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    Inizia un grande anno di Spazio

    Caricamento playerDai nuovi test della gigantesca astronave Starship di SpaceX ai nuovi tentativi di allunaggio, passando per l’osservazione di mondi lontani, l’anno appena iniziato sarà denso di eventi ed esplorazioni spaziali. L’economia dello Spazio si è espansa enormemente negli ultimi anni e alle iniziative finanziate dai governi, tramite le loro agenzie spaziali, si sono ormai affiancate le attività delle aziende private per la costruzione di grandi costellazioni di satelliti, basi orbitali e lunari. L’anno di Spazio si apre inoltre con grandi dubbi e domande su che cosa vorrà fare Donald Trump, consigliato da Elon Musk con i suoi piani per raggiungere Marte.
    AstronautiCome ogni anno sono previste numerose missioni per il trasporto degli equipaggi dalla Terra verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e viceversa. Nella prima parte del 2025 l’attenzione sarà soprattutto per gli astronauti statunitensi Butch Wilmore e Suni Williams: erano partiti per la ISS il 5 giugno 2024 e sarebbero dovuti rimanere a bordo per una settimana, ma la loro capsula da trasporto Starliner di Boeing non ha funzionato come previsto al volo inaugurale con equipaggio, obbligandoli a rimanere per mesi in orbita. I due astronauti della NASA torneranno a Terra probabilmente a marzo, utilizzando una capsula Crew Dragon di SpaceX, mentre Boeing dovrà ancora lavorare per sistemare i problemi della sua capsula.
    In estate è previsto il trasporto in orbita di Haven-1, un primo modulo di una nuova stazione orbitale realizzata dalla startup californiana Vast. La base potrà ospitare fino a quattro astronauti per periodi di 30 giorni, ma in futuro potrà essere ampliata la capacità con l’aggiunta di nuovi moduli. Al momento, comunque, Haven-1 sarà sperimentato senza equipaggio.
    L’India sta espandendo il proprio programma spaziale e ha l’obiettivo di inviare un proprio astronauta in orbita tramite una collaborazione con Axiom Space, una società texana che sta lavorando alla preparazione di una nuova stazione spaziale. Il lancio dovrebbe avvenire nella primavera e l’equipaggio, che comprenderà anche astronauti dalla Polonia e dall’Ungheria, rimarrà per un paio di settimane a bordo della ISS.
    I piani di Axiom per la realizzazione di una stazione spaziale (Axiom)
    SatellitiNel 2024 SpaceX ha effettuato più di cento lanci del proprio Falcon 9, il razzo parzialmente riutilizzabile che ha reso più economico il trasporto del materiale in orbita. Molti lanci sono serviti per espandere la sua costellazione satellitare Starlink, per offrire Internet dallo Spazio, che conta ormai più di 7mila satelliti. Altre iniziative simili porteranno alla realizzazione di costellazioni concorrenti, mentre l’Unione Europea si prepara a realizzarne una propria.
    La NASA ha in programma il lancio ad aprile di un paio di satelliti per la missione TRACERS, il cui scopo è studiare meglio l’attività del Sole e in particolare il vento solare, che interagendo con il campo magnetico terrestre produce effetti spettacolari come le aurore polari, ma anche interferenze ai sistemi di telecomunicazioni.
    Per quest’anno è previsto il lancio di numerosi satelliti di medie e piccole dimensioni per l’osservazione della Terra, sia per quanto riguarda lo studio degli effetti dei cambiamenti climatici sia per nuovi sistemi di mappatura geografica e delle strade, che tra le altre cose ritroviamo poi sui navigatori dei nostri smartphone.
    L’aurora boreale nel cielo sopra il lago Rat, nel Canada settentrionale (Bill Braden /The Canadian Press via AP)
    RazziIl lancio più atteso per l’inizio dell’anno è quello di New Glenn, il nuovo razzo della società spaziale statunitense Blue Origin di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon. A differenza di New Shepard, il “piccolo” razzo utilizzato per il turismo spaziale con permanenze di pochi minuti nello Spazio, New Glenn è alto quasi 100 metri ed è progettato per fare concorrenza ai razzi riutilizzabili di SpaceX. La sua progettazione e il suo sviluppo hanno richiesto molto più tempo del previsto, con diversi rinvii del primo lancio. Bezos avrebbe voluto sperimentarlo entro la fine del 2024, ma i test hanno fatto slittare i programmi e ora si parla di un primo lancio sperimentale intorno al 13 gennaio.
    Entro fine febbraio il consorzio europeo ArianeGroup tenterà un lancio orbitale del proprio nuovo razzo Ariane 6, progettato per ridurre i costi di accesso allo Spazio per i paesi europei. Un primo lancio la scorsa estate, dopo anni di ritardi, non è andato interamente per il verso giusto e si attende quindi il nuovo test per verificare l’affidabilità del razzo.
    Sono in programma diversi altri voli inaugurali di razzi gestiti da privati, come Neutron di Rocket Lab e Prime di Orbex, e da aziende con forti rapporti con i governi per via di sovvenzioni e collaborazioni a livello istituzionale. In Cina, almeno sei aziende spaziali sono al lavoro per sperimentare altrettanti razzi.
    Il primo lancio di Ariane 6, lo scorso luglio (ESA, Arianespace, CNES via AP)
    LunaLa Luna continua a essere al centro di molte iniziative spaziali, in parte per via del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma della NASA per coinvolgere le aziende private nelle esplorazioni lunari in vista di un ritorno degli astronauti sul nostro satellite naturale con il programma Artemis. Firefly Aerospace proverà a far allunare Blue Ghost, una missione che trasporta una decina di esperimenti della NASA per l’analisi del mare Crisium, una grande pianura che si formò in seguito all’impatto di un asteroide. Intuitive Machines proverà ad allunare con Athena nell’ambito della missione IM-2 per provare a rilevare la presenza di acqua ghiacciata.
    La società spaziale privata giapponese ispace proverà a raggiungere il suolo lunare con il proprio lander Resilience e il suo piccolo rover Tenacious, con l’obiettivo di esplorare il mare Frigoris nell’emisfero nord della Luna.
    Per quanto riguarda Artemis si attende l’insediamento di Donald Trump, la cui presidenza potrebbe orientare gli obiettivi della NASA verso Marte, riducendo quelli per la Luna. Elon Musk – il capo di SpaceX e uno dei più grandi finanziatori della campagna elettorale di Trump – sostiene da tempo la necessità di raggiungere Marte in modo da rendere l’umanità una “specie multiplanetaria”. SpaceX è fortemente coinvolta nelle attività della NASA ed è incaricata di gestire i primi allunaggi con astronauti dai tempi delle missioni Apollo, sempre nell’ambito di Artemis. Trump potrebbe anche decidere di interrompere lo sviluppo di SLS, il costoso sistema di lancio non riutilizzabile cui lavora da anni la NASA per gestire parte delle proprie missioni lunari.
    Il presidente eletto statunitense Donald Trump ed Elon Musk durante il lancio sperimentale di Starship in Texas, Stati Uniti, del 19 novembre 2024 (Brandon Bell/Pool via AP)
    StarshipDopo i successi del 2024, quest’anno SpaceX ha intenzione di effettuare decine di lanci sperimentali per mettere a punto la propria enorme astronave Starship, fondamentale per Artemis e nelle intenzioni di Musk per portare gli astronauti su Marte. Il programma prevede 25 lanci per sperimentare non solo l’astronave, ma anche i sistemi per recuperarla e riutilizzarla per più lanci, nonché un elaborato sistema per rifornirla in orbita per i viaggi verso la Luna e oltre. Saranno comunque necessari ancora molti test prima che Starship sia utilizzata con equipaggi a bordo, mentre potrebbero essere organizzate missioni per il trasporto di satelliti in orbita in tempi relativamente brevi.
    Space RiderNella seconda metà dell’anno potrebbe essere sperimentato per la prima volta nell’ambiente spaziale Space Rider, un nuovo sistema di trasporto di materiale in orbita dell’Agenzia spaziale europea (ESA). Il progetto per la mini-navetta senza equipaggio è stato finanziato in buona parte dall’Italia ed è stato realizzato dalle aziende Avio e Thales Alenia Space. Effettuato il primo volo dimostrativo, l’ESA ha intenzione di privatizzare Space Rider e di affidarne la gestione al consorzio spaziale Arianespace. Il nuovo sistema potrebbe ridurre sensibilmente i costi di invio di materiali e tecnologie da sperimentare in orbita.
    Space Rider in un’elaborazione grafica (ESA)
    AsteroidiLa missione Tianwen-2 della Cina è un progetto ambizioso per raccogliere campioni da un asteroide e studiare una cometa. Il lancio è in programma per maggio e la missione esplorerà l’asteroide 469219 Kamoʻoalewa, un quasi-satellite della Terra che secondo alcune ipotesi potrebbe essere un frammento della Luna espulso da un impatto passato. Dopo aver raccolto e inviato verso la Terra i campioni, la sonda si dirigerà verso la cometa 311P/PANSTARRS nella fascia principale degli asteroidi, con l’obiettivo di approfondire la comprensione dell’origine e dell’evoluzione del sistema solare, indagando anche sull’origine dell’acqua e delle molecole organiche sulla Terra.
    La Cina sta investendo molto nel proprio programma spaziale e con risultati importanti. Negli ultimi anni ha allestito una base in orbita intorno alla Terra, ha raccolto e riportato sulla Terra campioni del suolo lunare con una missione robotica e ha perfezionato i propri sistemi di lancio in vista di esplorazioni con astronauti della Luna.
    Sistema solareIl 2025 sarà anche denso di passaggi ravvicinati (“flyby”), cioè di avvicinamenti di sonde a pianeti e altri corpi celesti nell’ambito dei loro viaggi interplanetari verso i rispettivi obiettivi finali. I flyby servono soprattutto per ricevere una spinta gravitazionale dai pianeti, in modo da ridurre il consumo di combustibile per raggiungere mete molto distanti.
    La sonda BepiColombo dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e di quella giapponese (JAXA) effettuerà a gennaio un nuovo passaggio ravvicinato del pianeta Mercurio, in vista delle attività di rilevazione per studiare la composizione della sua atmosfera e le caratteristiche geologiche. La missione Europa Clipper della NASA, partita lo scorso ottobre, effettuerà un passaggio ravvicinato di Marte per ricevere la spinta necessaria per raggiungere Europa, una delle lune di Giove che potrebbe riservare qualche sorpresa per la ricerca di vita fuori dalla Terra.
    Lucy, la sonda della NASA per lo studio degli asteroidi, effettuerà un passaggio ravvicinato ad aprile dell’asteroide 52246 Donaldjohanson, raccogliendo dati per comprendere le caratteristiche della sua superficie e studiare la sua composizione. L’asteroide porta il nome del paleoantropologo Donald Johanson che scoprì i fossili di Lucy, un ritrovamento fondamentale per lo studio dell’evoluzione della nostra specie.
    JUICE, la sonda dell’ESA, ad agosto effettuerà un passaggio ravvicinato di Venere, nel suo lungo viaggio per raggiungere Giove. Mentre Hera, un’altra missione ESA, a marzo condurrà un passaggio ravvicinato di Marte nel suo viaggio verso il sistema di asteroidi Didymos, oggetto qualche tempo fa di un primo esperimento per provare a modificarne l’orbita in modo da studiare sistemi per proteggere la Terra dalle collisioni con gli asteroidi.
    Quest’anno segnerà anche la fine di JUNO, la missione della NASA che negli ultimi 8 anni ha permesso di raccogliere molti dati su Giove, il pianeta più grande del Sistema solare, e sulle sue numerose lune. A metà settembre, la sonda riceverà i comandi per entrare a grande velocità nell’atmosfera di Giove e polverizzarsi, in modo da evitare il rischio di produrre rottami spaziali e di contaminazioni.
    Il pianeta Giove visto da una delle fotocamere di JUNO (NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSSImage processing by Prateek Sarpal)
    UniversoA fine febbraio partirà la missione SPHEREx della NASA, progettata per mappare il cielo e osservare oltre 100 milioni di stelle nella Via Lattea, la nostra galassia, raccogliendo inoltre dati su più di 450 milioni di galassie. Le strumentazioni dell’osservatorio saranno anche impiegate per raccogliere indizi sull’eventuale presenza di acqua o tracce di molecole organiche nello Spazio profondo.
    Qui sulla Terra, potrebbe invece essere pronta entro l’estate parte del Vera C. Rubin Observatory, un enorme telescopio costruito sul Cerro Pachón, a quasi 2.700 metri di altitudine nel nord del Cile. L’osservatorio sarà utilizzato per la mappatura della volta celeste e per l’osservazione e lo studio di piccoli oggetti nel nostro sistema solare, come asteroidi, comete e nanopianeti. Sarà anche utilizzato per lo studio della misteriosa quanto sfuggente materia oscura. Nel nostro percepito la materia è tantissima, ma in termini cosmologici è relativamente poca: si stima che costituisca meno del 5 per cento dell’Universo conosciuto. Tutto il resto, secondo le teorie più discusse, è formato per il 25 per cento circa di materia oscura e per il 70 per cento di energia oscura. LEGGI TUTTO

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    Come si trasmette Internet dallo Spazio

    Caricamento playerSi è molto discusso negli ultimi giorni, con commenti più o meno allarmati e polemici, della possibilità che il governo italiano si affidi a SpaceX, l’azienda spaziale privata di proprietà di Elon Musk, per la gestione delle proprie comunicazioni tramite i satelliti di Starlink.
    I circa settemila satelliti che compongono la costellazione di Starlink orbitano velocissimi intorno al nostro pianeta, compiendo un giro completo in circa un’ora e mezza, in questo modo sono in grado di offrire un servizio di connessione praticamente ovunque nel mondo, anche nelle zone più remote. Per questo motivo il servizio offerto da SpaceX può essere particolarmente utile in ambito militare e di spionaggio, ma anche per le attività di protezione civile, ad esempio in caso di emergenze.
    Ma come si sono evoluti questi sistemi, come funzionano esattamente e perché si chiamano “costellazioni”? Nella nuova puntata di Ci vuole una scienza, Emanuele Menietti e Beatrice Mautino spiegano il sistema dietro al funzionamento dei satelliti di Starlink e perché, di conseguenza, interessano a diversi governi, non solo al nostro. Nella puntata di oggi si parla anche di influenza aviaria e delle novità scientifiche da tenere d’occhio nel 2025.
    Ci vuole una scienza è un podcast del Post condotto dalla divulgatrice scientifica Beatrice Mautino e da Emanuele Menietti, giornalista del Post. Ogni venerdì racconta le ultime novità scientifiche, ma anche il modo in cui vengono comunicate e il loro impatto sulle nostre vite. Da gennaio Ci vuole una scienza fa parte dell’offerta per le abbonate e gli abbonati del Post, le persone che con il loro contributo permettono che il progetto giornalistico del Post ci sia e possa crescere, e che tutti gli articoli pubblicati sul sito del Post restino disponibili gratuitamente per chiunque voglia informarsi meglio. 
    Se vuoi ascoltare questa e le prossime puntate di Ci vuole una scienza – ma anche leggere il sito senza pubblicità, commentare gli articoli e ascoltare gli altri podcast per abbonati, e soprattutto sostenere il Post e le cose che fa – puoi abbonarti anche tu. LEGGI TUTTO

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    Non ci eravamo mai spinti così vicino al Sole

    Caricamento playerNella notte tra il 24 e il 25 dicembre, la sonda spaziale Parker Solar Probe (PSP) della NASA è diventata la cosa costruita dall’umanità che più si sia avvicinata al Sole. La sonda ha resistito alle forti sollecitazioni e, dopo essersi nuovamente allontanata dal Sole, ha inviato un segnale nelle prime ore del 27 dicembre. Al di là del record, il passaggio ravvicinato è servito per raccogliere dati per studiare come si forma e quali sono le caratteristiche del vento solare, che ha una grande influenza su ciò che accade nel nostro vicinato cosmico.
    Parker Solar Probe si chiama così in onore di Eugene Newman Parker, l’astrofisico statunitense che negli anni Cinquanta fu tra i primi a ipotizzare l’esistenza del vento solare, cioè di un flusso continuo di particelle cariche (soprattutto protoni ed elettroni) che si propaga nello Spazio interplanetario. Parker aveva fatto la propria previsione in un periodo in cui non c’erano ancora satelliti e sonde per confermare l’esistenza del vento solare, confrontandosi con lo scetticismo di molti colleghi che ritenevano improbabile l’esistenza di un flusso di particelle di quel tipo. Parker aveva invece ragione e la sua teoria fu confermata nei primi anni Sessanta, soprattutto grazie ad alcune missioni della NASA come Mariner 2.
    La conferma dell’esistenza del vento solare aprì un nuovo importante ambito di studio e di ricerca per comprendere non solo come funzionano le cose nel Sistema solare, ma anche altrove, considerato che stelle come il Sole sono piuttosto comuni nell’Universo. Il vento solare non può essere osservato direttamente a occhio nudo qui dalla Terra, ma diventa evidente con le aurore, quando le sue particelle interagiscono con il campo magnetico terrestre, che ci protegge proprio dagli effetti dannosi del vento solare.

    Fu in questo contesto che nel 2009 la NASA avviò la progettazione di una sonda per avvicinarsi il più possibile al Sole, in modo da studiare i fenomeni che portano alla produzione di quel flusso di particelle. Il progetto portò alla costruzione di Parker Solar Probe, una sonda con una massa intorno ai 700 chilogrammi che fu lanciata nel 2018 per un lungo viaggio di avvicinamento al Sole. Il percorso era stato infatti studiato per permettere alla sonda di effettuare più passaggi ravvicinati, alla giusta velocità per avere il tempo di raccogliere dati a sufficienza, senza arrostire i propri componenti.
    Nel suo ultimo passaggio ravvicinato, quello del record, la sonda è arrivata a 6,1 milioni di chilometri di distanza dalla superficie solare, pochissimo in termini astronomici se consideriamo che il Sole ha un diametro di 1,4 milioni di chilometri (più di cento volte quello della Terra) e che mediamente è a circa 150 milioni di chilometri dal nostro pianeta. La sonda ha quindi attraversato una porzione della corona, la parte più esterna dell’atmosfera solare nonché una delle sue aree più calde.
    Negli scorsi anni la sonda aveva effettuato altri passaggi ravvicinati superando più volte la soglia dei 14 milioni di chilometri dalla superficie solare. Il record precedente era della sonda Helios 2, che nell’aprile del 1976 aveva raggiunto una distanza di 42,7 milioni di chilometri.
    Per studiare il vento solare è necessario trovarsi al suo interno, come ha spiegato Nicky Fox, che ha lavorato per vario tempo al progetto della NASA, è un po’ come studiare una foresta: non puoi farlo osservandola dall’esterno, devi entrarci e vedere che cosa c’è tra un albero e l’altro. Solo che puoi farlo per pochissimo tempo, perché la foresta sta bruciando. Ed è per questo motivo che PSP è stata progettata per resistere a temperature estreme.
    Parker Solar Probe durante le ultime fasi di preparazione prima del lancio nel 2018 (NASA)
    La sonda è protetta da uno scudo termico, che nell’ultimo passaggio ravvicinato ha resistito a temperature superiori a 1.300 °C. Lo scudo protegge buona parte della sonda, ma non può fare molto per il sensore (una “coppa di Faraday”) collocato nella parte posteriore di PSP e utilizzato per misurare il flusso di elettroni e particelle cariche nel vento solare. Lo strumento è stato realizzato alternando strati di titanio, zirconio e molibdeno, ottenendo una coppa che resiste a temperature ben al di sopra dei 2mila °C. I cavi che alimentano il sistema sono stati realizzati invece in niobio, un metallo con un punto di fusione intorno ai 2.500 °C.
    Il segnale ricevuto dalla sonda il 27 dicembre conferma che i suoi sistemi di comunicazione funzionano ancora dopo il passaggio ravvicinato, ma saranno necessari alcuni giorni prima di ottenere i dati raccolti dalle strumentazioni della sonda. La NASA confida di ricevere maggiori informazioni sulle condizioni di PSP il prossimo primo gennaio e di ottenere in seguito i dati dagli strumenti scientifici, che saranno analizzati qui sulla Terra, ma non da Parker in persona.
    Eugene Parker è morto nel marzo del 2022, pochi mesi dopo l’ingresso della sonda nell’atmosfera solare. A proposito di primati, quando la NASA scelse di chiamarla come lui, Parker divenne la prima persona ancora vivente ad avere intitolata una sonda dell’agenzia spaziale statunitense. LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea vuole fare concorrenza a Elon Musk

    Caricamento playerNegli ultimi anni il miliardario Elon Musk ha portato in orbita intorno alla Terra oltre 7mila satelliti per offrire Internet dallo Spazio ai privati e ai governi, anche per scopi militari. Il servizio è disponibile in Europa, ma la Commissione Europea vorrebbe farne a meno per le comunicazioni governative e di sicurezza: per questo vuole inviare in orbita alcune centinaia di satelliti su cui avere pieno controllo, senza dipendere dalle società di Musk e dal suo modo talvolta discutibile di fare affari.
    A inizio settimana la Commissione ha annunciato di avere firmato il contratto di assegnazione della gestione di IRIS2 – il nome del progetto satellitare – ad alcune delle più importanti società spaziali europee, per un investimento stimato in 6,5 miliardi di euro, finanziato per circa due terzi dalle istituzioni europee. Il resto del denaro deriverà da investimenti dei privati coinvolti nel consorzio SpaceRISE.
    Nell’iniziativa sono coinvolte Eutelsat, Hispasat e SES, tre importanti aziende responsabili di numerose reti di satelliti, e alcune grandi società specializzate nella produzione dei satelliti e nella gestione di reti di telecomunicazioni come: Thales Alenia Space e Telespazio, che hanno una forte presenza in Italia, e Airbus Defence, Deutsche Telekom, Orange e Hisdesat. Le società saranno responsabili dell’avvio e della gestione di IRIS2 per i prossimi 12 anni con l’obiettivo di avere la costellazione di satelliti in attività entro il 2030.
    Come suggerisce il nome, una costellazione di satelliti è un insieme di satelliti che viene solitamente collocato nell’orbita bassa (al di sotto dei 2mila chilometri di distanza dalla Terra) e che grazie all’alto numero di componenti riesce a coprire buona parte del pianeta con il proprio segnale. I satelliti, più piccoli e meno complessi rispetto a quelli tradizionali per le telecomunicazioni, si mantengono in contatto con i centri di controllo e i ripetitori a terra, e con le antenne di chi utilizza il servizio per esempio per accedere a Internet dove non c’è segnale cellulare o non arrivano i cavi per le normali connessioni. In alcune configurazioni possono anche comunicare tra loro nello Spazio migliorando la copertura e la velocità della connessione.
    La costellazione di satelliti più grande costruita finora in orbita è Starlink di SpaceX, la società spaziale statunitense guidata da Elon Musk che periodicamente trasporta in orbita centinaia di satelliti per rinforzare la propria rete. Starlink offre accesso a Internet ai privati in buona parte del mondo, ma negli ultimi due anni se ne è parlato soprattutto per il suo ruolo nella guerra in Ucraina, dove è stato impiegato dall’esercito ucraino nelle aree dove le reti mobili e fisse sono state distrutte dagli attacchi russi.
    Oltre a Starlink, SpaceX ha da qualche tempo una sorta di progetto parallelo che si chiama Starshield, dedicato allo sviluppo e alla gestione di costellazioni satellitari per scopi militari e di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti e i loro alleati. La società non ha mai fornito molte indicazioni su Starshield per via dei vincoli di segretezza imposti dal governo statunitense. In questo contesto, alla fine del 2022 il Consiglio dell’Unione Europea, dove sono rappresentati i governi dei 27 stati membri dell’Unione Europea, aveva annunciato l’avvio di IRIS2 e la scelta di affidarne la realizzazione a un consorzio internazionale, guidato da alcune delle principali aziende spaziali europee.

    IRIS2 prevede di inviare in orbita 290 satelliti nel corso dei prossimi anni, una quantità di un ordine di grandezza inferiore rispetto alla costellazione di Starlink e ad altre in fase di progettazione e sviluppo. I satelliti impiegati saranno comunque sufficienti per offrire la copertura necessaria sia per gli scopi di sicurezza e militari sia per offrire ai privati connessioni ad alta velocità, in aree dove non c’è copertura mobile o non arriva la fibra ottica. I satelliti saranno collocati sia nell’orbita bassa sia in quella media, quindi al di sopra dei 2mila chilometri di quota.
    I satelliti di IRIS2 saranno trasportati in orbita da razzi europei, come il sistema di lancio Ariane 6 attualmente alle ultime fasi di test. Data la quantità di lanci necessari non è comunque escluso che il consorzio decida di affidarne alcuni a SpaceX, che solo quest’anno ha effettuato più di cento lanci verso l’orbita terrestre. In questo caso SpaceX avrebbe comunque solo il compito di trasportare il carico, senza un coinvolgimento nella gestione della costellazione.
    Secondo diversi osservatori IRIS2 potrebbe contribuire a stimolare ulteriormente l’economia spaziale in Europa, che continua a espandersi, per quanto a ritmi diversi da quella statunitense. Il problema più importante rimangono le limitate possibilità di accesso in orbita rispetto agli Stati Uniti, che oltre a SpaceX potranno presto contare anche su Blue Origin, l’azienda spaziale di Jeff Bezos che sta per sperimentare un nuovo sistema di lancio per grandi carichi verso e oltre l’orbita terrestre. LEGGI TUTTO

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    Il nuovo capo della NASA è più ricco, più giovane e cammina nello Spazio

    Caricamento playerMentre lo scorso settembre osservava la Terra dal punto più distante mai raggiunto da un essere umano dai tempi delle missioni lunari Apollo, Jared Isaacman disse che «laggiù abbiamo molto lavoro da fare. Ma da quassù, la Terra sembra davvero un mondo perfetto». Ora che Isaacman è tornato sul nostro pianeta, le cose da fare certamente non gli mancheranno. Nel tardo pomeriggio di mercoledì, infatti, il presidente eletto Donald Trump lo ha scelto come prossimo amministratore della NASA, raccogliendo insolitamente un assenso trasversale tra Repubblicani e Democratici.
    Se come probabile la sua nomina sarà confermata dal Senato degli Stati Uniti, Isaacman diventerà il più giovane e il più ricco capo della NASA nell’intera storia dell’agenzia spaziale statunitense. Succederà a Bill Nelson, ex astronauta e politico di lungo corso nominato per quell’incarico nel 2021 dal presidente ora uscente Joe Biden. Nelson ha 82 anni, il doppio di Isaacman, e ha un patrimonio non comparabile con quello del suo successore, che è stimato intorno agli 1,7 miliardi di dollari.
    Nelson e Isaacman hanno comunque qualcosa in comune: entrambi hanno partecipato a missioni spaziali. Nelson sullo Space Shuttle nel 1986, Isaacman – che all’epoca stava per compiere tre anni – ha invece partecipato a due missioni, entrambe gestite interamente da privati e senza un diretto coinvolgimento della NASA. Nel farlo ha stretto rapporti con Elon Musk, il capo di SpaceX, che ha fortemente sostenuto la candidatura di Trump e sarà coinvolto nella sua prossima amministrazione.
    La vicinanza di Isaacman a Musk ha con molta probabilità influito sulla scelta di Trump e pone non pochi problemi di conflitto d’interessi, ma la nomina è stata comunque accolta positivamente dalla maggior parte dei commentatori e da chi ha gestito in passato la NASA. Isaacman nel corso della campagna elettorale non si era del resto esposto particolarmente, mostrando di essere interessato alle esplorazioni spaziali e a nient’altro.
    Elon Musk e Donald Trump durante il lancio sperimentale di Starship a Boca Chica, Texas, il 19 novembre 2024 (Brandon Bell/Pool via AP)
    Isaacman deve buona parte della propria ricchezza a un’intuizione che ebbe nel 1999, quando aveva 16 anni. Appassionato di informatica, mise insieme un sistema per la gestione dei pagamenti online, che in pochi anni divenne tra i più utilizzati negli Stati Uniti con centinaia di milioni di dollari di ricavi ogni anno. La società, che oggi si chiama Shift4 Payments, è ancora attiva e ha sempre Isaacman come amministratore delegato. Con parte dei ricavi della sua azienda, nel 2012 Isaacman partecipò alla fondazione di Draken International, una società che si occupa di fornire corsi di formazione per i piloti dell’aeronautica militare.
    Lo stesso Isaacman è pilota, attività che da più giovane pensava lo avrebbe avvicinato alla possibilità, un giorno, di fare l’astronauta. E quel giorno arrivò nel 2021 con la missione spaziale privata Inspiration4, finanziata in buona parte con i suoi soldi e gestita da SpaceX. A settembre di quest’anno, Isaacman era tornato nello Spazio effettuando la prima “passeggiata spaziale” (attività extraveicolare) interamente gestita dai privati, sempre in collaborazione con SpaceX.
    Isaacman è un forte sostenitore dei processi che stanno portando alla privatizzazione del settore spaziale. In tempi recenti ha criticato le scelte della NASA per il programma lunare Artemis, soprattutto per quanto riguarda il costoso sistema di trasporto per gli astronauti verso la Luna (il grande razzo SLS e la capsula Orion) e la decisione di avere due sistemi alternativi per compiere l’allunaggio, con un aumento dei contratti e dei costi. SpaceX ha ricevuto l’incarico di svilupparlo adattando la sua enorme astronave Starship, con un contratto da 4 miliardi di dollari, e anche Blue Origin di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon) ha un contratto da 3,4 miliardi di dollari per fare altrettanto.
    Jared Isaacman durante la sua attività extraveicolare, il 12 settembre 2024 (SpaceX)
    Da amministratore della NASA, Isaacman dovrà decidere come riorganizzare Artemis, ormai in ritardo e con la possibilità che gli Stati Uniti vengano battuti sul tempo dalla Cina per il ritorno sulla Luna con esseri umani. Nel farlo dovrà amministrare un bilancio di circa 25 miliardi di dollari, che tiene insieme tantissime cose: dall’esplorazione con sonde del Sistema solare ai satelliti intorno alla Terra per le osservazioni scientifiche, passando per gli ancora poco chiari piani per raggiungere Marte con gli astronauti, la principale fissazione di Elon Musk.
    Senza SpaceX ed Elon Musk, Isaacman difficilmente avrebbe raggiunto lo Spazio, ma gli stretti rapporti con l’azienda e i potenziali conflitti d’interessi non sembrano essere al momento una grande preoccupazione. Lori Garver, ex viceamministratrice della NASA durante la presidenza di Barack Obama, ha definito «una notizia fantastica» la nomina, mentre l’ex amministratore della NASA Jim Bridenstine (scelto per quel ruolo da Trump durante il suo primo mandato) ha invitato il Senato ad approvare velocemente la scelta perché Isaacman è «la persona giusta per guidare la NASA in una nuova ambiziosa era di scoperte ed esplorazioni».
    Isaacman aveva in programma di effettuare altri viaggi nello Spazio, ma dovrà probabilmente rivedere i propri piani. Ripensare quelli della NASA sarà comunque più complicato, soprattutto nel caso di tagli di alcuni progetti che potrebbero influire sul grande indotto del settore spaziale negli Stati Uniti che impiega centinaia di migliaia di persone. Anche per questo l’amministratore uscente Bill Nelson aveva mantenuto un approccio cauto, che però secondo i più critici aveva portato a un certo immobilismo per non assumersi troppi rischi.
    Isaacman ha un modo un po’ diverso di valutare il rischio, come ha dimostrato lo scorso settembre uscendo da una capsula in orbita con una tuta spaziale mai sperimentata prima. La ricerca di altri primati sarà il suo principale obiettivo da amministratore della NASA, almeno nelle sue intenzioni: «Ispireremo i bambini, i vostri e i miei, a guardare in alto e a sognare che cosa si possa fare. Gli statunitensi cammineranno sulla Luna e su Marte e, nel farlo, miglioreremo la vita qui sulla Terra». LEGGI TUTTO

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    Come distruggere la cosa più grande che abbiamo mai portato nello Spazio

    Caricamento playerNegli ultimi 26 anni l’umanità ha affrontato difficoltà tecnologiche, logistiche e di relazioni internazionali per costruire e mantenere l’oggetto più grande che abbia mai messo intorno alla Terra. Ma il tempo passa per tutti, anche in orbita, e da testimonianza dell’ingegno umano e simbolo della collaborazione tra più paesi la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) diventerà presto un enorme rifiuto da smaltire.
    Quando non sarà più abitata dagli astronauti, intorno al 2030, non potrà continuare a girare per sempre sopra le nostre teste e dovrà essere distrutta. Un piano per farlo c’è, ma i pochi anni che separano la Stazione dalla sua fine saranno cruciali per capire che cosa ci sarà, e se ci sarà qualcosa, al posto del più grande laboratorio orbitale della storia.
    La NASA ha in programma di distruggerlo poco dopo il 2030, ma l’agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha per ora garantito la propria collaborazione solo fino al 2028, senza offrire garanzie sui due anni che avanzano. Il peggioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia in seguito alla guerra in Ucraina non ha avuto grandi ripercussioni nello Spazio, ma sta rallentando le trattative su una delle collaborazioni scientifiche più importanti tra i due paesi. Se la Russia abbandonasse la stazione già nel 2028, la NASA e le altre agenzie spaziali che partecipano al progetto (l’europea ESA, la giapponese JAXA e la canadese CSA) sarebbero in difficoltà nel mantenere da sole la Stazione.
    I rapporti tra gli stati hanno sempre avuto un ruolo centrale nella storia della ISS. Le attività di assemblaggio iniziarono nel novembre del 1998, con l’unione di un primo modulo russo a uno statunitense, che segnava l’avvio di una collaborazione impensabile fino a pochi decenni prima tra la Russia e gli Stati Uniti, i due protagonisti della cosiddetta “corsa allo Spazio”. Messi insieme, i due moduli raggiungevano una lunghezza di circa 17 metri, ma negli anni seguenti la Stazione avrebbe via via preso forma raggiungendo gli attuali 109 metri di lunghezza. Al suo interno sono stati effettuati migliaia di esperimenti sugli effetti dell’ambiente spaziale sugli organismi, compreso il nostro, e sulle opportunità di ricerca di nuovi materiali e tecnologie.
    Rappresentazione schematica dei principali elementi che costituiscono la Stazione Spaziale Internazionale (NASA)
    Come una sorta di grande LEGO, la ISS è formata da 18 moduli collegati tra loro e da una intelaiatura sulla quale sono montati altri componenti come i pannelli solari, i radiatori per dissipare il calore prodotto dalle strumentazioni, le batterie e altre attrezzature. Ha una massa che supera le 400 tonnellate, compresi i sette astronauti che solitamente vivono al suo interno, e viaggia intorno alla Terra a un’altitudine di circa 400 chilometri effettuando un giro completo del nostro pianeta ogni ora e mezza. In altre parole, con i suoi pannelli solari, è più o meno grande quanto un campo da calcio che impiega il tempo di una partita di calcio per compiere un’orbita.
    Come molti altri satelliti che girano intorno alla Terra, anche la ISS è soggetta al decadimento orbitale, cioè alla progressiva perdita di quota dovuta per lo più all’attrito atmosferico. A circa 400 chilometri di altitudine l’atmosfera terrestre è estremamente rarefatta, ma per quanto poche le molecole dei gas presenti si scontrano con la Stazione e la fanno rallentare quel tanto che basta per perdere quota. Quando la riduzione diventa significativa, si utilizzano i motori di alcuni moduli o delle capsule da trasporto collegate alla ISS per correggere l’orbita, in modo da compensare il decadimento. E questo è il principale motivo per cui la Stazione non potrà essere lasciata in orbita a tempo indefinito, quando sarà disabitata.
    In mancanza di una periodica spinta per rimettere le cose a posto, la ISS continuerebbe a cadere lentamente, fino a raggiungere gli strati più bassi e densi dell’atmosfera, dove si distruggerebbe. Con i satelliti di medie-piccole dimensioni si fa proprio questo, evitando in questo modo che rimanendo a lungo in orbita producano detriti che potrebbero danneggiare altri oggetti, ma la ISS è troppo grande e alcune sue parti potrebbero sopravvivere al rientro nell’atmosfera, schiantandosi al suolo. Nella migliore delle ipotesi nell’oceano, nella peggiore (per quanto remota) su una zona abitata.
    All’interno della ISS ogni oggetto deve essere assicurato alle superfici per evitare che galleggi via a causa dell’assenza di peso (NASA)
    Negli ultimi anni i tecnici della NASA hanno quindi studiato il modo migliore per determinare la fine della Stazione Spaziale Internazionale. Hanno per esempio valutato l’ipotesi di spingerla in un’orbita molto più alta dell’attuale, in modo da allontanarla da ciò che resta dell’atmosfera terrestre e rendere minimo il suo decadimento orbitale. Potrebbe rimanere in orbita per secoli senza la necessità di nuove spinte, ma spostarla in un’orbita più alta richiederebbe comunque molta energia e soprattutto esporrebbe la ISS a un maggior rischio di collisioni con altri oggetti rispetto a quello attuale, mitigato talvolta con manovre per evitare i detriti più pericolosi. Gli impatti potrebbero portare alla formazione di nuovi rifiuti spaziali, che potrebbero danneggiare altri satelliti e portare alla produzione di ulteriori detriti.
    Esclusa la possibilità di spostare la ISS in un’orbita più alta, la NASA ha anche esplorato la possibilità di smontare la Stazione e di riportarne i pezzi sulla Terra, in modo da conservarla in un museo per le generazioni future. Ma smantellare un oggetto così grande in orbita sarebbe un’impresa, considerato che per montarlo sono stati necessari decenni, con una trentina di viaggi degli Space Shuttle e oltre 160 attività extraveicolari (quelle che comunemente chiamiamo “passeggiate spaziali”). Gli Space Shuttle sono stati inoltre ritirati nel 2011 e a oggi non esistono altri sistemi per il recupero in orbita di oggetti ingombranti come i moduli della Stazione.
    Resta quindi un’unica soluzione: distruggere.
    Il governo degli Stati Uniti richiede che il rischio di danni alla popolazione causati dai frammenti di un veicolo spaziale, che viene distrutto nell’atmosfera, sia estremamente basso con una probabilità inferiore a un caso ogni 10mila rientri. Per la maggior parte dei satelliti il limite viene ampiamente rispettato, anche nel caso di un rientro non controllato, ma sarebbe impossibile fare altrettanto con un oggetto grande quanto la ISS, che dovrà essere quindi condotta verso un’area in cui distruggersi senza costituire un pericolo per qualsiasi zona abitata del pianeta.
    Il piano della NASA prevede di sfruttare in una prima fase il naturale decadimento orbitale, intervenendo poi con gli attuali sistemi di propulsione di cui dispone la ISS per farle perdere ulteriormente quota. La manovra di rientro vera e propria in uno specifico punto dell’atmosfera, per fare in modo che i detriti più grandi finiscano nell’oceano, non potrà però essere effettuata in autonomia dalla Stazione perché richiederà una grande quantità di propellente. Sarà utilizzato un veicolo spaziale che al momento ha due caratteristiche principali: quella di avere un nome particolarmente noioso, “US Deorbit Vehicle” (USDV), e di non esistere.
    Attività di manutenzione all’esterno di uno dei moduli della ISS (ESA)
    Lo scorso giugno, la NASA ha annunciato di avere scelto l’azienda spaziale privata SpaceX di Elon Musk per occuparsi della costruzione del veicolo che spingerà la Stazione Spaziale Internazionale verso la sua fine. Il valore stimato del contratto supera gli 800 milioni di dollari ed è solo una delle collaborazioni più recenti della NASA con SpaceX, che garantisce il trasporto degli astronauti sulla ISS con la sua capsula Crew Dragon e ha contratti per gestire il ritorno sulla Luna con Starship, l’enorme astronave in fase di sviluppo in Texas.
    SpaceX utilizzerà una versione modificata del proprio sistema di trasporto Dragon per realizzare l’USDV, con più motori e una maggiore capacità di carico del propellente. In questo modo il veicolo potrà attraccare alla ISS utilizzando i meccanismi già normalmente impiegati per i viaggi di rifornimento e per gli astronauti, sfruttando procedure ormai rodate. L’USDV avrà il compito di far rallentare la Stazione rendendo sempre più stretta la sua orbita, fino a quando raggiungerà il punto di inserimento, cioè la quota in cui non potrà più cambiare traiettoria per sfuggire alla Terra. Incontrando gli strati sempre più densi dell’atmosfera, raggiungerà temperature di migliaia di °C e inizierà a distruggersi.
    Le prime strutture a cedere saranno i pannelli solari e i radiatori, che si staccheranno dall’intelaiatura rompendosi in frammenti via via più piccoli, la maggior parte dei quali brucerà ad alta quota. Le forti sollecitazioni causeranno poi la rottura dell’intelaiatura e la separazione dei moduli, che si distruggeranno non essendo stati progettati per resistere a un rientro nell’atmosfera. Il loro rivestimento esterno fonderà privando le strumentazioni all’interno (computer, circuiti per l’aria e l’acqua, alloggiamenti degli astronauti, ecc) della loro protezione. Le alte temperature fonderanno e bruceranno buona parte della Stazione, ma qualcosa delle parti più dense e massicce sopravviverà e tornerà sulla Terra.
    I pannelli solari della ISS saranno tra le prime strutture a cedere (ISS)
    Il rientro controllato permetterà di far cadere ciò che rimane della ISS nel cosiddetto “punto Nemo”, cioè l’area oceanica più lontana dalle terre emerse. Si trova nella parte meridionale dell’oceano Pacifico e deve il proprio nome ai romanzi di avventura L’isola misteriosa e Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. È un punto scelto spesso per il rientro dei veicoli spaziali e per questo viene chiamato informalmente “cimitero delle astronavi”. Non è previsto alcun recupero, ma le dimensioni e la cottura nel turbolento rientro nell’atmosfera rendono l’impatto ambientale dei detriti spaziali trascurabile, rispetto alla vastità dell’oceano.
    Prima di elaborare il proprio piano, la NASA si era rivolta alle aziende del settore spaziale per chiedere se fossero interessate a riutilizzare parte della Stazione, senza ricevere proposte credibili o facilmente realizzabili. Le parti più vecchie dell’infrastruttura e delle strumentazioni risalgono del resto a più di 20 anni fa e nel frattempo ci sono stati importanti progressi nello sviluppo dei moduli, come dimostrato dai primi modelli sperimentali realizzati dai privati. Da qualche tempo alla ISS possono infatti essere collegati nuovi moduli, che un giorno dovrebbero costituire basi orbitali interamente gestite dai privati.
    Axiom Space è una delle aziende spaziali che collegheranno propri moduli alla ISS in vista della creazione di una propria base orbitale privata (Axiom Space)
    Almeno nei piani attuali, non ci sarà infatti una nuova ISS che sostituirà quella attuale. I governi non sono interessati a spendere altri miliardi di euro per costruirne una nuova e ritengono di poter investire il denaro che risparmieranno nella manutenzione altrove, per esempio nei progetti spaziali legati all’esplorazione della Luna e forse un giorno di Marte. Non è però ancora chiaro se e con che tempi saranno costruite basi orbitali private, né se nasceranno nuove collaborazioni come quelle ventilate negli ultimi anni tra la Russia e la Cina, che ha già una propria base in orbita.
    Tra tante incertezze e cambiamenti, la fine della Stazione Spaziale Internazionale è ormai data per certa: non è una questione di se, ma di quando. Un giorno, dopo aver accompagnato per decenni la Terra girandole intorno quasi duecentomila volte, si avvicinerà sempre di più al nostro pianeta trasformandosi nella più grande meteora mai costruita dall’umanità. LEGGI TUTTO

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    Il messaggio di Arecibo ha 50 anni

    Caricamento playerIl 16 novembre di cinquant’anni fa la grande antenna del radiotelescopio di Arecibo, sull’isola di Porto Rico, trasmise uno dei messaggi radio più famosi della storia per provare a comunicare con gli alieni. La comunicazione fu inviata verso l’ammasso globulare di Ercole (M13) a 25mila anni luce di distanza da noi, per dimostrare sia le capacità del radiotelescopio sia quella della nostra specie di mettersi in contatto con qualcuno nell’Universo in grado di ascoltare.
    Il contenuto del messaggio era stato deciso dall’astrofisico Frank Drake, noto per essere stato il fondatore del SETI (il programma scientifico dedicato alla ricerca di vita extraterrestre) insieme ad altre personalità, come lo scienziato e divulgatore scientifico Carl Sagan. La matematica era stata scelta come forma di linguaggio comune per provare a farsi capire da un’ipotetica specie aliena, che non avrebbe probabilmente utilizzato i nostri modi di comunicare: due più due fa del resto sempre quattro, in qualsiasi parte del Cosmo.
    Il messaggio di Arecibo è formato da 1.679 cifre binarie, cioè il frutto del prodotto di 23 e 73, due numeri primi. Drake, Sagan e gli altri scelsero quel numero di cifre perché pensarono che se una forma di vita intelligente avesse deciso di ordinarlo in un quadrilatero avrebbe potuto farlo solamente producendone uno di 23 colonne e 73 righe o di 23 righe e 73 colonne: in quest’ultimo caso non avrebbe ottenuto nulla di sensato, mentre nel primo si sarebbe accorta di poter dare un senso all’informazione.

    Decodificando il messaggio di Arecibo si ottiene infatti un’illustrazione molto semplice che schematicamente rappresenta ciò che siamo. Nella prima parte della griglia sono elencati i numeri da 1 a 10 in formato binario, seguiti dai numeri atomici degli elementi idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo. Seguono poi indicazioni sulle caratteristiche molecolari del DNA, una rappresentazione di un essere umano e, molto stilizzata, una rappresentazione grafica della popolazione della Terra. Infine sono mostrati il Sole con i suoi pianeti (compreso Plutone, ora non più considerato un pianeta vero e proprio) e la grande antenna dell’osservatorio di Arecibo che aveva reso possibile l’invio del messaggio.
    Il messaggio è ancora in viaggio e in 50 anni ha percorso una frazione minuscola della distanza di 25mila anni luce tra noi e M13. All’epoca fu scelto proprio quell’ammasso globulare perché comprende centinaia di migliaia di stelle, di conseguenza c’era una maggiore probabilità che ce ne fosse almeno una con un pianeta che orbitava alla giusta distanza da una stella per rendere possibile la vita (oggi sappiamo che ci sono migliaia di pianeti fuori dal nostro sistema solare, ma non abbiamo la certezza sulla possibilità che alcuni possano ospitare la vita, almeno per come la conosciamo). Anche nel caso in cui fosse effettivamente captato da qualcuno in grado di risponderci nei paraggi di M13, potremo ricevere un messaggio di risposta non prima di 50mila anni.
    M13 (Sid Leach/Adam Block/Mount Lemmon SkyCenter via Wikimedia)
    Drake, Sagan e gli altri erano naturalmente consapevoli di questi limiti e l’invio del messaggio in quell’autunno del 1974 fu per lo più simbolico, in occasione delle rinnovate capacità di trasmissione del radiotelescopio di Arecibo. Un paio di anni prima, Sagan aveva lavorato alla preparazione di una targa da applicare sulla sonda Pioneer 10 della NASA, che conteneva un’illustrazione schematica della nostra posizione nell’Universo e degli esseri umani. La stessa placca sarebbe stata inserita sulla seguente missione della Pioneer 11 e fu in un certo senso il prototipo di un progetto più articolato, il cosiddetto “Golden Record”, che fu montato nel 1977 sulle sonde Voyager 1 e 2, che ancora oggi stanno esplorando i confini del nostro sistema solare.
    Douglas Vakoch, presidente del METI International, un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata nelle comunicazioni extraterrestri, ha ricordato l’anniversario del messaggio di Arecibo in un articolo di opinione sul New York Times, sostenendo l’importanza delle esperienze di questo tipo:
    Viviamo in tempi strani e precari, segnati di continuo da guerre, una crisi climatica globale e da sentimenti polarizzati sullo stato del mondo. In un momento storico come questo, con le preoccupazioni terrestri che ci lacerano, cosa succederebbe se guardassimo al cielo per trovare un motivo di speranza? Sapere che un’altra civiltà sta sopravvivendo alle proprie difficoltà potrebbe rassicurarci. E mentre speriamo di riuscire a scoprire e contattare altre forme di vita, anche concludere che siamo soli nell’Universo potrebbe essere una rivelazione importante per tenere unita la nostra specie.
    Vakoch sostiene che ci si dovrebbe concentrare nell’invio dei messaggi verso obiettivi più vicini come Proxima Centauri, che si trova a circa quattro anni luce dal nostro sistema solare. Ciò ridurrebbe gli eventuali tempi di comunicazione e inoltre permetterebbe di captare più facilmente un eventuale messaggio di risposta. Dal messaggio di Arecibo, comunque, sono stati inviati diversi altri messaggi interstellari verso corpi celesti relativamente più vicini, e uno potrebbe raggiungere il proprio obiettivo tra poco più di quattro anni.
    L’antenna del radiotelescopio presso l’osservatorio di Arecibo (© El Nuevo Dia de Puerto Rico via ZUMA Press / ANSA)
    Il messaggio inviato nel 1974 è intanto sopravvissuto a ciò che rese possibile la sua partenza dalla Terra. Il radiotelescopio di Arecibo è ormai inutilizzabile a causa di alcuni crolli catastrofici della sua gigantesca antenna larga 305 metri avvenuti nel 2020. La struttura è ormai inservibile e nel 2022 l’agenzia governativa statunitense NSF (National Science Foundation) ha deciso di non ricostruirla né di procedere alla costruzione di un osservatorio simile nella stessa zona.
    La struttura divenne famosa verso la fine degli anni Novanta grazie al film Contact di Robert Zemeckis con Jodie Foster. Era ispirato al romanzo dallo stesso titolo pubblicato nel 1985 da Sagan e raccontava il primo ipotetico contatto tra gli esseri umani e una specie aliena, affrontando soprattutto le implicazioni sul piano etico e religioso di questa scoperta. Per ora, appunto, solo in un romanzo. LEGGI TUTTO

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    Alle presidenziali degli Stati Uniti si vota anche dallo Spazio

    Alle elezioni statunitensi di novembre potranno votare anche gli astronauti che si trovano nello Spazio. È possibile grazie al sistema di comunicazione che permette il trasferimento di documenti dallo Spazio alla Terra e a una legge del Texas del 1997. Negli anni passati anche astronauti sovietici, russi e francesi hanno votato per le elezioni nei rispettivi paesi.Al momento nello Spazio si trovano 14 persone: 3 sono astronauti cinesi, 4 sono russi e 7 statunitensi. Questi sette per votare hanno dovuto fare richiesta anticipatamente al governo statunitense di poter votare a distanza, secondo la stessa procedura seguita dai soldati inviati nelle missioni all’estero. Hanno poi ricevuto una password da un impiegato della contea in cui risiedono, per criptare il documento di testo con il voto e garantirne la segretezza. Dall’inizio del periodo del voto anticipato (che in Texas inizia lunedì 21 ottobre) possono quindi inviare un messaggio riservato contenente il loro voto all’ufficio elettorale locale, dopo una serie di passaggi.
    Quasi tutti gli astronauti statunitensi risiedono nello stato del Texas, dove si trova il Johnson Space Center, il principale centro di addestramento per andare in orbita della NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti. Per questo è spettato al Texas approvare una legge per permettere loro di votare anche durante le permanenze sulle stazioni spaziali, i laboratori scientifici che viaggiano nell’orbita terrestre.
    Nel 1996 la NASA cercò di fare in modo che l’astronauta John Blaha potesse votare nelle presidenziali di quell’anno (in cui alla fine il Democratico Bill Clinton venne riconfermato alla presidenza). Il tentativo fu fermato dal Segretario di stato del Texas, dato che lo stato non permetteva alcun tipo di voto elettronico: Blaha non poté votare.
    L’anno seguente il parlamento del Texas approvò una legge che permetteva il voto elettronico per chi avesse i requisiti per votare «ma si trovasse nello spazio durante il periodo del voto anticipato e nel giorno delle elezioni». Il primo astronauta statunitense a votare dall’orbita terrestre fu quindi David Wolf, che nel 1997 votò per il sindaco di Houston (una città del Texas) mentre si trovava a bordo della stazione spaziale russa MIR.
    Gli astronauti attualmente sulla Stazione Spaziale Internazionale: 7 di loro (quelli vestiti di nero e quello in primo piano a destra) sono statunitensi (NASA via AP)
    Prima di votare veramente gli astronauti ricevono una scheda elettorale finta, che reinviano a terra per controllare che il processo funzioni e mantenga la segretezza del voto. Ricevono poi la scheda vera, un documento di testo che compilano e rispediscono a terra tramite una rete di satelliti e antenne che permette alla NASA di comunicare con i satelliti nell’orbita terrestre, la Near Space Network (“Rete per lo Spazio vicino”).
    Tramite questa rete le informazioni vengono trasmesse al centro di ricerca di White Sands, in New Mexico. Da lì sono poi trasferite al centro di controllo delle missioni spaziali del Johnson Space Center, in Texas, che a sua volta le invia agli uffici elettorali della contea di Harris, in cui si trova il centro: qui il documento viene stampato e conteggiato assieme a tutte le altre schede della contea.
    Dal 2004, quando Leroy Chiao divenne il primo statunitense a votare per il presidente dallo Spazio, gli astronauti della NASA hanno votato in 3 delle 4 elezioni presidenziali seguenti (nel 2008, 2016, 2020): nel 2012 gli astronauti che si trovavano in orbita poterono votare anticipatamente secondo le procedure ordinarie. In almeno un caso, nel 2019, votò anche un astronauta statunitense che non risiedeva in Texas: Andrew Morgan votò nelle elezioni locali della Pennsylvania, grazie alla collaborazione fra le autorità locali e la NASA. L’ultima astronauta a votare dalla Stazione Spaziale Internazionale è stata Kathleen Rubins, che è anche l’unica ad aver votato due volte: nel 2016 e nel 2020. LEGGI TUTTO