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    È il giorno del telescopio spaziale Euclid

    Caricamento playerAlle 17:11 (ora italiana) di oggi un razzo Falcon 9 della compagnia spaziale privata SpaceX trasporterà oltre l’atmosfera terrestre Euclid, il nuovo telescopio spaziale dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), per studiare due delle caratteristiche più sfuggenti dell’Universo: la materia oscura e l’energia oscura. Condizioni del meteo permettendo, il lancio avverrà da Cape Canaveral in Florida (Stati Uniti) e il telescopio impiegherà circa un mese per raggiungere il proprio punto di osservazione a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. La missione è molto attesa perché potrebbe offrire dati importanti per capire meglio l’evoluzione e la struttura dell’Universo.OscuroSiamo fatti di materia e circondati dalla materia, di conseguenza ne abbiamo un’esperienza diretta in ogni istante della nostra esistenza, tanto da non farci nemmeno caso. La materia è tantissima, ma in termini cosmologici – cioè dello studio dell’Universo nel suo complesso – è poca roba: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più condivise, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura. Entrambe sono completamente invisibili sia ai nostri occhi sia agli strumenti e non sappiamo nemmeno di preciso che cosa siano né come funzionino. Al tempo stesso, siamo ormai abbastanza certi che esistano, perché in loro assenza non si potrebbero spiegare alcuni dei fenomeni che invece riusciamo a osservare e che conosciamo ormai piuttosto bene.Rappresentazione schematica di che cosa si intende per “materia” in rapporto alle altre forme “oscure” ipotizzate (ESA)Quando nel Novecento si iniziarono a calcolare le caratteristiche dell’Universo, e ad applicare modelli teorici per spiegarne le peculiarità, divenne evidente che la quantità di materia che ci è visibile non era sufficiente per spiegare il modo in cui l’Universo è strutturato e sta insieme.Un esempio che viene spesso utilizzato per dare l’idea del problema parte dalle galassie, i grandi sistemi che comprendono stelle, pianeti e materiale interstellare soprattutto sotto forma di gas e polveri. La quantità di materia osservabile di una galassia è però relativamente poca: sulla base delle conoscenze di cui disponiamo, non è sufficiente per far sì che le stelle che ne fanno parte restino insieme senza sparpagliarsi per l’Universo (c’è una stretta relazione tra massa e gravità). Uno dei modi per trovare una spiegazione è ipotizzare che ci sia qualcos’altro dentro e intorno alle galassie che ne favorisce la coesione. Qualcosa che non emette o riflette luce e che non si fa rilevare, ma che comunque esiste e aggiunge ulteriore massa: la materia oscura.La galassia NGC 5005 visibile nella costellazione dei Cani da Caccia (NASA, ESA e L. Ho, Peking University; Gladys Kober, NASA/Catholic University of America)La sua esistenza aiuterebbe a spiegare molte cose, ma non tutto sul funzionamento dell’Universo. Circa un secolo fa l’astrofisico statunitense Edwin Hubble scoprì che l’Universo si sta espandendo mentre studiava il modo in cui appaiono le galassie più distanti da noi. Quasi 70 anni dopo, si sarebbe scoperto che l’Universo è in una fase di espansione accelerata, cioè che la velocità a cui si sta espandendo aumenta nel tempo. Era una scoperta rivoluzionaria e inattesa, perché contraddiceva alcune parti del modello teorizzato fino ad allora per descrivere l’Universo, secondo il quale la gravità avrebbe via via portato l’espansione a rallentare.Da quella scoperta è passato circa un quarto di secolo e ancora non sappiamo che cosa determini l’accelerazione, ma ci sono comunque diverse teorie. Una delle più condivise ipotizza che ci sia un particolare tipo di energia – cioè l’energia oscura – che contrasta in qualche modo la gravità e che fa sì che l’Universo acceleri nella propria espansione. È una forma di energia ipotetica che sarebbe distribuita omogeneamente nello Spazio e che come nel caso della materia oscura non riusciamo a rilevare direttamente.Studiare qualcosa che non è osservabile è molto difficile, ma nel corso del tempo chi si occupa di astrofisica ha trovato qualche soluzione. Una di queste è raccogliere dati estremamente precisi su quello che invece riusciamo a osservare e confrontarlo con ciò che dovrebbe succedere secondo i modelli teorici, in modo da capire che cosa manca nella realtà per completare il quadro. Il telescopio spaziale Euclid avrà proprio questo compito: effettuare misurazioni molto precise e di una enorme porzione di cielo per trovare indizi su ciò che nemmeno i suoi strumenti possono vedere.Com’è fatto EuclidEuclid è stato costruito da Thales Alenia Space a Torino e da Airbus Defence and Space a Tolosa, in Francia. Il telescopio vero e proprio è un cilindro alto circa 4 metri con un diametro di 1,2 metri ed è collegato al “modulo di servizio”, una base rettangolare che contiene al proprio interno sistemi per gestire e trasmettere verso la Terra i dati raccolti, per la propulsione e per la distribuzione dell’energia elettrica. Telescopio e base messi insieme fanno raggiungere a Euclid un’altezza di 4,7 metri e una larghezza di 3,7 metri. La massa complessiva è di 2 tonnellate, più o meno quanto un SUV di grandi dimensioni.Il telescopio spaziale Euclid nelle ultime fasi di preparazione: si notano il telescopio vero e proprio (il cilindro bianco centrale) e i pannelli fotovoltaici (ESA)A un lato del modulo di servizio è assicurato un grande pannello che serve a proteggere il telescopio spaziale dalla radiazione solare e a raccogliere l’energia elettrica, attraverso pannelli fotovoltaici, per alimentare i sistemi di Euclid. Lo schermo ha la funzione di evitare che si scaldino troppo i due principali strumenti del telescopio, che devono funzionare rispettivamente a -120 e a -180 °C.Lo strumento VIS (VISible instrument) serve per realizzare immagini nello spettro visibile, cioè la porzione di luce che riusciamo a cogliere con i nostri occhi. NISP (Near-Infrared Spectrometer and Photometer) è invece uno strumento per le osservazioni nell’infrarosso, la parte della radiazione elettromagnetica che non riusciamo a vedere perché ha una frequenza inferiore a quella della luce visibile. Entrambi gli strumenti sono stati forniti dallo Euclid Consortium, una collaborazione internazionale di scienziati cui partecipano 14 paesi europei e altri gruppi di ricerca da Stati Uniti, Canada e Giappone. Il progetto ha coinvolto più di duemila persone con vari gruppi di ricerca e di lavoro anche in Italia.Superata l’atmosfera terrestre, Euclid inizierà un lungo viaggio che gli permetterà di raggiungere il punto di Lagrange “L2” a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, in direzione opposta rispetto al Sole. È un punto di osservazione particolare che in sostanza permette di seguire la Terra a grande distanza, in modo da compiere osservazioni nello Spazio profondo. L2 è utilizzato spesso per questo tipo di missioni e da più di un anno ospita anche il James Webb Space Telescope, il telescopio spaziale più potente e che compie attività di osservazione in buona parte diverse da quelle che farà Euclid.Il viaggio di Euclid verso L2 durerà circa un mese. Una volta arrivato a destinazione il telescopio attiverà i propri strumenti e seguiranno un paio di mesi di test e di calibrazioni. Terminata questa fase di avvio, a ottobre il telescopio sarà pronto per iniziare a osservare e rilevare dati su galassie lontane miliardi di chilometri. Il suo obiettivo sarà mappare circa un terzo del cielo, creando una mappa tridimensionale molto precisa, che potrà essere impiegata per calcolare l’espansione dell’Universo.Il telescopio spaziale sfrutterà anche un effetto particolare chiamato “lente gravitazionale”, che si verifica quando la luce emessa da una galassia arriva distorta a chi la sta osservando a grandissima distanza, a causa delle concentrazioni di materia che trova lungo il proprio percorso. Questa materia che devia la luce è costituita da altre galassie – che possono quindi essere osservate – e per una parte consistente dalla materia oscura, che non può essere invece rilevata.Grazie a misurazioni molto accurate si può ricostruire quanta materia sia necessaria per determinare una lente gravitazionale, indagare quanta materia “normale” sia stata coinvolta e dedurre quanta materia oscura abbia contribuito al fenomeno. In questo modo si può inferire la presenza della materia oscura e soprattutto scoprire come è distribuita nella porzione di Universo osservato.I datti raccolti da Euclid saranno processati dalla parte scientifica dello Euclid Consortium e messi poi a disposizione della comunità scientifica. Immagini, dati sulla luminosità delle galassie e molto altro potranno essere utilizzati per nuove ricerche e per pianificare future nuove missioni spaziali, alla ricerca di cosa non riusciamo a vedere. LEGGI TUTTO

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    Com’è la giornata media di un essere umano nel mondo

    Caricamento playerUn gruppo formato principalmente da ricercatori e ricercatrici della McGill University a Montréal, in Canada, ha utilizzato un insieme molto ampio ed eterogeneo di dati e statistiche – demografiche, economiche e di altro tipo, nazionali e internazionali – per elaborare una stima di quanto tempo le persone dedicano in media ogni giorno ad azioni e attività comuni a tutti come nutrirsi, lavarsi, dormire e lavorare. Le informazioni ricavate sono sorprendenti per alcuni aspetti (lavoriamo “solo” 2,6 ore) e prevedibili per altri, e si spiegano principalmente perché a fare media è l’intera popolazione umana: circa 8 miliardi di persone, di ogni età e luogo geografico.I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) e intitolata The global human day, sono considerati dal gruppo un’indicazione fondamentale per comprendere la ripartizione del tempo su scala mondiale nell’arco di una giornata. E si prestano a essere utilizzati in diversi ambiti di ricerca per studiare in dettaglio quali siano i fattori alla base delle differenze nelle ripartizioni tra un paese e l’altro, e su quali sia possibile intervenire per cercare di distribuire il tempo diversamente in modo da ridurre o contrastare eventuali rischi globali.La ricerca si basa sull’aggregazione di dati relativi a 145 paesi, raccolti da enti, agenzie e organizzazioni nazionali e internazionali (Banca Mondiale, OCSE, Unicef e altri), tra il 2000 e il 2019: il periodo successivo non è stato preso in considerazione per evitare condizionamenti dei risultati dovuti alla pandemia. I dati includono sondaggi sul tempo destinato alle varie attività quotidiane, statistiche sull’occupazione e sugli orari di lavoro degli adulti, e sull’istruzione e l’occupazione tra i giovani.La singola categoria più ampia nella ripartizione del tempo è quella del sonno e del riposo a letto: un essere umano trascorre in media circa 9,1 ore al giorno dormendo o riposando. È una media significativamente maggiore rispetto a quella del sonno tra gli adulti: che è 7,5 ore, secondo uno studio danese del 2020 che utilizzò dati ricavati tramite dispositivi indossabili su un campione internazionale di circa 70 mila adulti. Il motivo della differenza è che la ricerca della McGill University include nella stima il tempo trascorso a letto anche senza dormire, e soprattutto include il sonno e il riposo di bambini piccoli e neonati (12-16 ore al giorno).Un bambino dorme in una palafitta a Marajó, alla foce del Rio delle Amazzoni, in Brasile, il 29 luglio 2020 (Pedro Vilela/Getty Images)Le restanti 15 ore al giorno circa non destinate al sonno né al riposo sono state suddivise in tre macro-gruppi, ciascuno dei quali con diverse categorie e sottocategorie. Il macro-gruppo più grande (9,4 ore) riguarda le attività con «risultati umani diretti», cioè svolte dalle persone con l’obiettivo di ottenere un effetto diretto sui loro corpi, sulle loro menti e sulle loro esperienze.Sono attività di questo tipo, per esempio, la pulizia personale e la cura del proprio aspetto e della propria salute, che occupano in totale poco più di un’ora al giorno. Alla consumazione dei pasti è dedicata in totale poco più di un’ora e mezzo, preparazione dei cibi esclusa (che rientra in un altro macro-gruppo e prende un’altra ora circa). La categoria che all’interno di questo macro-gruppo richiede più tempo di tutte – circa un terzo di tutto il tempo da svegli – sono le «attività passive, interattive e sociali»: occupano in media 4,6 ore al giorno e includono leggere, utilizzare dispositivi con schermi o display, giocare, passeggiare, socializzare e anche star seduti senza fare niente.Il tempo trascorso per l’istruzione e le attività scolastiche e universitarie è poco più di un’ora al giorno, e comprende la frequentazione delle lezioni, lo studio, la ricerca e la didattica a distanza. Circa 12 minuti al giorno è il tempo destinato alle pratiche religiose, incluse le cerimonie, le preghiere e le attività di meditazione: che è più o meno lo stesso tempo dedicato in media alle cure mediche e all’assistenza, inclusa quella domestica e non retribuita, alle persone che ne hanno bisogno.Un ragazzo si lava vicino a una fabbrica di mattoni a Islamabad, in Pakistan, il 27 dicembre 2011 (AP Photo/Muhammed Muheisen)Un altro macro-gruppo riguarda le attività con «risultati esterni», descritte come quelle che hanno lo scopo di produrre cambiamenti fisici nel mondo: occupano complessivamente 3,4 ore al giorno. Includono tutte le attività necessarie alla fornitura di alimenti (1,8 ore circa), inclusa l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, la lavorazione dei prodotti e la preparazione dei pasti. E includono anche l’estrazione di materie prime ed energia dall’ambiente (6 minuti circa), la costruzione di edifici, infrastrutture e manufatti (42 minuti circa), il mantenimento della pulizia e dell’ordine della casa e degli spazi abitati (48 minuti circa), e la gestione dei rifiuti (36 secondi circa).Il terzo e più piccolo macro-gruppo di attività – poco più di 2 ore al giorno – sono quelle con «risultati organizzativi», relative cioè all’organizzazione dei processi sociali e dei trasporti. Includono lo spostamento di persone (quasi un’ora circa) e di merci (18 minuti circa), e ogni attività commerciale, finanziaria, governativa, politica e, in generale, di gestione del tempo e dei diritti delle persone (un’altra ora circa).L’esterno di un locale nel quartiere Soho, a Londra, il 12 aprile 2021 (AP Photo/Alberto Pezzali)La prima grande classificazione utilizzata dai ricercatori e dalle ricercatrici della McGill University si basa quindi sul risultato e sull’obiettivo per cui le attività sono svolte, a prescindere che siano a pagamento oppure no. Per esempio: l’assistenza fisica all’infanzia, che fa parte del primo macro-gruppo e occupa circa 18 minuti al giorno, include sia il lavoro retribuito degli asili che quello non retribuito dei genitori. E la preparazione del cibo, che fa parte del secondo macro-gruppo, include sia cucinare a casa che lavorare in un ristorante.Tenendo invece in conto soltanto le attività economiche considerate un’«occupazione» dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (un’agenzia delle Nazioni Unite), la media del tempo di lavoro su scala mondiale è di circa 2,6 ore al giorno: circa l’11 per cento della giornata, o un sesto delle ore di veglia. Potrebbe sembrare poco, scrivono gli autori e le autrici della ricerca, ma equivale a una settimana lavorativa di 41 ore per tutta la forza lavoro mondiale (che è circa il 66 per cento della popolazione in età lavorativa, cioè di età compresa tra 15 e 64 anni).Quasi un terzo delle attività economiche quotidiane in tutto il mondo riguarda la crescita e la raccolta di cibo (44 minuti circa), principalmente sotto forma di agricoltura. Circa un quarto (37 minuti circa) è formato dalle attività commerciali, finanziarie, politiche e gestionali. E circa un settimo (22 minuti circa) riguarda la produzione di manufatti, inclusa la fabbricazione di veicoli, macchinari, elettronica, elettrodomestici e tutti gli altri beni mobili e i loro componenti intermedi. Il tempo che resta è perlopiù suddiviso tra costruzione e manutenzione degli edifici, trasporto di merci e altri materiali, preparazione del cibo, istruzione e ricerca.Un contadino in una risaia a Bhaktapur, in Nepal, il 17 ottobre 2022 (AP Photo/Niranjan Shrestha)L’obiettivo della ricerca era ricavare, a partire da dati relativi a tutta la popolazione mondiale, una stima di quanta parte del loro tempo le persone dedicano in media alle diverse attività nell’arco della giornata. Ma i ricercatori e le ricercatrici hanno anche cercato di capire come la ricchezza (in termini di PIL pro capite) influenzi l’utilizzo del tempo, e hanno riscontrato alcune evidenti disparità, in parte prevedibili.Le persone che abitano nei paesi a più alto reddito, rispetto ai residenti nelle aree più povere, trascorrono in media circa 1,5 ore in più al giorno in attività ricreative, interattive e sociali come leggere, utilizzare dispositivi, giocare, passeggiare e altro. Viceversa, nei paesi più poveri le persone dedicano in media oltre un’ora alla coltivazione e alla raccolta del cibo: attività che nei paesi più ricchi occupa in media meno di 5 minuti al giorno.Dalla ricerca emergono anche attività che invece non variano in modo significativo con la ricchezza, come il tempo utilizzato per preparare il cibo, per il trasporto umano, per la pulizia personale e altre, per un totale del 30 per cento del tempo quotidiano delle persone da sveglie. Questo non implica che le parti di tempo dedicate a tali attività siano universali tra gli esseri umani, aggiungono gli autori e le autrici della ricerca: perché certamente variano da individuo a individuo. Solo che la variazione non è coerente con quella del PIL pro capite, e quindi la ricchezza materiale in questi casi potrebbe non essere influente.Una nave portacontainer passa davanti al castello Burg Pfalzgrafenstein, nel mezzo del fiume Reno a Kaub, in Germania, il 12 agosto 2022 (AP Photo/Michael Probst)Un altro aspetto colto dai ricercatori e dalle ricercatrici è la scarsa quantità di tempo dedicato alla gestione dei rifiuti fuori delle abitazioni rispetto al tempo dedicato a mantenere puliti e in ordine gli spazi abitati. «Sembra plausibile che molti problemi di rifiuti, tra cui l’accumulo di plastica negli oceani e la contaminazione tossica delle acque, potrebbero essere notevolmente ridotti attraverso una riallocazione relativamente piccola del budget totale del tempo umano».I risultati della ricerca costituiscono parte di un progetto più ampio, lo Human Chronome Project, che nelle intenzioni degli autori e delle autrici dovrebbe raccogliere e integrare dati tratti da altre fonti e servire come base per futuri lavori di ricerca sulle attività umane nel mondo. Questo approccio, concludono, potrebbe fornire una prospettiva empirica generale su ciò che la nostra specie sta facendo sul pianeta e prendere decisioni più informate su come ridistribuire il tempo per raggiungere obiettivi di sviluppo globale. LEGGI TUTTO

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    Il primo volo commerciale di Virgin Galactic, oggi

    Oggi Virgin Galactic, la società per il “turismo spaziale” del miliardario britannico Richard Branson, effettuerà il proprio primo volo commerciale verso lo Spazio con un equipaggio che comprende tre italiani dell’Aeronautica Militare e del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che fanno parte della missione Virtute 1. La partenza è in programma per le 17 (ora italiana) da Spaceport America, la base di lancio della società costruita nel deserto del New Mexico (Stati Uniti). Se la missione avverrà senza imprevisti, nei prossimi mesi Virgin Galactic inizierà a gestire periodici voli spaziali con biglietti da 250mila dollari per persona.Virtute 1 è una missione con scopi scientifici, quindi diversa dai voli spaziali che saranno organizzati in futuro e pensati più che altro per consentire ai passeggeri di Virgin Galactic di sperimentare per qualche minuto gli effetti della quasi totale assenza di peso. La missione è stata finanziata dall’Aeronautica Militare in collaborazione con il CNR, in una iniziativa insolita per l’Italia che di solito collabora con attività più strutturate e di lungo periodo con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) attraverso la propria Agenzia Spaziale Italiana (ASI).Nei pochi minuti in cui l’equipaggio sarà negli strati più alti dell’atmosfera saranno effettuati tredici esperimenti negli «ambiti della termofluidodinamica, della biomedicina e dello sviluppo di materiali innovativi e sostenibili», dice il comunicato stampa dalla missione. I partecipanti indosseranno inoltre tute con alcuni sensori per valutare gli effetti del volo spaziale sul loro organismo.Dell’equipaggio fanno parte il colonnello Walter Villadei, che dal 2021 ha avviato la formazione come astronauta professionale; l’iniziativa fa parte del suo addestramento in vista di una futura missione sulla Stazione Spaziale Internazionale. Insieme a Villadei a bordo ci saranno il tenente colonnello Angelo Landolfi dell’Aeronautica e Pantaleone Carlucci, ingegnere e ricercatore del CNR. Saranno accompagnati da un istruttore e da quattro piloti di Virgin Galactic.🇮🇹 Ciao, #Galactic01!Meet the crew from the @ItalianAirForce & @CNRSocial_. On June 29, they will take-off to conduct more than a dozen experiments in space, which will examine how microgravity effects the human body and other materials. Learn more about their roles and sign… pic.twitter.com/1CKq2FTKtn— Virgin Galactic (@virgingalactic) June 26, 2023Il volo sarà effettuato a bordo di SpaceShipTwo – VSS Unity, uno “spazioplano” che si comporta come un aeroplano, capace però di raggiungere gli strati più alti dell’atmosfera. Viene trasportato a 15mila metri da un aeroplano più grande, poi si sgancia e prosegue il proprio volo fino a raggiungere gli 80mila metri circa di altitudine. Dopo qualche minuto nel quale i membri a bordo galleggiano liberi all’interno della cabina, lo spazioplano effettua un rapido rientro sulla Terra, atterrando poi come un normale aeroplano.(Virgin Galactic)Virgin Galactic esiste dal 2004 e lo sviluppo dei suoi spazioplani ha richiesto diverso tempo, anche a causa di un grave incidente nel 2014, nel quale era morto uno dei piloti che stavano partecipando a un volo sperimentale. All’epoca Branson aveva promesso di far parte di uno degli equipaggi dell’ultima fase di test, prima di avviare i voli commerciali per i clienti. Il test era stato eseguito con successo nell’estate del 2021 con l’obiettivo di trasportare i primi clienti a partire dal 2022, ma a causa di alcuni problemi tecnici e di autorizzazioni da parte del governo degli Stati Uniti si erano resi necessari vari rinvii fino al primo volo commerciale di oggi.VSS Unity e sullo sfondo Spaceport America (Virgin Galactic)A pieno regime, Virgin Galactic effettuerà almeno un volo al mese e la società dice di avere ricevuto prenotazioni e manifestazioni di interesse da parte di un migliaio di clienti. L’azienda non è comunque l’unica a offrire servizi di questo tipo: il settore del cosiddetto “turismo spaziale” si sta espandendo e comprende già da qualche anno Blue Origin, la compagnia spaziale fondata dall’ex CEO di Amazon Jeff Bezos. Entrambe le aziende offrono voli suborbitali: i loro veicoli superano gli strati più alti dell’atmosfera e poi tornano indietro compiendo un volo parabolico, senza effettuare un’orbita (cioè un giro completa) intorno alla Terra.Virgin Galactic dice di condurre spedizioni “nello Spazio”, ma non tutti sono convinti che possano essere definiti in questo modo. Per l’Agenzia federale per l’aviazione degli Stati Uniti, lo Spazio inizia oltre gli 80 chilometri di altitudine quindi dove arriva lo spazioplano dell’azienda, mentre convenzioni più condivise internazionalmente identificano l’inizio dello Spazio oltre la cosiddetta linea di Kármán, a 100 chilometri di altitudine. LEGGI TUTTO

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    Anche i delfini “parlano” ai loro piccoli in modo diverso

    Caricamento playerAnche i delfini tursiopi, come gli umani, comunicano con i loro neonati con suoni più acuti rispetto a quelli che rivolgono agli adulti. È la conclusione di uno studio scientifico pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences e realizzato registrando per più di trent’anni i suoni prodotti da 19 femmine tursiopi che vivono nella baia di Sarasota, in Florida.Secondo gli autori dello studio, anche per i tursiopi si può dunque parlare di “maternese”, espressione con cui in ambito accademico si indicano i versi e i suoni, spesso privi di senso compiuto, con cui in molte culture del mondo ci si rivolge ai bambini che ancora non sanno parlare e che si pensa aiuti a creare legami affettivi e ad avvicinare all’uso della lingua. Nel caso degli umani si usa anche la variante “parentese” (dall’inglese parent, genitore), dato che anche i padri possono usare questo tipo di comunicazione.I tursiopi (Tursiops truncatus) hanno alcune caratteristiche comuni con gli umani: sono animali sociali; anche tra loro il rapporto tra madri e figli è duraturo (nella baia di Sarasota dura tre anni in media, a volte di più); e per tutta la vita possono imparare a produrre nuovi suoni. Come le altre specie di delfini, i tursiopi emettono suoni utilizzando dei sacchi pieni d’aria che si trovano appena sotto lo sfiatatoio, il buco attraverso cui respirano, e che permettono loro di fischiare, in sostanza. Tra i diversi suoni che producono, ciascuno ha un proprio fischio personale, che costituisce una sorta di “nome” per ogni individuo e viene utilizzato nella comunicazione con altri delfini.Non conosciamo bene il significato e le funzioni di queste comunicazioni, ma per quanto riguarda i fischi personali si pensa che servano per aggiornare gli altri delfini sulla propria posizione. «È come se si dicessero periodicamente “Io sono qui, io sono qui”», ha spiegato ad Associated Press Laela Sayigh, biologa marina del Woods Hole Oceanographic Institution e una degli autori dello studio. E quando a farlo sono le madri rivolte ai loro piccoli il suono è più acuto, stando alle analisi di Sayigh e dei suoi colleghi, che hanno confrontato i fischi personali prodotti dalle stesse delfine nei casi in cui comunicavano con i figli piccoli e in quelli in cui li indirizzavano ad altri adulti. Più nello specifico, la frequenza massima del fischio personale e l’ampiezza di frequenze usata per produrlo sono maggiori quando le tursiopi comunicano con i figli.Do you hear the pitch change between these 2 whistles? It’s a bottlenose dolphin mom using “baby talk!”Find out more about #WHOI biologist Laela Sayigh’s study in @PNASNews from @AP: https://t.co/A8yZWUqB80📸 & 🎵: Sarasota Dolphin Research Program, NMFS MMPA Permit 20455 pic.twitter.com/GnKRNzgWrL— Woods Hole Oceanographic Institution (WHOI) (@WHOI) June 27, 2023Sono state fatte diverse ipotesi sul perché i delfini usino il “maternese”. Una possibilità è che serva per aiutare i piccoli a produrre i suoni, come è stato teorizzato per gli umani. Un’altra è che sia più efficace ad attirare la loro attenzione. Secondo alcune ricerche degli anni Ottanta sarebbe questa la funzione principale del parentese tra gli umani.Per quanto riguarda questo studio non si possono trarre eccessive conclusioni perché i ricercatori hanno preso in considerazione i soli fischi personali e non le altre forme di comunicazione usate dai delfini: in sostanza non sappiamo se anche quando producono altri suoni le madri tursiopi usino frequenze diverse nel caso in cui si rivolgano ai loro piccoli.Lo studio comunque potrebbe implicare qualcos’altro di altrettanto interessante per la scienza del comportamento animale: che il maternese sia un prodotto dell’evoluzione convergente, cioè di processi evoluzionistici che si verificano in diverse specie in modo indipendente.– Leggi anche: L’esperimento che provò a insegnare a parlare a un delfino LEGGI TUTTO

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    È morto a 100 anni lo scienziato e premio Nobel John B. Goodenough: contribuì allo sviluppo delle batterie agli ioni di litio

    Lunedì è morto a 100 anni lo scienziato statunitense John B. Goodenough: nel 2019 con M. Stanley Whittingham e Akira Yoshino ottenne il premio Nobel per la chimica “per lo sviluppo delle batterie agli ioni di litio”. Goodenough era nato a Jena, in Germania, da genitori statunitensi, ed è morto a Austin, in Texas, dove fino agli ultimi anni era ancora attivo nella ricerca nonché professore di ingegneria elettronica.Il lavoro sulle batterie agli ioni di litio è frutto di successive evoluzioni e scoperte da parte di differenti scienziati, come spesso accade: a partire dal 1980, quando lavorava presso l’università britannica di Oxford, Goodenough diede un contributo fondamentale allo sviluppo delle batterie ricaricabili che usiamo tutti i giorni, nei nostri smartphone, nei computer portatili, nelle automobili elettriche e in migliaia di altri dispositivi di vario tipo.– Leggi anche: Il Nobel per la Chimica per le batterie ricaricabili agli ioni di litio John B. Goodenough nel 2019 (AP Photo/Alastair Grant) LEGGI TUTTO

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    L’altissimo QI dei geni è una balla

    Caricamento playerA volte capita di scorrere sui social inserzioni pubblicitarie in cui esperti e aziende di vari settori, per promuovere corsi o applicazioni per allenare la mente, la prendono larghissima e partono dal quoziente intellettivo dei geni del passato. Citano risultati clamorosi ottenuti nei test da scienziati come Leonardo Da Vinci, Isaac Newton e Albert Einstein, al quale viene comunemente associato un punteggio di 160. Il problema è che questi risultati sono inventati: sono stime, perché nessuno di quegli scienziati ha mai svolto un test del QI. E sono stime basate su deduzioni molto fragili, perché non ci sono valide ragioni per credere che i geni abbiano un QI molto alto.Esistono diversi test del quoziente intellettivo, ma tutti derivano da un tipo di valutazione psicologica ideata all’inizio del Novecento per misurare in modo il più possibile oggettivo le abilità cognitive delle persone in rapporto alla loro età. Nel contesto anglosassone il test è ampiamente utilizzato in ambito scolastico, professionale, medico e scientifico, e deve in larga parte il suo successo alla sua praticità: il fatto che permetta di esprimere in modo sintetico qualcosa di così complesso, sfuggente e poliedrico come l’intelligenza umana.L’affidabilità del test e in generale l’utilità del quoziente intellettivo come strumento di indagine sono però da anni oggetto di riflessioni e studi che si concentrano sui limiti e sui rischi di misurare l’intelligenza sulla base di un test standardizzato. I limiti sono peraltro noti alla maggior parte degli istituti e dei professionisti che utilizzano regolarmente il test, considerandolo uno strumento utile ma insufficiente, il cui risultato richiede un’interpretazione critica e ben contestualizzata alla luce di altri tipi di valutazione.Uno dei principali limiti noti del test del quoziente intellettivo è la sua scarsa attendibilità man mano che i punteggi si allontanano da quelli vicini alla mediana della popolazione e presentano un rischio maggiore di essere influenzati da variabili fuorvianti. È la ragione per cui un punteggio molto basso, inferiore a 70, non è un criterio sufficiente di diagnosi di disabilità intellettiva. Come uno superiore a 130 non è necessariamente un indice di genialità: considerazione che rende abbastanza insensato attribuire fantasiosi punteggi stratosferici a grandi scienziati del passato.– Leggi anche: Ci sono meno geni che in passato?Le prime versioni del test del QI furono sviluppate in Francia nel 1905 dagli psicologi Alfred Binet e Theodore Simon, con l’obiettivo di individuare precocemente i bambini con difficoltà di apprendimento e che avrebbero avuto bisogno di aiuto durante la formazione scolastica. Fu Lewis Terman, uno psicologo statunitense della Stanford University, a introdurre quel test negli Stati Uniti nel 1916 e ad ampliarne l’utilizzo. Dopo averlo fatto tradurre dal francese all’inglese, lo standardizzò su un certo numero di bambini e realizzò uno dei test più noti e diffusi ancora oggi (in una versione aggiornata), lo Stanford-Binet, convinto che il test potesse servire anche per il motivo opposto a quello immaginato da Binet e Simon: individuare i bambini geniali.Il test attirò da subito diverse critiche, tra cui quella del giornalista statunitense Walter Lippmann, che sulla rivista New Republic scrisse: «Detesto l’impudenza nell’affermare che in 50 minuti sia possibile giudicare e classificare l’idoneità predestinata di un essere umano nella vita». Nonostante le critiche, il test – che misura le abilità su una scala non assoluta ma relativa, definita dall’età o da altre variabili – ebbe grande successo e continuò a diffondersi. Negli anni Trenta i bambini con un alto QI venivano mandati in classi più impegnative per prepararsi a ricevere una formazione adatta all’università e a lavori ad alto reddito.Per dimostrare l’attendibilità del test, Terman pensò anche di sottoporlo a un insieme sufficientemente ampio di scolari della California, scegliere quelli con i punteggi più alti e seguire i loro progressi attraverso l’adolescenza e fino all’età adulta in un grande studio longitudinale. Tra decine di migliaia di soggetti furono infine selezionati i 1528 con il punteggio più alto, 856 maschi e 672 femmine, con una età media di 11 anni e un QI medio di 151, quasi tutti bianchi e di famiglie ricche o della classe media. I risultati della ricerca furono pubblicati con il titolo Genetic Studies of Genius, cinque volumi usciti tra il 1925 e il 1959. Il campione usato da Terman è ancora oggi oggetto di studi, sebbene viziato da pregiudizi di selezione, e i suoi membri sono scherzosamente chiamati “termiti” (termites, contrazione di termanites, “termaniani”).Le persone studiate da Terman diventarono professori, dottori, avvocati, scienziati, ingegneri e professionisti di altro tipo, ma nessuno di loro è mai diventato ciò che molte persone considererebbero un genio, scrisse nel 2018 sulla rivista Nautilus Dean Keith Simonton, docente di psicologia alla University of California, Davis. Due di loro, Robert Sears e Lee Cronbach, diventarono anche stimati psicologi della Stanford University e ripresero loro stessi, dopo la morte di Terman, lo studio di cui facevano parte. Stimati psicologi, appunto: non geni come Sigmund Freud o Jean Piaget, secondo Simonton.Molti partecipanti allo studio di Terman non riuscirono a laurearsi affatto né a ottenere lavori che richiedessero un’istruzione di livello superiore. Per non parlare delle donne, alcune delle quali non ottennero particolari successi nonostante un QI superiore a 180: cosa tuttavia meno sorprendente, scrisse Simonton, se si considera che vissero «in un momento in cui ci si aspettava che tutte le donne diventassero casalinghe, non importa quanto brillanti». In ogni caso, il QI degli uomini di successo non era sostanzialmente diverso da quello di tutti gli altri.– Leggi anche: Per valutare il successo bisogna considerare il “pregiudizio di sopravvivenza”Un altro fatto notevole contribuì a indebolire ulteriormente l’ipotesi di partenza di Terman. Dei circa 168 mila bambini da lui valutati in preparazione dello studio uno dei moltissimi non selezionati fu Luis Walter Álvarez, un bambino di San Francisco che si sottopose al test quando aveva 10 anni, nel 1921, e ottenne un punteggio troppo basso per entrare nel campione. Alla fine conseguì un dottorato di ricerca alla University of Chicago e diventò uno dei fisici più importanti del Novecento: per i suoi contributi allo studio delle particelle elementari ricevette il Nobel per la Fisica nel 1968.Anche un altro bambino non ottenne un punteggio sufficiente a entrare nel campione di Terman: William Shockley, nato a Palo Alto un anno prima di Álvarez. Finì per laurearsi al California Institute of Technology (Caltech) e prendere un dottorato al MIT, e lavorò a lungo nei Bell Laboratories, uno dei più importanti centri di ricerca della storia statunitense. Insieme ad altri due ricercatori del laboratorio, costruì nel 1947 il primo prototipo funzionante di transistor mai realizzato e ricevette il Nobel per la fisica nel 1956.Altri bambini scartati da Terman non vinsero il Nobel, ma almeno due diventarono comunque geni nel loro campo. Studiarono musica e sono oggi unanimemente considerati tra i più grandi violinisti del Novecento: Yehudi Menuhin e Isaac Stern.– Leggi anche: Storie di invenzioni conteseIn generale, come osservato dagli psicologi Russell Warne della Brigham Young University e Ross Larsen e Jonathan Clark della Utah Valley University, la correlazione tra il QI e il conseguimento di un premio Nobel è piuttosto debole. Il punteggio di Shockley e Álvarez non era sufficiente a rientrare nel gruppo studiato da Terman, ma era in linea con quello di altri premi Nobel, intorno a 120-125: il biologo James Dewey Watson e il fisico e famoso divulgatore Richard Feynman.In un’intervista nel 2004 l’astrofisico Stephen Hawking disse di non avere idea di quale fosse il suo QI e definì «sfigate» le persone che si vantano del proprio. A proposito della qualifica di genio a lui attribuita da molte persone, disse che «i media hanno bisogno di supereroi nella scienza proprio come in ogni sfera della vita» e che «di fatto esiste una gamma continua di abilità e nessuna chiara linea di demarcazione» tra quali siano geniali e quali no.In mancanza di dati sul QI di molti scienziati del passato le stime che circolano sono perlopiù basate, nella migliore delle ipotesi, sui risultati scolastici e universitari. È un ragionamento in parte legittimato dalla correlazione attuale tra i test sulle abilità cognitive come il QI e quelli di valutazione più utilizzati in ambito scolastico, tra cui lo Scholastic Aptitude Test (SAT), il principale test per l’ammissione ai college statunitensi. Ma anche dando per buona e applicando retroattivamente questa correlazione attuale non tornerebbero molto i conti con i QI irrealistici attribuiti ad alcuni famosi geni.Einstein, comunemente ma scorrettamente associato a un QI di 160, fu bocciato all’esame di ammissione al Politecnico di Zurigo la prima volta in cui lo sostenne, a 16 anni, nel 1895. Ottenne risultati eccellenti nelle sezioni di matematica e fisica, ma non in quella generale, in cui risultò penalizzato dalla sua conoscenza all’epoca ancora scarsa del francese, la lingua dell’esame e per lui seconda lingua.In generale, sulla base dei suoi risultati scolastici e universitari, è plausibile immaginare che Einstein fosse un ottimo studente: non uno con il massimo dei voti in ogni materia, che è però l’unica condizione che legittimerebbe – e solo fino a un certo punto – la tendenza ad attribuirgli un QI straordinariamente fuori dal comune. L’ipotesi più realistica, come recentemente suggerito dallo scrittore e neuroscienziato statunitense Erik Hoel, è che a un test del QI Einstein avrebbe ottenuto un punteggio non eccezionale, simile a quello di Feynman (125), Watson e altri geni.– Leggi anche: Perché il concetto di meritocrazia è controversoUna delle ragioni della tendenza ad attribuire ai geni QI altissimi e molto rari è la scarsa qualità di alcune pubblicazioni a cui molti ancora fanno riferimento. In un libro pubblicato negli anni Cinquanta dalla psicologa statunitense Anne Roe, intitolato The Making of a Scientist, sono presenti affermazioni infondate e indimostrabili come l’attribuzione di un QI di 205 a Leibniz e 210 a Goethe, personaggi vissuti tra il Seicento e la prima metà dell’Ottocento.Per calcolare il QI di un campione di premi Nobel a partire dai risultati di altri test di valutazione, Roe utilizzò per le conversioni non uno dei diversi test del QI già disponibili all’epoca ma uno mai provato prima e da lei progettato appositamente sulla base di un modello di test scolastico SAT. Seguì questo metodo, come ricostruito da Hoel, perché la maggior parte dei test esistenti ha come limite un punteggio massimo di 130 o 140, che sarebbe stato percepito come troppo basso per dei vincitori del premio Nobel.Alla fine ottenne un QI medio del gruppo di 166, ma ricavandolo da una serie di calcoli che lei stessa definì «trasformazioni statistiche basate su assunzioni generalmente valide» ma «non specificatamente verificate per questi dati». I buoni punteggi ottenuti dai premi Nobel nel test progettato da Roe – buoni ma non straordinari – non giustificano in alcun modo il tipo di conversione statistica che porta a ottenere il QI medio di 166, ha scritto Hoel, che piuttosto riconosce al libro di Roe il merito di aver esplorato e reso noti altri aspetti più interessanti delle vite, delle abitudini e delle motivazioni dei premi Nobel.Un altro argomento che indebolisce molto l’idea comune che il test del QI sia uno strumento utile a individuare abilità geniali e da molti considerate in qualche misura innate è che i risultati del test del QI cambiano con la pratica, come del resto quelli dei test di valutazione scolastica. Qualunque cosa valutino, cioè, è qualcosa che può essere allenato e migliorato.In un esperimento condotto negli anni Ottanta dallo psicologo dell’Università di Belgrado Radivoy Kvashchev, i cui risultati furono confermati in uno studio australiano nel 2020, un campione di circa 300 studenti sottoposti al test del QI fu diviso equamente in due gruppi. A uno solo dei due furono assegnati esercizi di problem solving creativo da tre a quattro volte a settimana per un periodo di tre anni, in cui le prestazioni degli studenti furono verificate in quattro occasioni.Alla fine dell’esperimento il gruppo mostrò un incremento del QI di 15 punti superiore rispetto all’incremento del QI nel gruppo che non si era esercitato. Lo studio australiano di revisione dell’esperimento concluse che le capacità cognitive misurate dai test di intelligenza «potrebbero non essere entità fisse», dal momento che «un allenamento prolungato e intensivo nella risoluzione creativa dei problemi» può portare a miglioramenti considerevoli delle funzioni cognitive riscontrate nella tarda adolescenza (18-19 anni).– Leggi anche: Il complicato rapporto tra i progressisti e la geneticaParte degli equivoci che emergono quando si parla di test del QI deriva da un’attitudine comune a considerarli uno strumento affidabile quanto lo sono gli strumenti di misurazione in campi scientifici come la fisica o la biologia. A volte, scrive Hoel, il QI viene trattato «come se volasse miracolosamente al di sopra» di tutti i problemi di misurazione e standardizzazione regolarmente affrontati dalle scienze sociali.Un’altra fonte di equivoci è il fatto che i punteggi per una stessa persona possono differire anche molto a seconda del test utilizzato e del momento in cui viene svolto. Una persona può ottenere un risultato assolutamente nella media (101), secondo i parametri di un certo test, e superare di poco il punteggio minimo richiesto (83) per l’arruolamento nell’esercito statunitense, secondo i parametri di un altro test. Inoltre l’incertezza dei risultati aumenta sia per quanto riguarda la popolazione che ottiene i punteggi più bassi che quella che ottiene i più alti: nel complesso, un insieme numericamente molto esiguo.Questa incertezza negli estremi, secondo Hoel, viene inevitabilmente ereditata dalle molte ricerche incentrate sul QI e sul suo valore predittivo nell’evoluzione delle vite delle persone. È improbabile ottenere risultati significativi da studi sulla “genialità” che utilizzano punteggi reali tra 130 e 150, perché in quell’intervallo il margine di errore è comunque troppo ampio e il campione che soddisfa quella condizione è troppo piccolo. E questa estrema variabilità dei risultati è confermata dalle molte tesi divergenti che emergono dalla vastissima letteratura sul QI.La spiegazione più semplice quando spuntano punteggi come 150, 160, 170 e superiori, secondo Hoel, «è che semplicemente non sono reali». E qualsiasi dibattito che consideri soltanto quelli superiori a 140 come valori significativi da cui partire è abbastanza insensato, dal momento che «i QI stratosferici sono reali quasi quanto folletti, unicorni, sirene». Il che non implica un giudizio negativo in generale del valore del test del QI, uno strumento di valutazione comunque utile per i valori vicini al centro della distribuzione, benché pessimo agli estremi, conclude Hoel. LEGGI TUTTO

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    Le zanzare invasive continuano a espandersi in Europa

    Caricamento playerIl Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che controlla la comparsa e la diffusione di malattie infettive, ha aggiornato le proprie mappe sulla presenza delle diverse specie di zanzare in Europa segnalando la loro continua espansione, anche in regioni dove fino a qualche anno fa non erano presenti, e il conseguente rischio che aumentino le trasmissioni di malattie legate a questi insetti. «Potremmo vedere più casi ed eventualmente morti dovute a malattie come la dengue, la chikungunya e la febbre West Nile», ha detto Andrea Ammon, direttrice dell’ECDC.L’aumento delle regioni in cui le zanzare prosperano è favorito dal fatto che per via del cambiamento climatico la stagione calda dura più a lungo, con giornate con temperature più alte e più umide in alcune zone. Ma è dovuto anche ad altri fattori, come gli scambi commerciali internazionali (la causa originaria dell’arrivo delle zanzare invasive nel continente europeo) e la gestione del territorio.Nel 2022 in undici paesi dell’Unione Europea ci sono stati 1.112 casi di trasmissione della febbre West Nile, di cui 723 in Italia: è il dato annuale più alto che sia stato registrato dopo il 2018, che fu il momento di massima diffusione del virus in Europa finora, con 1.548 casi. La febbre West Nile nella maggior parte delle persone infette non provoca sintomi; solo un quinto dei contagiati ne mostra qualcuno, solitamente è lieve. In rari casi il virus può causare convulsioni, paralisi e coma, e in quelli più gravi, che riguardano generalmente persone anziane o debilitate per altre ragioni, può essere letale ed è bene prevenirne la diffusione anche perché non esiste una cura specifica, né un vaccino.Per quanto riguarda la dengue, un’altra malattia di origine tropicale per cui non ci sono cure specifiche, ma che comunque risulta grave o letale solo raramente, nel 2022 i casi nell’Unione Europea sono stati 71, quasi tutti in Francia: è lo stesso numero di casi che è stato registrato nei paesi dell’Unione insieme a Islanda, Liechtenstein e Norvegia tra il 2010 e il 2021.Questi dati non indicano che ci si debba allarmare per questi virus, ma le autorità sanitarie devono comunque tenere conto dei fattori che favoriscono l’aumento dei rischi e prevenirli, ad esempio con iniziative per il controllo delle popolazioni di zanzare e con l’informazione.Non tutte le specie di zanzare possono essere vettori di virus, cioè contribuire alla loro trasmissione da persona a persona. Tra le specie autoctone europee, la zanzara comune (Culex pipiens) può fare da vettore al virus della febbre West Nile, mentre notoriamente le specie europee del genere Anopheles possono trasmettere il virus della malaria se diffuso – l’Italia ne fu dichiarata libera dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1970 dopo diversi anni con assenza di casi. Invece la principale specie invasiva, la zanzara tigre (Aedes albopictus), può fare da vettore per il virus della dengue, oltre che per quello della chikungunya, che ha caratteristiche simili alla dengue, e Zika, che invece può avere conseguenze più gravi.La zanzara tigre, riconoscibile dalle visibili macchie bianche da cui prende il nome comune, è ben presente in Italia da più di trent’anni: originaria dell’Asia orientale, si è diffusa per via del trasporto accidentale delle sue uova dentro pneumatici usati e piante ornamentali commerciate tra continenti diversi. Le zanzare infatti depongono le proprie uova in luoghi umidi, come può essere l’interno di uno pneumatico con un po’ d’acqua o il sottovaso di una pianta, e quelle delle zanzare tigre possono poi resistere a temperature molto diverse e in assenza di acqua anche per mesi, e quindi nella stiva di una nave ad esempio.In alcuni paesi europei la zanzara tigre non c’è ancora, ma sta pian piano espandendo il proprio areale, cioè la zona in cui prospera: negli ultimi dieci anni è arrivata in cinque nuovi paesi europei.La diffusione della zanzara tigre in Europa: è ben presente nelle regioni indicate in rosso, assente da quelle indicate in verde, appena introdotta in quelle indicate in giallo (ECDC)Ci sono poi altre tre specie di zanzare invasive che si sono stabilite in alcune regioni europee. Due sono arrivate anche in Italia, dove infatti sono state citate più volte sui giornali negli ultimi anni: la zanzara giapponese (Aedes japonicus) e la zanzara coreana (Aedes koreicus). Entrambe possono essere confuse con la zanzara tigre perché hanno a loro volta delle macchie bianche; per il momento sono presenti solo nel nord-est del paese e, per quanto riguarda la sola zanzara coreana, in Liguria.La zanzara giapponese è originaria di vari paesi dell’Asia orientale e non solo del Giappone. Sopporta bene anche le temperature che si registrano d’inverno nelle regioni temperate e può sopravvivere in assenza di acqua stagnante, a differenza della zanzara tigre. Grazie a queste caratteristiche si è stabilita negli Stati Uniti e nell’Europa centrale, dove è arrivata a partire dagli anni Novanta grazie ai commerci internazionali. Si sa che potrebbe a sua volta fare da vettore per i virus della febbre West Nile, della dengue e della chikungunya.La diffusione della zanzara giapponese in Europa (ECDC)La zanzara coreana, un po’ più presente in Italia ma meno in Europa rispetto a quella giapponese, ha cominciato a diffondersi più di recente ma sembra a sua volta più capace di sopportare temperature basse rispetto alla zanzara tigre. In alcune zone della Russia ha trasmesso un virus che causa l’encefalite che però non è presente in Europa. Come le altre specie del genere Aedes è attiva anche nelle ore diurne.La diffusione della zanzara coreana in Europa (ECDC)Una specie di zanzara più preoccupante per l’ECDC è la cosiddetta zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), che è originaria dell’Africa, ha a sua volta macchie bianche ed è ritenuta la più pericolosa per il trasporto dei virus; la malattia da cui prende il nome peraltro ha sintomi più gravi rispetto alla febbre West Nile e alla dengue. Da tempo la zanzara della febbre gialla si è espansa lungo le coste orientali del mar Nero, in alcune regioni della Russia, della Georgia e della Turchia, e nell’ultimo anno secondo i dati dell’ECDC anche a Cipro – l’isola del Mediterraneo orientale che è anche un paese membro dell’Unione Europea.Per questa come per le altre specie comunque il fatto che sia presente non comporta necessariamente la trasmissione di malattie e in particolare la trasmissione della febbre gialla, il cui virus non è presente in Europa.– Leggi anche: Perché certe zanzare preferiscono pungere noi invece che altri animali LEGGI TUTTO

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    Quanto è comune una gravidanza naturale dopo una fecondazione in vitro

    Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Human Reproduction ha provato a valutare quanto siano comuni le gravidanze naturali tra le donne che in precedenza avevano avuto un figlio con tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) – in particolare in vitro (FIV) – rilevando una frequenza maggiore rispetto al previsto. Lo studio ha stimato che un concepimento per via naturale possa avvenire in un caso su cinque dopo avere avuto un bambino con la PMA, ma ci sono comunque numerosi fattori da tenere in considerazione e che potrebbero avere condizionato le conclusioni della ricerca.Il lavoro è stato svolto presso l’University College of London, nel Regno Unito, ed è una revisione sistematica e una meta-analisi di ricerche svolte in precedenza per valutare le gravidanze successive a quelle ottenute con la FIV e altre tecniche. Una meta-analisi può essere considerata “uno studio di studi”, nel senso che si occupa di mettere insieme le conoscenze in un determinato ambito maturate nel tempo con più ricerche e di tirare le somme su cosa si è scoperto, utilizzando dati e metodi statistici per renderli comparabili. Le meta-analisi sono considerate tra i tipi di ricerche più affidabili, specialmente in ambito medico, ma possono avere comunque difetti dovuti soprattutto alla difficoltà di mettere insieme dati eterogenei ottenuti nel tempo con metodologie e pratiche diverse.Il gruppo di ricerca ha identificato nella letteratura scientifica 1.108 studi sull’argomento e li ha poi scremati, in base ai dati che offrivano e alla possibilità di essere confrontati tra loro. Alla fine della selezione sono rimasti 11 studi realizzati in varie parti del mondo e che nel complesso avevano interessato 5.180 donne. Le ricerche erano di «qualità moderata» e avevano seguito la storia clinica delle partecipanti da 2 a 15 anni dopo la gravidanza ottenuta con tecniche di fecondazione in vitro. Confrontando i dati è stato poi possibile calcolare l’incidenza di una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con PMA in una donna su cinque.Annette Thwaites, una delle autrici dello studio, ha detto: «Ciò che abbiamo scoperto suggerisce che una gravidanza naturale dopo avere avuto un figlio con la FIV non sia un evento così raro. Ciò è in contrasto con le opinioni ampiamente diffuse – da parte delle donne e degli operatori sanitari – e con quelle comunemente espresse nei media, secondo le quali si tratta di un evento altamente improbabile».Non tutte le partecipanti ai vari studi avevano scelto la PMA a causa di problemi di infertilità, ma per altri motivi come essere in una relazione con una persona del proprio stesso sesso o l’essere single. Nell’analisi sono stati presi in considerazione vari altri fattori come l’età delle partecipanti, il periodo di tempo intercorso tra la gravidanza con PMA e la successiva gravidanza naturale e altre variabili. Derivare un dato unico e valido per tutte le persone non è comunque possibile, proprio a causa della grande quantità di variabili, che comprendono anche come è fatta ciascuna persona.Le tecniche di fecondazione in vitro negli ultimi anni sono migliorate sensibilmente, portando al successo in circa la metà dei casi nelle donne al di sotto dei 35 anni: nel 1995 il tasso di successo medio era intorno al 22 per cento, mentre nel 2003 era del 33 per cento. Due degli studi utilizzati dalla meta-analisi comprendono dati su partecipanti che avevano fatto ricorso alla PMA quasi 30 anni fa, una differenza tenuta in considerazione dal gruppo di ricerca.Secondo Thwaites: «Sapere ciò che è possibile potrebbe dare alle donne il controllo dei loro progetti familiari e aiutarle a prendere decisioni più consapevoli su successivi trattamenti per la fertilità o per la contraccezione». Immaginando di avere problemi di fertilità è infatti probabile che alcune donne scelgano di non utilizzare mezzi di contraccezione, ritenendo improbabile se non impossibile una nuova gravidanza per via naturale dopo averne avuta una con la PMA. Se confermata, la maggiore incidenza segnalata dalla ricerca potrebbe indurre il personale medico a suggerire maggiori cautele alle pazienti a seconda delle loro aspettative.Il gruppo di ricerca ricorda che lo studio è un primo passo nell’analisi di un ambito molto ampio e ancora poco studiato in questi termini, ma che proprio per questo merita di essere approfondito considerata la diffusione delle tecniche per la procreazione medicalmente assistita. LEGGI TUTTO