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    Quando un secolo fa si pensò di aver captato i marziani

    Caricamento playerNegli ultimi giorni di agosto di un secolo fa, nel cielo sopra Washington, DC molte persone osservarono un dirigibile. Era stato collocato a circa 3mila metri di altitudine sopra allo United States Naval Observatory, una delle più importanti istituzioni scientifiche del paese, per provare a captare un messaggio radio proveniente da Marte in modo da confermare le ipotesi sull’esistenza di una popolazione aliena nel nostro sistema solare.
    L’esperimento in un certo senso funzionò: qualcosa fu effettivamente captato, ma nessuno fu in grado di comprenderne la fonte e ancora oggi quella trasmissione rimane per molti un mistero. Ciò che avvenne in quell’estate del 1924 contribuì comunque a rinfocolare una certa curiosità nei confronti di Marte e dei suoi presunti occupanti, condizionando parte del dibattito sulla domanda che ci facciamo praticamente da sempre: siamo soli nell’Universo?
    L’idea di realizzare una grande antenna da collegare a un dirigibile per captare messaggi provenienti dallo Spazio era venuta a Charles Francis Jenkins, un inventore ricordato soprattutto per i suoi prototipi per lo sviluppo della televisione, e ad alcuni suoi colleghi. La fine di agosto del 1924 sembrava il momento ideale per farlo: nel loro errare periodico nel cosmo seguendo le proprie rispettive orbite, Marte e la Terra non erano mai stati così vicini dall’estate del 1845 e non lo sarebbero più stati per almeno ottant’anni. Se c’era qualcosa su Marte da scoprire, quello era il momento buono e Jenkins non era stato certo l’unico ad avere quell’intuizione.
    Complici le dichiarazioni di alcuni scienziati e di semplici appassionati, che avevano trovato ampio spazio sui giornali soprattutto negli Stati Uniti, si era generata una certa frenesia per quello che era stato definito uno degli eventi astronomici più rilevanti dell’epoca. La Terra e Marte si sarebbero trovati a circa 54,7 milioni di chilometri di distanza rispetto alla media di 225 milioni di chilometri. Molti osservatori organizzarono eventi notturni e iniziative per osservare Marte con i loro telescopi, mentre altri si dedicarono a una delle tecnologie del momento: la radio.
    Marte e la Terra alla fine di agosto 1924 (Solar System Scope)
    La Marina militare statunitense aveva proposto e ottenuto che tra il 21 e il 24 agosto di quell’anno fosse mantenuto un silenzio radio per cinque minuti ogni ora, in modo da poter intercettare più facilmente eventuali messaggi marziani. L’idea era intrigante, considerato che all’epoca si sapevano pochissime cose su Marte e che mancavano più di trent’anni all’inizio delle esplorazioni spaziali, ma come captare efficacemente un segnale fu oggetto di numerose discussioni e speculazioni.
    L’astronomo statunitense David Peck Todd, diventato famoso soprattutto per le sue osservazioni di Venere, pensò che la persona giusta per provarci fosse Jenkins, che con le sue invenzioni aveva ottenuto progressi nelle tecnologie per le comunicazioni radio. Nel suo laboratorio, Jenkins disponeva di una radio SE-950, costruita nel 1918 e pensata come un dispositivo portatile che avrebbero potuto usare i soldati statunitensi per comunicare sui campi di battaglia. La radio non era mai stata testata per questi scopi ed era diventata uno degli strumenti utilizzati da Jenkins per i suoi esperimenti.
    Radio SE-950 (Henry Ford Museum)
    Sollecitato da Todd, Jenkins ipotizzò insieme ad altri che per captare segnali provenienti da un altro mondo fosse necessaria un’antenna più grande del solito e fu quindi elaborato il piano del dirigibile. L’idea è che fosse parte integrante dell’antenna stessa orientata verso Marte e che inviasse poi un segnale alla SE-950 nel laboratorio di Jenkins in modo da riceverlo, amplificarlo e trasferirlo su carta.
    Jenkins insieme ad altri collaboratori aveva infatti costruito una “radio fotocamera” per convertire i segnali radio in impulsi luminosi, che lasciavano poi una traccia su un rullino di carta fotografica. Appena un anno dopo Jenkins avrebbe ottenuto uno dei primissimi brevetti per la trasmissione di immagini e suoni in contemporanea, diventando uno dei pionieri della televisione, ma in quell’estate del 1924 la sua “radio fotocamera” era ancora rudimentale e soprattutto non era detto che i marziani volessero trasmettere qualche immagine.
    Qualcosa fece comunque imprimere sulla carta fotografica un’immagine. Tra le 13:00 del 22 agosto e le 17:00 del 23 agosto 1924, l’antenna-dirigibile captò un segnale che fu trasmesso alla radio SE-950 e poi tradotto in una serie di immagini dalla “radio fotocamera”. Era una sorta di spettrogramma (una rappresentazione grafica dell’intensità e della frequenza di un suono nel tempo), ma tale era il desiderio di avere un messaggio da Marte che fu interpretato da molti come la rappresentazione di un viso.

    Non è chiaro se esista ancora l’originale di quel segnale tradotto in immagini, ma grazie a diverse copie e citazioni in studi e ricerche successive possiamo ancora oggi vedere come era fatto. Intravedere un viso tra la combinazione di punti e linee più scure richiede una certa dose di immaginazione, ma è importante ricordare che un secolo fa non c’erano le conoscenze scientifiche di oggi, che il mondo era meno connesso e che per diverso tempo si era creduto genuinamente all’esistenza dei marziani, anche a causa di un italiano.
    Nella seconda metà dell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli aveva osservato Marte in un’altra occasione in cui si trovava particolarmente vicino alla Terra. Notò alcune linee sulla superficie del pianeta e ipotizzò che si trattasse di corsi d’acqua naturali, dei “canali” come li definì nei suoi studi. Per un errore di traduzione in inglese i canali divennero “canals”, parola solitamente usata per indicare i canali artificiali, e non “channels” che si usa invece per definire i canali derivanti da fenomeni naturali. Negli anni seguenti l’astronomo statunitense Percival Lowell fu tra i primi a proporre che Marte fosse popolato da una civiltà evoluta, sostenendo che se c’erano effettivamente dei canali artificiali qualcuno doveva pur averli costruiti.
    La questione dei canali divenne centrale nel costruire il mito dei marziani e più in generale di mondi lontani dal nostro popolati da altre civiltà. Intorno agli anni Dieci del Novecento quella convinzione era stata ormai smentita grazie a nuove osservazioni, ma l’idea che Marte fosse popolato aveva fatto presa nell’immaginario collettivo e non stupisce quindi che nel 1924 così tante persone fossero alla ricerca di segnali radio marziani. Captarli sarebbe stato difficilissimo, ma valeva la pena provare.
    Fu in quel contesto che nella striscia di carta fotosensibile di Jenkins molti videro un volto e che si costruì il mistero intorno al segnale che lo aveva generato. È vero che non sapremo mai per certo che cosa fosse quel segnale, ma è altrettanto vero che disponiamo di spiegazioni convincenti, come ha ricordato al New York Times Kristen Gallerneaux, una delle curatrici dell’Henry Ford Museum dove è conservata la radio SE-950: «Si era alla ricerca di un segnale indirizzato verso di noi dentro una cosa che non era mai stata progettata per essere una rappresentazione visiva riconoscibile. È rumore di fondo. Eppure le persone ci vedono ancora delle cose dentro e pensano che si tratti di un tipo di comunicazione intelligente».
    L’antenna sul dirigibile aveva probabilmente captato del rumore di fondo, cioè interferenze dovute ad altre trasmissioni o alle condizioni ambientali, inoltre gli strumenti stessi per captare e amplificare i segnali radio possono produrlo alterando ulteriormente la ricezione. È un problema con cui si confrontano ancora oggi i gruppi di ricerca che usano i radiotelescopi e più banalmente chi ascolta musica alla radio. Un secolo fa gli strumenti di ricezione e ascolto erano meno raffinati e avanzati, di conseguenza è probabile che fossero ancora più soggetti ad alcuni tipi di interferenze.
    Una mappa di Marte derivata dagli studi di Schiaparelli (Wikimedia)
    L’esperimento di Jenkins e Todd non fu comunque l’unico e in varie altre parti del mondo furono usate strumentazioni radio per provare a captare qualcosa. Nella British Columbia, nel Canada occidentale, si pensò che alcuni segnali radio potessero indicare la volontà da parte di alcuni marziani di provare a comunicare con la Terra. In Inghilterra furono invece captati rumori ritenuti estranei alle normali comunicazioni radio prodotte sulla Terra.
    Le presunte rivelazioni alimentarono ulteriormente il confronto già molto acceso sull’esistenza o meno dei marziani, tirando in mezzo anche Jenkins rimasto sorpreso dalle interpretazioni creative di quanto aveva registrato. Preoccupato dalla possibilità che le ipotesi più fantasiose potessero danneggiare la sua reputazione scientifica, qualche giorno dopo le osservazioni pubblicò un articolo nel quale chiariva di non ritenere che «i risultati abbiano a che fare con Marte». Già all’epoca Jenkins scrisse che la spiegazione più probabile per il segnale erano semplici interferenze dovute ad alcune attività terrestri e non marziane.
    Charles Francis Jenkins nel 1928 (Courtesy Everett Collection/ Contrasto)
    Jenkins e gli altri scienziati e appassionati del 1924 non avevano ancora i mezzi adeguati, ma avevano intuito che un modo per cercare eventuali civiltà aliene fosse mettersi in ascolto. Una decina di anni dopo i loro tentativi nacque formalmente la radioastronomia, cioè lo studio dei corpi celesti attraverso le frequenze radio, con il primo rilevamento da un corpo celeste.
    La radioastronomia si è rivelata fondamentale per studiare le stelle e le galassie, i modi in cui evolvono e compongono l’Universo, ma non solo. I radiotelescopi sono stati utilizzati e vengono ancora oggi impiegati per provare a cogliere particolari segnali radio, diversi da quelli che conosciamo e che potrebbero fornire indizi su civiltà lontane che come noi provano a capire se siano effettivamente sole.
    Quanto a Marte, negli ultimi decenni abbiamo scoperto molte cose sulla sua storia, trovando indizi sulla possibilità che un tempo avesse ospitato qualche forma di vita. Manca ancora la prova definitiva, ma disponiamo di robot che ogni giorno esplorano la superficie marziana per fotografarla e analizzarla. I loro sono gli unici segnali radio che riceviamo da Marte. LEGGI TUTTO

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    Una decisione molto difficile per la NASA

    Caricamento playerLo scorso 5 giugno due astronauti della NASA sono partiti verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per una missione che sarebbe dovuta durare poco più di una settimana: nonostante di giorni ne siano passati quasi 80, non sono ancora tornati sulla Terra.
    Starliner, la capsula di Boeing che li aveva trasportati oltre l’atmosfera terrestre, ha avuto alcuni problemi tecnici e da più di due mesi la NASA si chiede se sia sicura a sufficienza per riportare indietro i suoi due astronauti. Dopo numerosi rinvii e tentennamenti, in una riunione in programma per sabato 24 agosto i responsabili dell’agenzia spaziale dovranno concordare un piano di recupero: una delle decisioni più difficili sulla sicurezza dei sistemi di trasporto per astronauti dal tempo degli Shuttle.
    Il lancio di Starliner a inizio giugno era andato secondo i piani, ma prima che la capsula raggiungesse la ISS erano emersi problemi ai sistemi di manovra. Cinque dei 28 propulsori utilizzati per orientare la capsula e regolare la sua rotta avevano smesso di funzionare, richiedendo alcune attività aggiuntive per rendere possibile l’attracco con la Stazione a circa 400 chilometri di altitudine.
    Per Starliner era il primo volo con astronauti a bordo – Butch Wilmore e Suni Williams – dopo anni di prove e ritardi sulle consegne costati finora a Boeing e alla NASA circa 6,7 miliardi di dollari. Il test, che formalmente è ancora in corso, era fondamentale per dimostrare l’affidabilità e la sicurezza di Starliner nell’ambito del programma della NASA per affidare i viaggi verso la ISS ai privati, come già fatto in precedenza e con successo con SpaceX, la società spaziale di Elon Musk.
    Dopo l’arrivo di Wilmore e Williams sulla ISS, i tecnici avevano provato a capire le cause del malfunzionamento dei propulsori. Per farlo, avevano effettuato alcuni test qui sulla Terra identificando un potenziale problema nella parte in Teflon (il materiale plastico che rende antiaderenti le padelle) delle valvole dei propulsori, che al passaggio del propellente si era deformata lievemente impedendo al propellente stesso di fluire nelle giuste quantità. Analisi svolte in seguito hanno però portato a mettere in dubbio quelle valutazioni: il Teflon una volta deformato difficilmente recupera la forma iniziale, eppure test svolti in orbita hanno mostrato che ora i propulsori sembrano funzionare normalmente. Il sospetto è che sia qualcos’altro che occlude temporaneamente le valvole e che il problema possa ripresentarsi nelle fasi di rientro di Starliner, con esiti che potrebbero essere catastrofici nel caso in cui un propulsore otturato causasse un’esplosione.
    Le incertezze sulle effettive cause del malfunzionamento dei propulsori hanno portato a un lungo confronto tra i tecnici di Boeing e della NASA, che continua ancora oggi e che ha determinato la prolungata permanenza di Williams e Wilmore sulla ISS. Sulla Stazione ci sono risorse più che sufficienti per provvedere ai due ospiti aggiuntivi, ma se dovessero rimanere ancora a lungo ci potrebbero essere conseguenze su altre missioni, perché i posti sulla ISS sono comunque limitati.
    Gli astronauti della NASA Butch Wilmore e Suni Williams a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (NASA via AP)
    Alcune conseguenze sulle attività in orbita ci sono del resto già state. Nelle settimane dopo il lancio di Starliner, la NASA ha rinviato di almeno un mese il lancio della prossima missione con astronauti verso la ISS e gestita da SpaceX. La partenza non avverrà prima del 24 settembre, ma i tempi sono comunque stretti: SpaceX deve sapere a breve se dovrà inviare quattro astronauti come inizialmente previsto o solamente due, in modo da poter accogliere nel viaggio di ritorno Williams e Wilmore. La necessità di saperlo con un certo anticipo deriva dai tempi che occorrono per configurare la capsula da trasporto Crew Dragon in base al numero di occupanti. La NASA dovrà quindi decidere che cosa fare entro pochi giorni e non sarà una scelta semplice.
    Nel caso in cui la decisione sia di non far rientrare Williams e Wilmore con Starliner, i due astronauti dovranno rimanere sulla ISS fino al prossimo febbraio, quando potranno effettuare il viaggio di ritorno con una capsula Crew Dragon. In questo scenario Williams e Wilmore rimarrebbero quindi a bordo della Stazione per otto mesi, una notevole estensione per una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni. Prima dell’arrivo di Crew Dragon a fine settembre, Starliner dovrà comunque lasciare la ISS in modo da liberare lo spazio di attracco per la capsula di SpaceX. Starliner dovrebbe quindi essere configurata per effettuare un rientro in automatico sulla Terra, senza equipaggio a bordo, altra attività che richiede tempo e che rende necessaria al più presto una decisione da parte della NASA.
    La scelta finale dovrebbe spettare a Kenneth Bowersox, a capo della divisione dell’agenzia spaziale che si occupa delle operazioni di volo. Ex astronauta, nel 2003 Bowersox si trovava sulla Stazione Spaziale Internazionale quando avvenne il disastro dello Space Shuttle Columbia, che si disintegrò al proprio rientro nell’atmosfera terrestre determinando la morte delle sette persone a bordo, come ha ricordato Stephen Clark su Ars Technica. All’epoca erano stati sottostimati i danni causati allo scudo termico dello Shuttle da un detrito nella fase di lancio, una sottovalutazione che influì fortemente sul programma spaziale statunitense e sui criteri di sicurezza adottati dalla NASA da allora.
    Lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante il rientro nell’atmosfera terrestre, 1 febbraio 2003 (Mario Tama/Getty Images)
    Bowersox deciderà basandosi sulle informazioni e sui pareri forniti dai gruppi di lavoro che si occupano della revisione dei voli spaziali, della sicurezza, delle missioni spaziali e si consulterà anche con i rappresentanti degli astronauti. Nel caso in cui dovessero emergere pareri discordanti, la decisione finale potrebbe essere affidata a Bill Nelson, l’amministratore della NASA (a sua volta ex astronauta). Lo stesso Nelson di recente ha cercato a suo modo di rassicurare sul processo decisionale: «Sono fiducioso, soprattutto perché spetta a me la decisione finale».
    Le persone che insieme a Bowersox dovranno decidere che cosa fare lavoravano già tutte alla NASA ai tempi del disastro del Columbia, cosa che secondo diversi esperti influirà sulle scelte dei prossimi giorni. I responsabili di Starliner, che dipendono da Boeing e con forti interessi nella decisione, hanno mostrato di essere un poco più propensi al rischio, ribadendo comunque che la sicurezza degli astronauti è prioritaria e che la scelta finale spetta ai responsabili della NASA.
    L’attuale direttore di missione di Starliner per conto di Boeing, LeRoy Cain, era direttore di volo quando il Columbia si disintegrò nel corso del suo rientro nell’atmosfera. All’epoca lavorava nel centro di controllo del Johnson Space Center della NASA e assistette in tempo reale all’incidente, ricevendo aggiornamenti sui sensori dello Shuttle che stavano rilevando vari cedimenti strutturali nella sua ala sinistra, che avrebbero poi portato alla distruzione dell’astronave. Ancora prima del lancio di Starliner, quando erano emersi altri problemi tecnici, Cain aveva promesso di non far partire la capsula fino a quando non fosse stata pronta.
    Proprio per il coinvolgimento di persone come Bowersox e Cain, nelle ultime settimane sono stati effettuati numerosi paralleli tra Columbia e Starliner, anche se le due astronavi hanno caratteristiche e storie molto diverse. Nel 2003 i danni effettivamente subiti dal Columbia al lancio non erano completamente chiari e, con le conoscenze dell’epoca, l’astronave sembrava avere tutti i requisiti per effettuare un rientro; non c’erano inoltre molte alternative e possibilità di studiare piani di recupero degli astronauti con altri mezzi. I problemi di Starliner sono invece ampiamente noti e si aggiungono a quelli emersi nella lunga fase di sviluppo, che ha richiesto molti più anni del previsto.
    Il lancio di Starliner sulla sommità di un razzo Atlas V il 5 giugno 2024 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Chris O’Meara)
    La maggiore frequenza dei lanci spaziali con astronauti necessaria per gli avvicendamenti degli equipaggi sulla ISS hanno portato in questi anni a una percezione delle attività spaziali routinaria, al punto da essere per alcuni quasi scontato il fatto che ci siano esseri umani che superano l’atmosfera terrestre e vivono per alcuni mesi in orbita. In realtà raggiungere l’orbita è ancora oggi una delle attività più rischiose che si possano fare: gli astronauti e le astronaute ne sono consapevoli e sanno che i rischi fanno parte del loro mestiere e che le agenzie spaziali fanno il possibile per ridurli.
    Questo spiega le grandi precauzioni e i frequenti rinvii dei lanci spaziali con equipaggi, ma anche le cautele che la NASA sta mantenendo su Starliner, nonostante i ritardi e la prospettiva di dover rivedere alcuni piani non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
    Se Starliner dovesse tornare sulla Terra senza equipaggio, potrebbe rendersi necessario un nuovo volo sperimentale per certificare la capsula spaziale per le missioni con esseri umani. I tempi si allungherebbero ulteriormente e Boeing potrebbe non essere in grado di garantire i sei lanci previsti da contratto entro il 2030, anno in cui la ISS smetterà di essere utilizzata. Per Boeing sarebbe inoltre un ulteriore danno di immagine, dopo quelli legati ai problemi di sicurezza emersi con alcuni dei propri aeroplani negli anni scorsi e che hanno fatto mettere in dubbio in generale l’affidabilità dell’azienda in termini di sicurezza.
    A prescindere dalla scelta di sabato della NASA, Boeing ha comunque perso la propria corsa allo Spazio con SpaceX. Dopo il pensionamento degli Shuttle nel 2011, nel 2014 la NASA affidò alle due aziende il compito di trasportare gli equipaggi in orbita, con un finanziamento di 2,6 miliardi di dollari per SpaceX e di 4,2 miliardi di dollari per Boeing. Mentre quest’ultima non ha ancora completato un volo di test, SpaceX in quattro anni ha inviato 11 equipaggi verso la ISS e si prepara per la dodicesima missione. LEGGI TUTTO

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    Ci sono due astronauti bloccati sulla Stazione Spaziale Internazionale

    Caricamento playerBarry Wilmore e Sunita Williams, i due astronauti della NASA che avevano raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a bordo della prima missione della capsula spaziale Starliner di Boeing con equipaggio partita il 5 giugno, sarebbero dovuti restarci per otto giorni. Passati più di due mesi dal lancio, tuttavia, non è ancora chiaro come e quando rientreranno sulla Terra e la NASA non esclude che possa succedere addirittura il prossimo febbraio.
    Quella di Starliner è una delle missioni spaziali più importanti del 2024, ma durante il viaggio verso la ISS la capsula ha avuto dei malfunzionamenti che hanno causato il ritardo del rientro previsto settimane fa. In una conferenza stampa mercoledì la NASA ha spiegato perché Starliner potrebbe non essere sicura per il viaggio di rientro degli astronauti e ha detto di star valutando di farli rientrare con la Crew Dragon di SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, rivale di Boeing.
    Se la NASA decidesse di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX anziché con Starliner la missione si allungherebbe ulteriormente di diversi mesi. Sarebbe inoltre l’ennesimo fallimento per Boeing, che negli ultimi anni ha avuto guai enormi, prima per i gravi incidenti aerei ai suoi 737 Max e più di recente per il volo di Alaska Airlines, che aveva perso un pezzo della fusoliera mentre era in volo.
    Starliner era partita dalla base di lancio di Cape Canaveral, negli Stati Uniti, lo scorso 5 giugno, dopo una serie di ritardi e rinvii per problemi tecnici vari. Wilmore e Williams avrebbero dovuto affiancare l’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione per una settimana circa. La missione serviva per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo che la navicella di Boeing potesse ottenere le certificazioni finali della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per il trasporto di persone e cose verso e dalla Stazione. Attualmente infatti per queste attività la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos).
    Durante il viaggio verso la Stazione spaziale internazionale si sono però verificati dei malfunzionamenti: la NASA e Boeing hanno svolto test e simulazioni sui propulsori della capsula sia a terra che nello Spazio, concludendo che funzionano sufficientemente bene perché possa rientrare. Tuttavia i test non hanno chiarito con certezza cosa abbia provocato i malfunzionamenti e «in generale la comunità della NASA vorrebbe capire un po’ meglio sia la causa a monte che la fisica» dietro a questi inconvenienti, ha detto mercoledì Steve Stich, responsabile del programma dei voli commerciali dell’Agenzia.
    Alla conferenza stampa non era stato invitato alcun dirigente di Boeing, ma l’azienda aveva già espresso disaccordo con le valutazioni della NASA. In un comunicato diffuso la settimana scorsa aveva sostenuto che Starliner fosse in grado di completare il volo e di riportare gli astronauti sulla Terra «in sicurezza», come a suo dire dimostrato dai dati raccolti durante i test sui propulsori.
    (NASA via AP)
    Stich sostiene che l’opzione «preferita» continua a essere quella di riportare Wilmore e Williams sulla Terra con Starliner, anche perché fare diversamente creerebbe altri problemi. Secondo Ken Bowersox, uno dei responsabili delle operazioni spaziali della NASA, in base agli ultimi dati, alle ultime analisi e alle discussioni più recenti si sta però valutando di far tornare indietro Starliner senza equipaggio e di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX alla fine della sua prossima missione.
    Una delle opzioni possibili sarebbe appunto far rientrare Wilmore e Williams con la prossima missione Crew-9 di SpaceX, facendola partire con due astronauti anziché quattro, in modo che ci sia appunto posto per loro. Questo però comporterebbe integrarli nella rotazione degli astronauti impegnati nelle attività sulla ISS, e visto che la missione della Crew-9 dovrebbe durare fino al febbraio del 2025 Wilmore e Williams rimarrebbero sulla Stazione per altri sei mesi, per un totale di otto mesi contro una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni.
    In questo caso la Starliner rientrerebbe sulla Terra da sola, ma questo implicherebbe la necessità di riconfigurare la capsula per il rientro senza equipaggio. Inoltre a quel punto la NASA dovrebbe decidere se i dati raccolti durante il rientro senza astronauti siano sufficienti per assegnare la certificazione per il trasporto di persone e cose a Starliner.
    I dirigenti della NASA hanno detto di avere più o meno «fino a metà agosto» per prendere una decisione definitiva.

    – Leggi anche: Un nuovo successo per Starship

    Boeing è la principale azienda statunitense produttrice di aeroplani nonché una delle due società che hanno vinto gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto per la NASA oltre appunto a SpaceX. Negli ultimi tempi tuttavia la fiducia dell’Agenzia nei confronti dell’azienda sarebbe calata, ha detto al Washington Post una persona vicina alla dirigenza della NASA citata in forma anonima perché non autorizzata a parlare pubblicamente.
    Per produrre la Starliner spaziale Boeing ha ottenuto un finanziamento da 4,2 miliardi di dollari, ma come SpaceX è stata a lungo in ritardo sulla progettazione e sulla costruzione della sua capsula, che a giugno è finalmente stata lanciata con i due astronauti a bordo dopo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio del 2019 e altri problemi tecnici.
    Dal momento che per raggiungere la ISS la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz c’è anche chi ritiene che decidere di non usare Starliner per far rientrare i due astronauti potrebbe spingere Boeing a ritirarsi, ha notato sempre il Washington Post. Intanto la NASA ha fatto sapere di aver ritardato la partenza della missione Crew-9 dal 18 agosto alla fine di settembre in modo da avere più tempo per decidere cosa fare con Starliner. LEGGI TUTTO

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    Come riconoscere le costellazioni in queste notti d’estate

    Caricamento player«Guarda come si vede bene l’Orsa maggiore!», e non vedete niente. «Ma sì, lo vedi quel punto luminoso? Parti da lì poi vieni giù un po’ a destra e vedi il primo pezzo della costellazione» e ancora nulla. L’amico insiste, la notte è tersa e limpida, ideale per osservare le stelle, ma un’Orsa tanto più maggiore in cielo proprio non riuscite a vederla. Non resta che fingere, fare contento l’amico e sperare almeno in una stella cadente per cambiare discorso.
    Ogni notte in cielo sono visibili centinaia se non migliaia di stelle, a seconda del luogo in cui ci si trova, delle condizioni del cielo e della quantità di inquinamento luminoso, il principale ostacolo all’osservazione della volta celeste soprattutto in Europa. Eppure la maggior parte delle persone ha poca dimestichezza con l’osservazione e il riconoscimento di pianeti, stelle e costellazioni, nonostante i nomi di alcune di queste ultime siano ricorrenti come Orsa maggiore, Cassiopea o Lira, per non parlare di tutte quelle dell’oroscopo.
    Una costellazione è un modo convenzionale di raggruppare insieme alcune stelle visibili in cielo, che idealmente formano particolari figure mitologiche, animali o oggetti. Sono raggruppamenti puramente visivi e non hanno alcuna rilevanza da un punto di vista fisico e più in generale scientifico. Le stelle che le costituiscono sono infatti molto diverse tra loro, non interagiscono le une con le altre e si trovano a distanze enormi in tutte le direzioni dello Spazio. Ma a causa degli effetti prospettici, dal nostro punto di osservazione ci appaiono come se fossero sullo stesso piano, anche se non lo sono, e possiamo quindi raggrupparle insieme per riconoscerle più facilmente.
    Quasi un secolo fa, nel 1930, l’Unione Astronomica Internazionale formalizzò un elenco di 88 costellazioni, utilizzate poi per dividere la sfera celeste in 88 settori con confini ben determinati, in modo da poter identificare facilmente ogni stella in una certa costellazione. La sfera celeste è una sfera immaginaria, nel nostro caso una sorta di guscio esterno della Terra, su cui sono visibili le stelle e gli altri corpi celesti. È un modo per avere punti di riferimento condivisi quando si osserva la volta celeste, cioè come appaiono le stelle in cielo guardando da un punto di osservazione della Terra.
    La sfera celeste che “ingloba” la Terra, con le principali costellazioni disegnate (Wikimedia)
    Le costellazioni hanno quasi sempre nomi legati alla mitologia classica, per lo più dell’antica Grecia, per quanto riguarda quelle boreali – cioè osservabili dall’emisfero terrestre in cui ci troviamo – mentre le costellazioni australi hanno nomi più creativi e attribuiti da astronomi e navigatori moderni. Le costellazioni dello zodiaco sono presenti in una banda immaginaria posta intorno al cammino apparente del Sole nel cielo nel corso di un anno (“piano dell’eclittica”), area dove sono visibili anche i pianeti e per questo molto studiata già a partire dall’antichità.
    I pianeti sono molto più piccoli delle stelle, ma sono più vicini a noi, di conseguenza appaiono in cielo come puntini luminosi tali e quali alle stelle che sono invece enormemente distanti. Possono comunque essere riconosciuti per una particolarità: proprio perché sono più vicini e non emettono direttamente la luce, ma riflettono quella del Sole, i pianeti appaiono come punti luminosi “stabili”, rispetto alle stelle che per via della loro distanza e di altri fattori appaiono tremolanti (si dice che “baluginano”). A seconda dell’ora della notte, i pianeti visibili a occhio nudo sono Mercurio, Marte, Venere, Giove e Saturno.
    CostellazioniLe stelle, e di conseguenza le costellazioni, non appaiono fisse nel cielo a causa della rotazione della Terra attorno al proprio asse. Ogni minuto che passa, l’intera sfera celeste si sposta con un moto apparente: la maggior parte delle stelle sorge a est e tramonta a ovest, proprio come fa il Sole ogni giorno. Osservare alcune costellazioni significa quindi inseguirle nel corso della notte, man mano che si spostano verso ovest fino a scomparire alla stessa vista. Ma non tutte le costellazioni si muovono in questo modo.

    Le costellazioni circumpolari sono infatti particolari gruppi di stelle sempre visibili, perché sono in prossimità del nord celeste, cioè il punto nel cielo verso il quale è orientato l’asse di rotazione terrestre nell’emisfero nord (ce n’è naturalmente uno anche nell’emisfero sud). Nel loro moto apparente, queste costellazioni appaiono molto in alto nella volta celeste, di conseguenza non spariscono sotto l’orizzonte durante il loro moto apparente insieme a tutto il resto del cielo. Queste costellazioni sono state a lungo essenziali per orientarsi nel cielo notturno, proprio perché rappresentano dei punti quasi fermi.
    L’osservazione delle costellazioni è però complicata da un altro fattore, legato sempre ai movimenti del nostro pianeta. Oltre a girare su sé stessa, la Terra gira anche intorno al Sole e questo fa sì che il cielo notturno cambi un poco ogni notte nel corso dell’anno. Una costellazione osservabile in una certa posizione questa notte, per esempio, sarà lievemente spostata domani notte e lo sarà ancora di più tra uno o due mesi. È proprio a causa del movimento della Terra intorno al Sole che le costellazioni diventano più o meno osservabili nelle varie stagioni: non spariscono completamente, ma ci sono periodi dell’anno in cui sono visibili per più tempo in cielo nel corso di una notte.
    Orsa maggioreÈ forse la costellazione più citata e conosciuta tra quelle circumpolari, proprio perché alle nostre latitudini è sempre visibile. Le sue sette stelle più luminose formano il Grande Carro, il modo più semplice (“asterismo”) per identificare parte della costellazione stessa. È sufficiente guardare verso nord (potete aiutarvi con la bussola dello smartphone) e cercare alcune stelle particolarmente luminose che collegate idealmente tra loro formano una specie di mestolo, come nell’immagine qui sotto.
    Il “Grande Carro” è formato dalle stelle Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid (Wikimedia)
    Il Grande Carro è un ottimo punto di riferimento per scoprire un’altra importante stella della volta celeste. Se infatti si usano le due stelle più esterne a destra, Dubhe e Merak e si immagina di farle attraversare da una linea che prosegue poi per cinque volte la loro distanza apparente si arriva alla Stella polare, la stella più brillante nei pressi del polo nord celeste e importante punto di riferimento per l’orientamento.
    (Wikimedia)
    Orsa minoreUsando la Stella polare come riferimento si può osservare l’Orsa minore, altra costellazione che contiene al suo interno il Piccolo Carro, simile al Grande Carro dell’Orsa maggiore, ma di dimensioni più contenute come suggerisce il nome. La Stella polare è all’estremo dell’asterismo, può essere immaginata come il punto terminale del carro, e il resto della costellazione è osservabile al di sopra della stella stessa.
    (Wikimedia)
    CassiopeaAnche Cassiopea come le due orse è una costellazione circumpolare alle nostre latitudini ed è molto vicina al polo celeste, intorno al quale ruota nel suo moto apparente in verso antiorario. Rispetto alla stella polare si trova dalla parte opposta all’Orsa maggiore e ha una forma abbastanza riconoscibile che ricorda una “M” o una “W” a seconda del periodo di osservazione. È attraversata dalla Via Lattea, la galassia in cui ci troviamo, e per questo è ricca di ammassi stellari che rendono relativamente più luminosa quella porzione di cielo.
    (Wikimedia)
    Costellazioni d’estatePer l’osservazione delle costellazioni in estate di solito si utilizza come riferimento il “triangolo estivo”, un triangolo rettangolo i cui vertici sono tre stelle che in questo periodo dell’anno appaiono molto luminose: Altair, Deneb e Vega. Quest’ultima è la quinta stella più luminosa del cielo a occhio nudo e appare bianco-azzurra: d’estate è molto alta, quasi allo zenit, cioè visibile direttamente sopra la propria testa, leggermente spostata verso sud. Una volta identificata Vega è abbastanza semplice notare Altair e Deneb, disposte come nello schema qui sotto. Imparare a riconoscere il triangolo estivo è molto importante per trovare le altre costellazioni visibili nel cielo notturno d’estate.
    (Wikimedia)
    CignoDeneb, che come abbiamo visto è uno dei vertici del “triangolo estivo”, quello nord-occidentale, è la stella più brillante della costellazione del Cigno. D’estate alle nostre latitudini culmina intorno a mezzanotte allo zenit, cioè è visibile molto alta nel cielo. Idealmente la costellazione ha la forma di un uccello in volo verso sud, che si estende lungo la Via Lattea e per questo contiene moltissimi oggetti come ammassi stellari e nebulose, studiati per le loro caratteristiche. La stella Albireo è il becco del cigno, mentre la coda è Deneb, dall’arabo dhanab che significa appunto “coda”.
    (Wikimedia)
    LiraÈ in proporzione molto più piccola del Cigno, ma è spesso citata perché è facilmente riconoscibile grazie alla presenza di Vega e al fatto che raggiunge la posizione più alta in cielo a mezzanotte nel mese di luglio. Per osservarla si possono tenere come riferimenti Vega a est e la costellazione del Cigno a ovest. Il becco stesso del Cigno appare poco distante da uno dei vertici della Lira, visibile come un parallelepipedo con un piccolo manico alla cui estremità c’è Vega. Idealmente la forma ricorda quella di una lira, strumento musicale che per la mitologia greca e romana era usata da Mercurio e in seguito da Orfeo.
    (Wikimedia)
    AquilaAnche l’Aquila non è difficile da identificare tenendo sempre come riferimento il “triangolo estivo”, proprio perché una delle sue stelle principali è Altair, che forma uno dei vertici del triangolo. Altair dista appena 16 anni luce dalla Terra, contro i 1.600 anni luce di Deneb, dove termina la coda del Cigno. La costellazione appare idealmente come un’aquila in volo e Altair può essere identificata nella sua parte nord-orientale, poco distante dagli ammassi stellari e di polveri visibili formati da parte della Via Lattea.
    (Wikimedia)
    MappeIdentificare le costellazioni non è sempre semplice: oltre a un cielo limpido e con poco inquinamento luminoso (l’ideale è in alta montagna nelle notti senza Luna), occorrono pazienza, una certa resistenza per rimanere svegli fino a tardi e qualche riferimento per non perdersi tra gli astri. Esistono guide e libri che aiutano a orientarsi e a scoprire le costellazioni più famose, da usare direttamente durante le osservazioni, magari usando una torcia possibilmente con una luce poco intensa o con un filtro colorato rosso, in modo da lasciare che i propri occhi si abituino al buio.
    Da diversi anni alle mappe tradizionali si sono affiancate quelle digitali, attraverso applicazioni che permettono di puntare lo smartphone verso il cielo e di ottenere indicazioni sullo schermo per trovare le costellazioni. Una delle app più longeve e apprezzate si chiama Star Walk e ha varie funzioni non solo per cercare le costellazioni, ma anche per identificare diversi altri corpi celesti e tenere traccia del passaggio di alcuni satelliti visibili dalla Terra e della Stazione Spaziale Internazionale. Per le stelle principali oltre al nome sono disponibili descrizioni delle caratteristiche e ulteriori approfondimenti.
    Un’altra applicazione molto apprezzata tra gli astrofili è SkySafari, che oltre a fornire guide per le osservazioni permette a chi ha un telescopio di tenere traccia in tempo reale degli astri e dei loro spostamenti, in modo da semplificare la loro osservazione. L’app viene aggiornata di frequente, ma a causa delle numerose funzionalità può risultare meno intuitiva rispetto ad altre applicazioni per l’osservazione del cielo. LEGGI TUTTO

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    È stato effettuato il primo lancio nello Spazio del razzo europeo Ariane 6

    Mercoledì sera è stato effettuato dalla Guyana francese il lancio inaugurale del razzo Ariane 6, realizzato nell’ambito del programma spaziale “Ariane” dal consorzio europeo Arianespace per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Il programma “Ariane” consiste in una serie di razzi a uso civile, e l’Ariane 6 è il più potente costruito finora dal consorzio: il suo lancio è importante soprattutto perché dovrebbe consentire di gestire lanci spaziali a prezzi più economici e competitivi con quelli dei razzi Falcon 9 di SpaceX. LEGGI TUTTO

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    La missione spaziale cinese Chang’e 6 ha portato sulla Terra alcuni campioni di suolo lunare

    Poco dopo le 8 del mattino di martedì 25 giugno la missione lunare cinese senza equipaggio Chang’e 6 è tornata sulla Terra, portando con sé alcuni frammenti di suolo della Luna raccolti dal suo emisfero nascosto. La capsula contenente i campioni è atterrata nella Mongolia Interna, una regione autonoma della Cina, rallentata nella sua discesa da un paracadute. I campioni saranno ora recuperati e analizzati per verificare le caratteristiche del suolo lunare in un’area raramente esplorata. È la prima volta che del suolo della faccia nascosta della Luna viene trasportato sulla Terra.Operazioni di recupero della capsula spaziale contenente i campioni di suolo lunare (CNSA)
    Chang’e 6 è la sesta missione del Programma cinese per l’esplorazione lunare iniziato nel 2007 con Chang’e 1, la prima iniziativa per raggiungere l’orbita lunare. Chang’e è il nome della dea della Luna in diverse mitologie cinesi e, missione dopo missione, l’iniziativa ha permesso alla Cina di compiere grandi progressi nelle complicate attività per raggiungere il suolo lunare. L’obiettivo fu raggiunto una prima volta da Chang’e 3 nel 2013, rendendo la Cina il terzo paese nella storia a compiere un allunaggio controllato dopo gli Stati Uniti e la Russia ai tempi dell’Unione Sovietica. LEGGI TUTTO

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    La NASA è responsabile dei danni causati dai detriti dei suoi satelliti?

    Caricamento playerA marzo un oggetto bizzarro, caduto dal cielo, ha squarciato il tetto di un’abitazione della città di Naples, in Florida, negli Stati Uniti. Non ha causato feriti, ma per gli abitanti della casa è stato causa di un grosso spavento: il proprietario, Alejandro Otero, ha raccontato al Washington Post di aver ricevuto una chiamata dal figlio «in preda al panico», e di essere tornato rapidamente a casa per capire cosa fosse successo, trovando «un buco nel tetto e nel pavimento del secondo piano» e «un insolito proiettile – un pezzo denso e cilindrico di metallo carbonizzato, poco più piccolo di una lattina di zuppa – conficcato in un muro». Otero ha detto di essersi reso subito conto che non si trattava di un oggetto qualunque, ma che era una cosa che «veniva dallo Spazio».
    La NASA – acronimo che sta per National Aeronautics and Space Administration, ovvero l’agenzia aerospaziale statunitense – ha poi confermato che l’oggetto cilindrico faceva parte di un carico di vecchie batterie, partito dalla Stazione spaziale internazionale nel marzo del 2021. L’oggetto, che fa parte della più ampia categoria di “spazzatura spaziale”, sarebbe normalmente dovuto bruciare e quindi scomparire nel momento del rientro nell’atmosfera terrestre, ma è invece rimasto abbastanza intatto da perforare il tetto degli Otero, che ora hanno chiesto un risarcimento per danni, principalmente per motivi psicologici, alla NASA stessa.
    La NASA ha sei mesi per decidere se rimborsare la famiglia o se aprire un caso legale al riguardo: in ogni caso si tratta di una decisione che creerebbe un precedente, dato che non è mai successo prima che un oggetto lanciato in orbita dagli Stati Uniti e poi caduto dallo Spazio abbia causato qualche tipo di danno a cittadini statunitensi.
    La distinzione del paese di lancio dell’oggetto e della nazionalità delle persone coinvolte è importante perché in realtà esiste un accordo internazionale che regolamenta quel che succede in questi casi (il Trattato sullo Spazio extratmosferico del 1967), ma si applica soltanto nei casi in cui un oggetto lanciato nello Spazio da un paese caschi nel territorio di un altro stato. In quel caso, lo stato di lancio è responsabile di qualsiasi compensazione finanziaria che potrebbe derivare dai costi di danneggiamento o di bonifica.
    In questo caso, invece, è una questione interna agli Stati Uniti – è un oggetto statunitense che danneggia proprietà statunitensi – che viene però osservata con attenzione dagli esperti. Il forte aumento di rifiuti nello Spazio negli ultimi anni, infatti, ha fatto aumentare le preoccupazioni attorno al fatto che questi casi in futuro possano diventare un po’ più frequenti. Già nel 2021 la professoressa Timiebi Aganaba, che si occupa del rapporto tra Spazio e società all’Università dell’Arizona, scriveva che «l’attuale legge spaziale ha funzionato finora perché i casi erano pochi e rari, e sono stati affrontati in modo diplomatico. Man mano che un numero crescente di oggetti viene mandato in orbita, però, i rischi aumenteranno inevitabilmente».
    Tecnicamente, tutti gli oggetti che si trovano nell’orbita terrestre stanno sempre cadendo verso la Terra. I satelliti attivi hanno dei sistemi che permettono loro di rimanere nell’orbita prevista, e quindi di rimanere sostanzialmente in equilibrio, mentre i satelliti inattivi (quelli che smettono di funzionare o vengono disabilitati per qualche motivo) non hanno più modo di opporsi alla gravità, e cadono fino a rientrare nell’atmosfera terrestre. Nel 2023 i satelliti attivi in orbita attorno alla Terra erano oltre 7.700, e quelli inattivi circa 3.300.
    Ci sono principalmente due cose che si possono fare per gestire un satellite inattivo. La prima è spostarli in un’orbita più alta, la cosiddetta “orbita cimitero”, abbastanza lontana dalla Terra che l’oggetto ci metterà centinaia di anni a raggiungere l’atmosfera. La seconda è orientare il satellite in modo che bruci del tutto nell’atmosfera o possa comunque causare danni minimi nell’impatto con il suolo.
    Può capitare però che alcuni rifiuti spaziali rientrino in modo incontrollato nell’atmosfera terrestre: anche in questo caso, raramente sopravvivono alle altissime temperature raggiunte prima di arrivare al suolo. È successo per esempio nel 1979, quando i detriti dello Skylab, la prima stazione spaziale statunitense, precipitarono nell’Australia occidentale senza però causare danni. Nel 1978, invece, i resti del satellite sovietico a propulsione nucleare Cosmos 954 caddero sul Canada settentrionale, diffondendo detriti radioattivi: è l’unico caso in cui un paese (il Canada) ha chiesto di essere rimborsato da un altro (l’Unione Sovietica) in base al Trattato sullo Spazio extratmosferico.
    «Se l’incidente fosse avvenuto all’estero e qualcuno in un altro paese fosse stato danneggiato dagli stessi detriti spaziali che hanno colpito gli Otero, gli Stati Uniti sarebbero assolutamente stati tenuti a rimborsarlo per i danni», ha detto l’avvocata della famiglia Mica Nguyen Worthy. «Peraltro, se i detriti fossero caduti qualche metro più in là avrebbero potuto esserci lesioni gravi o mortali». La famiglia ha chiesto un indennizzo che comprende i danni materiali causati dal buco nel tetto, i costi per l’assistenza di terzi e i danni causati dall’angoscia emotiva e mentale provocata da un evento così imprevisto. LEGGI TUTTO

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    Il Sole sta invertendo il suo campo magnetico

    Caricamento playerL’aurora boreale e i fenomeni collegati dello scorso maggio osservati a basse latitudini, anche in Italia, sono stati gli indizi più visibili dell’attività solare ormai prossima al proprio massimo, ma chi studia la nostra stella sta attendendo con interesse un altro fenomeno che porterà il Sole a invertire il proprio campo magnetico. Non è un evento insolito o preoccupante e non avrà effetti catastrofici per la Terra, ma è forse il miglior promemoria su quante cose ancora ci sfuggono sul funzionamento della più grande fonte di energia di tutto il sistema solare, da cui dipendono le nostre esistenze.
    I ritmi del Sole sono ciclici, per quanto non molto regolari: in media ogni 11 anni la nostra stella raggiunge un massimo di attività per poi tranquillizzarsi fino a raggiungere un minimo, dopo il quale il ciclo ricomincia. In linea di massima, quando il Sole è più attivo c’è una maggiore frequenza e intensità di alcuni fenomeni, come le tempeste magnetiche, l’emissione di grandi quantità di particelle e le eruzioni solari, esplosioni altamente energetiche. Le cause di questa ciclicità non sono completamente chiare, ma in secoli di osservazioni è stato possibile identificare particolari andamenti e indizi che permettono di calcolare l’andamento di ogni ciclo, le sue caratteristiche e le conseguenze per la Terra, che si trova in media a 150 milioni di chilometri dal Sole.
    Gli indizi più evidenti, tanto da essere stati osservati per la prima volta due millenni fa, sono le “macchie solari”, cioè punti della superficie solare più freddi rispetto a ciò che li circonda: se mediamente il Sole ha una temperatura superficiale di circa 5.500 °C, le macchie solari raggiungono al massimo una temperatura intorno ai 3.600 °C. La quantità di macchie solari tende a cambiare nel corso del tempo e proprio osservando il loro andamento si è concluso che compaiono in gran numero quando il Sole raggiunge il massimo della propria attività.
    Macchie solari osservate nell’ottobre del 2014 (NASA)
    L’ipotesi più condivisa è che le macchie solari siano una conseguenza di ciò che avviene nella “zona convettiva” del Sole, uno strato interno e non osservabile direttamente nel quale l’energia termica prodotta dalla stella raggiunge la superficie. In questa zona il plasma (un gas estremamente caldo e carico elettricamente) che si trova verso l’esterno è più freddo e denso, di conseguenza tende a ricadere verso l’interno dove si scalda e torna verso la superficie cedendo energia.
    Le quantità di energia coinvolte nel processo sono tali da portare anche alla formazione di forti campi magnetici, che nelle fasi di alta attività solare possono diventare instabili portando alla formazione delle macchie sulla superficie della stella. Ogni macchia ha un proprio campo magnetico che viene perturbato dai flussi di plasma indebolendolo o rafforzandolo a seconda dei casi. Dalle zone in cui emergono, di solito sopra o sotto l’equatore del Sole, i flussi si spostano verso i poli e tendono ad avere un campo magnetico orientato in senso opposto rispetto a quello solare in quel momento.
    Il Sole in sezione: sotto la superficie è visibile la zona convettiva (NASA)
    Nelle fasi di massima attività solare, i campi magnetici provenienti dalle macchie solari sono talmente tanti e intensi da annullare la polarità normalmente presente ai poli del Sole e sostituirla con una nuova opposta a quella di partenza. Questo processo fa sì che in media ogni 11 anni il Sole inverta il proprio campo magnetico.
    Nel 2004, per esempio, il polo sud solare aveva una polarità negativa, quasi completamente scomparsa nel 2013 e sostituita completamente da una polarità positiva negli anni seguenti. Il processo di inversione del campo magnetico non è infatti repentino, ma richiede diverso tempo e dal momento in cui il cambiamento è più evidente trascorrono circa due anni prima che sia completo. Il Sole non è comunque molto puntuale e in alcuni cicli sono stati necessari fino a cinque anni prima che si completasse l’inversione.
    Le condizioni iniziali del polo sud solare nel 2004 (a) e la progressiva inversione della polarità iniziata nel 2013 (b) e conclusa nel 2017 (c), in una elaborazione basata sui dati dell’attività del Sole (J. Space Weather Space Clim.)
    Il modo in cui è orientato nel suo complesso il campo magnetico del Sole può avere qualche conseguenza per la Terra, costantemente esposta alle particelle cariche che arrivano dalla stella e dalle quali si protegge grazie al proprio campo magnetico. Nei periodi in cui la polarità è negativa al polo nord solare ed è positiva al polo sud, il campo che si genera è opposto a quello della Terra e ci possono essere conseguenze sull’intensità delle tempeste solari, che possono causare forti interferenze nei sistemi di telecomunicazioni sia satellitari sia al suolo, oltre a effetti più scenografici come le aurore.

    Per questo l’attività solare viene osservata con grande attenzione e negli ultimi anni ci sono stati importanti progressi nella raccolta di dati, grazie allo sviluppo di nuove sonde. Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea è stato lanciato nel 2020 per studiare le zone polari del Sole, in modo da prevedere i prossimi cicli solari e la loro intensità. Un paio di anni prima la NASA aveva messo in servizio Parker Solar Probe, una sonda che si sta avvicinando il più possibile al Sole, con l’obiettivo di compiere un passaggio ravvicinato ad appena (in termini astronomici) 6 milioni di chilometri dalla superficie solare. Altri telescopi sulla Terra sono invece utilizzati per mappare le macchie solari e produrre immagini ad alta risoluzione della superficie della nostra stella.
    Studiare il Sole non serve solamente a capire come funzioni la più importante fonte di energia per la nostra esistenza. Il Sole è una stella relativamente comune, come miliardi di altre stelle simili solo nella Via Lattea, la nostra galassia. Comprenderne il funzionamento rende possibile lo studio più accurato di sistemi solari diversi dal nostro e consente di fare confronti con altri tipi di stelle e capire se possano creare condizioni compatibili per la vita, su mondi lontani e che per ora nemmeno immaginiamo. Per quanto sia a 150 milioni di chilometri da noi, il Sole è la cavia perfetta per farlo. LEGGI TUTTO