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    Anche un orso polare è morto di influenza aviaria

    Alla lista dei numerosi mammiferi che negli ultimi due anni sono stati contagiati dal virus dell’influenza aviaria si è aggiunto anche un orso polare, trovato morto lo scorso ottobre a Utqiagvik, nell’estremo nord dell’Alaska. A fine dicembre il dipartimento per la Conservazione ambientale dello stato americano ha diffuso i risultati di un test per il virus effettuato sui resti dell’orso e il veterinario Bob Gerlach ha confermato all’Alaska Beacon che l’influenza è stata la causa della morte.Era già successo che orsi di altre specie fossero infettati dall’aviaria, ma questo è il primo caso noto nel mondo di un orso polare morto per la malattia. È stato segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità animale (WOAH) e agli altri paesi artici in cui vivono orsi polari.
    L’epidemia di influenza aviaria in corso è cominciata tra il 2020 e il 2021 e ha causato la morte di milioni di uccelli selvatici e di allevamento e migliaia di contagi tra i mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e non è ritenuta preoccupante per le persone, mentre è osservata con maggiore apprensione per quanto riguarda alcune specie di animali selvatici che in passato erano meno vulnerabili alle epidemie di influenza aviaria.
    Esistono numerosi tipi e varianti di virus che causano la malattia e quello responsabile dell’attuale epidemia è particolarmente aggressivo e provoca un’influenza detta ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per la salute degli animali che la contraggono e un’ampia diffusione dei contagi. Il virus responsabile è H5N1, le cui prime versioni furono identificate in Cina negli ultimi anni del Novecento. Da allora si sono fatti più frequenti i focolai tra gli uccelli selvatici e i contagi di mammiferi. Solo negli ultimi anni il virus è stato rilevato in modo significativo in Nord America, mentre in precedenza si era manifestato principalmente in Asia, in Europa e in Africa.

    – Leggi anche: Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi più recenti. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, scoiattoli, puzzole, volpi, puma e foche. In Alaska le volpi morte in cui è stata riscontrata la presenza del virus sono state tre dall’aprile del 2022.
    Gli orsi polari dell’Alaska si cibano principalmente di foche ma si ritiene che quello morto per l’aviaria abbia mangiato carcasse di uccelli e che in questo modo possa essere entrato in contatto col virus.
    Una delle maggiori preoccupazioni dei biologi riguardo all’epidemia di influenza aviaria è che si espanda maggiormente in Antartide, cioè all’estremo sud del mondo. A ottobre sono stati rilevati i primi contagi da H5N1 nella regione, tra gli stercorari antartici dell’isola di Bird, nell’arcipelago della Georgia del Sud, quindi non sul continente vero e proprio. Da allora centinaia di elefanti marini con sintomi influenzali sono morti nelle isole della zona e il virus è stato trovato sempre più vicino al continente. Il timore maggiore è che l’epidemia possa fare grossi danni raggiungendo le popolazioni di pinguini dell’Antartide.
    Secondo un rapporto di un gruppo di scienziati della WOAH e della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, pubblicato a dicembre, in Antartide gli effetti negativi dell’H5N1/HPAI potrebbero essere «immensi» perché sia le foche che gli uccelli della regione vivono in colonie di migliaia o centinaia di migliaia di individui, dunque in gruppi particolarmente esposti alla diffusione di una malattia contagiosa. Si teme un disastro ecologico. LEGGI TUTTO

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    Perché i cani capiscono in che direzione indichiamo, ma non cosa?

    Caricamento playerAlle persone che vivono con un cane capita abbastanza spesso di voler attirare la sua attenzione puntando il dito verso un oggetto che si trova a una certa distanza, come succede anche in molte normali interazioni umane. Di solito non passa molto prima che il cane raggiunga l’oggetto indicato, se è un biscotto o un gioco che conosce. La maggior parte dei cani rivolge in generale l’attenzione nella direzione giusta, ma ci mette un po’ a capire quale sia l’oggetto indicato, e a volte non lo capisce affatto.
    In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Ethology un gruppo di ricerca ungherese del dipartimento di etologia dell’Università Eötvös Loránd, a Budapest, ha cercato di fornire una spiegazione al fatto che i cani, quando viene loro indicato un oggetto, capiscono di solito in che direzione concentrare l’attenzione ma non su cosa. Dopo aver condotto una serie di esperimenti, il gruppo ha ipotizzato che questo comportamento dipenda dalla priorità che i cani tendono ad assegnare alla posizione anziché alla forma degli oggetti.
    È una conseguenza non soltanto del modo in cui vedono, ma anche del modo in cui “pensano”. Alcuni individui con particolari abilità cognitive riescono infatti a cambiare il loro approccio e imparano a elaborare le informazioni in un modo più simile a quello umano, in modo da riconoscere gli oggetti anche dal loro aspetto oltre che dalla posizione.
    Riconoscere gli oggetti a partire da un segnale che ne indica la posizione è una capacità che emerge abbastanza presto negli esseri umani durante lo sviluppo. È generalmente descritta negli studi sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla pragmatica (lo studio della relazione tra i segni e i loro utenti) come un effetto della condivisione di un codice comune e soprattutto di un contesto linguistico, senza i quali qualsiasi definizione “ostensiva” rimarrebbe indeterminata. In mancanza di un simile contesto definire un tavolo indicandolo, per esempio, non permetterebbe all’interlocutore o all’interlocutrice di comprendere quale delle numerose informazioni meritevoli di elaborazione – il colore, la forma, una parte del tavolo (il piede) anziché tutto – è la più pertinente tra tutte le informazioni disponibili.
    La capacità di comprendere l’intenzione comunicativa alla base dei gesti che indicano la posizione di un oggetto è una delle differenze più evidenti nella reazione a quei gesti da parte dei bambini rispetto alla reazione dei cani, ha scritto il gruppo di ricerca ungherese. Mentre i bambini già a nove mesi interpretano il gesto come un’indicazione dell’oggetto specifico, i cani interpretano quello stesso gesto come un generico segnale direzionale. Indipendentemente dall’intenzione della persona che utilizza il gesto, il significato del gesto per i bambini e per i cani è diverso.
    I ricercatori e le ricercatrici hanno definito «pregiudizio spaziale» la propensione dei cani a dare priorità nell’elaborazione delle informazioni alla posizione, alla distanza e alle relazioni spaziali tra gli oggetti, spesso a scapito delle caratteristiche degli oggetti. Per studiare questo comportamento hanno condotto in una stanza vuota del dipartimento di etologia dell’università due diversi esperimenti su 82 cani (39 femmine e 43 maschi) di varie razze, tra cui Border Collie (19), Bracco ungherese (17) e Whippet (6), ciascuno dei quali accompagnato dal suo proprietario o dalla sua proprietaria, che partecipava agli esperimenti.
    Nel primo esperimento i cani dovevano reagire a un gesto del loro proprietario o della loro proprietaria e imparare in quale tra due piatti posizionati all’estremo opposto della stanza, uno a destra e uno a sinistra, veniva posizionato un premio (un bocconcino). Dall’inizio della prova avevano 15 secondi di tempo per raggiungere il piatto corretto, e un massimo di 50 tentativi per apprendere il compito che era stato loro assegnato.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    Un secondo esperimento prevedeva l’utilizzo di un solo piatto per volta, posizionato al centro all’estremo opposto della stanza. A ciascun cane veniva dato il bocconcino in un solo tipo di piatto: o uno rotondo e bianco, o uno quadrato e nero. L’alternanza dei due tipi di piatto era semi-casuale: non veniva mai usato lo stesso tipo di piatto per più di due volte consecutive. Il compito dei cani in questo secondo esperimento, in pratica, era imparare a riconoscere l’oggetto dalle sue caratteristiche (forma e colore) anziché dalla sua posizione. Sia nel primo che nel secondo esperimento i ricercatori e le ricercatrici hanno misurato la velocità con cui il cane correva verso il piatto “corretto”.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    I risultati hanno mostrato che i tempi di apprendimento dei cani nel primo esperimento erano più brevi rispetto a quelli nel secondo esperimento, in cui in generale i cani avevano più difficoltà a memorizzare l’oggetto giusto. Per ottenere informazioni sulla duttilità mentale dei cani i ricercatori e le ricercatrici hanno poi replicato gli esperimenti con quelli che avevano ottenuto i risultati migliori, invertendo però la collocazione del bocconcino rispetto alle prove precedenti. In un esperimento lo hanno posizionato nel piatto a destra, per tutti i cani che nel primo esperimento lo avevano nel piatto a sinistra. E in un altro esperimento lo hanno posizionato soltanto nel piatto nero quadrato, per i cani che in precedenza lo avevano ricevuto in quello bianco rotondo.
    Alcuni cani riuscivano più facilmente e velocemente di altri a superare il compito, dimostrando maggiore capacità di modificare sulla base delle nuove informazioni il comportamento precedentemente appreso. I cani che più facilmente degli altri riuscivano a riconoscere il piatto dalla forma e dal colore erano tendenzialmente quelli con più capacità di superare il pregiudizio spaziale, al quale contribuiscono variamente non soltanto le particolari capacità sensoriali dei cani – in particolare quella visiva, già studiata in precedenti ricerche – ma anche le capacità cognitive individuali.
    Gli autori e le autrici dello studio hanno spiegato che le capacità visive dei cani sono diverse a seconda delle razze, in base alla forma della testa. «I cani con la testa più corta, scientificamente definiti “brachicefali”, sviluppano una visione simile a quella umana», ha detto Zsófia Bognár, una delle coautrici dello studio, perché la struttura della loro retina implica una visione più nitida e a fuoco rispetto a quella dei cani di razze con la testa più lunga. Come misura approssimativa della qualità della vista nei cani viene infatti utilizzata una misura della forma della testa chiamata “indice cefalico”, che si calcola dividendo la larghezza del cranio per la lunghezza del cranio: più è corta la testa, più è alto l’indice.
    Sulla base dei risultati complessivi degli esperimenti e dalla valutazione di altre caratteristiche dei cani tramite test cognitivi sulla memoria, l’attenzione e la perseveranza, lo studio ha tuttavia concluso che i cani con prestazioni cognitive migliori riescono a superare i limiti sensoriali e associano le informazioni agli oggetti con la stessa facilità con cui le associano alle posizioni. Se i cani di solito non comprendono quale oggetto stiamo indicando ma soltanto la posizione in cui si trova, in definitiva, dipende in primo luogo da limiti di visione relativi alle caratteristiche fisiche della razza: limiti che determinano in generale una maggiore attenzione verso gli oggetti in movimento anziché verso quelli fissi. Ma dipende in secondo luogo anche da capacità cognitive individuali di ciascun cane. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO

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    Perché non ci sono mammiferi verdi?

    Il colore verde di solito si associa al concetto di natura: sono verdi le foglie delle piante e lo sono molti animali, tra cui diversi tipi di insetti, molluschi e di vertebrati, in particolare tra i pesci, gli anfibi, i rettili e gli uccelli. Non sono verdi invece i mammiferi, la classe di animali vertebrati in cui rientrano anche gli umani: una peculiarità che nel tempo ha suscitato la curiosità dei lettori di riviste di divulgazione scientifica e dei frequentatori di forum online.Alla domanda “perché non ci sono mammiferi verdi?” non si può rispondere in modo univoco. La questione si può prendere da diversi punti di vista: quello dei ragionamenti sui vantaggi evolutivi dell’avere il pelo o la pelle di un colore piuttosto che di un altro, e quello sulle caratteristiche fisiche proprie dei peli, uno degli attributi che distinguono i mammiferi dagli altri animali.
    I colori della parte più esterna dei corpi degli animali, che si tratti di pelle nuda, squame, penne o peli, possono essere dovuti a due diversi meccanismi fisici. «Uno è la presenza di pigmenti all’interno delle cellule», spiega Adriano Martinoli, zoologo esperto di mammiferi e professore dell’Università dell’Insubria, nonché coautore del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani. I pigmenti sono sostanze colorate che determinano il colore di un tessuto. «E il colore dei pigmenti presenti in alcune cellule si può mischiare, non fisicamente ma alla vista, a quello di pigmenti contenuti in altre cellule, producendo nuovi colori».
    È un pigmento verde la clorofilla, la sostanza presente nelle cellule delle foglie che assorbe parte dell’energia del Sole che alimenta le piante. In autunno, quando le ore di luce diminuiscono, le cellule contenenti la clorofilla di molte piante diventano meno vitali e riducono via via la fotosintesi clorofilliana: come conseguenza le foglie cambiano colore, perché diventano visibili altre sostanze, in precedenza oscurate dal verde della clorofilla. Sono ad esempio i carotenoidi che hanno colori caldi che variano dal rosso al giallo. I pigmenti contenuti all’interno della pelle umana (oltre che nei capelli) sono invece le melanine: il colore varia in base alla quantità e al tipo di queste sostanze, fattori che sono influenzati dai geni e dall’esposizione alla luce solare.
    Il colore di un animale però può essere dovuto anche a qualcosa di più complesso, cioè a una «microstruttura fisica superficiale che riflette la luce in un certo modo», spiega Martinoli: «Ad esempio la colorazione scrotale di molti primati durante il periodo riproduttivo non è dovuta a un pigmento, ma alla riflessione della luce. Nelle cellule dell’epidermide infatti ci sono delle microstrutture che, riflettendo la luce, fanno apparire la superficie della pelle stessa di un certo colore, cosa che in realtà non è».
    È il caso della pelle dei mandrilli, i primati dell’Africa centro-occidentale noti per i colori sgargianti dei loro musi, rossi e blu. Il rosso è dovuto all’emoglobina, una proteina di colore rosso presente nel sangue (e quindi un pigmento), mentre il blu ha un’origine diversa. I pigmenti azzurri sono molto rari in natura e nel caso dei mandrilli il blu è prodotto dal modo in cui sono disposte le fibre di collagene nella loro pelle (il collagene è a sua volta una proteina). È un meccanismo che riguarda anche i colori delle penne di molti uccelli variopinti: non contengono pigmenti colorati, tant’è che se le si guarda ingrandite al microscopio le si vede bianche e marroncine.
    Una femmina di mandrillo e il suo piccolo nello zoo di New Orleans, negli Stati Uniti, nel 2020 (AP Photo/Gerald Herbert)
    Il fenomeno fisico responsabile di questi colori è simile a quello per cui il cielo diurno appare azzurro.
    La luce solare è una radiazione elettromagnetica ed è composta da onde di diversa frequenza. A ciascuna corrisponde un colore diverso, in uno spettro che va dal rosso al violetto, passando per l’arancione, il giallo, il verde e il blu. Quando la luce passa attraverso l’atmosfera non viene diffusa tutta allo stesso modo: quella a cui corrispondono frequenze più alte è diffusa molto di più per come sono fatte le particelle dell’atmosfera, e quindi vediamo il cielo azzurro perché la luce che è riflessa e che ci arriva è principalmente di questo colore. Anche il violetto corrisponde a un’alta frequenza ma il sole emette più luce blu che violetto.
    Qualcosa di analogo avviene con le penne degli uccelli o con la pelle di certi animali: in quest’ultimo caso c’entra la struttura microscopica del collagene.
    La struttura fisica dei peli, che sostanzialmente sono tubi di cheratina poco complicati, non consente di produrre questo tipo di effetto, a differenza delle più complesse penne degli uccelli. E per quanto riguarda i pigmenti può contenere solo i diversi tipi di melanina, che danno colori che variano tra il giallo e il marrone scuro. La feomelanina ad esempio dà sfumature tra il giallo e il rossiccio, mentre l’eumelanina è responsabile dei marroni scuri, che in alcuni casi arrivano vicino al nero. Quando i peli sono bianchi significa che non contengono pigmenti e il grigio è dato da una mescolanza di nero e bianco. Il rosso del pelo di certi mammiferi è comunque diverso da quello più acceso del piumaggio di alcuni uccelli, che invece è dovuto a un tipo di pigmenti che i mammiferi non hanno: i carotenoidi.

    – Leggi anche: Perché i capelli diventano bianchi

    A questa riflessione più strettamente legata alla fisica si può aggiungere un ragionamento sui vantaggi evolutivi legati al colore, basato su ciò che sappiamo della storia dei mammiferi. I mammiferi derivano da un gruppo di rettili ancestrale, come pure gli uccelli. Come spiega Martinoli, in questo gruppo probabilmente mancava già la capacità di produrre alcuni pigmenti, quindi non è stata ereditata. Oppure può darsi che la capacità ci fosse ma sia andata persa nel corso dell’evoluzione perché non era utile, cioè non forniva vantaggi adattativi.
    Infatti in origine i mammiferi occupavano «nicchie biologiche»: in un mondo in cui gli animali dominanti più diffusi sulla Terra erano rettili, i mammiferi vivevano nei pochi contesti rimasti liberi. Erano perlopiù animali di piccola o piccolissima taglia attivi di notte. Per questo è probabile che non avessero bisogno di avere un aspetto vistoso e colori sgargianti, così come una vista raffinata: l’olfatto e l’udito erano sensi più rilevanti.
    C’è anche un altro aspetto, cioè che la gran parte dei mammiferi ha una visione in bianco e nero, dicromica. La presenza dei colori non sarebbe stata utile per l’accoppiamento, come succede invece per molte specie di uccelli in cui i maschi attraggono le femmine anche per la qualità del loro piumaggio.
    I colori dei mandrilli, che sono primati (e quindi mammiferi) si spiegano per via di una peculiarità dei primati stessi. «Per dei casi fortuiti di mutazioni degli occhi i primati fanno eccezione e hanno una visione tricromica, cioè vedono i colori», prosegue ancora Martinoli. «E pare che nei primati ancestrali questa visione dei colori sia stata una chiave di successo, perché permetteva di distinguere molto bene i frutti maturi». Sarebbe stato un vantaggio evolutivo importante.

    – Leggi anche: La vita notturna salvò i mammiferi dai dinosauri

    Per quanto riguarda il mimetismo, cioè l’abilità di confondersi con l’ambiente, i colori vicini al marrone di molti piccoli mammiferi sono adatti a non risaltare al suolo e nel sottobosco. E anche pellicce che a noi possono apparire vistose, come quelle delle tigri, sono in realtà adatte al mimetismo se ci si vuole nascondere da animali (prede in questo caso) che hanno una visione dicromatica.
    In un certo senso comunque dei mammiferi col pelo verde ci sono, anche se non si tratta di pelo propriamente verde. Sono i bradipi, gli animali noti per la lentezza nei movimenti che vivono sugli alberi in alcune regioni dell’America centrale e meridionale: sui loro peli crescono delle alghe che fanno la fotosintesi, dunque sono verdi e danno questa sfumatura alla pelliccia dei bradipi. Gli scienziati ritengono che la presenza delle alghe sia vantaggiosa: sia perché consente di mimetizzarsi meglio tra le foglie degli alberi e nascondersi dai predatori, sia perché è una fonte aggiuntiva di cibo.
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    – Leggi anche: Perché i bradipi sono così lenti LEGGI TUTTO

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    Best of bestie

    Una delle raccolte più longeve del Post, tanto da guadagnarsi la sua quota di lettori affezionati, è quella delle foto di animali (o “bestie”, come le chiamiamo affettuosamente) e qui trovate la selezione delle migliori dell’anno, secondo noi. Ci teniamo sempre a dire che che gli animali mostrati sono solo una piccolissima parte di quelli con cui condividiamo il pianeta: le immagini vengono dalle agenzie fotografiche, i cui fotografi le scattano per lo più negli zoo, in riserve naturali o situazioni di vita quotidiana urbana. A volte le foto vengono scelte perché sono buffe, in altri casi perché dicono qualcosa di una specie o del contesto in cui vive (sempre più spesso minacciato dal cambiamento climatico). Sono però un invito a osservare bene, a scoprire un dettaglio in più e magari a guardare con occhi diversi gli stessi animali, anche quelli incontrati ogni giorno fuori dallo schermo. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’inverno

    Caricamento playerAlle 4:27 di venerdì mattina c’è stato il solstizio d’inverno, cioè il momento astronomico nel corso del moto annuale di rivoluzione della Terra in cui nell’emisfero boreale si fa cominciare la stagione invernale. Nel nostro emisfero il giorno del solstizio d’inverno è quello con meno ore di luce dell’anno, mentre quello d’estate è il giorno con più luce. I solstizi, come gli equinozi, sono fenomeni astronomici semplici da osservare, ed è per questo che storicamente molte culture li hanno utilizzati per determinare, con qualche approssimazione, il susseguirsi delle stagioni.
    Le stagioni però non cambiano sempre lo stesso giorno, perché sia i solstizi che gli equinozi sono eventi collegati a fenomeni che prescindono dai nostri calendari e di anno in anno possono variare nell’arco di un paio di giorni a causa della diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario: la stessa ragione per cui ci sono gli anni bisestili.
    In Italia in genere la primavera comincia tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre e tra il 21 e il 22 dicembre l’inverno, che questa volta durerà fino al prossimo 20 marzo, quando ci sarà l’equinozio di primavera. Ci sono anche casi rarissimi, in cui il solstizio d’inverno può essere anche il 20 o il 23 dicembre: l’ultima volta che c’è stato un solstizio di inverno il 23 dicembre era il 1903, mentre la prossima non dovrebbe capitare prima del 2300.

    Oltre alle stagioni astronomiche ci sono anche quelle meteorologiche, che iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.
    I solstizi e gli equinozi dividono il tragitto che la Terra compie attorno al Sole – detto “moto di rivoluzione” – in quattro parti di tre mesi circa ciascuna, ognuna delle quali è una stagione. Misuriamo i giorni in 24 ore e l’anno in 365 giorni, ma in realtà la Terra impiega tempi leggermente diversi a ruotare su se stessa e a compiere la propria orbita attorno al Sole: è proprio per questo che l’ora e il giorno degli equinozi non sono fissi, ma variano di anno in anno.
    Il solstizio è il momento in cui il Sole raggiunge il punto di declinazione massima o minima nel suo moto lungo l’eclittica, cioè il percorso apparente che il Sole compie in un anno rispetto alla sfera celeste (ovvero il cielo, per come lo vediamo dalla Terra). È un moto “apparente” perché in realtà per il sistema solare è la Terra a girare intorno al Sole, ma muovendoci noi con il pianeta abbiamo l’impressione che a spostarsi nel cielo sia il Sole e non viceversa.
    Il Sole raggiunge il valore massimo di declinazione positiva a giugno (quando iniziano l’estate nel nostro emisfero e l’inverno in quello australe), mentre a dicembre raggiunge il valore massimo di declinazione negativa (segnando l’inizio dell’inverno boreale e dell’estate australe).

    – Leggi anche: L’invenzione dell’inverno LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea ha proposto di ridurre la protezione per i lupi

    La Commissione Europea ha presentato una proposta per cambiare la classificazione del lupo grigio da specie «rigorosamente protetta» a «protetta», una modifica alle norme europee che di fatto renderebbe più semplice la caccia ai lupi. Secondo la Commissione, ci sono buoni motivi per farlo perché la popolazione di questi animali è continuata a crescere in diversi paesi europei, ma la proposta è stata criticata da numerose associazioni ambientaliste che ritengono non ci siano basi scientifiche per ritenere di nuovo praticabile la caccia.La protezione molto rigida che determina il divieto di caccia per i lupi è contenuta nella Convenzione di Berna e nella Direttiva 92/43/CEE sulla conservazione degli habitat naturali. Le norme stabiliscono che, salvo alcune eccezioni per particolari territori, nell’Unione Europea non si possono cacciare né catturare i lupi, salvo che questi non costituiscano un immediato e diretto pericolo per la popolazione o per il bestiame. I provvedimenti erano stati assunti per favorire il ripopolamento del lupo grigio, che rischiava di scomparire in molte aree dell’Europa occidentale determinando una riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie viventi che popolano un determinato ambiente.
    Da tempo alcune associazioni del settore agricolo e dell’allevamento chiedevano alla Commissione di intervenire sulle regole, segnalando un aumento dei casi di danni causati dai lupi. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva mostrato negli ultimi mesi un particolare interesse alla questione, anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno: allevamento e agricoltura costituiscono una parte importante dell’economia europea e hanno grandi capacità di influenza. Da qualche mese si dice che von der Leyen sia interessata al problema anche per un altro motivo: la presidente della Commissione è un’appassionata cavallerizza e l’anno scorso un lupo aveva ucciso la sua pony Dolly.
    Associazioni ambientaliste e per la protezione degli animali non sono però d’accordo con la proposta della Commissione, accusata di non essersi basata sulle prove scientifiche che mostrano come i lupi siano ancora in pericolo in parte dell’Europa occidentale. La modifica ai regolamenti, dicono, renderebbe molto più difficile se non impossibile il ripopolamento di alcune aree, vanificando i progressi raggiunti negli ultimi decenni.
    Nonostante i problemi che ci sono stati in alcuni contesti, i casi di lupi “confidenti”, cioè che mostrano di non aver paura degli umani e in più occasioni si sono avvicinati a meno di 30 metri dalle persone, sono rari. Nel 2022 l’ISPRA aveva conteggiato solo 23 casi di lupi confidenti in Italia nei dieci anni precedenti, sulla popolazione complessiva di 3.300.
    Per cambiare il livello di protezione dei lupi, la decisione dovrà essere approvata da tutti gli stati membri e dagli altri soggetti che fanno parte della Convenzione di Berna. LEGGI TUTTO

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    Lo scienziato che non è voluto tornare in aereo dalla sua missione in Papua Nuova Guinea

    Gianluca Grimalda è un ricercatore in scienze sociali applicate all’ambiente che per sette mesi ha studiato il rapporto tra globalizzazione, cambiamenti climatici e coesione sociale sull’isola di Bougainville, al largo della costa orientale della Papua Nuova Guinea. A settembre, al momento di rientrare in Europa, si è rifiutato di farlo in aereo. Per questo l’Istituto di Kiel per l’Economia Mondiale, per cui lavorava come ricercatore senior, lo ha licenziato.Da tredici anni Grimalda ha scelto di viaggiare con mezzi a ridotte emissioni di anidride carbonica per via dei contributi dei trasporti aerei al cambiamento climatico causato dalle attività umane. Al termine del periodo di ricerca pensava di tornare in Europa senza volare, così come aveva fatto per arrivare nel Pacifico a inizio anno. L’istituto tedesco, però, prima ha chiesto il suo rientro immediato e poi l’11 ottobre, dopo il suo rifiuto, ha inviato una lettera di licenziamento ufficiale.Grimalda sta comunque tornando via mare e via terra. Ha già attraversato Papua Nuova Guinea, Indonesia (passando in nave attorno all’isola di Giava e spostandosi in bus nel nord dell’isola di Sumatra), Singapore, Thailandia e Laos. Ora è diretto in Cina, e da lì passerà per Pakistan (attraverso la catena montuosa del Karakorum, nella speranza che la neve sulle strade non lo obblighi a una sosta), Iran, Turchia, Grecia, fino ad arrivare in Italia per Natale. Avrebbe voluto attraversare il Myanmar, ma a causa della difficoltà di accesso ai confini, per via del conflitto tra giunta militare e forze alleate ad Aung San Suu Kyi, ha dovuto cambiare piani e passare dalla Cina.Gianluca Grimalda a Luang Prabang, Laos.In merito alla decisione di non viaggiare in aereo, Grimalda dice di aver sentito, come scienziato, «che era la cosa giusta da fare, per me e per la collettività». «Secondo i miei calcoli, in costante aggiornamento, viaggiando in superficie arriverò a risparmiare rispetto all’aereo circa 4,5 tonnellate di CO2, emettendone in totale 500 kg» dice al telefono mentre viaggia su un autobus per raggiungere Vientiane, la capitale del Laos. Per Grimalda questo modo di viaggiare valorizza anche il suo progetto di ricerca, permettendogli di comprendere come la cultura del luogo influenzi la percezione e l’atteggiamento delle popolazioni nei confronti del contrasto alla crisi climatica.Geograficamente territorio delle Isole Salomone, politicamente parte della Papua Nuova Guinea dal 1975, l’isola di Bougainville dove Grimalda ha vissuto in questi mesi è tra le regioni del Pacifico più vulnerabili alle conseguenze del riscaldamento globale. I suoi abitanti negli ultimi anni sono stati costretti a spostare interi villaggi nell’entroterra per far fronte all’innalzamento del livello del mare, e a piantare foreste di mangrovie nel tentativo di arginare l’erosione costiera.– Leggi anche: Il problema più grande del trasporto aereoA partire dal 1988 Bougainville è stata al centro di una ribellione della popolazione locale contro la società che gestiva una delle più grandi miniere di rame e oro del mondo, la miniera di Pangua. Una ribellione nata a causa dei danni ecologici e sociali provocati dalla miniera e che si trasformò in pochi mesi in una guerra indipendentista, protrattasi fino al 1997, considerata da molti il più grande conflitto in Oceania dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2019 la regione votò a favore dell’indipendenza, ma ancora oggi si attende la proclamazione ufficiale da parte del governo della Papua Nuova Guinea, che rimanda il processo per evitare di perdere parte del suo territorio e creare un precedente.Sull’isola le persone bianche sono spesso definite giaman (“colui che mente” in tok pidgin, la lingua locale): Grimalda, non volendo confermare questo stereotipo, ha promesso alla comunità di Bougainville di mantenere il suo impegno per minimizzare il più possibile l’impatto ambientale dei suoi viaggi. Dopo il licenziamento, un portavoce dell’Istituto di Kiel ha detto che in generale la loro politica è di incoraggiare il proprio personale a viaggiare in maniera sostenibile. Quando possibile, si impegnano a fare a meno degli spostamenti in aereo. Se invece ritengono che i voli degli accademici siano inevitabili, promettono il pagamento di una tassa di compensazione all’organizzazione Atmosfair. È stato proposto anche a Grimalda, la cui posizione è stata però inamovibile.Dal 2021 Grimalda è anche attivista della rete italiana e tedesca di Scientist Rebellion, un movimento nato nel 2020 in Inghilterra e oggi attivo in più di 30 paesi: dalla Colombia alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Danimarca all’India. È composto da scienziati e accademici, studenti e professori provenienti sia dai dipartimenti di fisica, matematica e chimica, sia dai dipartimenti di scienze sociali, psicologia, filosofia e antropologia. «Alla base del movimento c’è l’idea che se non fanno attivismo le persone che studiano il cambiamento climatico, come possiamo aspettarci che lo facciano gli altri?» spiega Lorenzo Masini, biotecnologo e attivista di Scientist Rebellion dal 2022.– Leggi anche: Abbiamo fatto progressi con la COP28?Gli attivisti del movimento sono impegnati soprattutto in attività di divulgazione e sensibilizzazione, nel tentativo di contribuire a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Chiedono un’azione immediata e più efficace da parte dei governi, delle industrie e della finanza sul tema della crisi climatica, individuando e proponendo soluzioni a breve e medio termine. Solo in alcuni casi sono attivi in pratiche di resistenza civile nonviolenta.Storicamente, diversi scienziati hanno visto nell’impegno politico da parte di alcuni colleghi un atteggiamento che potrebbe comprometterne la credibilità e il lavoro, ritenendo che l’imparzialità sia un criterio fondamentale della ricerca scientifica. Non tutta la comunità è però d’accordo con questa posizione. Come ipotizza un articolo pubblicato ad agosto dall’Istituto di Scienze Ambientali di Londra, non partecipare al dibattito pubblico e impegnarsi in azioni concrete potrebbe ridurre il ruolo delle evidenze scientifiche nelle decisioni politiche e collettive. Rose Abramoff, scienziata del cambiamento climatico, Peter Kalmus, scienziato del clima del NASA Jet Propulsion Laboratory, e altri colleghi attivisti di Scientist Rebellion credono sia loro responsabilità morale contribuire a sensibilizzare la società sui pericoli del cambiamento climatico. Non solo riguardo alle violente tempeste, alla siccità, agli incendi e alle ondate di caldo già in atto, ma anche a probabili carestie, migrazioni di massa e guerre che si prevedono per il futuro.Grimalda a Bougainville.Diana R. Fisher, collaboratrice dell’IPCC dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ed esperta di attivismo ambientale e movimenti sociali dell’università del Maryland, ha detto al Washington Post che le controparti con cui i manifestanti si trovano a confrontarsi – come l’industria petrolifera e la disinformazione sul clima – sono così imponenti che per portare a un cambiamento radicale serve «un grande shock al sistema». Ma mentre molti ritengono che l’impegno pubblico degli accademici migliori anche la comprensione del tema da parte della popolazione, altri come Peter Edwards, professore di chimica all’Università di Oxford, considerano più importante concentrarsi su soluzioni tecnologiche e meno su quelle politiche.Altri ancora, come l’ingegnere ambientale americano David Sedlak, ritengono che il coinvolgimento degli scienziati nell’attivismo possa danneggiare le relazioni commerciali e governative già delicate, su cui gli accademici fanno affidamento per finanziare il loro lavoro. L’attivismo accademico in effetti spesso comporta un alto livello di rischio personale o professionale, fino ad arrivare – come nel caso di Grimalda – anche a perdere il lavoro; ma secondo un’indagine della rivista The Conversation, che ha coinvolto oltre 2.200 scienziati della Union of Concerned Scientists Science Network, il 75% degli intervistati ha affermato che il proprio attivismo scientifico ha avuto il sostegno dei propri datori di lavoro.– Leggi anche: Gli attivisti per il clima mettono in conto di essere odiatiPer il movimento Scientist Rebellion qualsiasi azione volta alla decarbonizzazione è giusta ed è necessario metterla in atto. «La temperatura terrestre si alza in modo inerziale», sottolinea Masini. «Vuol dire che sentiamo l’aumento della temperatura con qualche anno, anche con qualche decennio di ritardo rispetto a quando l’anidride carbonica viene emessa». Nel 2018 l’IPCC, che raccoglie scienziati, delegati, osservatori e revisori provenienti da 195 paesi, aveva redatto il quinto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici. In quell’occasione l’IPCC definiva come “senza precedenti” la sfida necessaria per contenere il riscaldamento globale. Nell’ultimo rapporto pubblicato a marzo 2023, l’obiettivo è stato presentato come ancora più urgente.Alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP21), che rappresenta il punto di riferimento fondamentale per le politiche globali di riduzione delle emissioni di gas serra, i paesi membri si accordarono per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto alla temperatura media globale preindustriale. Secondo l’IPCC questo sarebbe ancora possibile attraverso un taglio netto delle emissioni entro il 2030. Ma un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), uscito a novembre di quest’anno, rivela che le emissioni globali di gas serra nel 2023 stanno raggiungendo i massimi storici. Molti scienziati hanno dimostrato che, se dovessimo passare da un aumento di 1,5 °C a uno di 2 °C, dovremo affrontare probabili eventi cataclismatici di portata mai vista, il raddoppio del numero di estinzioni di specie animali e una riduzione drastica dei territori oggi coltivati a grano e mais (elementi fondamentali del settore alimentare).– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027«Circa 12mila anni fa, durante l’epoca geologica definita Olocene, il luogo dove adesso c’è Manhattan era sotto dieci chilometri di ghiaccio» spiega Grimalda. «Dove vivo io in Germania c’erano ghiacci per dieci chilometri di altezza. Un ambiente incredibilmente diverso da quello che abbiamo ora. La temperatura globale, allora, era di solo 4 °C inferiore a quella odierna».Le brande nella terza classe di un traghetto indonesiano. (Gianluca Grimalda)Grimalda al posto di prendere l’aereo ha scelto di percorrere 27mila chilometri, attraversare dodici paesi, salire su navi cargo, traghetti, treni, bus e impiegare all’incirca due mesi di tempo per tornare a casa. «Il mio è stato un atto simbolico», dice. «Per un ricercatore si può stimare che il 90% delle proprie emissioni sia causato dal prendere aerei». Grimalda non pensa che tutti dovrebbero fare scelte radicali come le sue, ma è convinto che la somma di azioni individuali potrebbe portare a un vero cambiamento collettivo. LEGGI TUTTO