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    Forse stiamo sottovalutando i danni dei colpi di testa nel calcio

    Martedì il quotidiano sportivo francese L’Équipe ha intervistato il difensore del Manchester United Raphaël Varane, 30 anni, anche lui francese. Era però un’intervista diversa dal solito, perché focalizzata interamente sul tema delle commozioni cerebrali nel calcio, sui cui rischi (soprattutto a lungo termine) si è cominciato a discutere solo di recente. In questi anni sono usciti diversi studi che hanno provato ad analizzare le conseguenze dei colpi di testa sulla salute dei calciatori, sia quelli che danno abitualmente al pallone durante le partite che i colpi alla testa subiti in scontri di gioco. Ultimamente alcune federazioni, per ora poche, hanno deciso di limitare o sconsigliare la ripetizione di questo gesto a livello giovanile.L’intervista di Varane è importante perché è una delle prime volte che parla del tema un calciatore di così alto livello (Varane è uno dei giocatori più vincenti della sua generazione, campione del mondo con la Francia nel 2018 e quattro volte vincitore della Champions League con il Real Madrid). All’Équipe ha raccontato di aver subìto diverse commozioni cerebrali nella sua carriera, alcune dovute a traumi specifici alla testa (per esempio scontri con altri giocatori), altre che ipotizza essere legate alle tantissime volte in cui ha colpito il pallone con la testa, in allenamento e in partita.
    Nel calcio il colpo di testa è un gesto tecnico abbastanza comune, viene fatto sia in attacco, per cercare di fare gol quando arriva un pallone alto vicino alla porta avversaria, sia soprattutto in difesa, per allontanare i palloni alti dall’area di rigore; ma anche a centrocampo, quando spesso i calciatori vanno a contrasto tra loro, come si dice, per colpire di testa sui lanci lunghi. «Anche se non provocano traumi immediati, sappiamo che, a lungo termine, i ripetuti colpi di testa rischiano di avere effetti dannosi. Personalmente non so se vivrò fino a cent’anni, ma so di aver danneggiato il mio corpo», ha detto Varane.
    (AP Photo/Alastair Grant)
    I danni di cui parla Varane sono stati in parte documentati da alcuni studi, che però non hanno prodotto risultati definitivi, perché si sono tutti scontrati con limiti quali lo scarso numero di partecipanti, l’assenza di controlli periodici dopo i primi risultati e soprattutto la difficoltà nello stabilire in maniera netta il rapporto tra causa ed effetto. Pur con questi limiti, comunque, diverse ricerche hanno fornito indizi sul fatto che i calciatori abbiano maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative, malattie cioè del sistema nervoso centrale che portano a una perdita o al malfunzionamento di neuroni (le cellule che costituiscono il nostro sistema nervoso) e che possono comportare problemi come deficit cognitivi e demenza.
    Nel 2021 uno studio uscito su JAMA Neurology ha analizzato l’incidenza di queste patologie in un campione di 7.676 ex calciatori scozzesi, nati tra il 1900 e il 1977, confrontandola con quella di 23.028 persone comuni. I risultati hanno mostrato che i calciatori avevano, mediamente, il quadruplo delle possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto al campione di controllo, cioè alle persone comuni. Tra i calciatori, i rischi erano più bassi per gli ex portieri (che colpiscono raramente il pallone di testa), mentre erano più alti per i difensori, lo stesso ruolo di Varane, il più esposto ai colpi di testa. Sempre secondo questo studio, inoltre, chi aveva avuto una carriera più lunga aveva maggiori possibilità di sviluppare malattie neurodegenerative rispetto a chi aveva giocato per meno tempo.
    Un altro studio, uscito sulla rivista scientifica The Lancet Public Health nel 2023 e basato su 6.007 calciatori con almeno una presenza nel massimo campionato svedese e 56.168 persone comuni, ha dato risultati simili: i calciatori hanno più possibilità di avere, negli anni, malattie come l’Alzheimer, un tipo di demenza progressiva che provoca problemi con la memoria, il pensiero e il comportamento.
    Nell’intervista all’Équipe, Varane ha raccontato anche di aver giocato due delle sue peggiori partite in carriera (i quarti di finale tra Francia e Germania ai Mondiali 2014, e gli ottavi di finale di Champions League tra Real Madrid e Manchester City nel 2020, quando giocava per il Real) pochi giorni dopo aver avuto un trauma cranico, e che probabilmente se tornasse indietro chiederebbe allo staff medico di non giocarle.
    I calciatori, ha detto il difensore francese, parlano ancora troppo poco dei rischi legati a colpire continuamente la palla di testa e in generale dei colpi che subiscono, anche perché una commozione cerebrale è meno evidente di altri infortuni e non sempre è facile da diagnosticare. Secondo Varane, dire di non voler giocare perché ci si sente affaticati o si ha mal di testa (due sintomi tipici della commozione cerebrale) potrebbe essere visto come una scusa in un ambiente molto competitivo come il calcio professionistico, dove si è cominciato solo da poco a discutere di commozioni cerebrali. In altri sport più traumatici, come il football americano e il rugby, è un tema dibattuto già da anni.
    Varane ai tempi del Real Madrid, con Cristiano Ronaldo (Gonzalo Arroyo Moreno/Getty Images)
    Varane ha detto di aver sentito parlare di questi temi per la prima volta in questa stagione, quando alcuni specialisti hanno incontrato la sua squadra, il Manchester United, per parlare di traumi cerebrali. «Ci hanno consigliato di non fare più di dieci colpi di testa ad allenamento». Limitare il numero dei tiri di testa, o vietarli del tutto, è una soluzione già adottata da alcune federazioni a livello giovanile: l’anno scorso la FA, la federazione calcistica del Regno Unito, ha avviato una sperimentazione in cui sono stati vietati i colpi di testa nelle partite under 12 (questo divieto, dal 2024-2025, potrebbe essere reso permanente).
    Prima ancora, nel 2015, la US Soccer Federation aveva vietato i colpi di testa per le bambine e i bambini sotto i 10 anni e li aveva limitati per quelli tra gli 11 e i 13, dopo una causa intentata da un gruppo di genitori. Nel settembre del 2021, sempre nel Regno Unito, per sensibilizzare sulle malattie neurodegenerative associate allo sport, fu organizzata una partita amichevole tra ex giocatori in cui non si poteva colpire la palla di testa. In Italia, invece, per il momento non esistono regole sul tema.
    Varane ha detto di essere favorevole a colpire meno la palla di testa in allenamento, mentre farlo in partita, secondo lui, rientra nei rischi del mestiere, come quelli che corre un pilota di Formula 1 in una gara. Già oggi, in ogni caso, il numero di colpi e di gol di testa all’interno di una partita è in continua diminuzione: non tanto per i rischi alla salute, ma anche per lo sviluppo tecnico e tattico che ha avuto il calcio negli ultimi anni, sempre più legato a giocare con la palla per terra e meno con i lanci lunghi e i palloni alti, che comportano più colpi di testa.
    Difficilmente si arriverà a un calcio senza colpi di testa, ma soprattutto con i più giovani si sta andando verso una sempre maggiore limitazione del gesto tecnico: «Quando ero piccolo, facevo interi allenamenti sui colpi di testa: non è normale. A mio figlio di 7 anni, che gioca a calcio, ho consigliato di non colpire mai la palla di testa», ha detto Varane.
    Una soluzione che aiuterebbe quantomeno a ridurre i rischi di commozioni cerebrali potrebbe essere quella di far indossare a tutti i calciatori dei caschetti o delle fasce protettive. Oggi protezioni simili sono abbastanza diffuse nel rugby, mentre nel calcio le usano solamente i calciatori che hanno subìto traumi specifici e particolarmente gravi.
    Il difensore rumeno Cristian Chivu con la maglia dell’Inter nella stagione 2010-2011 (Claudio Villa/Getty Images)
    Sono molto rari, e infatti gli appassionati se li ricordano. C’erano per esempio il portiere ceco ex delle squadre inglesi Chelsea e Arsenal Petr Čech, che cominciò a indossare il caschetto dopo essersi fratturato il cranio a causa di una ginocchiata di un attaccante avversario, o il difensore rumeno Cristian Chivu, che ha giocato in Italia nella Roma e nell’Inter e nel 2010 subì un infortunio simile a quello di Čech in uno scontro aereo con un avversario. LEGGI TUTTO

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    Il “metodo Wim Hof” funzionicchia?

    Caricamento playerDa molti anni Wim Hof si immerge nel ghiaccio ogni volta che può. Dice che lo aiuta a stare meglio, a concentrarsi, a meditare e a compiere imprese sportive decisamente fuori dal comune. Hof ha elaborato un “metodo” che porta il suo nome, molto conosciuto grazie ad articoli, documentari e alla sua presenza sui social network, ma da anni ci si chiede se le cose che fa servano davvero a migliorare la salute e se abbiano una base scientifica. Un’analisi pubblicata di recente sugli studi condotti finora su Hof e il suo metodo dice che forse qualche beneficio c’è, ma che servono ricerche molto più approfondite e su un maggior numero di persone per trarre qualche conclusione.
    Wim Hof è nato nei Paesi Bassi nel 1959 e dice di essersi appassionato all’acqua fredda, molto fredda, quando aveva diciassette anni e praticava già yoga, karate e meditazione. Passeggiava nelle vicinanze di un canale e decise di immergercisi, trasformando poi quel primo esperimento in un’abitudine quotidiana accompagnata dal perfezionamento di tecniche di respirazione. Lavorò per un certo tempo come guida per escursionisti sui Pirenei e intanto sviluppò quello che sarebbe diventato noto come “metodo Wim Hof” e che lo avrebbe reso famoso come “The Iceman”, cioè l’uomo di ghiaccio.
    Oggi quel metodo è diventato la base per gli affari di Innerfire, una società in cui lavorano alcuni figli di Hof e che promuove le pratiche legate alle immersioni nel ghiaccio e in generale all’attività sportiva compiuta al freddo. I principi cardine del metodo sono: un particolare tipo di respirazione che prevede fasi di iperventilazione, il ricorso a docce e bagni freddi o meglio ancora gelidi, oltre a cicli di meditazione per controllare emozioni, impulsi e pensieri.
    Innerfire offre piccoli corsi gratuiti fino a esperienze più articolate che costano alcune migliaia di euro, talvolta con la possibilità di farle direttamente insieme a Hof. La società vende inoltre molti prodotti legati al metodo: libri, magliette e costumi tecnici, ma non mancano infradito e altri oggetti che non hanno molto a che fare con il metodo in sé. Grazie alle attenzioni da parte dei media che ha raccolto negli anni, Hof non ha molto bisogno di farsi pubblicità: spesso il suo canale Instagram con oltre 3,5 milioni di iscritti è più che sufficiente.
    Da sempre Hof sostiene che il suo metodo abbia chiaramente qualcosa di scientifico e il sito di Innerfire riflette questa convinzione, con intere sezioni dedicate ai benefici del sistema, talvolta con dichiarazioni che paiono per lo meno esagerate per i più scettici. Il metodo viene indicato come una possibile soluzione per migliorare le prestazioni sportive o le condizioni di chi soffre di malattie come dolore cronico, sclerosi multipla, artrite, asma e varie malattie autoimmuni. Proprio per contrastare le critiche, Hof ha in più occasioni detto di essere disponibile a farsi studiare e a mettere alla prova il proprio metodo, cosa che effettivamente negli anni è stata fatta, seppure con iniziative sporadiche e poco sistematiche.
    Incuriositi dalla storia di Hof e dalle tante cose difficili da verificare che si sentono sul suo metodo, due ricercatori dell’Università di Warwick (Regno Unito) hanno svolto un’analisi degli studi condotti finora sul metodo Wim Hof. La prima cosa che hanno notato è che la qualità delle ricerche disponibili è «molto bassa, di conseguenza tutti i risultati devono essere interpretati con cautela», come scrivono nel loro studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica PLOS One.
    La revisione ha riguardato otto studi clinici controllati randomizzati, cioè svolti con diversi accorgimenti per ridurre il rischio di distorsioni e preconcetti. Studi di questo tipo sono considerati tra i più affidabili per verificare l’efficacia di un trattamento, ma devono essere comunque condotti su una quantità significativa di partecipanti per avere una certa rilevanza statistica. Il gruppo di ricerca ha segnalato che nella maggior parte di quegli studi le persone coinvolte erano relativamente poche (tra 13 e 40, per lo più di sesso maschile) e quindi poco rappresentative per dedurre informazioni che riguardino la popolazione in generale.
    Gli studi svolti in passato non avevano inoltre messo direttamente a confronto la pratica di immergersi nell’acqua ghiacciata con altre attività fisiche, come il nuoto, la corsa oppure la pratica della meditazione in condizioni meno gelide quando si fa normalmente yoga. Non ci sono quindi elementi per sostenere quale caratteristica del metodo Wim Hof porti a un eventuale beneficio rispetto ad altri tipi di pratiche.
    Il lavoro di ricerca svolto all’Università di Warwick ha comunque indicato che il metodo potrebbe in alcune circostanze ridurre i livelli di infiammazione nelle persone sane o con determinate malattie, anche se non è completamente chiaro in che modo. Un’ipotesi, emersa dagli studi analizzati, è che la pratica di immergersi nell’acqua gelata porti a una maggiore produzione di adrenalina, una sostanza molto importante nella gestione di numerose attività fisiche e per la reattività stessa dell’organismo. L’adrenalina innesca reazioni che possono influire sull’attività del sistema immunitario, coinvolto nei meccanismi di infiammazione.
    Per quanto riguarda un’altra delle affermazioni principali di Hof, e cioè che il suo metodo migliori le capacità quando si fa attività fisica, i risultati sono stati meno convincenti. Il gruppo di ricerca cita una lettera inviata a una rivista scientifica in cui si dava conto di una spedizione condotta da Hof su una montagna raggiungendo in due giorni quote molto alte, senza praticare i classici 4-7 giorni di acclimatamento per abituare l’organismo alle diverse condizioni di pressione e rarefazione dell’aria. La lettera indicava questo risultato come una dimostrazione dell’efficacia del metodo, ma non era stata sottoposta a revisione e aveva comunque riguardato un gruppo molto ristretto di persone, senza che ci fosse un gruppo di controllo.
    Nelle conclusioni dell’analisi, i due ricercatori scrivono che il metodo «potrebbe produrre effetti immunomodulatori promettenti, ma sono necessarie ricerche di maggiore qualità per dare sostanza a queste affermazioni». L’analisi indica inoltre che i prossimi studi sul metodo di Wim Hof dovrebbero essere orientati a verificare eventuali benefici per le persone con specifiche malattie, confrontandoli con quelli per le persone in salute.
    Considerate le dichiarazioni a volte eccessive sul metodo Wim Hof, la nuova analisi ha suscitato varie reazioni tra chi studia queste cose e tra appassionati delle immersioni al gelo. Mike Tipton, dell’Università di Portsmouth (Regno Unito), ha detto a CNN che il nuovo lavoro di ricerca dimostra come «gli elementi scientifici sono troppo deboli o parziali per trarre conclusioni su cosa si possa ottenere seguendo il metodo Wim Hof». Di conseguenza dovrebbero esserci maggiori cautele nella comunicazione degli eventuali benefici, considerato anche che per alcune persone che ignorano di avere particolari problemi di salute l’immersione in acqua gelata potrebbe essere rischiosa.
    Negli anni ci sono state alcune iniziative legali nei confronti di Wim Hof, legate a incidenti che secondo le persone coinvolte sarebbero stati causati dall’aver seguito il suo metodo. Alla fine del 2022 i familiari di una diciassettenne morta per affogamento hanno fatto causa a Hof, sostenendo che la ragazza stesse seguendo le tecniche di respirazione suggerite nel suo metodo. Nello stesso anno era stato segnalato un altro caso di affogamento di una persona che aveva iniziato a utilizzare un’applicazione con i consigli di Hof per regolare la respirazione.
    In seguito alla pubblicazione della nuova analisi, Innerfire ha ammesso che sono necessarie ricerche più approfondite per verificare alcune delle dichiarazioni sui benefici portati dal metodo Wim Hof, ribadendo di essere disponibile per collaborare con la comunità scientifica per trovare nuove risposte. LEGGI TUTTO

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    Lo sci e il cambiamento climatico

    Negli ultimi dieci anni un gruppo di scienziati francesi e austriaci ha cercato di capire quale sarà il futuro dello sci in Europa considerate le conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo ha stimato che senza la neve artificiale più della metà delle stazioni sciistiche europee si troverà in condizioni di scarsità di neve un anno su due a meno che non si applichino in tempi rapidi politiche di transizione energetica molto più decise di quelle di oggi. La previsione, spiegata in un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, riguarda lo scenario in cui la temperatura media globale supererà di almeno 2 °C quella dell’epoca preindustriale, cioè prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane causassero l’attuale riscaldamento del pianeta.L’accordo internazionale sul clima di Parigi del 2015 aveva fissato come obiettivo più ottimista 1,5 °C in più rispetto ai livelli preindustriali, e come obiettivo secondario 2 °C. La comunità scientifica ritiene ormai irrealistico il primo obiettivo, perché le politiche di transizione energetica introdotte finora non sono state abbastanza decise. Con quelle attuali, senza ulteriori cambiamenti, si prevede un aumento di 3 °C entro la fine del secolo.Lo studio sulle piste da sci europee è stato fatto innanzitutto perché il turismo invernale legato a questo sport è un importante settore economico per l’Europa: circa la metà delle stazioni sciistiche del mondo si trova nel continente e il 43 per cento delle giornate di sci che vengono praticate ogni anno avviene sulle Alpi.La possibilità di sciare però è legata al clima, prima di tutto perché la neve si conserva sulle piste solo al di sotto di certe temperature. In caso di assenza prolungata di precipitazioni – come quella che c’è stata con la siccità tra il 2021 e il 2023, peraltro legata al cambiamento climatico – la neve può essere assente. Si può rimpiazzarla con quella prodotta artificialmente, che però richiede molta acqua e particolari condizioni di temperatura e umidità nell’ambiente.Il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi e altre montagne europee sono state coperte di neve è già diminuito nell’arco dell’ultimo secolo. Erano già state fatte delle ricerche per studiare l’impatto del cambiamento climatico sul turismo sciistico, ma nessuna finora aveva tenuto in considerazione il contributo della neve artificiale e analizzato tutte le montagne europee insieme. Il nuovo studio, che si basa su modelli statistici, ha invece preso in considerazione 2.234 stazioni sciistiche, rappresentative di tutte le montagne europee in cui si scia, e nelle stime ha tenuto conto dell’uso della neve artificiale.Nello studio le condizioni di scarsità di neve sono state definite come quelle medie che si sono verificate nei 6 anni peggiori per la presenza di neve nel periodo considerato, dal 1961 al 1990. Il turismo sciistico si considera ad «alto rischio» se le previsioni indicano che ogni due inverni su cinque ci sarà scarsità di neve.Lo studio parla invece di «rischio molto alto» se è prevista scarsità di neve ogni due anni. Quest’ultima condizione è quella anticipata per più della metà (il 53 per cento) delle stazioni sciistiche europee se si raggiungeranno i 2 °C sopra i livelli preindustriali, senza considerare il contributo della neve artificiale.Se il pianeta si riscalderà di più, e raggiungerà i 4 °C di temperatura media sopra i livelli preindustriali, sarà il 98 per cento delle stazioni sciistiche a essere a «rischio molto alto» in assenza di neve artificiale.Nei due scenari climatici futuri, se si tiene conto del contributo della neve artificiale, le prospettive per la pratica dello sci migliorano: considerando di produrre la metà della neve sulle piste in modo artificiale le stazioni a «rischio molto alto» si riducono al 27 per cento nel caso di un aumento di temperatura media di 2 °C, e al 71 per cento nel caso che l’aumento sia di 4°C. Per produrre la neve artificiale servono però acqua ed energia elettrica, e quindi non è detto che in futuro sarà possibile e raccomandabile procedere in questo modo per garantire la possibilità di sciare.Considerando solo gli Appennini, lo studio prevede condizioni di «rischio molto alto» in tutti gli scenari climatici futuri, compreso quello di soli 1,5 °C sopra ai livelli preindustriali, anche a fronte di un’intensissima produzione di neve artificiale. In sostanza dice che non si potrà più sciare sugli Appennini.Per quanto riguarda le stazioni sciistiche sulle Alpi italiane, che raggiungono altitudini molto maggiori, lo studio prevede invece rischi minori. Nello scenario dei 2 °C non si potrà fare a meno della neve artificiale, ma prevedendo di usarla per innevare solo un quarto delle piste il rischio è «moderato»: solo un terzo degli inverni sarebbe a rischio di scarsità di neve. Già con un aumento di 3 °C tuttavia anche lo sci sulle Alpi risulterebbe molto compromesso e richiederebbe un uso molto maggiore di neve artificiale, che a un certo punto non sarebbe in grado di compensare all’assenza di quella naturale.Queste stime ovviamente sono medie e non riguardano dunque per forza ogni singola stazione sciistica, ma nel complesso non sono positive per la pratica dello sci. Lo studio non prevede «la fine immediata del turismo sciistico in Europa», ha detto uno dei suoi autori, il climatologo Samuel Morin, ricercatore di Météo-France e del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano: «ma condizioni sempre più difficili per tutte le stazioni sciistiche, alcune delle quali arriveranno, nel giro di qualche decennio, a un’offerta di neve criticamente bassa per poter operare come oggi».– Leggi anche: Quando potremmo superare il limite di 1,5 °C? LEGGI TUTTO