Il problema italiano, ma non solo, di avere salari da lavoro dipendente tra i più bassi d’Europa si confronta con la crescita dei profitti registrata dalle imprese nel biennio successivo al Covid. Un fatto questo che non si è riflesso in un aumento degli stipendi.
È bene sottolineare che le imprese di qualunque tipologia e aspetto giuridico debbono avere tra le componenti essenziali una redditività in grado di ripagare, nel tempo, il capitale investito, remunerando coloro che lo hanno sottoscritto. Va detto poi che il rischio d’impresa impone degli accantonamenti, ma solo le realtà medie e grandi vi fanno fronte sia nei tempi di magra sia in quelli più soddisfacenti.
Il lavoro dipendente, che è essenziale quanto quello dell’imprenditore, dovrebbe, come accade in molti Paesi dell’area euro, vedere la remunerazione agganciata alla produttività; pur salvaguardando quello fisso definito nelle contrattazioni sindacali. Sia le rappresentanze dei lavoratori che quelle degli imprenditori tendono tuttavia a storcere il naso all’idea. I primi sapendo che questa è vincolate alla professionalità di chi rappresentano, che non sempre è particolarmente virtuosa; i secondi (essenzialmente le imprese a carattere familiare) preferiscono evitare che il lavoratore venga a conoscenza dei loro bilanci.
Diversi e più semplici da definire dovrebbero essere i salari delle aziende quotate in Borsa, essendo i loro esercizi pubblici e soggetti a verifiche da parte della Consob. Una buona parte delle quotazioni delle società, anche di quelle a maggior capitalizzazione, dipende tuttavia dai giudizi di banche d’affari e analisti, che ad ogni trimestrale vincolano le loro pagelle al rapporto utili-investimento. E, nel caso questi siano anche solo di poco inferiori alle previsioni, ne danno giudizi negativi non solo sui risultati ottenuti ma soprattutto su quelli attesi nel periodo successivo. Inoltre, c’è una tendenza a valorizzare le aziende che riducono la forza lavoro, perché così creano economie di scala. A fronte di un giudizio negativo si innesca un calo dei prezzi in Borsa che sovente si interrompe solo nei trimestri successivi e che difficilmente consente di recuperare i valori persi. Un problema, questo, che affligge i piccoli investitori. Un fronte a cui sono attribuibili meno di un quarto dei volumi di Borsa, ma che abbraccia milioni di famiglie che investono i propri risparmi in Borsa non certo per speculare, ma per migliorare il reddito; molti di questi sono peraltro dipendenti.
Alla luce di queste considerazioni resta anche per le quotate la difficoltà di agganciare alla produttività un surplus di salario. Siamo, quindi, al paradosso che a pagare maggiormente il deprezzamento di un titolo in Borsa è lo stesso che, se dipendente, riceve un salario inferiore a quello di molti altri pari livello nel resto d’Europa. Importante però è evitare di far credere al lavoratore dipendente che un risultato di esercizio premiante per l’imprenditore sia legato al basso salario. Questi ultimi hanno infatti come prima causa la bassa produttività.
Un problema su cui incidono anche il ritardo negli investimenti che penalizza dimensioni e modernizzazione delle aziende. La redditività aziendale italiana degli ultimi dieci anni resta, infatti, anch’essa tra le più basse d’Europa.