in

Mes, cosa c’è davvero dietro il pressing di Berlino


Nell’Eurogruppo del 12 maggio, il ministro Giancarlo Giorgetti è tornato al centro di un confronto ormai rituale ma tutt’altro che risolto: quello sulla mancata ratifica italiana della riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), l’ultimo tassello mancante per rendere operativa la rete di protezione finanziaria nota come backstop. Il dibattito, però, è solo in apparenza tecnico. Dietro la richiesta pressante di Bruxelles — e soprattutto di Berlino — si cela una partita squisitamente politica e di interesse nazionale.

Perché l’Italia dice no

Roma si oppone da anni a un’adesione considerata a senso unico. L’Italia dovrebbe ratificare un meccanismo che, in caso di crisi bancaria sistemica, metterebbe a disposizione altri 68 miliardi al Fondo di risoluzione unico europeo (Srf), già dotato di circa 80 miliardi, per salvare istituti in difficoltà. Una mutualizzazione dei rischi, insomma, senza contropartite adeguate. Non a caso, la riforma è vista con forte sospetto tanto da Fratelli d’Italia quanto dalla Lega, che lo considerano un rischio per la sovranità e le finanze italiane: soldi versati oggi, possibili condizioni domani. Giorgetti, pur con toni istituzionali, ha chiarito che «i numeri in Parlamento non ci sono» e che la decisione resta «sovrana». Ma il nodo è tutto politico.

Perché l’Europa insiste (e chi c’è dietro)

Le istituzioni Ue continuano a spingere. Il commissario Valdis Dombrovskis e il presidente dell’Eurogruppo Paschal Donohoe lo hanno ribadito: senza ratifica all’unanimità, il backstop non può attivarsi e l’unione bancaria resta zoppa. Ma il vero motore del pressing si chiama Germania. Berlino è da anni il perno del blocco che chiede la ratifica del nuovo Mes. Non per ideologia europea, ma perché ha tutto l’interesse ad assicurarsi un ombrello comune in caso di tempesta bancaria.

Dopo due anni di recessione e con la crescita ancora ferma, il sistema bancario tedesco — frammentato, meno redditizio e più esposto ai mutui commerciali — potrebbe presto aver bisogno di aiuto. L’eventuale accesso al fondo Srf rafforzato dal Mes permetterebbe alla Germania di attivare una rete di sicurezza finanziata anche dagli altri Paesi Ue, senza passare per la politica interna e senza pesare tutto sui propri conti pubblici.

Un’unione bancaria a metà

La richiesta tedesca assume un sapore amaro anche perché su altri fronti dell’unione bancaria Berlino ha sistematicamente alzato muri. In primis, sul meccanismo comune di assicurazione dei depositi (Edis), bloccato da anni per timori di dover coprire con risorse tedesche eventuali crisi bancarie italiane o spagnole. In secondo luogo, sull’unione del risparmio e dei mercati dei capitali, anch’essa ferma.

In sintesi, la Germania chiede un sistema di protezione condiviso che le torni utile ora, ma non è pronta a cedere su altri dossier che favorirebbero una vera unione del rischio e dei benefici. L’Italia — e non solo — lo sa bene, e per questo prende tempo. Anche a costo di passare per l’”inaffidabile d’Europa”.

I margini politici restano stretti

Nel frattempo, le opposizioni spingono per rompere lo stallo. Il Pd, con Piero De Luca, accusa il governo di isolare il Paese, mentre il Terzo Polo denuncia la “propaganda sovranista” contro uno strumento che l’Italia ha già contribuito a finanziare per 15 miliardi. Ma la maggioranza non cede.

Secondo indiscrezioni, il governo starebbe valutando una trattativa più ampia, forse incrociata con Pnrr e spese per la difesa.

Ma ogni riferimento a uno “scambio” viene smentito ufficialmente. In attesa di una svolta, l’Europa resta sospesa. E il rischio, in caso di crisi bancaria, è che a pagare il conto siano, come al solito, i contribuenti europei. Magari per salvare le banche tedesche.


Fonte: https://www.ilgiornale.it/taxonomy/term/40822/feed


Tagcloud:

Sui tank tedeschi Knds si scorda il Golden Power

Referendum, Cgil e opposizioni in piazza il 19 maggio contro l’astensionismo