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    Che cos’è una “mini luna”

    Caricamento playerA partire dal prossimo 29 settembre e fino al 25 novembre un piccolo asteroide in orbita intorno al Sole sarà temporaneamente catturato dalla gravità terrestre, un evento astronomico piuttosto raro, ma che non costituirà nessun pericolo per la Terra paragonabile a quelli del film Armageddon. L’asteroide è stato definito una “mini luna” visto che avrà per qualche tempo un comportamento simile alla nostra Luna, ma l’indicazione non ha convinto tutti ed è dibattuta tra gli esperti e i semplici appassionati di astronomia.
    Il nome con cui è stato catalogato l’asteroide è “2024 PT5“, con un riferimento all’anno in cui è stato osservato per la prima volta. Sappiamo infatti della sua esistenza da poco, considerato che la scoperta risale al 7 agosto scorso, quando ne fu rilevata la presenza dall’Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System, uno dei principali programmi di ricerca di asteroidi per tenere sotto controllo quelli che potrebbero un giorno avvicinarsi troppo alla Terra.
    Stando ai dati raccolti finora, 2024 PT5 ha un diametro massimo di 11 metri e dovrebbe appartenere al gruppo degli asteroidi Arjuna, un sottogruppo degli asteroidi Apollo (la classificazione è ancora un po’ confusa), la cui caratteristica principale è di orbitare intorno al Sole con modalità simili a quelle della Terra. Date le sue dimensioni, 2024 PT5 non può essere osservato né a occhio nudo né con telescopi di piccole dimensioni, ma la sua osservazione con strumentazioni più potenti permetterà di comprendere qualcosa di più su questo tipo di asteroidi e soprattutto sulle interazioni gravitazionali con il nostro pianeta e il Sole.

    In generale, qualsiasi corpo celeste che orbita stabilmente e in modo identificabile intorno a un pianeta può essere considerato una luna. Le definizioni possono variare molto, ma c’è un certo consenso su alcuni corpi celesti che sono decisamente satelliti naturali, come la nostra Luna oppure ancora Ganimede, Io ed Europa, per citare alcune delle lune di Giove, il pianeta più grande del sistema solare. Sulle “mini lune” le cose sono più complicate, per la difficoltà di identificarle con certezza e di calcolare le loro orbite.
    Tra le definizioni più condivise c’è quella per cui un corpo celeste (come un asteroide o una cometa) che viene catturato temporaneamente dalla gravità di un pianeta può essere definito una mini luna, ma ci sono poi ulteriori distinzioni che aggiungono qualche complicazione. Nel caso della Terra, una mini luna può essere definita un satellite naturale temporaneo se effettua almeno un’orbita completa intorno al pianeta prima di tornare a girare intorno al Sole. Nel caso in cui non effettui un giro completo, molti preferiscono la definizione di “oggetto temporaneo che ha effettuato un passaggio ravvicinato al pianeta”.
    2024 PT5 rientra in questa seconda categoria perché nei prossimi due mesi effettuerà una sorta di passaggio a ferro di cavallo, senza realizzare un’orbita completa propriamente detta intorno alla Terra. Per questo motivo non tutti sono convinti che la definizione di mini luna sia calzante, anche se aiuta a rendere l’idea di cosa farà l’asteroide e soprattutto dell’assenza di pericoli per il nostro pianeta e noi che lo abitiamo.
    Nella maggior parte dei casi le mini lune sono troppo piccole per poter essere rilevate con gli attuali strumenti, ma alcune hanno le giuste dimensioni per farsi notare, talvolta casualmente considerata la vastità dello Spazio e la difficoltà nell’identificare corpi celesti con orbite sconosciute. Per questo 2024 PT5 è il quinto oggetto di questo tipo a essere mai stato identificato con un buon margine di affidabilità nel corso delle osservazioni.
    1991 VG osservata dal Very Large Telescope (Osservatorio europeo australe, ESO)
    1991 VG fu la prima mini luna a essere scoperta nel nostro vicinato cosmico: venne a farci visita tra la fine del 1991 e i primi mesi del 1992. Nel 2006 fu invece osservata la presenza di 2006 RH120: inizialmente considerato un oggetto artificiale come un detrito spaziale, fu invece confermato come una mini luna di meno di 7 metri di diametro che rimase nei paraggi della Terra per circa un anno tra l’estate del 2006 e quella dell’anno successivo. Nel 2020 fu invece scoperto un altro corpo celeste che rimase in orbita intorno al nostro pianeta per più di due anni, diventando la mini luna più longeva tra quelle osservate e confermate.
    La disponibilità di nuovi sistemi di osservazione ha negli anni permesso di effettuare rilevazioni più precise, ma ci sono stati comunque alcuni errori che nel tempo hanno spinto a maggiori cautele. Nel 2002 si pensò di avere identificato una nuova mini luna, ma analisi più approfondite indicarono che ciò che era stato osservato era con ogni probabilità un detrito spaziale. Si ritiene che quell’oggetto altro non fosse che il terzo stadio di un Saturn V, il grande razzo impiegato in più versioni tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta per il programma lunare statunitense Apollo.
    Un Saturn V di prova durante il trasporto verso la rampa di lancio a Cape Canaveral, Florida, nel 1966 (NASA)
    I dati raccolti negli ultimi decenni hanno inoltre permesso di produrre modelli e simulazioni per stimare quanti possano essere i corpi celesti che finiscono in orbita intorno alla Terra, seppure temporaneamente. Alcune analisi hanno segnalato che c’è probabilmente sempre almeno un corpo celeste con diametro massimo inferiore al metro intorno al pianeta. Le loro dimensioni sono tali da rendere molto difficile un’osservazione diretta e per questo passano quasi sempre inosservati.
    L’osservazione di che cosa abbiamo intorno è comunque fondamentale per identificare per tempo asteroidi di grandi dimensioni che, per via della loro traiettoria, potrebbero costituire un pericolo per la Terra. Vengono definiti Near Earth Object (NEO) e sono tenuti sotto controllo nella possibilità molto remota che un giorno si scontrino con il nostro pianeta. A oggi sono stati catalogati circa 34mila NEO, ma nessuno tra quelli noti costituisce un pericolo diretto per la Terra. Questo non significa che ce ne possano essere altri che non abbiamo ancora scoperto e che un giorno potrebbero causare problemi.
    L’asteroide Vesta è tra i più massicci della fascia principale e ha un diametro massimo di circa 500 chilometri, non è un NEO (NASA)
    Gli asteroidi sono i resti del lungo processo che rese possibile la formazione del nostro sistema solare, iniziato 4,5 miliardi di anni fa. Grazie anche alla gravità esercitata dal Sole, le polveri e le rocce che erano presenti in una grande porzione di Spazio iniziarono ad aggregarsi e a unirsi formando dei protopianeti. Alcuni di questi continuarono ad accumulare materiale diventando sempre più grandi e infine i pianeti che conosciamo oggi, mentre altri rimasero piccoli e si frammentarono scontrandosi tra loro. I pezzi che risultarono da quei processi sono gli asteroidi per come li conosciamo oggi.
    La maggior parte di loro mantiene orbite stabili e relativamente regolari nella cosiddetta “fascia principale”, una grande porzione di Spazio tra Marte e Giove. A volte al suo interno avvengono collisioni che portano alcuni asteroidi ad abbandonare la fascia e a collocarsi in orbite intorno al Sole che potrebbero incrociare quella terrestre. Identificarli e soprattutto calcolarne con precisione l’orbita non è però semplice e per questo i NEO sono sorvegliati con attenzione. LEGGI TUTTO

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    La prima storica “passeggiata spaziale” privata

    Per la prima volta nella storia due astronauti non professionisti hanno effettuato una “passeggiata spaziale” (attività extraveicolare o EVA) gestita da una società privata.L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito della missione Polaris Dawn iniziata martedì 10 settembre, con il lancio da Cape Canaveral in Florida della capsula spaziale Crew Dragon di SpaceX. A bordo della navicella ci sono quattro persone compreso il miliardario Jared Isaacman, che ha finanziato buona parte del viaggio.
    Attualmente Crew Dragon si trova in un’orbita ellittica che porta la capsula ad avere una distanza minima dalla Terra di circa 190 chilometri e ad allontanarsi dal nostro pianeta fino a una distanza di 700 chilometri. Nelle prime fasi della missione, Crew Dragon si era spinta fino a 1.400 chilometri, il punto più distante nello Spazio mai raggiunto da un equipaggio in più di 50 anni, cioè dalla fine del programma spaziale Apollo della NASA per raggiungere la Luna (che si trova a quasi 400mila chilometri dalla Terra).
    L’EVA è stata effettuata da Isaacman e da Sarah Gillis, un’ingegnera di SpaceX, mentre all’interno della capsula sono rimasti i loro due compagni di viaggio: Scott Poteet, un ex pilota di aerei militari, e Anna Menon, un’altra ingegnera di SpaceX. Per la loro escursione all’esterno della capsula, Isaacman e Gillis hanno indossato tute sperimentali progettate da SpaceX per resistere all’ambiente spaziale. Sono state sviluppate partendo dalle tute solitamente utilizzate dagli astronauti che grazie a Crew Dragon possono raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, nell’ambito degli accordi commerciali tra SpaceX e la NASA.
    Le tute non hanno sistemi autonomi di erogazione dell’ossigeno e di mantenimento della pressione, per compensare il vuoto pressoché totale dell’ambiente spaziale. Sono collegate alla capsula attraverso tubi e cavi che permettono il trasferimento dell’ossigeno e dell’azoto, nonché dell’energia necessaria per far funzionare le altre strumentazioni. Dopo circa 40 minuti di preparazione, Isaacman e Gillis sono usciti a turno da un portellone sulla sommità di Crew Dragon e sono rimasti all’esterno della capsula per 15-20 minuti ciascuno. Oltre a essere un’importante prima volta per una missione privata, l’EVA ha lo scopo di verificare la tenuta e l’affidabilità delle tute di SpaceX in vista delle prossime missioni.
    Di solito le EVA richiedono tempi lunghi di preparazione proprio perché gli astronauti devono abituarsi a condizioni di pressione diverse da quelle tipicamente presenti all’interno dei veicoli spaziali (nella tuta la pressione è inferiore per evitare che questa sia troppo rigida, al punto da ostacolare i movimenti). Sulla ISS chi deve compiere l’attività extraveicolare, per esempio, passa attraverso una camera d’equilibrio (airlock) in modo che ci sia un ambiente intermedio tra la Stazione e lo Spazio. L’astronauta si chiude alle spalle il portellone della ISS e apre un secondo portellone verso l’esterno, in modo che la Stazione continui a essere isolata dall’ambiente spaziale (altrimenti perderebbe ossigeno e pressurizzazione con esiti catastrofici per gli altri occupanti).
    Jared Isaacman poco dopo la sua uscita dalla capsula Crew Dragon (SpaceX)
    Su Crew Dragon non c’è un airlock, quindi tutti i quattro membri di Polaris Dawn hanno indossato le tute per rimanere isolati dall’esterno. Al termine del test e dopo la chiusura del portellone impiegato per l’EVA, la pressione all’interno di Crew Dragon è stata ripristinata insieme alla giusta concentrazione di ossigeno per permettere ai suoi occupanti di togliere le tute e proseguire la missione. Fin dall’inizio della missione le condizioni di pressione e la percentuale di azoto erano state progressivamente ridotte, per quanto in modo lieve, per favorire l’acclimatamento in vista dell’EVA, riducendo il rischio di problemi di compensazione per l’equipaggio.
    Le attività extraveicolari sono relativamente sicure e gli astronauti delle principali agenzie spaziali ne hanno effettuate centinaia in quasi 70 anni di storia dell’esplorazione dello Spazio. I rischi naturalmente non mancano e riguardano soprattutto la tenuta delle tute e la possibilità di chi le indossa di muoversi senza troppi impedimenti, soprattutto in una situazione di emergenza.
    L’attività di oggi ha un importante valore storico perché segna l’inizio di una nuova fase delle esplorazioni spaziali da parte dei privati, finora limitate. L’esito del test non era scontato considerato che le tute di SpaceX non erano mai state sperimentate prima nell’ambiente spaziale, né Crew Dragon in una condizione in cui il suo interno viene esposto all’ambiente spaziale per diversi minuti.
    La vista dal casco di Jared Isaacman durante l’EVA (SpaceX)
    Per Isaacman non è la prima volta nello Spazio. Nel settembre del 2021 aveva già raggiunto l’orbita con la missione Inspiration4, sempre gestita da SpaceX e in compagnia di altre tre persone, nessuna delle quali faceva l’astronauta di professione per conto dei governi e di istituzioni pubbliche, come è quasi sempre avvenuto dagli albori delle esplorazioni spaziali oltre 60 anni fa. Come era accaduto con Inspiration4, anche per Polaris Dawn né Isaacman né SpaceX hanno fatto sapere i costi dell’iniziativa, comunque nell’ordine di decine di milioni di dollari, senza contare i costi per lo sviluppo di alcune nuove tecnologie da parte di SpaceX.
    Fino a oggi solamente alcuni astronauti della NASA, dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e di quelle del Canada, della Russia e della Cina avevano effettuato un’EVA, per esempio per la costruzione e la manutenzione delle stazioni orbitali costruite nel tempo intorno alla Terra, superando grandi difficoltà tecniche e gestendo i molti rischi che derivano dal trovarsi nel vuoto pressoché totale dello Spazio. Le tute per farlo sono in sostanza delle piccole astronavi da indossare, ce ne sono poche e sono estremamente costose, ma SpaceX come altre aziende private vuole cambiare le cose.
    Polaris Dawn ha una durata di cinque giorni con una quarantina di esperimenti da effettuare a bordo, molti dei quali orientati a valutare gli effetti della permanenza nello Spazio sull’organismo – come si fa da anni sulla ISS – e a sperimentare nuove tecnologie che potrebbero essere impiegate in futuro nelle missioni di lunga durata verso la Luna e forse un giorno Marte. Al termine della missione, Crew Dragon si tufferà al largo della costa della Florida, dove una squadra di recupero si occuperà di riportare sulla terraferma la capsula e i suoi quattro occupanti. Isaacman e SpaceX hanno in programma almeno altre due missioni, ma non hanno ancora fornito informazioni sulle modalità e sui tempi, che in parte dipenderanno dai risultati ottenuti con questa missione. LEGGI TUTTO

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    È cominciata la missione Polaris Dawn di SpaceX, che dovrebbe rendere possibile la prima “passeggiata spaziale” per un equipaggio privato

    Martedì mattina una capsula di SpaceX che trasporta quattro privati cittadini è decollata dal Kennedy Space Center della NASA, in Florida: sono partiti per una missione di cinque giorni nota come Polaris Dawn, e se tutto andrà secondo i piani saranno i primi non astronauti a fare una “passeggiata spaziale” (EVA, come vengono chiamate informalmente le attività extraveicolari nello spazio): l’equipaggio è composto dall’imprenditore miliardiario quarantunenne Jared Isaacman, che ha finanziato personalmente gran parte della missione, da Scott “Kidd” Poteet, un tenente colonnello dell’aeronautica in pensione, e dalle ingegnere di SpaceX Sarah Gillis e Anna Menon.A oggi solamente alcuni astronauti della NASA, dell’Agenzia spaziale europea e di quelle del Canada, della Russia e della Cina hanno effettuato un’EVA, per esempio per la costruzione e la manutenzione delle stazioni spaziali costruite nel tempo intorno alla Terra. Oltre a questo Polaris Dawn dovrebbe essere la prima missione con un equipaggio ad allontanarsi così tanto dalla Terra dai tempi di Apollo 17, l’ultima missione del programma lunare statunitense che raggiunse la Luna nel 1972: arriverà a quasi 1.400 chilometri dalla Terra.

    Inizialmente Polaris Dawn doveva partire a fine agosto, ma il lancio è stato posticipato prima perché era stata rilevata una perdita di elio sulla rampa di lancio, e poi per via del maltempo al largo della costa della Florida, dove è previsto che la capsula atterrerà alla fine della spedizione. La “passeggiata spaziale” è prevista per il terzo giorno della missione. LEGGI TUTTO

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    Quando un secolo fa si pensò di aver captato i marziani

    Caricamento playerNegli ultimi giorni di agosto di un secolo fa, nel cielo sopra Washington, DC molte persone osservarono un dirigibile. Era stato collocato a circa 3mila metri di altitudine sopra allo United States Naval Observatory, una delle più importanti istituzioni scientifiche del paese, per provare a captare un messaggio radio proveniente da Marte in modo da confermare le ipotesi sull’esistenza di una popolazione aliena nel nostro sistema solare.
    L’esperimento in un certo senso funzionò: qualcosa fu effettivamente captato, ma nessuno fu in grado di comprenderne la fonte e ancora oggi quella trasmissione rimane per molti un mistero. Ciò che avvenne in quell’estate del 1924 contribuì comunque a rinfocolare una certa curiosità nei confronti di Marte e dei suoi presunti occupanti, condizionando parte del dibattito sulla domanda che ci facciamo praticamente da sempre: siamo soli nell’Universo?
    L’idea di realizzare una grande antenna da collegare a un dirigibile per captare messaggi provenienti dallo Spazio era venuta a Charles Francis Jenkins, un inventore ricordato soprattutto per i suoi prototipi per lo sviluppo della televisione, e ad alcuni suoi colleghi. La fine di agosto del 1924 sembrava il momento ideale per farlo: nel loro errare periodico nel cosmo seguendo le proprie rispettive orbite, Marte e la Terra non erano mai stati così vicini dall’estate del 1845 e non lo sarebbero più stati per almeno ottant’anni. Se c’era qualcosa su Marte da scoprire, quello era il momento buono e Jenkins non era stato certo l’unico ad avere quell’intuizione.
    Complici le dichiarazioni di alcuni scienziati e di semplici appassionati, che avevano trovato ampio spazio sui giornali soprattutto negli Stati Uniti, si era generata una certa frenesia per quello che era stato definito uno degli eventi astronomici più rilevanti dell’epoca. La Terra e Marte si sarebbero trovati a circa 54,7 milioni di chilometri di distanza rispetto alla media di 225 milioni di chilometri. Molti osservatori organizzarono eventi notturni e iniziative per osservare Marte con i loro telescopi, mentre altri si dedicarono a una delle tecnologie del momento: la radio.
    Marte e la Terra alla fine di agosto 1924 (Solar System Scope)
    La Marina militare statunitense aveva proposto e ottenuto che tra il 21 e il 24 agosto di quell’anno fosse mantenuto un silenzio radio per cinque minuti ogni ora, in modo da poter intercettare più facilmente eventuali messaggi marziani. L’idea era intrigante, considerato che all’epoca si sapevano pochissime cose su Marte e che mancavano più di trent’anni all’inizio delle esplorazioni spaziali, ma come captare efficacemente un segnale fu oggetto di numerose discussioni e speculazioni.
    L’astronomo statunitense David Peck Todd, diventato famoso soprattutto per le sue osservazioni di Venere, pensò che la persona giusta per provarci fosse Jenkins, che con le sue invenzioni aveva ottenuto progressi nelle tecnologie per le comunicazioni radio. Nel suo laboratorio, Jenkins disponeva di una radio SE-950, costruita nel 1918 e pensata come un dispositivo portatile che avrebbero potuto usare i soldati statunitensi per comunicare sui campi di battaglia. La radio non era mai stata testata per questi scopi ed era diventata uno degli strumenti utilizzati da Jenkins per i suoi esperimenti.
    Radio SE-950 (Henry Ford Museum)
    Sollecitato da Todd, Jenkins ipotizzò insieme ad altri che per captare segnali provenienti da un altro mondo fosse necessaria un’antenna più grande del solito e fu quindi elaborato il piano del dirigibile. L’idea è che fosse parte integrante dell’antenna stessa orientata verso Marte e che inviasse poi un segnale alla SE-950 nel laboratorio di Jenkins in modo da riceverlo, amplificarlo e trasferirlo su carta.
    Jenkins insieme ad altri collaboratori aveva infatti costruito una “radio fotocamera” per convertire i segnali radio in impulsi luminosi, che lasciavano poi una traccia su un rullino di carta fotografica. Appena un anno dopo Jenkins avrebbe ottenuto uno dei primissimi brevetti per la trasmissione di immagini e suoni in contemporanea, diventando uno dei pionieri della televisione, ma in quell’estate del 1924 la sua “radio fotocamera” era ancora rudimentale e soprattutto non era detto che i marziani volessero trasmettere qualche immagine.
    Qualcosa fece comunque imprimere sulla carta fotografica un’immagine. Tra le 13:00 del 22 agosto e le 17:00 del 23 agosto 1924, l’antenna-dirigibile captò un segnale che fu trasmesso alla radio SE-950 e poi tradotto in una serie di immagini dalla “radio fotocamera”. Era una sorta di spettrogramma (una rappresentazione grafica dell’intensità e della frequenza di un suono nel tempo), ma tale era il desiderio di avere un messaggio da Marte che fu interpretato da molti come la rappresentazione di un viso.

    Non è chiaro se esista ancora l’originale di quel segnale tradotto in immagini, ma grazie a diverse copie e citazioni in studi e ricerche successive possiamo ancora oggi vedere come era fatto. Intravedere un viso tra la combinazione di punti e linee più scure richiede una certa dose di immaginazione, ma è importante ricordare che un secolo fa non c’erano le conoscenze scientifiche di oggi, che il mondo era meno connesso e che per diverso tempo si era creduto genuinamente all’esistenza dei marziani, anche a causa di un italiano.
    Nella seconda metà dell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli aveva osservato Marte in un’altra occasione in cui si trovava particolarmente vicino alla Terra. Notò alcune linee sulla superficie del pianeta e ipotizzò che si trattasse di corsi d’acqua naturali, dei “canali” come li definì nei suoi studi. Per un errore di traduzione in inglese i canali divennero “canals”, parola solitamente usata per indicare i canali artificiali, e non “channels” che si usa invece per definire i canali derivanti da fenomeni naturali. Negli anni seguenti l’astronomo statunitense Percival Lowell fu tra i primi a proporre che Marte fosse popolato da una civiltà evoluta, sostenendo che se c’erano effettivamente dei canali artificiali qualcuno doveva pur averli costruiti.
    La questione dei canali divenne centrale nel costruire il mito dei marziani e più in generale di mondi lontani dal nostro popolati da altre civiltà. Intorno agli anni Dieci del Novecento quella convinzione era stata ormai smentita grazie a nuove osservazioni, ma l’idea che Marte fosse popolato aveva fatto presa nell’immaginario collettivo e non stupisce quindi che nel 1924 così tante persone fossero alla ricerca di segnali radio marziani. Captarli sarebbe stato difficilissimo, ma valeva la pena provare.
    Fu in quel contesto che nella striscia di carta fotosensibile di Jenkins molti videro un volto e che si costruì il mistero intorno al segnale che lo aveva generato. È vero che non sapremo mai per certo che cosa fosse quel segnale, ma è altrettanto vero che disponiamo di spiegazioni convincenti, come ha ricordato al New York Times Kristen Gallerneaux, una delle curatrici dell’Henry Ford Museum dove è conservata la radio SE-950: «Si era alla ricerca di un segnale indirizzato verso di noi dentro una cosa che non era mai stata progettata per essere una rappresentazione visiva riconoscibile. È rumore di fondo. Eppure le persone ci vedono ancora delle cose dentro e pensano che si tratti di un tipo di comunicazione intelligente».
    L’antenna sul dirigibile aveva probabilmente captato del rumore di fondo, cioè interferenze dovute ad altre trasmissioni o alle condizioni ambientali, inoltre gli strumenti stessi per captare e amplificare i segnali radio possono produrlo alterando ulteriormente la ricezione. È un problema con cui si confrontano ancora oggi i gruppi di ricerca che usano i radiotelescopi e più banalmente chi ascolta musica alla radio. Un secolo fa gli strumenti di ricezione e ascolto erano meno raffinati e avanzati, di conseguenza è probabile che fossero ancora più soggetti ad alcuni tipi di interferenze.
    Una mappa di Marte derivata dagli studi di Schiaparelli (Wikimedia)
    L’esperimento di Jenkins e Todd non fu comunque l’unico e in varie altre parti del mondo furono usate strumentazioni radio per provare a captare qualcosa. Nella British Columbia, nel Canada occidentale, si pensò che alcuni segnali radio potessero indicare la volontà da parte di alcuni marziani di provare a comunicare con la Terra. In Inghilterra furono invece captati rumori ritenuti estranei alle normali comunicazioni radio prodotte sulla Terra.
    Le presunte rivelazioni alimentarono ulteriormente il confronto già molto acceso sull’esistenza o meno dei marziani, tirando in mezzo anche Jenkins rimasto sorpreso dalle interpretazioni creative di quanto aveva registrato. Preoccupato dalla possibilità che le ipotesi più fantasiose potessero danneggiare la sua reputazione scientifica, qualche giorno dopo le osservazioni pubblicò un articolo nel quale chiariva di non ritenere che «i risultati abbiano a che fare con Marte». Già all’epoca Jenkins scrisse che la spiegazione più probabile per il segnale erano semplici interferenze dovute ad alcune attività terrestri e non marziane.
    Charles Francis Jenkins nel 1928 (Courtesy Everett Collection/ Contrasto)
    Jenkins e gli altri scienziati e appassionati del 1924 non avevano ancora i mezzi adeguati, ma avevano intuito che un modo per cercare eventuali civiltà aliene fosse mettersi in ascolto. Una decina di anni dopo i loro tentativi nacque formalmente la radioastronomia, cioè lo studio dei corpi celesti attraverso le frequenze radio, con il primo rilevamento da un corpo celeste.
    La radioastronomia si è rivelata fondamentale per studiare le stelle e le galassie, i modi in cui evolvono e compongono l’Universo, ma non solo. I radiotelescopi sono stati utilizzati e vengono ancora oggi impiegati per provare a cogliere particolari segnali radio, diversi da quelli che conosciamo e che potrebbero fornire indizi su civiltà lontane che come noi provano a capire se siano effettivamente sole.
    Quanto a Marte, negli ultimi decenni abbiamo scoperto molte cose sulla sua storia, trovando indizi sulla possibilità che un tempo avesse ospitato qualche forma di vita. Manca ancora la prova definitiva, ma disponiamo di robot che ogni giorno esplorano la superficie marziana per fotografarla e analizzarla. I loro sono gli unici segnali radio che riceviamo da Marte. LEGGI TUTTO

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    Una decisione molto difficile per la NASA

    Caricamento playerLo scorso 5 giugno due astronauti della NASA sono partiti verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per una missione che sarebbe dovuta durare poco più di una settimana: nonostante di giorni ne siano passati quasi 80, non sono ancora tornati sulla Terra.
    Starliner, la capsula di Boeing che li aveva trasportati oltre l’atmosfera terrestre, ha avuto alcuni problemi tecnici e da più di due mesi la NASA si chiede se sia sicura a sufficienza per riportare indietro i suoi due astronauti. Dopo numerosi rinvii e tentennamenti, in una riunione in programma per sabato 24 agosto i responsabili dell’agenzia spaziale dovranno concordare un piano di recupero: una delle decisioni più difficili sulla sicurezza dei sistemi di trasporto per astronauti dal tempo degli Shuttle.
    Il lancio di Starliner a inizio giugno era andato secondo i piani, ma prima che la capsula raggiungesse la ISS erano emersi problemi ai sistemi di manovra. Cinque dei 28 propulsori utilizzati per orientare la capsula e regolare la sua rotta avevano smesso di funzionare, richiedendo alcune attività aggiuntive per rendere possibile l’attracco con la Stazione a circa 400 chilometri di altitudine.
    Per Starliner era il primo volo con astronauti a bordo – Butch Wilmore e Suni Williams – dopo anni di prove e ritardi sulle consegne costati finora a Boeing e alla NASA circa 6,7 miliardi di dollari. Il test, che formalmente è ancora in corso, era fondamentale per dimostrare l’affidabilità e la sicurezza di Starliner nell’ambito del programma della NASA per affidare i viaggi verso la ISS ai privati, come già fatto in precedenza e con successo con SpaceX, la società spaziale di Elon Musk.
    Dopo l’arrivo di Wilmore e Williams sulla ISS, i tecnici avevano provato a capire le cause del malfunzionamento dei propulsori. Per farlo, avevano effettuato alcuni test qui sulla Terra identificando un potenziale problema nella parte in Teflon (il materiale plastico che rende antiaderenti le padelle) delle valvole dei propulsori, che al passaggio del propellente si era deformata lievemente impedendo al propellente stesso di fluire nelle giuste quantità. Analisi svolte in seguito hanno però portato a mettere in dubbio quelle valutazioni: il Teflon una volta deformato difficilmente recupera la forma iniziale, eppure test svolti in orbita hanno mostrato che ora i propulsori sembrano funzionare normalmente. Il sospetto è che sia qualcos’altro che occlude temporaneamente le valvole e che il problema possa ripresentarsi nelle fasi di rientro di Starliner, con esiti che potrebbero essere catastrofici nel caso in cui un propulsore otturato causasse un’esplosione.
    Le incertezze sulle effettive cause del malfunzionamento dei propulsori hanno portato a un lungo confronto tra i tecnici di Boeing e della NASA, che continua ancora oggi e che ha determinato la prolungata permanenza di Williams e Wilmore sulla ISS. Sulla Stazione ci sono risorse più che sufficienti per provvedere ai due ospiti aggiuntivi, ma se dovessero rimanere ancora a lungo ci potrebbero essere conseguenze su altre missioni, perché i posti sulla ISS sono comunque limitati.
    Gli astronauti della NASA Butch Wilmore e Suni Williams a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (NASA via AP)
    Alcune conseguenze sulle attività in orbita ci sono del resto già state. Nelle settimane dopo il lancio di Starliner, la NASA ha rinviato di almeno un mese il lancio della prossima missione con astronauti verso la ISS e gestita da SpaceX. La partenza non avverrà prima del 24 settembre, ma i tempi sono comunque stretti: SpaceX deve sapere a breve se dovrà inviare quattro astronauti come inizialmente previsto o solamente due, in modo da poter accogliere nel viaggio di ritorno Williams e Wilmore. La necessità di saperlo con un certo anticipo deriva dai tempi che occorrono per configurare la capsula da trasporto Crew Dragon in base al numero di occupanti. La NASA dovrà quindi decidere che cosa fare entro pochi giorni e non sarà una scelta semplice.
    Nel caso in cui la decisione sia di non far rientrare Williams e Wilmore con Starliner, i due astronauti dovranno rimanere sulla ISS fino al prossimo febbraio, quando potranno effettuare il viaggio di ritorno con una capsula Crew Dragon. In questo scenario Williams e Wilmore rimarrebbero quindi a bordo della Stazione per otto mesi, una notevole estensione per una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni. Prima dell’arrivo di Crew Dragon a fine settembre, Starliner dovrà comunque lasciare la ISS in modo da liberare lo spazio di attracco per la capsula di SpaceX. Starliner dovrebbe quindi essere configurata per effettuare un rientro in automatico sulla Terra, senza equipaggio a bordo, altra attività che richiede tempo e che rende necessaria al più presto una decisione da parte della NASA.
    La scelta finale dovrebbe spettare a Kenneth Bowersox, a capo della divisione dell’agenzia spaziale che si occupa delle operazioni di volo. Ex astronauta, nel 2003 Bowersox si trovava sulla Stazione Spaziale Internazionale quando avvenne il disastro dello Space Shuttle Columbia, che si disintegrò al proprio rientro nell’atmosfera terrestre determinando la morte delle sette persone a bordo, come ha ricordato Stephen Clark su Ars Technica. All’epoca erano stati sottostimati i danni causati allo scudo termico dello Shuttle da un detrito nella fase di lancio, una sottovalutazione che influì fortemente sul programma spaziale statunitense e sui criteri di sicurezza adottati dalla NASA da allora.
    Lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante il rientro nell’atmosfera terrestre, 1 febbraio 2003 (Mario Tama/Getty Images)
    Bowersox deciderà basandosi sulle informazioni e sui pareri forniti dai gruppi di lavoro che si occupano della revisione dei voli spaziali, della sicurezza, delle missioni spaziali e si consulterà anche con i rappresentanti degli astronauti. Nel caso in cui dovessero emergere pareri discordanti, la decisione finale potrebbe essere affidata a Bill Nelson, l’amministratore della NASA (a sua volta ex astronauta). Lo stesso Nelson di recente ha cercato a suo modo di rassicurare sul processo decisionale: «Sono fiducioso, soprattutto perché spetta a me la decisione finale».
    Le persone che insieme a Bowersox dovranno decidere che cosa fare lavoravano già tutte alla NASA ai tempi del disastro del Columbia, cosa che secondo diversi esperti influirà sulle scelte dei prossimi giorni. I responsabili di Starliner, che dipendono da Boeing e con forti interessi nella decisione, hanno mostrato di essere un poco più propensi al rischio, ribadendo comunque che la sicurezza degli astronauti è prioritaria e che la scelta finale spetta ai responsabili della NASA.
    L’attuale direttore di missione di Starliner per conto di Boeing, LeRoy Cain, era direttore di volo quando il Columbia si disintegrò nel corso del suo rientro nell’atmosfera. All’epoca lavorava nel centro di controllo del Johnson Space Center della NASA e assistette in tempo reale all’incidente, ricevendo aggiornamenti sui sensori dello Shuttle che stavano rilevando vari cedimenti strutturali nella sua ala sinistra, che avrebbero poi portato alla distruzione dell’astronave. Ancora prima del lancio di Starliner, quando erano emersi altri problemi tecnici, Cain aveva promesso di non far partire la capsula fino a quando non fosse stata pronta.
    Proprio per il coinvolgimento di persone come Bowersox e Cain, nelle ultime settimane sono stati effettuati numerosi paralleli tra Columbia e Starliner, anche se le due astronavi hanno caratteristiche e storie molto diverse. Nel 2003 i danni effettivamente subiti dal Columbia al lancio non erano completamente chiari e, con le conoscenze dell’epoca, l’astronave sembrava avere tutti i requisiti per effettuare un rientro; non c’erano inoltre molte alternative e possibilità di studiare piani di recupero degli astronauti con altri mezzi. I problemi di Starliner sono invece ampiamente noti e si aggiungono a quelli emersi nella lunga fase di sviluppo, che ha richiesto molti più anni del previsto.
    Il lancio di Starliner sulla sommità di un razzo Atlas V il 5 giugno 2024 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Chris O’Meara)
    La maggiore frequenza dei lanci spaziali con astronauti necessaria per gli avvicendamenti degli equipaggi sulla ISS hanno portato in questi anni a una percezione delle attività spaziali routinaria, al punto da essere per alcuni quasi scontato il fatto che ci siano esseri umani che superano l’atmosfera terrestre e vivono per alcuni mesi in orbita. In realtà raggiungere l’orbita è ancora oggi una delle attività più rischiose che si possano fare: gli astronauti e le astronaute ne sono consapevoli e sanno che i rischi fanno parte del loro mestiere e che le agenzie spaziali fanno il possibile per ridurli.
    Questo spiega le grandi precauzioni e i frequenti rinvii dei lanci spaziali con equipaggi, ma anche le cautele che la NASA sta mantenendo su Starliner, nonostante i ritardi e la prospettiva di dover rivedere alcuni piani non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
    Se Starliner dovesse tornare sulla Terra senza equipaggio, potrebbe rendersi necessario un nuovo volo sperimentale per certificare la capsula spaziale per le missioni con esseri umani. I tempi si allungherebbero ulteriormente e Boeing potrebbe non essere in grado di garantire i sei lanci previsti da contratto entro il 2030, anno in cui la ISS smetterà di essere utilizzata. Per Boeing sarebbe inoltre un ulteriore danno di immagine, dopo quelli legati ai problemi di sicurezza emersi con alcuni dei propri aeroplani negli anni scorsi e che hanno fatto mettere in dubbio in generale l’affidabilità dell’azienda in termini di sicurezza.
    A prescindere dalla scelta di sabato della NASA, Boeing ha comunque perso la propria corsa allo Spazio con SpaceX. Dopo il pensionamento degli Shuttle nel 2011, nel 2014 la NASA affidò alle due aziende il compito di trasportare gli equipaggi in orbita, con un finanziamento di 2,6 miliardi di dollari per SpaceX e di 4,2 miliardi di dollari per Boeing. Mentre quest’ultima non ha ancora completato un volo di test, SpaceX in quattro anni ha inviato 11 equipaggi verso la ISS e si prepara per la dodicesima missione. LEGGI TUTTO

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    Ci sono due astronauti bloccati sulla Stazione Spaziale Internazionale

    Caricamento playerBarry Wilmore e Sunita Williams, i due astronauti della NASA che avevano raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a bordo della prima missione della capsula spaziale Starliner di Boeing con equipaggio partita il 5 giugno, sarebbero dovuti restarci per otto giorni. Passati più di due mesi dal lancio, tuttavia, non è ancora chiaro come e quando rientreranno sulla Terra e la NASA non esclude che possa succedere addirittura il prossimo febbraio.
    Quella di Starliner è una delle missioni spaziali più importanti del 2024, ma durante il viaggio verso la ISS la capsula ha avuto dei malfunzionamenti che hanno causato il ritardo del rientro previsto settimane fa. In una conferenza stampa mercoledì la NASA ha spiegato perché Starliner potrebbe non essere sicura per il viaggio di rientro degli astronauti e ha detto di star valutando di farli rientrare con la Crew Dragon di SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, rivale di Boeing.
    Se la NASA decidesse di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX anziché con Starliner la missione si allungherebbe ulteriormente di diversi mesi. Sarebbe inoltre l’ennesimo fallimento per Boeing, che negli ultimi anni ha avuto guai enormi, prima per i gravi incidenti aerei ai suoi 737 Max e più di recente per il volo di Alaska Airlines, che aveva perso un pezzo della fusoliera mentre era in volo.
    Starliner era partita dalla base di lancio di Cape Canaveral, negli Stati Uniti, lo scorso 5 giugno, dopo una serie di ritardi e rinvii per problemi tecnici vari. Wilmore e Williams avrebbero dovuto affiancare l’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione per una settimana circa. La missione serviva per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo che la navicella di Boeing potesse ottenere le certificazioni finali della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per il trasporto di persone e cose verso e dalla Stazione. Attualmente infatti per queste attività la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos).
    Durante il viaggio verso la Stazione spaziale internazionale si sono però verificati dei malfunzionamenti: la NASA e Boeing hanno svolto test e simulazioni sui propulsori della capsula sia a terra che nello Spazio, concludendo che funzionano sufficientemente bene perché possa rientrare. Tuttavia i test non hanno chiarito con certezza cosa abbia provocato i malfunzionamenti e «in generale la comunità della NASA vorrebbe capire un po’ meglio sia la causa a monte che la fisica» dietro a questi inconvenienti, ha detto mercoledì Steve Stich, responsabile del programma dei voli commerciali dell’Agenzia.
    Alla conferenza stampa non era stato invitato alcun dirigente di Boeing, ma l’azienda aveva già espresso disaccordo con le valutazioni della NASA. In un comunicato diffuso la settimana scorsa aveva sostenuto che Starliner fosse in grado di completare il volo e di riportare gli astronauti sulla Terra «in sicurezza», come a suo dire dimostrato dai dati raccolti durante i test sui propulsori.
    (NASA via AP)
    Stich sostiene che l’opzione «preferita» continua a essere quella di riportare Wilmore e Williams sulla Terra con Starliner, anche perché fare diversamente creerebbe altri problemi. Secondo Ken Bowersox, uno dei responsabili delle operazioni spaziali della NASA, in base agli ultimi dati, alle ultime analisi e alle discussioni più recenti si sta però valutando di far tornare indietro Starliner senza equipaggio e di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX alla fine della sua prossima missione.
    Una delle opzioni possibili sarebbe appunto far rientrare Wilmore e Williams con la prossima missione Crew-9 di SpaceX, facendola partire con due astronauti anziché quattro, in modo che ci sia appunto posto per loro. Questo però comporterebbe integrarli nella rotazione degli astronauti impegnati nelle attività sulla ISS, e visto che la missione della Crew-9 dovrebbe durare fino al febbraio del 2025 Wilmore e Williams rimarrebbero sulla Stazione per altri sei mesi, per un totale di otto mesi contro una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni.
    In questo caso la Starliner rientrerebbe sulla Terra da sola, ma questo implicherebbe la necessità di riconfigurare la capsula per il rientro senza equipaggio. Inoltre a quel punto la NASA dovrebbe decidere se i dati raccolti durante il rientro senza astronauti siano sufficienti per assegnare la certificazione per il trasporto di persone e cose a Starliner.
    I dirigenti della NASA hanno detto di avere più o meno «fino a metà agosto» per prendere una decisione definitiva.

    – Leggi anche: Un nuovo successo per Starship

    Boeing è la principale azienda statunitense produttrice di aeroplani nonché una delle due società che hanno vinto gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto per la NASA oltre appunto a SpaceX. Negli ultimi tempi tuttavia la fiducia dell’Agenzia nei confronti dell’azienda sarebbe calata, ha detto al Washington Post una persona vicina alla dirigenza della NASA citata in forma anonima perché non autorizzata a parlare pubblicamente.
    Per produrre la Starliner spaziale Boeing ha ottenuto un finanziamento da 4,2 miliardi di dollari, ma come SpaceX è stata a lungo in ritardo sulla progettazione e sulla costruzione della sua capsula, che a giugno è finalmente stata lanciata con i due astronauti a bordo dopo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio del 2019 e altri problemi tecnici.
    Dal momento che per raggiungere la ISS la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz c’è anche chi ritiene che decidere di non usare Starliner per far rientrare i due astronauti potrebbe spingere Boeing a ritirarsi, ha notato sempre il Washington Post. Intanto la NASA ha fatto sapere di aver ritardato la partenza della missione Crew-9 dal 18 agosto alla fine di settembre in modo da avere più tempo per decidere cosa fare con Starliner. LEGGI TUTTO

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    Come riconoscere le costellazioni in queste notti d’estate

    Caricamento player«Guarda come si vede bene l’Orsa maggiore!», e non vedete niente. «Ma sì, lo vedi quel punto luminoso? Parti da lì poi vieni giù un po’ a destra e vedi il primo pezzo della costellazione» e ancora nulla. L’amico insiste, la notte è tersa e limpida, ideale per osservare le stelle, ma un’Orsa tanto più maggiore in cielo proprio non riuscite a vederla. Non resta che fingere, fare contento l’amico e sperare almeno in una stella cadente per cambiare discorso.
    Ogni notte in cielo sono visibili centinaia se non migliaia di stelle, a seconda del luogo in cui ci si trova, delle condizioni del cielo e della quantità di inquinamento luminoso, il principale ostacolo all’osservazione della volta celeste soprattutto in Europa. Eppure la maggior parte delle persone ha poca dimestichezza con l’osservazione e il riconoscimento di pianeti, stelle e costellazioni, nonostante i nomi di alcune di queste ultime siano ricorrenti come Orsa maggiore, Cassiopea o Lira, per non parlare di tutte quelle dell’oroscopo.
    Una costellazione è un modo convenzionale di raggruppare insieme alcune stelle visibili in cielo, che idealmente formano particolari figure mitologiche, animali o oggetti. Sono raggruppamenti puramente visivi e non hanno alcuna rilevanza da un punto di vista fisico e più in generale scientifico. Le stelle che le costituiscono sono infatti molto diverse tra loro, non interagiscono le une con le altre e si trovano a distanze enormi in tutte le direzioni dello Spazio. Ma a causa degli effetti prospettici, dal nostro punto di osservazione ci appaiono come se fossero sullo stesso piano, anche se non lo sono, e possiamo quindi raggrupparle insieme per riconoscerle più facilmente.
    Quasi un secolo fa, nel 1930, l’Unione Astronomica Internazionale formalizzò un elenco di 88 costellazioni, utilizzate poi per dividere la sfera celeste in 88 settori con confini ben determinati, in modo da poter identificare facilmente ogni stella in una certa costellazione. La sfera celeste è una sfera immaginaria, nel nostro caso una sorta di guscio esterno della Terra, su cui sono visibili le stelle e gli altri corpi celesti. È un modo per avere punti di riferimento condivisi quando si osserva la volta celeste, cioè come appaiono le stelle in cielo guardando da un punto di osservazione della Terra.
    La sfera celeste che “ingloba” la Terra, con le principali costellazioni disegnate (Wikimedia)
    Le costellazioni hanno quasi sempre nomi legati alla mitologia classica, per lo più dell’antica Grecia, per quanto riguarda quelle boreali – cioè osservabili dall’emisfero terrestre in cui ci troviamo – mentre le costellazioni australi hanno nomi più creativi e attribuiti da astronomi e navigatori moderni. Le costellazioni dello zodiaco sono presenti in una banda immaginaria posta intorno al cammino apparente del Sole nel cielo nel corso di un anno (“piano dell’eclittica”), area dove sono visibili anche i pianeti e per questo molto studiata già a partire dall’antichità.
    I pianeti sono molto più piccoli delle stelle, ma sono più vicini a noi, di conseguenza appaiono in cielo come puntini luminosi tali e quali alle stelle che sono invece enormemente distanti. Possono comunque essere riconosciuti per una particolarità: proprio perché sono più vicini e non emettono direttamente la luce, ma riflettono quella del Sole, i pianeti appaiono come punti luminosi “stabili”, rispetto alle stelle che per via della loro distanza e di altri fattori appaiono tremolanti (si dice che “baluginano”). A seconda dell’ora della notte, i pianeti visibili a occhio nudo sono Mercurio, Marte, Venere, Giove e Saturno.
    CostellazioniLe stelle, e di conseguenza le costellazioni, non appaiono fisse nel cielo a causa della rotazione della Terra attorno al proprio asse. Ogni minuto che passa, l’intera sfera celeste si sposta con un moto apparente: la maggior parte delle stelle sorge a est e tramonta a ovest, proprio come fa il Sole ogni giorno. Osservare alcune costellazioni significa quindi inseguirle nel corso della notte, man mano che si spostano verso ovest fino a scomparire alla stessa vista. Ma non tutte le costellazioni si muovono in questo modo.

    Le costellazioni circumpolari sono infatti particolari gruppi di stelle sempre visibili, perché sono in prossimità del nord celeste, cioè il punto nel cielo verso il quale è orientato l’asse di rotazione terrestre nell’emisfero nord (ce n’è naturalmente uno anche nell’emisfero sud). Nel loro moto apparente, queste costellazioni appaiono molto in alto nella volta celeste, di conseguenza non spariscono sotto l’orizzonte durante il loro moto apparente insieme a tutto il resto del cielo. Queste costellazioni sono state a lungo essenziali per orientarsi nel cielo notturno, proprio perché rappresentano dei punti quasi fermi.
    L’osservazione delle costellazioni è però complicata da un altro fattore, legato sempre ai movimenti del nostro pianeta. Oltre a girare su sé stessa, la Terra gira anche intorno al Sole e questo fa sì che il cielo notturno cambi un poco ogni notte nel corso dell’anno. Una costellazione osservabile in una certa posizione questa notte, per esempio, sarà lievemente spostata domani notte e lo sarà ancora di più tra uno o due mesi. È proprio a causa del movimento della Terra intorno al Sole che le costellazioni diventano più o meno osservabili nelle varie stagioni: non spariscono completamente, ma ci sono periodi dell’anno in cui sono visibili per più tempo in cielo nel corso di una notte.
    Orsa maggioreÈ forse la costellazione più citata e conosciuta tra quelle circumpolari, proprio perché alle nostre latitudini è sempre visibile. Le sue sette stelle più luminose formano il Grande Carro, il modo più semplice (“asterismo”) per identificare parte della costellazione stessa. È sufficiente guardare verso nord (potete aiutarvi con la bussola dello smartphone) e cercare alcune stelle particolarmente luminose che collegate idealmente tra loro formano una specie di mestolo, come nell’immagine qui sotto.
    Il “Grande Carro” è formato dalle stelle Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid (Wikimedia)
    Il Grande Carro è un ottimo punto di riferimento per scoprire un’altra importante stella della volta celeste. Se infatti si usano le due stelle più esterne a destra, Dubhe e Merak e si immagina di farle attraversare da una linea che prosegue poi per cinque volte la loro distanza apparente si arriva alla Stella polare, la stella più brillante nei pressi del polo nord celeste e importante punto di riferimento per l’orientamento.
    (Wikimedia)
    Orsa minoreUsando la Stella polare come riferimento si può osservare l’Orsa minore, altra costellazione che contiene al suo interno il Piccolo Carro, simile al Grande Carro dell’Orsa maggiore, ma di dimensioni più contenute come suggerisce il nome. La Stella polare è all’estremo dell’asterismo, può essere immaginata come il punto terminale del carro, e il resto della costellazione è osservabile al di sopra della stella stessa.
    (Wikimedia)
    CassiopeaAnche Cassiopea come le due orse è una costellazione circumpolare alle nostre latitudini ed è molto vicina al polo celeste, intorno al quale ruota nel suo moto apparente in verso antiorario. Rispetto alla stella polare si trova dalla parte opposta all’Orsa maggiore e ha una forma abbastanza riconoscibile che ricorda una “M” o una “W” a seconda del periodo di osservazione. È attraversata dalla Via Lattea, la galassia in cui ci troviamo, e per questo è ricca di ammassi stellari che rendono relativamente più luminosa quella porzione di cielo.
    (Wikimedia)
    Costellazioni d’estatePer l’osservazione delle costellazioni in estate di solito si utilizza come riferimento il “triangolo estivo”, un triangolo rettangolo i cui vertici sono tre stelle che in questo periodo dell’anno appaiono molto luminose: Altair, Deneb e Vega. Quest’ultima è la quinta stella più luminosa del cielo a occhio nudo e appare bianco-azzurra: d’estate è molto alta, quasi allo zenit, cioè visibile direttamente sopra la propria testa, leggermente spostata verso sud. Una volta identificata Vega è abbastanza semplice notare Altair e Deneb, disposte come nello schema qui sotto. Imparare a riconoscere il triangolo estivo è molto importante per trovare le altre costellazioni visibili nel cielo notturno d’estate.
    (Wikimedia)
    CignoDeneb, che come abbiamo visto è uno dei vertici del “triangolo estivo”, quello nord-occidentale, è la stella più brillante della costellazione del Cigno. D’estate alle nostre latitudini culmina intorno a mezzanotte allo zenit, cioè è visibile molto alta nel cielo. Idealmente la costellazione ha la forma di un uccello in volo verso sud, che si estende lungo la Via Lattea e per questo contiene moltissimi oggetti come ammassi stellari e nebulose, studiati per le loro caratteristiche. La stella Albireo è il becco del cigno, mentre la coda è Deneb, dall’arabo dhanab che significa appunto “coda”.
    (Wikimedia)
    LiraÈ in proporzione molto più piccola del Cigno, ma è spesso citata perché è facilmente riconoscibile grazie alla presenza di Vega e al fatto che raggiunge la posizione più alta in cielo a mezzanotte nel mese di luglio. Per osservarla si possono tenere come riferimenti Vega a est e la costellazione del Cigno a ovest. Il becco stesso del Cigno appare poco distante da uno dei vertici della Lira, visibile come un parallelepipedo con un piccolo manico alla cui estremità c’è Vega. Idealmente la forma ricorda quella di una lira, strumento musicale che per la mitologia greca e romana era usata da Mercurio e in seguito da Orfeo.
    (Wikimedia)
    AquilaAnche l’Aquila non è difficile da identificare tenendo sempre come riferimento il “triangolo estivo”, proprio perché una delle sue stelle principali è Altair, che forma uno dei vertici del triangolo. Altair dista appena 16 anni luce dalla Terra, contro i 1.600 anni luce di Deneb, dove termina la coda del Cigno. La costellazione appare idealmente come un’aquila in volo e Altair può essere identificata nella sua parte nord-orientale, poco distante dagli ammassi stellari e di polveri visibili formati da parte della Via Lattea.
    (Wikimedia)
    MappeIdentificare le costellazioni non è sempre semplice: oltre a un cielo limpido e con poco inquinamento luminoso (l’ideale è in alta montagna nelle notti senza Luna), occorrono pazienza, una certa resistenza per rimanere svegli fino a tardi e qualche riferimento per non perdersi tra gli astri. Esistono guide e libri che aiutano a orientarsi e a scoprire le costellazioni più famose, da usare direttamente durante le osservazioni, magari usando una torcia possibilmente con una luce poco intensa o con un filtro colorato rosso, in modo da lasciare che i propri occhi si abituino al buio.
    Da diversi anni alle mappe tradizionali si sono affiancate quelle digitali, attraverso applicazioni che permettono di puntare lo smartphone verso il cielo e di ottenere indicazioni sullo schermo per trovare le costellazioni. Una delle app più longeve e apprezzate si chiama Star Walk e ha varie funzioni non solo per cercare le costellazioni, ma anche per identificare diversi altri corpi celesti e tenere traccia del passaggio di alcuni satelliti visibili dalla Terra e della Stazione Spaziale Internazionale. Per le stelle principali oltre al nome sono disponibili descrizioni delle caratteristiche e ulteriori approfondimenti.
    Un’altra applicazione molto apprezzata tra gli astrofili è SkySafari, che oltre a fornire guide per le osservazioni permette a chi ha un telescopio di tenere traccia in tempo reale degli astri e dei loro spostamenti, in modo da semplificare la loro osservazione. L’app viene aggiornata di frequente, ma a causa delle numerose funzionalità può risultare meno intuitiva rispetto ad altre applicazioni per l’osservazione del cielo. LEGGI TUTTO

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    È stato effettuato il primo lancio nello Spazio del razzo europeo Ariane 6

    Mercoledì sera è stato effettuato dalla Guyana francese il lancio inaugurale del razzo Ariane 6, realizzato nell’ambito del programma spaziale “Ariane” dal consorzio europeo Arianespace per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Il programma “Ariane” consiste in una serie di razzi a uso civile, e l’Ariane 6 è il più potente costruito finora dal consorzio: il suo lancio è importante soprattutto perché dovrebbe consentire di gestire lanci spaziali a prezzi più economici e competitivi con quelli dei razzi Falcon 9 di SpaceX. LEGGI TUTTO