezione e ascolto erano meno raffinati e avanzati, di conseguenza è probabile che fossero ancora più soggetti ad alcuni tipi di interferenze.
    Una mappa di Marte derivata dagli studi di Schiaparelli (Wikimedia)
    L’esperimento di Jenkins e Todd non fu comunque l’unico e in varie altre parti del mondo furono usate strumentazioni radio per provare a captare qualcosa. Nella British Columbia, nel Canada occidentale, si pensò che alcuni segnali radio potessero indicare la volontà da parte di alcuni marziani di provare a comunicare con la Terra. In Inghilterra furono invece captati rumori ritenuti estranei alle normali comunicazioni radio prodotte sulla Terra.
    Le presunte rivelazioni alimentarono ulteriormente il confronto già molto acceso sull’esistenza o meno dei marziani, tirando in mezzo anche Jenkins rimasto sorpreso dalle interpretazioni creative di quanto aveva registrato. Preoccupato dalla possibilità che le ipotesi più fantasiose potessero danneggiare la sua reputazione scientifica, qualche giorno dopo le osservazioni pubblicò un articolo nel quale chiariva di non ritenere che «i risultati abbiano a che fare con Marte». Già all’epoca Jenkins scrisse che la spiegazione più probabile per il segnale erano semplici interferenze dovute ad alcune attività terrestri e non marziane.
    Charles Francis Jenkins nel 1928 (Courtesy Everett Collection/ Contrasto)
    Jenkins e gli altri scienziati e appassionati del 1924 non avevano ancora i mezzi adeguati, ma avevano intuito che un modo per cercare eventuali civiltà aliene fosse mettersi in ascolto. Una decina di anni dopo i loro tentativi nacque formalmente la radioastronomia, cioè lo studio dei corpi celesti attraverso le frequenze radio, con il primo rilevamento da un corpo celeste.
    La radioastronomia si è rivelata fondamentale per studiare le stelle e le galassie, i modi in cui evolvono e compongono l’Universo, ma non solo. I radiotelescopi sono stati utilizzati e vengono ancora oggi impiegati per provare a cogliere particolari segnali radio, diversi da quelli che conosciamo e che potrebbero fornire indizi su civiltà lontane che come noi provano a capire se siano effettivamente sole.
    Quanto a Marte, negli ultimi decenni abbiamo scoperto molte cose sulla sua storia, trovando indizi sulla possibilità che un tempo avesse ospitato qualche forma di vita. Manca ancora la prova definitiva, ma disponiamo di robot che ogni giorno esplorano la superficie marziana per fotografarla e analizzarla. I loro sono gli unici segnali radio che riceviamo da Marte. LEGGI TUTTO