Le statistiche ci dicono che un italiano su otto si colloca nella fascia d’età tra il 65° e il 75° compleanno. Si tratta di 7 milioni di «anziani» – meglio sarebbe chiamarli «diversamente giovani» – che, secondo i più recenti dati Istat, sono a leggera prevalenza femminile (53%), beneficiano in larga misura di una pensione (79,5%) e risultano ancora in attività nella proporzione di uno su dieci (9,7%). Di quest’ultima minoranza poco meno della metà – il 4% di tutti i 65-74enni – appartiene alla categoria dei «pensionati attivi»: un collettivo di 280mila persone – per lo più uomini (77%) – che, pur godendo di prestazioni pensionistiche, dichiarano di svolgere (ancora) un qualche tipo di lavoro.
Ma chi sono questi stakanovisti del «fuori stagione» che non rispettano la classica scansione delle fasi della vita e persistono nel mantenersi entro i confini del sistema produttivo? Dove si collocano, e perché lo fanno? È una libera scelta o il frutto di necessità? A livello territoriale, l’incidenza dei pensionati attivi tra i 65-74enni risulta massima nel Nord-Est (5,5%) e minima nel Mezzogiorno (1,8%), mentre sul piano strutturale i dati confermano la maggior presenza tra gli uomini 6,5% a fronte dell’1,7% tra le donne – ed evidenziano, attestandone la qualità, una significativa crescita all’aumentare del titolo di studio: dal 2,3% tra chi è rimasto fermo alla scuola elementare sino all’8,6% tra chi è giunto alla laurea. Inoltre, sempre con riferimento ai pensionati 65-74enni, il rapporto tra chi ha smesso di lavorare, in occasione del passaggio alla quiescenza e chi ha invece continuato a farlo è di circa sette a uno. Un rapporto che risulta alquanto simile per i pensionati più giovani (i 50-64enni), a dimostrazione di come più che l’età anagrafica siano le condizioni e i motivi individuali ad orientare le scelte.
Nel complesso, se estendiamo il campo di osservazione all’insieme di tutti i 50-74enni titolari di una pensione, la quota di chi ha dichiarato di aver lavorato nei primi sei mesi dal godimento dell’assegno pensionistico è pari al 9,4%, cui va aggiunto un ulteriore 1,4% che afferma di averlo fatto dopo una pausa nel primo semestre. In sintesi, i pensionati 50-74enni che affermano di aver lavorato anche dopo aver iniziato a percepire la pensione sono il 10,8% del totale, pari a 712mila unità. È interessante rilevare come tra coloro che hanno continuato a lavorare subito dopo aver ricevuto la pensione più della metà (51,7%) abbia dichiarato di averlo fatto principalmente per soddisfazione personale e per continuare ad essere produttivo nella società in cui vive. Va anche aggiunto che tale percentuale è largamente superiore rispetto al corrispondente dato europeo (36,3%) e arriva alla punta di due terzi tra i laureati. Sul fronte opposto, chi indica come motivazione principale quella di natura economica – i pensionati ancora al lavoro per necessità – è meno di un terzo (29,7%); un valore che è simile al dato medio europeo e raggiunge le punte più alte tra gli stranieri e tra coloro la cui pensione non proviene da una pregressa attività lavorativa. Quanto alle altre motivazioni, come quelle di natura relazionale e quelle relative alla maggiore disponibilità di reddito (quand’anche non necessario), esse risultano piuttosto marginali. Entrambe sono meno frequenti in Italia che nella media europea e coprono, rispettivamente, il 4,3% e il 6% dei casi (a fronte dell’11,2% e del 9,1%).
Se dunque è vero che da noi, assai più che altrove, il pensionato attivo è qualcuno che sceglie la permanenza al lavoro, piuttosto che subirla, è anche vero che la quota italiana di pensionati 50-74enni che ha lavorato nei primi sei mesi dopo aver percepito la pensione risulta più contenuta rispetto alla media Ue27 (9,4% a fronte del 13%) e le differenze si devono sostanzialmente alla componente femminile. Le donne pensionate che hanno lavorato nel semestre dopo la pensione sono in Italia solo il 5% (contro una media europea ”. dell’11,2%), mentre per gli uomini i corrispondenti valori appaiono meno distanti (12,9% a fronte del 14,9%). In ultima analisi, pur senza mettere in discussione il diritto al meritato riposo dopo una vita di lavoro né, tanto meno, la libera scelta individuale su quando uscire dalla popolazione attiva, non si può non sostenere – anche alla luce dei dati proposti nel report dell’indagine Istat – l’importanza che un’analoga libertà possa altresì valere, senza limiti e disincentivi di varia natura, nell’esercitare il diritto a restare nel mondo del lavoro, se e come lo si vuole, anche quando si sia «diversamente giovani». All’importanza del libero esercizio di tale scelta va poi aggiunta anche la sua utilità per un Paese che vede la realistica prospettiva di dover contare, da qui a vent’anni, su oltre sei milioni di 15-64enni in meno. Il che, valutato agli attuali tassi di attività, equivarrebbe a mettere in conto la perdita di quasi cinque milioni di unità di forza lavoro. È pur vero che inserendo i 65-74enni nel conteggio degli attivi tale perdita verrebbe ridotta solo di circa 200mila unità, ma si tratta di un contributo comunque utile e spesso di qualità.
Un apporto che potrebbe ulteriormente accrescersi, qualora venisse calato in un contesto culturale e normativo capace di riservare al «popolo dei pensionati attivi» una doverosa (e su più fronti conveniente) valorizzazione.