in

Trump-Powell, il braccio di ferro che conviene a tutti

Tiene banco, nelle cronache finanziarie di quest’estate, il caso Trump-Powell: il presidente degli Stati Uniti non perde occasione per esprimere il suo disprezzo per il presidente della Federal Reserve (la banca centrale Usa), Jerome Powell. E vorrebbe cacciarlo perché non taglia i tassi d’interesse. Ma non può: il suo mandato scade nel 2026. La questione può sembrare tecnica o interessare pochi addetti ai lavori. Ma in realtà interessa tutte le democrazie moderne, comprese quelle europee.

Le banche centrali sono come gli esseri umani: a volte sbagliano. Ma quello che più conta nell’agire di una banca centrale non è la propria infallibilità, bensì la sua autorevolezza. E per essere autorevoli bisogna poter essere indipendenti. Dalla banca centrale deriva la politica monetaria di una nazione o, nel caso della Ue, dei 20 Paesi che hanno aderito all’unione monetaria dell’eurozona. In estrema sintesi, la banca centrale controlla la moneta: decide quanta ce ne deve essere in giro. E, attraverso i tassi d’interesse, ne determina le principali dinamiche. E’ dunque importante che sia indipendente, così da sottrarre al potere esecutivo il controllo della moneta. Un governo che possa decidere ogni giorno quante banconote stampare non avrebbe alcuna credibilità internazionale. Per questo motivo, dal dopoguerra, le banche centrali hanno progressivamente divorziato dalla politica. Ma è stata la stessa politica a determinare questa scelta, nella convinzione che fosse la cosa migliore nell’interesse della nazione e per la sua reputazione finanziaria.

Detto tutto questo, il caso Trump-Powell non fa che confermare la bontà della separazione tra banca centrale e governo. E non è solo una faccenda politica: la prova che il licenziamento di Powell sarebbe un boomerang per l’intera America e per lo stesso Trump arriva dai mercati. Tutte le volte che il presidente Usa lo insulta o afferma che lo caccerà presto, la reazione dei titoli americani e del dollaro è opposta a quella che Trump ha in mente. Seguite il ragionamento: Powell è accusato dalla Casa Bianca di non tagliare i tassi d’interesse. Se lo facesse, scenderebbero i rendimenti dei titoli di Stato e il governo risparmierebbe sugli interessi. Ma quando Trump “licenzia” Powell, i rendimenti invece di scendere (come dovrebbero fare in vista di un nuovo presidente della Fed che fa quello che gli dice Trump), salgono. E’ successo tutte le volte che Trump ha parlato di Powell. E, allo stesso tempo, la Borsa di Wall Street, invece di brindare al taglio dei tassi, perde terreno. Il perché di una tale reazione è la paura che la Fed perda la sua indipendenza. E con questa, gli Usa diventino meno credibili. Poco importa che Powell sia bravo o meno; che faccia bene a tenere i tassi alti o meno. Quello che conta è che con una Fed autonoma, la politica monetaria non la fa il governo, con il rischio di assecondare i propri disegni politici anche a scapito dell’interesse dell’intera nazione. E una Fed autonoma diventa anche un facile e gratuito capro espiatorio per lo stesso presidente Usa. Conviene anche a lui, in fin dei conti.

E’ un po’ quello che succede anche qui in Europa: quante volte la Bce è stata accusata dalla politica di praticare politiche monetarie restrittive. Per esempio nella lotta all’inflazione. Ma anche per l’Unione europea vale la stessa regola: meglio una Bce che sbaglia piuttosto che una banca centrale che obbedisce ai governi.

Certo, il rischio è che anche una banca centrale si metta a fare politica, per favorire questo o quello schieramento in questa o

quella nazione (nel caso della Ue). Ma è un rischio invitabile su cui, almeno nel caso europeo, vigila l’intero comitato esecutivo. Un sistema migliore, per difendere la ricchezza di una nazione, non è ancora stato inventato.


Fonte: https://www.ilgiornale.it/taxonomy/term/40822/feed


Tagcloud:

Regionali, Rosato: “Ricci e Fico lontani da nostra cultura”

Milano, Calenda: Contro Sala c’è un teorema politico