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    C’è un altro farmaco contro l’obesità

    La Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa di farmaci, ha approvato il Zepbound, un nuovo farmaco contro l’obesità prodotto dall’azienda Eli Lilly che farà concorrenza al Wegovy, il farmaco molto discusso e richiesto negli ultimi mesi per trattare la medesima condizione. L’approvazione è avvenuta contestualmente a quella dell’Agenzia regolatrice per i medicinali e i prodotti sanitari del Regno Unito, a conferma della grande attenzione intorno ai farmaci contro l’obesità, un problema sanitario che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha ormai raggiunto «proporzioni epidemiche» con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno.– Ascolta anche: L’obesità è una questione mondialeZepbound non è tecnicamente un nuovo farmaco: il suo principio attivo (tirzepatide) era già stato approvato in precedenza come trattamento contro il diabete con il nome commerciale Mounjaro, disponibile anche nell’Unione Europea. Il suo sviluppo era iniziato sei anni fa con una sperimentazione clinica che aveva coinvolto circa 300 persone affette da diabete di tipo 2 (la forma più diffusa della malattia e la cui causa principale è spesso l’obesità) che avevano assunto il farmaco per tre mesi. L’obiettivo era trattare il diabete, ma dal test era emerso che le persone volontarie avevano perso almeno il 13 per cento della loro massa corporea. Lo studio fu seguito da una serie di test clinici di maggiore durata, circa 72 settimane, e con il coinvolgimento di oltre 2.500 persone con problemi di obesità.Lo scorso anno Eli Lilly aveva annunciato i risultati, segnalando come la metà dei pazienti che avevano ricevuto il dosaggio più alto di tirzepatide una volta alla settimana avesse perso almeno il 20 per cento della massa corporea, un esito senza precedenti nella perdita di peso per un farmaco di quel tipo. Tra il 2017 e il 2022 l’azienda aveva accelerato la ricerca e lo sviluppo del principio attivo, focalizzandosi sull’obesità e facendo grandi investimenti sia per condurre test clinici in parallelo sia per ingrandire la propria capacità produttiva, scommettendo sul fatto di ricevere un’autorizzazione dalla FDA per l’utilizzo del farmaco.I dati conclusivi dei test clinici, consultati dalla FDA per valutare l’approvazione, dicono che le persone che hanno assunto Zepbound hanno perso in media il 18 per cento della propria massa corporea, un risultato paragonabile al 15 per cento ottenuto con il Wegovy (semaglutide). Anche quest’ultimo era stato sviluppato come farmaco contro il diabete ed è venduto come Ozempic per il trattamento di questa malattia, mentre il nome commerciale Wegovy riguarda una versione con un diverso dosaggio specificamente venduta per trattare l’obesità.Negli ultimi mesi la domanda di Wegovy è diventata molto alta al punto che Novo Nordisk, l’azienda danese che lo produce, non riesce a soddisfare le tante richieste con una conseguente carenza del farmaco e di Ozempic. Il processo produttivo richiede tempo perché Wegovy è una preparazione da iniettare. Anche Zepbound deve essere iniettato e questo oltre a complicare la produzione rende meno pratico l’utilizzo da parte dei pazienti. Sia Novo Nordisk sia Eli Lilly sono al lavoro per sviluppare una versione dei loro farmaci per uso orale, in modo da aumentare la loro capacità produttiva e raggiungere un maggior numero di pazienti. I test clinici della versione orale di Zepbound sono già in corso.Secondo esperti e analisti, i farmaci di nuova generazione contro l’obesità sono una delle più grandi occasioni per le aziende farmaceutiche, anche considerato l’aumento delle persone con questa condizione in tutto il mondo. Il loro impiego è comunque vincolato a una diagnosi medica di obesità o di forte sovrappeso con alcune condizioni di salute tipiche delle persone obese. Come tutti i farmaci, anche Zepbound e Wegovy hanno effetti collaterali e devono essere somministrati sotto supervisione medica, nell’ambito di un trattamento che comprenda anche una modifica degli stili di vita.Attualmente Zepbound non è disponibile nell’Unione Europea, ma Eli Lilly ha presentato domanda per l’approvazione all’Agenzia europea per i medicinali. L’approvazione negli Stati Uniti di solito implica una rapida autorizzazione anche in Europa. LEGGI TUTTO

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    Lo spostamento del Polo Nord magnetico è un problema per gli aeroporti

    Entro la fine di novembre la pista dell’aeroporto di Milano Linate cambierà designazione per riflettere lo spostamento del Polo Nord magnetico. Per le migliaia di passeggeri che utilizzano ogni giorno l’aeroporto più vicino alla città non cambierà nulla, mentre per i responsabili dello scalo saranno necessari alcuni litri di vernice per dipingere i nuovi numeri sulla pista, nuovi cartelli per la segnaletica, nuove mappe, manuali e indicazioni per i piloti e le compagnie aeree. È una procedura con cui deve prima o poi fare i conti buona parte degli aeroporti del mondo ed è dovuta al modo particolare in cui si modifica nel tempo il campo magnetico terrestre, con grandi conseguenze per l’intero settore dei trasporti.In un certo senso la Terra si comporta come un enorme magnete, o per meglio dire un “dipolo magnetico”, che secondo le teorie più condivise è dovuto alla struttura interna del nostro pianeta. Il nucleo interno, che si trova al centro della Terra, è solido, mentre il nucleo esterno è liquido. Entrambi questi strati sono formati per lo più da ferro e nickel e le loro interazioni generano un grande campo magnetico, che si estende ben oltre la superficie del nostro pianeta, proteggendolo dalle emissioni più dannose del Sole.Il nucleo esterno inizia a poco meno di 3mila chilometri di profondità e non può essere quindi osservato e studiato direttamente, ma l’analisi delle variazioni del campo magnetico e del modo in cui si propagano le onde sismiche tra i vari strati della Terra permettono di studiarne e ipotizzarne le caratteristiche. Sappiamo che i fenomeni che avvengono al suo interno rendono poco prevedibili i cambiamenti del campo magnetico terrestre nel corso del tempo. Di conseguenza, mentre il Polo Nord geografico è sempre lo stesso ed è il punto più a nord della Terra, quello magnetico verso il quale puntano le bussole cambia posizione e non coincide con il primo.Negli ultimi decenni, per esempio, il Polo Nord magnetico si è via via spostato dal Canada verso la Siberia (Russia) a una velocità non costante, arrivando a modificare la propria posizione anche di 60 chilometri in un anno. Visto che molti dei sistemi di orientamento che usiamo ogni giorno sono nella loro essenza delle bussole, è importante sapere come si modifica il campo magnetico terrestre. Per farlo si utilizza un modello matematico, l’International Geomagnetic Reference Field, con il quale si producono mappe che vengono aggiornate periodicamente in modo da avere punti di riferimento condivisi. Queste mappe e altri sistemi sono utilizzati per mettere in relazione l’orientamento reso possibile dal campo magnetico con quello dei sistemi di geolocalizzazione, come il GPS.Il campo magnetico in una mappa del 2015Per gli aeroporti le conseguenze di questi cambiamenti sono particolarmente sentite perché le loro piste sono denominate in base al modo in cui sono orientate rispetto al Polo Nord magnetico, cioè al punto verso cui si orienta l’ago della bussola. La pista di Linate, per esempio, attualmente è numerata 18 a una estremità e 36 all’altra (gli aeroplani possono utilizzarla in una delle due direzioni per atterrare o decollare). I due numeri indicano l’orientamento della pista rispetto al Polo Nord magnetico a seconda se questa viene presa da una parte o dall’altra. Il 36 indica che la pista è orientata esattamente verso Nord e si sta andando in quella direzione, mentre il 18 indica l’orientamento verso Sud procedendo dall’altra parte.Su una bussola il piano dell’orizzonte, cioè il piano su cui si trova l’osservatore, è rappresentato con un cerchio graduato suddiviso in 360 gradi. Il Nord coincide con 0° (o 360°, visto che facendo un giro completo si torna al punto di inizio) e ha al suo opposto il Sud che è quindi a 180°. I numeri sulle piste degli aeroporti riflettono questa impostazione, ma per praticità e chiarezza vengono mostrati dividendo per 10 i gradi del piano dell’orizzonte. Nel caso di Linate quel 18 deve essere quindi moltiplicato per 10: il prodotto risultante è 180 e indica 180° cioè il Sud; il 36 sta invece per 360° e indica il Nord.Non è infrequente che le piste degli aeroporti più vecchi venissero orientate sull’asse Nord-Sud per motivi pratici, ma ci sono moltissimi casi di piste con un orientamento diverso. Nel caso dell’aeroporto di Genova la pista ha i numeri 10 e 28: è quindi orientata 100° e 280° dal Nord (in senso orario). La pista di Roma Ciampino è 15/33, mentre quella di Catania è 08/26. Avendo ovviamente ogni pista due orientamenti opposti, le direzioni di percorrenza sono sempre a 180°: è quindi sufficiente sapere il numero su una delle due estremità per ottenere l’altro, aggiungendo semplicemente 18.Conoscere la denominazione della pista per chi pilota è importante per sapere se ha orientato correttamente l’aereo per puntare nella giusta direzione durante l’atterraggio. Oggi ci sono naturalmente molti altri dispositivi a bordo di un aereo per sapere di essere orientati correttamente e nella giusta traiettoria, ma le denominazioni sono comunque importanti come doppio controllo o nel caso ci siano malfunzionamenti e imprevisti a bordo.I piloti sanno comunque che i numeri sulle piste costituiscono un’indicazione di massima, visto che sono approssimati per difetto (da 0 a 4) e per eccesso (da 5 a 9). Per esempio: se una pista viene costruita con un orientamento a 183 gradi verso Nord il numero indicato sulla pista è 18, mentre se è a 187 gradi l’indicazione diventa 19. Ma come abbiamo visto nel corso del tempo il Polo Nord magnetico si sposta e di conseguenza un aeroporto può ritrovarsi con la pista orientata diversamente da come era stata costruita e con un’indicazione numerica che non rispecchia più l’effettivo orientamento rispetto al Polo Nord magnetico.In base alla loro posizione geografica, alcuni aeroporti sono più esposti di altri a questi cambiamenti e mettono in conto di dover prima o poi rivedere buona parte della loro segnaletica. È quello che è successo a Linate, che non può più continuare ad approssimare i numeri della pista come aveva fatto finora. Entro fine novembre la pista passerà quindi da 18/36 a 17/35 per riflettere il cambiamento di orientamento relativo al Polo Nord magnetico. Oltre ai due grandi numeri bianchi agli estremi della pista, l’aeroporto di Linate dovrà cambiare tutta la segnaletica orizzontale con le indicazioni per raggiungere o lasciare la pista, tutta la segnaletica verticale con i cartelli che indicano le direzioni, le mappe dell’aeroporto e le informazioni per la navigazione.Le modifiche riguardano la pista principale dell’aeroporto, quella lunga 2,4 chilometri, mentre la pista più piccola di circa 600 metri orientata allo stesso modo aveva cambiato denominazione già in passato e ora è utilizzata per lo più come area di parcheggio. LEGGI TUTTO

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    Perché sveniamo è un mistero

    Nella Deposizione dalla Croce, una delle opere più famose e importanti del pittore fiammingo Rogier van der Weyden, la Vergine Maria perde i sensi alla vista del proprio figlio Gesù morto durante la crocifissione. Maria ha una posa simile a quella del figlio e viene sorretta mentre con gli occhi chiusi e le guance rigate dalle lacrime si accascia a terra. È una rappresentazione drammatica di uno degli eventi più importanti della cristianità, ma è anche tra i migliori esempi di un tema iconografico che si sviluppò a partire dal tardo Medioevo quando si diffuse la convinzione che Maria fosse svenuta dopo la crocifissione di Gesù. Nei secoli successivi il tema dello svenimento sarebbe stato ripreso in molti quadri, non necessariamente di carattere religioso, mostrando un particolare interesse per un fenomeno plateale e al tempo stesso misterioso.Ancora oggi le cause e il meccanismo dietro gli svenimenti non sono completamente chiari, anche se una recente ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Nature offre qualche nuova prospettiva che potrebbe aiutare a risolvere il mistero. A complicare da sempre le cose c’è il fatto che non tutti gli svenimenti sono uguali e che la loro classificazione può essere difficoltosa.Quello che comunemente chiamiamo “svenimento” è in termini medici una sincope, cioè una perdita di coscienza transitoria le cui caratteristiche principali sono la breve durata e la risoluzione spontanea. In generale la sincope è causata da un minore afflusso di sangue al cervello dovuto a una riduzione della pressione sanguigna (ipotensione), ma possono contribuire altri fattori come problemi cardiaci e nervosi. Chi sta per avere una sincope ha talvolta sintomi che precedono la perdita di sensi vera e propria: giramenti di testa, improvvisa sudorazione, pallore, vista sfocata, nausea e vomito. Nel caso in cui a questi sintomi non segua una perdita di conoscenza si parla di presincope, condizione che non dovrebbe comunque essere trascurata.Si stima che circa il 40 per cento delle persone abbia almeno una sincope nel corso della propria vita, a dimostrazione di quanto sia diffuso un fenomeno che nella maggior parte dei casi non lascia conseguenze. Nonostante la frequenza tra la popolazione, molti aspetti della perdita di conoscenza non sono ancora chiari e ciò è dovuto soprattutto alla grande varietà di situazioni in cui può verificarsi una sincope.Classificare le sincopi è di per sé complicato e a seconda dei manuali di medicina e del lavoro di ricerca dei medici si trovano diverse classificazioni. Secondo la Società europea di cardiologia, una sincope può avere cause: neuromediate (cioè legate alle attività del sistema nervoso), ortostatiche (dovute alla posizione eretta), cardiache o cerebrovascolari. La forma più diffusa, e che comunemente chiamiamo appunto svenimento, rientra nella prima categoria ed è la sindrome vasovagale.Una persona che vive una situazione di forte e improvviso stress emotivo, come nel caso della Vergine Maria di van der Weyden, sviene a causa di una sincope vasovagale. Il presupposto è di solito la bassa pressione sanguigna che può essere determinata semplicemente da come si è fatti o da condizioni ambientali, come una giornata molto calda che porta a una maggiore vasodilatazione per disperdere il calore (i vasi sanguigni si dilatano e di conseguenza diminuisce la pressione a cui circola il sangue al loro interno). Deve poi esserci una causa scatenante che può essere improvvisa, come la visione dell’ago della siringa per un prelievo o un evento spaventoso, oppure crescente come uno stato d’ansia o un attacco di panico.Davanti a una situazione percepita come di pericolo, il nostro organismo si prepara a reagire e come prima cosa fa aumentare il battito cardiaco per rifornire più velocemente l’organismo di ossigeno e altre sostanze attraverso il sangue, ma il cuore non riesce a soddisfare la richiesta perché la pressione sanguigna non è sufficiente. Il nervo vago – uno dei principali canali di comunicazione tra il cervello e i polmoni, il cuore, lo stomaco e altri organi addominali – interviene e fa rallentare la frequenza cardiaca che si riflette in un minore afflusso di sangue al cervello che porta infine alla sincope.Su questo meccanismo già di per sé complicato possono intervenire numerose altre variabili e molti aspetti del fenomeno non sono ancora chiari. La ricerca da poco pubblicata su Nature offre però nuovi importanti elementi per comprendere meglio che cosa succede nel momento in cui interviene il nervo vago, determinando infine la sincope. Il gruppo di ricerca è infatti riuscito ad analizzare le interazioni tra cuore e cervello, superando le ricerche precedenti che si erano invece quasi sempre concentrate su uno dei due, analizzandoli come sistemi isolati.Lo studio è consistito nell’analisi genetica delle cellule di un tratto del nervo vago che ha permesso di identificare alcuni neuroni coinvolti nei processi che portano alla contrazione dei vasi sanguigni. Il gruppo di ricerca ha notato che questi neuroni formano intricate diramazioni intorno ai ventricoli, le due cavità nella parte inferiore del cuore, e sono poi in comunicazione con la postrema, una struttura che si trova nel tronco encefalico alla base del cervello.(Wikimedia)Identificate le strutture e i loro collegamenti, il gruppo di ricerca ha iniziato a fare qualche esperimento in laboratorio sui topi. Come spiega lo studio, hanno stimolato quegli specifici neuroni in vario modo tenendo nel frattempo sotto controllo il battito cardiaco, la respirazione, la pressione sanguigna e i movimenti degli occhi degli animali. Sapendo su quali strutture neuronali intervenire è stato possibile riprodurre in modo molto più accurato le condizioni che portano a una sincope e analizzare i loro effetti sull’organismo.Un topo libero di muoversi e normalmente attivo, per esempio, sveniva in pochi secondi non appena venivano stimolati i neuroni identificati dal gruppo di ricerca. La perdita di sensi era accompagnata da una marcata dilatazione della pupilla e da un movimento verso l’alto e all’indietro del bulbo oculare, un effetto che si osserva spesso anche nelle persone che hanno una sincope. Altri esami hanno permesso di rilevare una riduzione della pressione sanguigna, della frequenza cardiaca e respiratoria, nonché un ridotto afflusso di sangue verso la testa.Il gruppo di ricerca si è poi chiesto che cosa accade nel cervello quando si ha una sincope, visto che la mancanza delle sostanze portate dal sangue riguarda l’intero encefalo. Ad alcuni topi sono stati applicati elettrodi per rilevare la loro attività neuronale in varie aree del cervello mentre svenivano e si è notato che questa diminuiva praticamente ovunque, tranne che nel nucleo paraventricolare nell’ipotalamo, la struttura che ha tra le sue funzioni principali il controllo del sistema nervoso autonomo. Bloccando l’attività del nucleo, il gruppo di ricerca ha notato che i topi rimanevano privi di sensi più a lungo; una stimolazione permetteva invece di risvegliare rapidamente gli animali che tornavano a comportarsi normalmente.L’ipotesi è che i neuroni identificati dalla ricerca lavorino insieme al nucleo paraventricolare nel regolare le fasi della sincope, dallo svenimento al successivo processo di ripresa di conoscenza e delle attività cerebrali sospese per qualche secondo. Il cervello richiede una grande quantità di energia (glucosio) e di ossigeno portati dalla circolazione sanguigna: in loro assenza i neuroni smettono di funzionare e dopo 2-5 minuti iniziano a morire. La sincope dura molto meno e si risolve di solito entro un minuto, ripristinato il normale afflusso di sangue verso il cervello.La nuova ricerca è un importante progresso nella conoscenza del fenomeno, ma non offre spiegazioni su come quegli specifici neuroni siano stimolati in primo luogo, né spiega il perché della sincope. Che senso ha perdere i sensi quando vediamo il sangue o siamo sottoposti a una situazione di grande stress?Una delle teorie più dibattute sostiene che svenire sia un retaggio evolutivo del fingersi morti, una pratica diffusa tra diverse specie e che può accrescere le probabilità di sopravvivere quando si subisce un attacco da un predatore. A questa teoria è associata quella secondo cui una ridotta pressione sanguigna rallenterebbe la perdita di sangue nel caso di una ferita, aumentando anche in questo caso le possibilità di sopravvivenza. Un’altra teoria ancora ha legato lo svenimento al modo in cui interagivano i gruppi di esseri umani nel paleolitico. Le persone non coinvolte nei combattimenti che svenivano segnalavano che non costituivano una minaccia e avevano maggiori probabilità di sopravvivenza. La paura degli aghi potrebbe derivare da quella per gli oggetti che in un remoto passato potevano causare ferite e sanguinamenti. È una teoria affascinante, ma ancora dibattuta e difficile da confermare.Le teorie formulate nel tempo sono per lo più dedicate alla sincope vasovagale, la più comune e per certi versi misteriosa se confrontata con quelle legate a problemi cardiaci e circolatori. Mentre la prima si verifica di solito come un caso isolato, queste ultime possono essere ricorrenti e rendono quindi necessari esami perché potrebbero essere il sintomo di uno specifico problema di salute. Risalendo alle cause i medici possono prescrivere terapie o cambiamenti di abitudini nello stile di vita, in modo da ridurre il rischio che si verifichino nuovi episodi. Se è vero che quasi sempre la sincope si risolve da sé, lo svenimento può avere altre conseguenze come battere violentemente la testa da qualche parte mentre ci si accascia privi di senso.(Wikimedia)L’invenzione di particolari divani simili alle chaise longue e ai triclini degli antichi Romani in età vittoriana viene spesso attribuita alla necessità di ridurre proprio i rischi delle cadute dovute agli svenimenti, offrendo a chi subisce una sincope un comodo appoggio su cui accasciarsi e riprendersi. Quel tipo di divano viene chiamato “fainting couch”, letteralmente “divano da svenimento”, e divenne effettivamente molto diffuso nel Regno Unito durante il diciannovesimo secolo. Era spesso collocato all’interno delle “fainting room”, camere da svenimento, una stanza solitamente al primo piano delle case dove in sostanza ci si ritirava per fare un pisolino.Non è completamente chiara l’origine dei due nomi legati allo svenimento, ma fu proprio in età vittoriana che nacque lo stereotipo secondo cui le donne perdono facilmente i sensi davanti a una forte emozione. Per diverso tempo si disse che la presunta maggiore frequenza degli svenimenti fosse legata agli stretti corsetti della moda dell’epoca, che non permettevano di respirare bene e di conseguenza potevano portare a una sincope. In realtà non ci sono elementi storici e scientifici per ritenere che questo fosse il caso ed è probabile che quel tipo di divani si diffuse semplicemente per questioni di moda, in un periodo che si rifaceva spesso all’antichità. LEGGI TUTTO

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    L’Associazione ornitologica americana cambierà il nome di tutte le specie di uccelli intitolate a persone

    L’Associazione ornitologica americana, che si occupa fra le altre cose di standardizzare i nomi inglesi di tutti gli uccelli presenti nel continente americano, cambierà il nome comune di tutte le specie di uccelli intitolate a persone. Tra le principali ragioni di questo cambiamento c’è il fatto che alcuni nomi di specie di uccelli appartengono, per esempio, a proprietari di schiavi che si opposero all’abolizione della schiavitù, o a soldati che commisero atrocità contro i nativi americani: questo secondo l’Associazione ornitologica (l’ornitologia è la scienza che studia gli uccelli) contribuirebbe a escludere certe comunità marginalizzate dalla conoscenza e dallo studio degli uccelli. Il cambiamento comunque non riguarderà il nome scientifico degli uccelli, che è in latino ed è determinato da una serie di regole che prendono in considerazione diversi fattori, fra cui quelli evolutivi.La decisione di cambiare i nomi è stata presa da un comitato istituito appositamente dall’Associazione nel 2022 per studiare la questione. Il processo con cui verranno cambiati i nomi riguarderà inizialmente gli uccelli del Nordamerica, e nei prossimi anni sarà esteso anche a quelli dell’America centrale e meridionale. Nelle intenzioni dell’Associazione i nuovi nomi saranno più descrittivi dell’aspetto fisico, del comportamento o dell’habitat degli uccelli.– Leggi anche: È sbagliato dare a una nuova specie il nome di una persona?L’Associazione ornitologica ha anche fatto sapere che oltre ai nomi dedicati alle persone saranno cambiati anche quelli considerati offensivi. I nuovi nomi saranno scelti coinvolgendo il pubblico, oltre a una commissione di esperti di ornitologia. La decisione ha sollevato anche delle critiche: alcuni la considerano poco utile a promuovere lo studio e la conoscenza degli uccelli e sostengono che il tempo e le risorse economiche che saranno investiti in questa iniziativa avrebbero potuto essere spesi in modo più proficuo.La decisione dell’Associazione ornitologica americana si inserisce in un dibattito che coinvolge anche altre discipline scientifiche: l’Associazione entomologica d’America ha deciso di rivedere i nomi di insetti giudicati offensivi o inappropriati, e alcuni astronomi hanno proposto di cambiare il nome del telescopio spaziale James Webb.– Leggi anche: Se volete chiamare col vostro nome una nuova specie, vi basta vincere un’asta Il rigogolo di Scott, chiamato così in onore di un generale statunitense che supervisionò la deportazione di diverse popolazioni di nativi americani (Wikimedia) LEGGI TUTTO

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    È morto il secondo uomo a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato

    Il Centro medico dell’Università del Maryland ha detto che è morto Lawrence Faucette, la seconda persona a cui era stato trapiantato con successo un cuore suino geneticamente modificato. Faucette aveva 58 anni ed era stato operato lo scorso 20 settembre: l’avanzamento della sua malattia non permetteva di attendere un trapianto di cuore tradizionale. I medici dell’Università hanno detto che inizialmente aveva reagito bene all’intervento, ma che negli ultimi giorni il suo corpo aveva mostrato segnali di rigetto, il processo in cui l’organismo non riconosce come proprio il nuovo organo e lo attacca ritenendolo una minaccia. Faucette è morto il 30 ottobre, circa sei settimane dopo il trapianto.La tecnica degli xenotrapianti, cioè i trapianti di organi da altre specie da innestare negli esseri umani, è ritenuta promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori umani. Il rigetto però è il rischio principale che si corre in questi interventi. Il 9 marzo del 2022 era morto David Bennett, il primo uomo a cui era stato trapiantato un cuore suino con un intervento andato a buon fine, sempre al Centro medico dell’Università del Maryland. Anche Bennett all’inizio aveva reagito bene, ma alla fine era sopravvissuto per circa due mesi dopo l’intervento.– Leggi anche: Il primo trapianto di cuore da un suino geneticamente modificato Lawrence Faucette prima del trapianto assieme alla moglie Ann (University of Maryland) LEGGI TUTTO

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    Le sperimentazioni per produrre fertilizzanti con la pipì

    A Brattleboro, nello stato americano del Vermont, c’è un’organizzazione che raccoglie donazioni di pipì. Si chiama Rich Earth Institute e dal 2012 conduce ricerche sui fertilizzanti ottenuti ​​dall’urina. Il suo obiettivo è recuperare alcune sostanze che rendono il suolo fertile, riducendo al tempo stesso la quantità di acque fognarie da trattare e l’uso di fertilizzanti sintetici, la cui produzione è responsabile di grosse quantità di emissioni di gas serra.I fertilizzanti che sostentano gran parte della produzione di cibo nel mondo contengono tre elementi particolarmente importanti: l’azoto, il potassio e il fosforo, elemento usato anche per la realizzazione di pannelli solari e batterie per auto elettriche. Ed è proprio il fosforo una delle sostanze che il Rich Earth Institute ricava dall’urina.Oggi i fertilizzanti contenenti fosforo si ottengono nella stragrande maggioranza dei casi dalla fosforite, un minerale estratto da rocce di origine sedimentaria. Fino al 2021 i dati dello US Geological Survey, l’istituto geologico statunitense, parlavano di riserve mondiali di fosforite che ammontavano a 71 miliardi di tonnellate e si trovavano principalmente in Marocco (50 miliardi di tonnellate): per questo si parlava del rischio che in qualche decennio si sarebbe arrivati a una carenza di fertilizzanti con gravi conseguenze sulla produzione alimentare globale.Dopo la recente scoperta di un gigantesco deposito da 70 miliardi di tonnellate di fosforite in Norvegia, le cose potrebbero cambiare: la compagnia mineraria Norge Mining prevede che tali disponibilità potrebbero soddisfare la domanda mondiale di fertilizzanti, pannelli solari e batterie per auto elettriche dei prossimi 50 anni. Inserito dalla Commissione Europea nella lista delle materie prime critiche, il fosforo rimane comunque una risorsa esauribile nel medio periodo.Le piante richiedono sostanze nutritive per crescere e produrre il cibo che mangiamo, e per incrementare la rendita dei raccolti i fertilizzanti sintetici ricchi di fosforo e azoto sono diventati sempre più usati dagli agricoltori di tutto il pianeta. Dal momento in cui, nei primi del Novecento, i chimici tedeschi Fritz Haber e Carl Bosch impararono a produrre industrialmente ammoniaca a partire dall’azoto, i fertilizzanti sintetici hanno contribuito in modo determinante alla riduzione delle carestie nel mondo. Sono così importanti che, con i metodi agricoli attuali, il centro di ricerche britannico Rothamsted stima che senza di essi potremmo produrre solamente la metà del cibo. Negli ultimi 50 anni l’utilizzo di fertilizzanti è quadruplicato e con l’aumento della popolazione la domanda è destinata a salire.L’urina può contenere tra il 50 e il 70 per cento del fosforo contenuto negli scarichi domestici, e il suo riciclo per uso agricolo – o “pipiciclo”, come lo chiamano in Vermont – è considerato una pratica che, comparata alla produzione e all’uso di tradizionali fertilizzanti sintetici, può avere un minore impatto ambientale per diverse ragioni. Secondo uno studio del 2023 realizzato da un gruppo di ricerca dell’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (INRAE) francese, causa minori emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas che causa l’effetto serra, minore eutrofizzazione (cioè nutrimento eccessivo delle alghe nei corsi d’acqua), limita l’utilizzo di materie prime e di acqua. Le diverse tecnologie disponibili per trattare l’urina umana ed estrarne il fosforo consumano ancora tanta energia, e dunque causano una significativa produzione di emissioni di gas serra a meno di usare esclusivamente energia prodotta da fonti rinnovabili, ma il riciclo consentirebbe una riduzione degli impatti ambientali sia nella fertilizzazione agricola sia nel trattamento delle acque reflue.A livello globale l’80 per cento delle acque fognarie non riceve alcun trattamento, e per questo l’urina e le feci umane non correttamente trattate rilasciano fosforo e azoto nelle acque di fiumi e laghi, contaminandoli. Un eccessivo incremento provoca l’eutrofizzazione, che può portare alla crescita eccessiva di alghe che impoveriscono l’acqua di ossigeno e per questo decimano le specie acquatiche. In alcuni casi poi le specie di alghe in eccesso possono contenere e disperdere nell’acqua sostanze tossiche anche per gli esseri umani.L’eutrofizzazione non deriva solamente dall’inquinamento provocato dalle acque fognarie non trattate, ma anche dal suolo dedicato all’allevamento intensivo. Per esempio, la proliferazione di alghe tossiche nel lago Erie, nel nord degli Stati Uniti, è causata dalle feci prodotte negli allevamenti che sorgono lungo il fiume Maumee, immissario del lago: mucche e maiali trasformano soia e granturco (fertilizzati) in letame contenente sostanze nutritive per le piante che poi finisce nel lago. Nel 2018 la superficie di un altro lago americano, il lago Okeechobee, in Florida, è stata coperta per il 90 per cento da una fanghiglia tossica. La stessa situazione riguarda anche altri laghi e fiumi in giro per gli Stati Uniti, il terzo maggior produttore di fosfato raffinato, un composto del fosforo.La proliferazione di alghe nell’ovest del lago Erie nel settembre del 2017 vista da un satellite della NASA (NASA via AP)Questo tipo di inquinamento è dovuto al fatto che i fertilizzanti vengono spesso applicati in dosi più elevate rispetto alla capacità di assorbimento delle piante. Le sostanze nutritive che contengono filtrano rapidamente attraverso il terreno e gli agricoltori ne applicano grandi quantità per essere sicuri di nutrire sufficientemente le radici. Il risultato è che si diffonde nell’ambiente una grande quantità di sostanze che si trasformano in una fonte di inquinamento.L’uso eccessivo di fertilizzanti contribuisce anche al cambiamento climatico. Se vengono applicati in eccesso o in modo improprio, diffondono nell’atmosfera protossido di azoto, un gas che ha un contributo all’effetto serra 300 volte maggiore rispetto a quello dell’anidride carbonica a parità di massa. E la produzione di ammoniaca sintetica (sostanza attraverso cui le piante assorbono azoto e quindi ingrediente fondamentale dei fertilizzanti) richiede molta energia e dunque causa notevoli emissioni di CO2. Si stima che il letame e i fertilizzanti sintetici siano responsabili dell’emissione di 2,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, più dell’aviazione e del trasporto marittimo messi insieme.Diversi studi scientifici dicono che il riciclo dell’urina può diventare una pratica efficiente anche in termini di resa agricola, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. «La combinazione di humus (complesso di sostanze organiche presenti nel suolo derivate dalla decomposizione di residui vegetali e animali) e fertilizzante organico-minerale ottenuto dal riciclo dell’urina migliora la crescita delle piante e mantiene la fertilità del suolo», dice Ariane Krause, ricercatrice al Leibniz-Institut e co-autrice di uno studio che ha testato i benefici del riciclo da urina e feci, stimando che i fertilizzanti ricavati dagli escrementi umani potrebbero sostituire oltre il 25 per cento di quelli sintetici attualmente utilizzati.Tuttavia anche le quantità dei fertilizzanti organico-minerali devono essere dosate in modo da consentire al suolo di rigenerarsi. Per mantenere la fertilità del terreno e contenere la fuoriuscita di sostanze nutritive dal letame animale è quindi importante nutrire le piante senza esagerare.Al Rich Earth Institute l’urina donata deve essere consegnata in apposite taniche con imbuto, progettate per eliminare gli odori e consentire il travaso del liquido. Poi viene pastorizzata, cioè sottoposta a un trattamento termico che serve per eliminare molti microrganismi e aumentare i tempi di conservazione, e distribuita agli agricoltori locali come fertilizzante organico-minerale. Grazie alle ultime tecnologie è possibile produrre 100 litri di concime liquido da mille litri di urina. Considerando che in un anno gli abitanti della città di New York producono circa 4,5 miliardi di litri di pipì e quelli di Shanghai quasi 14, il potenziale potrebbe essere immenso.Al momento però la sfida più complessa è trovare un metodo efficiente ed economico per raccogliere la giusta quantità di pipì. Un modo prevede la raccolta e il trattamento dell’urina dagli impianti di depurazione delle acque reflue (acqua contaminata dall’uso umano e industriale). Nonostante si parli di questa pratica da diversi decenni, sono ancora molti, forse troppi, gli ostacoli per vedere un suo sviluppo su vasta scala. Gli impianti odierni sono progettati per rimuovere i nutrienti come fosforo e azoto piuttosto che recuperarli. Alcune ricerche suggeriscono che per far diventare il pipiciclo una possibilità reale nell’agricoltura su larga scala sarebbe necessaria una riconversione dei nostri sistemi fognari che renda possibile la separazione dell’urina.L’approccio di raccolta più innovativo consiste invece nel separare l’urina alla fonte: per quanto abbiano ancora dimensioni ridotte, esistono varie iniziative che se ne occupano.Diversamente dalle feci, la pipì presenta un rischio molto basso di trasmissione di agenti patogeni (i microrganismi responsabili dell’insorgenza di una patologia) e offre la possibilità di filtrare meglio i residui farmaceutici. La raccolta viene effettuata tramite orinatoi a secco (senza o con pochissima acqua) e sono previsti trattamenti che vanno dalla semplice conservazione per uso locale, come nel caso del Rich Earth Institute, a trasformazioni industriali più complesse che producono fertilizzanti organici come l’Aurin, un concentrato a base di urina sviluppato dall’Istituto federale svizzero di scienza e tecnologia acquatica (Eawag) e autorizzato per la vendita anche in Liechtenstein e in Austria.In Francia, il parco dei divertimenti Futuroscope ha iniziato a riciclare la pipì dei suoi visitatori. Entro il 2025 utilizzerà solo orinatoi senza lo sciacquone, in modo che l’urina non finisca nelle fogne ma in appositi serbatoi. Lanciato a luglio 2021 come esperimento, dal parco sono stati recuperati oltre 23.000 litri di pipì con un risparmio di 275.000 litri d’acqua. L’idea è nata dalla startup francese Toopi Organics che collabora con festival di musica, eventi e servizi autostradali per raccogliere l’urina da riciclare.Viste le difficoltà logistiche nella raccolta e il trasporto della pipì, è molto improbabile che il riciclo della pipì possa sostituire completamente i fertilizzanti sintetici, ma può essere un’alternativa più sostenibile e praticabile in alcuni contesti. LEGGI TUTTO

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    La reintroduzione dei ghepardi in India non sta andando affatto bene

    Tra il 17 settembre 2022 e il 18 febbraio 2023 venti ghepardi sono stati portati in India dalla Namibia e dal Sudafrica per un progetto di reintroduzione, cioè per cercare di far tornare la specie nel paese, dove è estinta almeno dal 1952. Il progetto è stato molto apprezzato dal primo ministro indiano Narendra Modi, che in occasione del suo 72esimo compleanno era stato invitato ad aprire la gabbia del primo ghepardo rilasciato in libertà in India. Ma per il momento non si può dire che il piano di reintroduzione stia andando bene, anzi.Da marzo sei dei ghepardi arrivati dall’Africa sono morti, così come tre dei quattro cuccioli che erano nati nel frattempo. Tra luglio e agosto tutti i ghepardi superstiti che erano stati lasciati liberi all’interno del Parco nazionale di Kuno-Palpur, che si trova nel centro dell’India, sono stati ricatturati dal gruppo di esperti che segue il progetto e ora sono tenuti all’interno di zone recintate.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan, con la sottospecie dei ghepardi asiatici, Acinonyx jubatus venaticus secondo la nomenclatura scientifica. Oggi ne restano pochissimi e solo in Iran: negli anni Settanta erano circa 300, adesso, secondo l’ultimo conteggio ufficiale iraniano, ce ne sarebbero solo 12.La specie è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo dovuta a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici e della caccia: durante la dominazione britannica dell’India, venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame. Negli scorsi decenni si è provato più volte a reintrodurli, ma senza successo, e perché il Project Cheetah fosse approvato era stata necessaria l’autorizzazione della Corte Suprema indiana. Gli animali presi per la reintroduzione venivano dalla Namibia e dal Sudafrica perché sono due tra i paesi dell’Africa meridionale con le più grandi popolazioni di ghepardi.Il piano iniziale del Project Cheetah prevedeva che i ghepardi provenienti dall’Africa si acclimatassero nell’ambiente indiano gradualmente: prima all’interno di aree recintate ristrette, per un periodo di quarantena di 50-70 giorni, poi dentro aree recintate più ampie per uno o due mesi e infine in libertà nel Parco di Kuno-Palpur, dopo essere stati dotati di radiocollari per seguirne gli spostamenti. Sempre secondo il piano iniziale, prima sarebbero stati liberati i maschi e poi, dopo qualche settimana, le femmine. Nell’esecuzione del piano però ci sono stati ritardi e problemi, tanto che dei 20 ghepardi arrivati dall’Africa solo 12 sono stati liberati. E dopo che due di quelli sono morti, così come quattro di quelli ancora in cattività, i superstiti che erano liberi nel territorio del parco sono stati ricatturati.Le cause di morte dei ghepardi sono elencate nel primo rapporto annuale del Project Cheetah, ma non sono tutte note con esattezza. Il primo individuo morto, una femmina proveniente dalla Namibia, aveva problemi di insufficienza renale pregressi che non hanno risposto alle cure date all’animale. Il secondo ghepardo morto era un maschio sudafricano, deceduto improvvisamente all’interno della recinzione di acclimatamento più ampia: non si sa perché. Un’altra femmina, sudafricana, è stata uccisa da un maschio durante un tentativo di accoppiamento. Tre dei cuccioli nati in India invece sono morti a causa del caldo estremo dello scorso maggio; il quarto è sopravvissuto, ma essendo stato rifiutato dalla madre ora viene accudito dai responsabili di Project Cheetah.Le morti più problematiche per il progetto sono state quelle di una femmina e due maschi appena dopo essere stati messi in libertà: sono morti per setticemia, cioè per un’infezione, legata a ferite che si erano formate vicino e sotto i radiocollari. «Queste circostanze sono senza precedenti per la specie e non erano state anticipate dagli esperti internazionali di ghepardi», spiega il rapporto. I ricercatori del progetto ritengono che i radiocollari non siano stati l’origine dei problemi dei ghepardi, ma piuttosto che abbiano facilitato lo sviluppo di infezioni che potrebbero essere state causate da insetti o parassiti indiani a cui i ghepardi, provenendo da un altro ambiente, erano particolarmente vulnerabili.Le persone che si occupano del Project Cheetah sono comunque ottimiste sulla reintroduzione e nel rapporto sottolineano che «alcune morti sono eventi inevitabili». Tuttavia non era previsto che morissero così tanti ghepardi ancora nella fase in cattività. In un articolo pubblicato sul quotidiano indiano The Hindu l’esperto di animali selvatici Ravi Chellam, amministratore delegato di Metastring Foundation, una società che si occupa di raccogliere dati sulla biodiversità indiana, ha rivolto alcune critiche al Project Cheetah e ipotizzato che nel rapporto sul primo anno della reintroduzione si sia cercato di giustificare a posteriori le morti dei ghepardi.Secondo Chellam il fatto che una dei ghepardi sia morta per un problema di salute pregresso potrebbe indicare che la scelta degli animali dall’Africa non è stata fatta nel migliore dei modi, considerando peraltro che il trasporto da un continente a un altro e la permanenza in cattività sono esperienze stressanti per un animale selvatico anche quando non è particolarmente vulnerabile. Anche la nascita dei cuccioli e la morte di un’altra femmina durante un tentativo di accoppiamento fa pensare a una gestione scorretta degli animali: «Perché c’è stata fretta di farli accoppiare in cattività quando sarebbe potuto succedere una volta lasciati liberi nel parco?».In generale Chellam pensa che il fatto che nove morti siano avvenute con gli animali in cattività sia problematico e che i responsabili del progetto dovrebbero anche valutare se ghepardi che hanno passato così tanto tempo in aree recintate ristrette possano poi sopravvivere in autonomia una volta liberati.Anche altri esperti internazionali di fauna selvatica hanno dei dubbi sulla bontà della gestione del progetto. Tra questi c’è il veterinario sudafricano, esperto di ghepardi, Adrian Tordiffe, che ha fatto parte di una commissione di consulenza per il Project Cheetah. Ha detto alla rivista Time che lui e altri esperti stranieri a un certo punto sono stati esclusi dalle riunioni della commissione e hanno ricevuto in ritardo le informazioni sugli animali malati.Attualmente si sta considerando di proseguire il progetto di reintroduzione in un altro parco naturale, sempre nello stato del Madhya Pradesh in cui si trova quello di Kuno-Palpur. È possibile che alcuni ghepardi siano liberati nella riserva di Gandhi Sagar entro la fine dell’anno. Sono poi attesi altri ghepardi dall’Africa l’anno prossimo: da progetto ne dovrebbero arrivare più o meno una dozzina ogni anno per i prossimi cinque anni, con l’obiettivo di creare una popolazione di almeno 40 individui.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    In Europa le alghe a tavola andavano forte

    Le alghe sono un ingrediente importante nella cucina di molti paesi asiatici, mentre sono pressoché assenti dalla tradizione culinaria europea. La nostra esperienza a tavola raramente si spinge oltre le alghe utilizzate come guarnizione di un piatto o come sperimentazione di qualche estroso chef, eppure secondo uno studio condotto sui resti di alcuni nostri antenati sembra che tra l’età della pietra e il Medioevo il consumo di alghe fosse diffuso in buona parte dell’Europa. Il gruppo di ricerca ritiene che si utilizzassero sia le alghe di mare sia quelle di acqua dolce, seppure con qualche differenza a seconda della vicinanza o meno alle aree costiere.Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, ha preso in considerazione i resti di 74 individui provenienti da una trentina di siti archeologici in Europa, risalenti a migliaia di anni fa quando le società erano di cacciatori-raccogliotori, al successivo sviluppo dell’agricoltura e infine alle società più evolute e organizzate del Medioevo. Per capire quale fosse la loro dieta, il gruppo di ricerca ha analizzato i depositi di tartaro sulla loro dentatura, utilizzando un sistema per analizzarne la composizione molecolare.– Leggi anche: Perché non mangiamo tanto i fioriIl tartaro si forma a causa della placca batterica e dei sali presenti nella saliva, con depositi che si calcificano e al cui interno rimangono intrappolate altre sostanze la cui presenza può essere rilevata anche dopo molto tempo. Prelevando campioni di tartaro e analizzandoli, il gruppo di ricerca ha identificato molecole tipiche di alcune specie di alghe, che evidentemente erano state masticate ed era una costante nella dieta di quegli individui. Come prevedibile, la presenza di tracce molecolari delle alghe è risultata più marcata nei resti trovati in siti archeologici sulle zone costiere, ma sono stati comunque trovati indizi sul consumo di piante acquatiche anche nell’entroterra, dove si consumavano specie vegetali provenienti da laghi e stagni.(Nature Communications)In passato altri studi avevano indagato le abitudini alimentari delle persone vissute migliaia di anni fa, basandosi soprattutto sui resti di animali e molluschi – come ossa e conchiglie – che possono essere ritrovati con relativa facilità nei siti archeologici. Ricostruire la dieta legata ai vegetali è invece più difficile, perché raramente si trovano indizi sufficienti, per esempio sugli utensili e le suppellettili. L’analisi di carbonio e azoto sui reperti può rivelare la presenza di resti animali, mentre più raramente dà qualche indicazione sui vegetali. Il gruppo di ricerca ha quindi seguito un approccio diverso, cercando le “firme biologiche” dei vegetali con un sistema di analisi molecolare.Il consumo di alghe era stato ipotizzato in precedenti studi per le popolazioni europee vissute nel Mesolitico, il periodo intermedio dell’età della pietra tra i 12mila e i 10mila anni fa. Si riteneva che gli individui dell’epoca fossero grandi consumatori di alghe, ma che l’abitudine alimentare si sarebbe persa quando iniziò a diffondersi l’agricoltura e a ridursi la necessità di cacciare e raccogliere dagli ambienti naturali. Il nuovo studio mette fortemente in dubbio questa ipotesi, segnalando come il consumo di alghe fosse ancora continuato a lungo per svariati millenni.Non è chiaro che cosa determinò la fine del consumo di alghe in epoca medievale in Europa e la ricerca non fa ipotesi al riguardo. Non ci sono inoltre molte fonti sul loro utilizzo nei documenti del Medioevo, circostanza che spinge a qualche cautela e alla necessità di effettuare ulteriori approfondimenti per esempio analizzando ulteriori campioni da altri siti archeologici.Laverbread (Wikimedia)Alcune tracce dell’impiego delle alghe nella cucina europea sono comunque arrivate fino ai giorni nostri. Nel Galles si prepara ancora il “laverbread”, una pietanza a base di Porphyra umbilicalis e di Ulva lactuca, due specie di alghe che vengono fatte bollire fino a quando iniziano a disfarsi. Il risultato finale è una sorta di pasta gelatinosa che può essere mangiata da sola, oppure per accompagnare piatti a base di carne. In Asia diverse alghe appartenenti al genere Porphyra sono impiegate per numerose preparazioni, l’utilizzo più noto è quello per il sushi (nori).In generale, le alghe sono nutrienti e possono far parte della dieta, a patto di non eccedere a causa del loro alto contenuto di iodio. Sono disponibili durante tutto l’anno e spesso in grandi quantità, circostanze che probabilmente influirono sul loro consumo un tempo in Europa e che ancora oggi determina un loro ampio utilizzo nei paesi orientali. LEGGI TUTTO