Con un emendamento al decreto legge sull’Ilva la maggioranza si fa carico di mettere ordine nella complicata disciplina della prescrizione dei crediti di lavoro e in materia di giustizia retributiva.
La questione è la seguente: in mancanza di una norma di legge specifica, sulla prescrizione dei crediti di lavoro è stata la giurisprudenza, per oltre quarant’anni, ad affermare che la decorrenza del termine quinquennale dovesse avvenire durante il rapporto di lavoro nelle imprese sottoposte alle regole dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in materia di licenziamenti illegittimi. Con le modifiche all’art. 18 prima (Monti), e l’introduzione delle cd. “tutele crescenti” poi (Renzi), alcuni giudici hanno ritenuto essere venuto meno l’impianto normativo originario che negli anni ’70 aveva consentito l’affermazione dell’orientamento sulla prescrizione, e ciò ha consentito il farsi strada di un nuovo orientamento (era il 2015, Milano fu la prima) approdato in Cassazione solo nel 2022, che ha messo fortemente in crisi dinamiche lavorative consolidate. Affermando che il termine di prescrizione quinquennale decorre dalla fine del rapporto anziché durante, si è ingenerato un meccanismo perverso per il quale si sono “improvvisamente” sbloccate possibilità rivendicative vastissime, moltiplicando le cause (talvolta intese anche come fonti di reddito extra) e facendo lievitare le poste economiche in gioco. Teniamo conto che qui si parla quasi sempre di rivendicazioni ad oggetto maggiori somme pretese per errori applicativi di (complicati) contratti collettivi, oppure frutto di nuovi orientamenti di giurisprudenza apparsi durante il rapporto di lavoro e via discorrendo, cioè di somme di cui il datore e il lavoratore non hanno minima contezza fintanto che lavorano.
Ma tant’è, e queste casistiche sono fonte di incertezza giuridica dato che oggi qualunque azienda è esposta al rischio di sopportare esborsi ingenti per crediti di lavoro che neppure sapeva fossero dovuti, magari relativi ad anni talmente indietro nel tempo per cui non è neppure in condizione di difendersi. È evidente che un simile meccanismo non può essere tollerato, e si risolve in danno tanto per le aziende quanto per i dipendenti, che il prezzo dell’incertezza lo pagano in termini di minori risorse investite nel lavoro e nelle retribuzioni dalle imprese. La nuova norma si propone di fare qualcosa di molto semplice: e cioè stabilire per legge che il termine prescrizionale di cinque anni decorre durante il rapporto e che, se si rivendica una somma si hanno poi 180 giorni per muovere causa, un po’ come accade per l’impugnazione del licenziamento. Buon senso che si ritrova anche nelle disposizioni sulla giustizia retributiva, che vogliono introdurre un principio di presunzione di correttezza, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, delle retribuzioni individuate dalle parti sociali nei contratti collettivi “qualificati” e cioè rappresentativi.
Qualora il giudice, nel libero esercizio delle sue prerogative, dovesse ravvisare che anche tali retribuzioni sono incongrue ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, il datore che ha dato corretta applicazione alla contrattazione qualificata è condannato al versamento di differenze retributive dal momento in cui il dipendente ha avanzato la richiesta o depositato il ricorso in Tribunale.
Si fa perciò fatica a trovare una lesione dei diritti dei lavoratori in un sistema così congegnato, improntato alla trasparenza, alla chiarezza ed alla semplicità, dando modo alle imprese di investire con serenità risorse nel mondo del lavoro anziché gestire i rischi di contenziosi che non causano di certo un arricchimento dei lavoratori, ma semmai minano la solidità dell’ecosistema economico.