“Se la vostra t-shirt costa meno di un panino sappiate che dietro c’è di sicuro qualcuno che lavora in condizioni inumane senza contare il prezzo esorbitante che avrà per l’ambiente“. Matteo Ward è uno dei massimi esperti italiani di sostenibilità nella moda, coautore e protagonista della docuserie Junk – Armadi pieni di Will Media e Sky Italia oltre che autore di Fuorimoda!, un bellissimo saggio (De Agostini, 253 pagg. 17,90 Euro) su questi argomenti di scottante attualità. È, infatti, arrivata da poco la notizia dell’attivazione delle prime misure normative previste dall’Unione Europea per prodotti tessili e circolari. Si comincia dall’obbligo di effettuare la raccolta differenziata dei rifiuti tessili in tutti gli stati dell’Ue e si finisce con il divieto di distruzione di abbigliamento invenduto. Il primo entra in vigore a livello europeo dal prossimo gennaio ma in Italia c’è già dal 2022, mentre l’altro sarà varato nel luglio del 2026.
Dal Ghana Ward ha riportato foto sconvolgenti di scogliere di abiti e indumenti scartati alte come minimo quindici metri fatte dai rifiuti tessili per non parlare dell’immagine dei bambini che giocavano in mezzo a questa spazzatura potenzialmente indistruttibile e nella maggior parte dei casi tossica. “Solo per la tintura e il finissaggio ci sono più di 3.500 sostanze chimiche coinvolte nei processi produttivi dei vestiti – racconta – di queste 750 sono pericolose per la salute umana e 440 per l’ambiente senza contare che il 70% del mercato delle fibre è dominato da quelle sintetiche”. Ward come tutti gli esperti di sostenibilità si batte per etichette trasparenti che spieghino senza il linguaggio misterico e mafioso dei cosiddetti “bugiardini” farmaceutici cosa c’è dentro quel che mettiamo a contatto con la nostra pelle, ovvero l’organo più esteso del corpo umano. Da qui l’idea di dare ai vestiti lo stesso valore che diamo al cibo. “Per fare una maglietta – dice – servono le stesse cose che utilizziamo per fare il pane: acqua, energia, risorse umane e naturali”. Così partendo dalle linee guida del ministero della Salute per una sana alimentazione ha stilato un vero e proprio decalogo per chi si vuole vestire limitando il più possibile i danni alla propria salute e a quella del pianeta.
La dieta del vestire sano prevede anche di paragonare i picchi glicemici provocati nel nostro corpo da un eccessivo consumo di zuccheri a un’overdose di dopamina, il cosiddetto ormone della felicità rilasciato nel nostro cervello dallo shopping compulsivo. La situazione sembra infatti irrisolvibile perché ogni anno vengono prodotti 100 miliardi di vestiti in un mondo abitato da meno di 8 miliardi d’individui ed entro il 2030 è previsto un incremento produttivo del 63%. Su questo punto interviene con garbo e competenza Ida Galati, psicologa prestata alla moda che si definisce “fashion teller” e non influencer nonostante i suoi 150mila follower su Instagram e più di 200mila su Tik Tok. Autrice anche del libro Il linguaggio segreto della moda (Giunti 288 pagg. 25 Euro) Galati si occupa di sostenibilità da quando ha trovato da Zara e da Shein lo stesso paio di pantaloni con una stampa del tutto simile a quelle inconfondibili di Pucci. “Quelli di Zara costavano 40 euro, quelli di Shein 10”, racconta spiegando di aver cominciato in quel momento una battaglia di coscienza e consapevolezza in cui è coinvolta la sua community. Ha così scoperto che esistono marchi di super fast fashion come Shein e Temu su cui puoi perfino comperare gratis, o meglio compri, paghi e quando ricevi la merce scrivi entro i termini pattuiti al momento dell’acquisto che intendi restituirla. “Nove su dieci ti rispondono che provvedono al rimborso e di tenerti pure la merce”, conclude sottolineando che per i consumatori è una tremenda presa in giro. In effetti i prodotti sono talmente scadenti che non vale la pena affrontare le spese di spedizione e quelle di sanificazione per rimetterli in commercio. Non a caso negli ultimi mesi la maggior parte delle industrie europee che si occupano di riciclo tessile hanno chiuso i battenti o si sono messe in amministrazione controllata. Del resto meno dell’1 % di questa marea di vestiti prodotti viene avviata al riciclo e le nuove normative europee istituiscono la responsabilità estesa del produttore sul rifiuto tessile.
“Questo avrà un riflesso economico importante: ogni azienda che immette un prodotto sul mercato dovrà versare un contributo alla comunità che poi lo dovrà smaltire”, spiega Simone Colombo, capo della sostenibilità in OVS, considerato un fuoriclasse perfino dal severissimo Ward. Da lui apprendiamo che le cose possono anche cambiare in meglio, basta cominciare da qualche parte. Prendiamo il caso del Bangladesh, paese in cui undici anni fa è crollato il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani che ha provocato 1134 morti.
“Oggi sono diventati bravissimi – racconta – in una delle aziende che producono per noi hanno la certificazione Leed (Leadership in Energy and Environmental Design, ndr) platinum, ovvero il massimo standard possibile per la bio edilizia. In un’altra da cui compriamo dei tessuti abbiamo scoperto che prima di processare le balle di cotone recuperano i semi imprigionati dalle fibre e li mescolano al cibo delle mucche”. Sembra poco ma è tantissimo.