Secondo Paul Redmond, professore all’Esri di Dublino, tra i più autorevoli ricercatori sul lavoro del futuro «il contratto psicologico tra datore di lavoro e dipendente è completamente cambiato e il lavoro non è più l’elemento chiave dell’esistenza».
Ne devono tenere conto le multinazionali come le Pmi: non è una questione accademica. Per questo che le «Nuove strategie per attrarre la new generation» è stato il tema al centro del dibattito organizzato a Milano dall’AmCham Italy per la quarta edizione del format Walk the Talk, aperto con i saluti dell’onorevole Cristina Rossello, consigliere del ministro dell’Università e della Ricerca, e dal managing director di AmCham Italy, Simone Crolla, che ha voluto affrontare ad alto livello il tema dell’approccio delle diverse generazioni al mondo del lavoro.
Sul tavolo un fenomeno ormai consolidato: secondo una ricerca citata da Anna Gionfriddo, country manager di ManpowerGroup, in Italia il 36% dei dipendenti prevede di cambiare lavoro nei 12-24 mesi successivi. Percentuale che sale al 49% tra la genZ (generazione Z, tra 20 e 30 anni). Una tendenza accentuatasi dopo il Covid, alla ricerca di contesti di lavoro che mettono al primo posto il benessere. Mentre, nello stesso tempo, le imprese lamentano in percentuali enormi il fenomeno del talent shortage. Quindi il punto è saper offrire le condizioni lavorative che vengono oggi richieste. Questo abbinamento va effettuato in presenza di un contesto complesso. «Oggi dice Olga Pagliaroli, responsabile talent solutions di Aon Italia – in azienda convivono almeno 4 generazioni: Z (chi ha tra 20 e 28 anni), Y (29-45), X (46-60) e i boomers (61 fin quasi a 80 anni) che presentano forti differenze di aspettative rispetto al proprio benessere, che non può essere lo stesso per tutti: per avere una buona performance è necessario l’ascolto attivo».
Alla radice c’è poi il tema della formazione, ma fin da subito: per Marco Berardinelli, head of education di Google Italia, «è un errore quello di non introdurre competenze lavorative fin dalle scuole medie. Il problema nasce da li: un leader nasce a 15 anni, non a 40». Ma cosa chiedono le nuove generazioni a un posto di lavoro? «Scendono i bisogni funzionali (soldi), salgono quelli emozionali dice Matteo Radice, managing director e partner di Bcg – Il salary resta al primo posto, ma quando è accettabile, il 75-80% dei genZ dichiara che la cosa più importante è un’azienda che rifletta il proprio set valoriale».
Quali sono le possibili strategie aziendali per attirare i talenti? Per la GenZ bisogna offrire benessere: modalità (smart working), orario (per la famiglia, i figli),
benefit. E poi la carriera: le persone non sono più attratte dal percorso classico verticale: «Se si propone a un data scientist di diventare un capo dice Radice – se ne andrà: aspira a essere un guru, non un controllore».