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Il blitz in Senato per cambiare la legge elettorale per i Comuni con oltre 15mila abitanti abbassando la soglia al di sotto della quale si va al ballottaggio dal 50% al 40% è già rientrato: l’emendamento firmato dai quattro capigruppo della maggioranza al decreto elezioni sarà ritirato e trasformato in disegno di legge. L’annuncio arriva in serata dagli stessi capogruppo ed evita al presidente meloniano della commissione Affari costituzionali Alberto Balboni il fastidioso compito di dover dichiarare inammissibile l’emendamento. Lo stesso presidente del Senato Ignazio La Russa, interpretando certamente il pensiero del Quirinale, aveva infatti già dichiarato nei giorni scorsi la sua contrarietà allo strumento del decreto: l’articolo 72 della Costituzione, infatti, vieta di intervenire per decreto sulle formule elettorali.
Ma se la maggioranza rinuncia al blitz per decreto non rinuncia certo all’obiettivo, ossia quello di rendere i ballottaggi un’ipotesi residuale puntando tutto sul primo turno: chiaro che ad essere penalizzato in questa fase politica è soprattutto il centrosinistra, che fatica a mettere insieme larghe coalizioni ma che poi spesso si ricompone al secondo turno. Un’allergia a tutto campo, quella del centrodestra al ballottaggio, che ha fin qui bloccato anche la messa a punto della legge elettorale per l’elezione del premier facendo finire su un binario morto la stessa riforma costituzionale, visto che il Ddl Casellati giace da mesi in commissione alla Camera dopo il primo via libera del Senato del giugno scorso. L’unico modo per assicurare al premier una maggioranza certa, come recita il testo del Ddl Casellati, è infatti quello di prevedere il ballottaggio tra i primi due arrivati se nessuno raggiunge una certa soglia: la stessa premier Giorgia Meloni è favorevole ad un secondo turno se nessuno raggiunge una certa soglia, individuata appunto nel 40% come quella che si vuole inserire per i Comuni. Ma Forza Italia e soprattutto la Lega di ballottaggio non vogliono neanche sentir parlare, sia esso vero o residuale, e guardano piuttosto al modello delle Regioni dove vige un turno unico con premio di maggioranza. Anche per questo il testo del Ddl Casellati è piuttosto vago sul sistema di voto: «La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del presidente del Consiglio, assegnando un premio di base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio». Stop. Non è fissata una soglia al di sopra della quale può scattare il premio per evitare che sia abnorme (la Consulta ha stabilito negli anni scorsi che non può superare il 15%), né quindi viene previsto che cosa accade se nessuno la raggiunge.
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Ed è così che in queste ore, quando ancora il confronto all’interno della maggioranza sulla legge elettorale che dovrà sostituire il Rosatellum non è formalmente iniziato, spunta una sorta di “lodo Donzelli”: è il fidato deputato meloniano, infatti, a lanciare l’ipotesi che se nessuno raggiunge il 40% semplicemente il premio non scatta, consegnando una fotografia tutta proporzionale. «Una soglia va certamente messa, visti i noti paletti della Consulta – è il ragionamento che Giovanni Donzelli fa con i suoi -. Se non è possibile inserire il ballottaggio residuale si può lasciare solo il premio sopra il 40%». L’idea di fondo è che il turno unico spingerebbe all’aggregazione dei partiti e dunque al superamento quasi certo della fatidica soglia. Certo, a quel punto occorrerebbe in seconda lettura togliere la parola “garantisca” dal Ddl Casellati.
Il “lodo Donzelli” potrebbe sbloccare l’impasse e portare all’approvazione di una riforma elettorale che potrà essere usata già alle prossime politiche anche nel caso in cui la riforma del premierato non fosse nel frattempo entrata in vigore (l’ipotesi al momento più accreditata è che il referendum confermativo si tenga a prossima legislatura già iniziata). Turno unico con l’obbligo di indicare il nome del candidato premier della coalizione sulla scheda elettorale: ce n’è abbastanza per mandare in tilt un centrosinistra non solo diviso e litigioso ma in cui non c’è una premiership riconosciuta da tutti. La segretaria del Pd Elly Schlein, incalzata dal leader 5S Giuseppe Conte, dovrebbe quanto meno sottoporsi al rito pur sempre rischioso delle primarie di coalizione