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    La nuova vita delle foglie morte

    In questo periodo dell’anno nel nostro emisfero le chiome di miliardi di alberi si tingono di rosso, arancione e giallo, il segno più evidente dell’arrivo della stagione fredda. Man mano che si riducono le ore di luce giornaliere e si abbassano le temperature, le piante caducifoglie rallentano il loro metabolismo e fanno cadere a terra le foglie, che nel corso della stagione calda sono state essenziali per la fotosintesi. Una quantità gigantesca di foglie decidue ricopre quindi il sottobosco, i prati, i campi, i parchi cittadini, ma anche le strade e i marciapiedi, causando qualche disagio ma anche grandissime opportunità talvolta sottovalutate.Soprattutto le persone che vivono in città tendono a vedere le foglie secche a terra come un fastidio e un pericolo nei giorni di pioggia, quando rendono scivolosi i marciapiedi. La loro mancata rimozione è spesso fonte di lamentele e polemiche contro le amministrazioni comunali, accusate di tanto in tanto di non intervenire con tempestività per fare pulizia. Nelle città più grandi, ripulire strade e piazze richiede uno sforzo non indifferente: solo a Milano l’azienda per la raccolta dei rifiuti (AMSA) stima di raccogliere in media 450 tonnellate di foglie alla settimana nel periodo autunnale; corrispondono a un volume notevole, considerato quanto poco pesano le foglie in rapporto allo spazio che occupano.Le foglie secche vengono poi smaltite in vario modo a seconda di come sono organizzati i comuni. In alcuni casi vengono incenerite insieme agli altri rifiuti, in altri smaltite con l’umido oppure riutilizzate per altri scopi, compresi quelli di rigenerazione del suolo. Oltre alle questioni di sicurezza per chi cammina sui marciapiedi o va in bicicletta, le foglie secche su asfalto e cemento vengono di preferenza rimosse perché durano a lungo e nel caso di prolungati periodi senza pioggia si rompono in pezzi sempre più piccoli, producendo polveri che possono contribuire al peggioramento della qualità dell’aria.Le pratiche di rimozione variano moltissimo a seconda delle città, ma in generale interessano soprattutto le foglie cadute sulle aree ricoperte da cemento e asfalto, mentre riguardano in misura minore le zone verdi come quelle dei parchi cittadini. Le foglie secche a contatto diretto con il terreno sono infatti un’ottima risorsa per rigenerare il suolo, arricchendolo di minerali e altre sostanze utili per la crescita delle piante e per la vita di microrganismi, funghi, insetti, uccelli e altri animali di piccola taglia. Per questo viene consigliato di non raccogliere e bruciare le foglie secche, ma di lasciarle dove sono sul terreno o di riutilizzarle in altro modo, per esempio per produrre il compost che potrà poi essere impiegato come fertilizzante.(Spencer Platt/Getty Images)Nel caso di foglie decidue di piccole dimensioni che si depositano su un prato, come quello di un parco pubblico o del giardino di casa, il consiglio è di non fare sostanzialmente nulla. Complice la pioggia, le foglie marciscono e si decompongono durante la stagione fredda, aggiungendo nutrienti al suolo. Nel caso di grandi quantità o di foglie di maggiori dimensioni, c’è il rischio che il prato o piante di piccole dimensioni restino completamente coperti non ricevendo luce e ossigeno a sufficienza, con un conseguente “soffocamento”. In queste condizioni può rendersi necessaria la rimozione delle foglie, che possono però essere trasferite in altre aree del prato o in aiuole dove sono coltivate piante più grandi e vigorose, meno esposte al rischio di soffocamento.Non sempre le foglie che cadono al suolo sono però sane. Un albero malato, per esempio a causa di alcuni parassiti, può contaminare altre piante più piccole. È quindi importante verificare sempre la salute degli alberi caducifogli per decidere se lasciare o meno in terra le foglie che hanno perso. Dovrebbero essere raccolte separatamente, in modo da non utilizzarle per fare il compost dove alcuni parassiti potrebbero proliferare più facilmente, complice l’umidità e il calore che si sviluppa con la decomposizione.(AP Photo/Matthias Schrader)Le foglie secche possono essere utilizzate inoltre per la pacciamatura, il processo con cui si ricopre una porzione di terreno con materiali vegetali (e non solo) di vario tipo, per proteggerlo dall’erosione e mantenerlo più fertile. È un’attività che viene svolta in ambito agricolo, ma anche per il giardinaggio e in misura più contenuta nei parchi urbani. Si utilizzano frammenti di corteccia, aghi di pino, paglia e all’occorrenza anche le foglie secche. Di solito vengono triturate direttamente sul prato, per esempio utilizzando un tagliaerba regolato in modo che lasci il materiale triturato dove si trova invece di raccoglierlo in un contenitore.I prati sottoposti a questi trattamenti nei parchi urbani e nei giardini appaiono molto diversi dall’immaginario collettivo in cui sono sempre verdi, ma non significa che siano meno curati. La presenza delle foglie non è un indicatore della trascuratezza di un prato e ricorda che anche un giardino costituisce un ecosistema, con molte specie diverse che lo popolano e che variano a seconda delle stagioni. C’è un tempo in cui un prato è verde e fiorito e un altro in cui riposa e si rigenera, sotto a uno strato di foglie. LEGGI TUTTO

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    Lo stress fa cadere i capelli?

    Le cause della caduta dei capelli possono essere molto diverse tra loro e variano tra uomini e donne, ma si dice spesso che sotto forti condizioni di stress se ne possano perdere molti in poco tempo. È un fenomeno noto e studiato da tempo, ma non è ancora completamente compreso e non sempre viene diagnosticato con facilità, considerato che possono esserci appunto molti altri motivi per cui si perdono più capelli del solito.Una persona senza particolari problemi di salute perde tra i 50 e i 100 capelli al giorno. La maggior parte cade senza che ce ne accorgiamo, mentre di solito prestiamo più attenzione a quelli che rimangono nel piatto della doccia o su spazzole e pettini. Questa caduta è normale e dipende dal ciclo del capello, che passa attraverso quattro fasi principali: anagen, la crescita vera e propria che dura dai 2 a i 6 anni; catagen, l’inizio del distaccamento del follicolo pilifero dalla pelle; telogen, l’arresto della crescita del capello e infine esogen, l’espulsione del capello con la sua caduta. Moltissimi fattori possono influire su questo ciclo, portando al diradamento dei capelli e a varie forme di calvizie.In particolari condizioni si può verificare il cosiddetto “telogen effluvium”, una condizione in cui i capelli cadono con maggiore frequenza e in una quantità più alta rispetto al solito. Chi ne soffre si accorge del problema perché nota una maggiore quantità di capelli caduti dopo averli lavati oppure un progressivo diradamento in testa. Il telogen effluvium può essere cronico, quindi con un lungo periodo in cui i capelli continuano a cadere formando zone sempre più diradate, oppure può essere acuto. In questo secondo caso la caduta avviene molto velocemente, in circa tre mesi, e si assiste poi a una progressiva ricrescita dei capelli (il rinfoltimento varia molto da persona a persona).La frequenza in generale nella popolazione del telogen effluvium non è nota, proprio perché non sempre viene diagnosticata per tempo, oppure perché si risolve da sé dopo la fase acuta senza che la persona interessata cerchi assistenza medica. Dai dati parziali disponibili sembra comunque che sia più ricorrente tra le donne rispetto agli uomini, per via di alcuni meccanismi ormonali. La condizione si presenta talvolta dopo una gravidanza a causa dei cambiamenti legati ad alcuni ormoni, a cominciare dagli estrogeni che mantengono una certa azione protettiva.Sono invece meno chiari i meccanismi legati allo stress che possono portare al telogen effluvium, anche perché l’inizio della caduta non è immediato, ma richiede comunque un po’ di tempo. Da un forte evento causa di grande stress trascorrono solitamente tra le sei e le dodici settimane prima che inizi la caduta di una notevole quantità di capelli. L’ipotesi è che in questi casi la perdita sia innescata da un cambiamento nei livelli di cortisolo, un ormone responsabile di molte attività del metabolismo. Eccessi di questa sostanza incidono sulla produzione delle proteine e su vari altri ormoni come il testosterone e quelli legati alla crescita e allo sviluppo.Tra le cause di stress possono esserci un intervento chirurgico particolarmente importante, una malattia di breve durata magari associata alla febbre, oppure condizioni emotive molto forti come per esempio un lutto in famiglia.Si è osservato che in seguito a specifiche malattie virali si ha una perdita di capelli a diverse settimane dalla scomparsa dei sintomi principali, e che il fenomeno può essere più rilevante nel caso di nuove malattie. Uno studio del 2022 che si era occupato di casi di COVID-19 in Brasile, per esempio, aveva rilevato come molte persone guarite dalla malattia avessero comunque segnalato un aumento della perdita dei capelli a diverso tempo di distanza.Ci possono comunque essere casi di telogen effluvium legato a situazioni in cui lo stress è una costante, per esempio dovuto a particolari stili di vita. In questo caso l’organismo cerca di adattarsi ai cambiamenti nei livelli di cortisolo e di altri ormoni, ma non raggiunge comunque una buona stabilità (omeostasi). In queste circostanze c’è un maggiore rischio di non avere un recupero, che si verifica invece dopo una fase acuta della condizione. Nella sua versione cronica, il telogen effluvium può influire su altre condizioni legate alla perdita dei capelli, come per esempio su alcuni tipi di alopecia, anche se non sono ancora completamente chiari i meccanismi che lo determinano.Non c’è un unico trattamento contro il telogen effluvium perché molto dipende dal singolo paziente e dall’eventuale presenza di altri problemi di salute. In alcuni casi vengono consigliati integratori di vitamina D (anche se il loro impiego in generale è molto dibattuto) oppure l’applicazione di minoxidil, un farmaco impiegato da decenni per trattare alcune forme di calvizie e in particolare l’alopecia androgenetica.La diagnosi di un caso di telogen effluvium non è sempre semplice e per questo molti casi passano inosservati, o vengono inizialmente scambiati per qualche altro problema legato ai capelli. L’identificazione di un possibile evento scatenante avvenuto circa tre mesi prima dell’inizio della perdita può talvolta aiutare nella diagnosi, che viene poi confermata con esami di laboratorio come esame del sangue e delle urine per valutare i livelli ormonali. Viene anche analizzato lo stato dei follicoli piliferi, che può offrire qualche ulteriore indizio. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Ogni anno il presidente in carica degli Stati Uniti concede la grazia a un tacchino per il giorno del Ringraziamento, e quel tacchino viene ovviamente fotografato durante l’apposita cerimonia alla Casa Bianca: nella raccolta degli animali da fotografare in settimana si vede quello di quest’anno, molto da vicino. Poi ci sono un giaguaro, un tucano e un alligatore nel Pantanal, nelle zone interessate dagli incendi a causa del caldo anomalo, per finire con la lingua di una giraffa e un pinguino in Antartide. Bonus: le foto che hanno vinto il concorso che premia le foto di animali che fanno ridere, qui..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Uno dei centri di ricerca medica più all’avanguardia in Italia rischia di chiudere

    Nell’ultimo anno Holostem, una delle aziende di ricerca medica e farmacologica più all’avanguardia in Italia e in Europa, ha cercato di trovare un sostegno economico per continuare a sviluppare una cura per i cosiddetti “bambini farfalla”, pazienti affetti da una grave e rara malattia che attacca la pelle. Una soluzione era stata trovata: nei mesi scorsi la fondazione Enea Tech e Biomedical, creata nel 2020 dal governo proprio per investire nel settore biomedico, aveva dato disponibilità a rilevare Holostem.L’ultimo passaggio richiesto è l’autorizzazione del ministero delle Imprese e del Made in Italy che controlla la fondazione. L’investimento tuttavia è stato bloccato. Senza un rilancio economico, Holostem chiuderà e le ricerche saranno interrotte. Il 30 novembre è l’ultimo giorno disponibile per ottenere l’autorizzazione del ministero: senza una prospettiva economica, dal primo dicembre l’azienda sarà liquidata e per i ricercatori inizierà la procedura di licenziamento.Holostem si trova a Modena. È un grande laboratorio di ricerca, molto all’avanguardia, nato da una collaborazione tra l’Università di Modena e Reggio Emilia, Chiesi Farmaceutici, una multinazionale farmaceutica con sede a Parma, Michele De Luca e Graziella Pellegrini, che da oltre 30 anni studiano l’utilizzo delle cellule staminali per sviluppare terapie dedicate soprattutto alla cura di malattie rare. Negli ultimi anni De Luca e Pellegrini hanno ricevuto diversi premi e grazie ai risultati ottenuti con le loro ricerche sono diventati tra gli esperti più noti al mondo di medicina rigenerativa, la branca che studia i modi di ristabilire l’integrità dei tessuti e degli organi.Nel 2015 De Luca e Pellegrini, alla guida di una squadra di ricercatori, applicarono i loro studi su un caso particolarmente grave della malattia che avevano studiato per anni. L’epidermolisi bollosa, conosciuta anche con l’acronimo EB, è una malattia genetica rara e molto invalidante che provoca lesioni e lacerazioni sulla pelle, sintomi che possono essere causati da una lieve frizione o possono comparire persino spontaneamente. È una malattia nota anche come “sindrome dei bambini farfalla” per via della fragilità dei pazienti. Colpisce mediamente meno di un bambino ogni 20mila nati, ne soffrono oggi circa 500mila persone nel mondo. In Italia le persone malate sono poco più di un migliaio. Nelle forme più gravi, questa malattia ha una mortalità elevata entro i 2 anni di vita.De Luca e Pellegrini dovettero valutare un possibile intervento per curare Hassan, un bambino siriano di 7 anni ricoverato in Germania dopo essere scappato insieme ai genitori dal regime di Bashar alAssad. Hassan era ricoverato nel reparto ustionati dell’ospedale di Bochum: l’80 per cento della sua epidermide, ovvero lo strato superiore della pelle, era scomparso. La schiena, i fianchi e gli arti erano coperti di ferite aperte, molto dolorose.Uno dei medici tedeschi che lo avevano in cura conosceva le ricerche di De Luca e Pellegrini che avevano dedicato anni a sviluppare una possibile cura attraverso l’utilizzo delle cellule staminali epiteliali, cioè utilizzate per la rigenerazione dei tessuti. Semplificando molto, la tecnica consiste nel prelevare cellule malate dal paziente, modificare i geni che causano la malattia, utilizzare le cellule corrette per far crescere un nuovo tessuto da reinnestare infine sul paziente.Dopo aver raccolto un centimetro quadrato di pelle dall’inguine di Hassan, una delle poche parti del corpo in cui la pelle era intatta, De Luca e Pellegrini applicarono le loro ricerche e trapiantarono i nuovi tessuti sul bambino sostituendo circa l’80 per cento della sua vecchia pelle. Nel febbraio del 2016 Hassan fu dimesso dall’ospedale, a marzo riuscì a tornare a scuola. È guarito, ora ha una vita sociale normale. Negli ultimi anni Pellegrini e De Luca hanno continuato gli studi sperimentali sulla terapia e hanno ottenuto le autorizzazioni necessarie a estenderla su larga scala: è una procedura molto complessa, per cui servono anni di ricerche e lavoro.Un’altra cura sviluppata da Pellegrini e De Luca si chiama Holoclar e consiste in un trattamento con cellule staminali per sostituire le cellule danneggiate sulla superficie della cornea, la membrana trasparente che riveste l’iride, la parte colorata dell’occhio.Questo trattamento è usato in pazienti adulti affetti da una carenza di cellule staminali causata da ustioni dell’occhio. I pazienti in queste condizioni non hanno un numero sufficiente di cellule staminali che normalmente intervengono nel processo di rigenerazione della cornea sostituendo le cellule esterne danneggiate o che invecchiano. Holoclar è un medicinale per terapia avanzata, cioè contenente cellule prelevate dal paziente e successivamente coltivate in laboratorio e utilizzate poi per riparare la superficie della cornea. È una terapia unica in Europa, la prima a base di cellule staminali, e finora ha restituito la vista a 500 persone.Fino ai primi anni Duemila Pellegrini e De Luca avevano diretto laboratori sulle cellule staminali in diversi centri di ricerca italiani. L’apertura di Holostem, che di fatto è un’azienda biofarmaceutica, è la conseguenza di un nuovo regolamento europeo, il 1394 del 2007, che introdusse regole molto più stringenti per chi studia i cosiddetti farmaci avanzati, cioè realizzati con cellule e non solo con composti chimici.Il nuovo regolamento impose ingenti investimenti per realizzare laboratori molto avanzati e l’introduzione di figure professionali tipiche delle aziende farmaceutiche, come esperti dedicati al controllo della produzione. Questo regolamento ha assicurato maggiori controlli, ma ha reso questo tipo di ricerche insostenibili economicamente per le università. In molti casi i centri di ricerca si sono quindi affidati a investimenti privati, soprattutto di aziende farmaceutiche.Da questa situazione è emersa una vistosa contraddizione: le aziende farmaceutiche sono molto attente al profitto, mentre le malattie rare sono poco profittevoli per definizione. Quasi sempre la ricerca di una terapia dura anni, è molto costosa, e quando viene trovata una cura viene messa in commercio per aiutare poche persone. Anche se i farmaci sviluppati costano molto, il numero di pazienti con malattie rare sono troppo bassi per sostenere grandi investimenti.Per anni Holostem, i cui costi complessivi vanno da 8 a 10 milioni di euro all’anno, è stata sostenuta dall’azienda Chiesi Farmaceutici, che tuttavia lo scorso anno ha comunicato la volontà di uscire dalla società. Chiesi Farmaceutici, che nel 2022 ha raggiunto un fatturato di 2,7 miliardi di euro, ha messo a disposizione 17 milioni di euro per il periodo di transizione.Holostem sembra essere l’investimento perfetto per la fondazione Enea Tech e Biomedical, creata dal governo nel 2020 per «sostenere la sperimentazione pre-clinica e clinica». La fondazione ha a disposizione 500 milioni di euro per «partecipare, concorrere e investire anche in start-up e PMI [piccole e medie imprese, ndr] ad alto potenziale innovativo e spin-off universitari e di centri di ricerca e sviluppo per offrire soluzioni tecnologicamente avanzate, processi o prodotti innovativi, ovvero per rafforzare le attività di ricerca, consulenza e formazione».Con queste premesse Holostem ed Enea Tech hanno avviato una trattativa interrotta dall’opposizione del ministero delle Imprese e del Made in Italy. Il ministero sostiene che questo investimento possa essere considerato un aiuto di Stato, una forma di concorrenza sleale vietata dalle direttive europee. In questo preciso caso, tuttavia, non esiste concorrenza perché Holostem è l’unica azienda in Europa che fa ricerca su questa terapia. I regolamenti europei, inoltre, prevedono che l’aiuto di Stato possa essere concesso quando rappresenta uno strumento per correggere i cosiddetti fallimenti del mercato, cioè quando lo Stato interviene per garantire la produzione di un bene necessario. La fondazione Enea Tech ha presentato un ricorso argomentato alla mancata autorizzazione del ministero, anche perché da quando è stata creata non è riuscita a spendere nemmeno un euro dei 500 milioni messi dal governo.Negli ultimi giorni molti ricercatori europei e italiani hanno scritto al ministero per sostenere la causa di Holostem. «I ricercatori di Modena hanno già compiuto il loro miracolo trovando cure a malattie incurabili. Ora sta al governo dimostrare di essere all’altezza dei suoi cittadini», ha scritto sulla Stampa Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze Biomediche all’Università di Padova. Le associazioni che assistono i pazienti affetti da epidermolisi bollosa hanno organizzato una raccolta firme.Dall’inizio dell’anno l’incertezza sul futuro ha portato molti ricercatori a dimettersi per cercare nuovi posti di lavoro. Fino al 2022 i dipendenti erano circa 80, oggi sono 43. Negli ultimi anni Pellegrini e De Luca hanno rifiutato diverse proposte di lavoro di ospedali e centri di ricerca esteri per continuare gli studi in Italia. LEGGI TUTTO

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    L’anomalo aumento di polmoniti infantili in Cina

    Nelle ultime settimane in Cina è stato rilevato un aumento anomalo di casi di polmonite infantile, le cui cause non sono ancora completamente chiare. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha chiesto maggiori informazioni e il governo cinese ha risposto dicendo di non avere rilevato «nuovi o strani patogeni» collegati alle polmoniti. La situazione al momento non suscita particolare preoccupazione, ma dopo la pandemia da coronavirus SARS-CoV-2 iniziata proprio in Cina ci sono grandi attenzioni, soprattutto da parte delle istituzioni sanitarie internazionali.Ormai da qualche mese i medici cinesi segnalano un aumento dei casi di malattie respiratorie, attribuendole a varie cause note come i virus influenzali, il SARS-CoV-2 e il Mycoplasma pneumoniae, un batterio tra i più comuni nelle forme di infiammazione ai polmoni che chiamiamo genericamente polmoniti. L’infezione batterica interessa con maggior frequenza i bambini e causa di solito una malattia di lieve entità, che deve comunque essere trattata per evitare il peggioramento dei sintomi.Per i medici è quindi normale e atteso che si debbano occupare spesso di polmoniti di questo tipo tra i bambini, ma secondo le informazioni fornite dai media cinesi nelle ultime settimane i casi sono aumentati notevolmente. Per giorni ci sono state notizie di ospedali con decine di bambini ricoverati in varie zone della Cina, talvolta con seri problemi nel fornire loro assistenza a causa del grande afflusso di pazienti.In un ospedale nella provincia orientale di Anhui, i medici hanno effettuato 67 broncoscopie in un giorno rispetto alla media giornaliera di una decina di esami di questo tipo, che servono per valutare le condizioni e lo stato di infiammazione a livello polmonare. Un altro ospedale nella provincia costiera orientale dello Zhejiang ha stimato che le visite pediatriche siano triplicate rispetto allo scorso anno e che a circa un bambino su tre sia stata diagnosticata una polmonite da Mycoplasma pneumoniae.In seguito alle notizie sui molti ricoveri, mercoledì 22 novembre l’OMS aveva chiesto pubblicamente al governo cinese di fornire maggiori informazioni, utilizzando i canali appropriati per segnalare gli aumenti di particolari malattie. In seguito alla richiesta, l’agenzia di stampa Xinhua controllata dal governo aveva diffuso un articolo che segnalava le dichiarazioni di alcuni funzionari della Commissione nazionale di sanità, l’organismo che si occupa della salute pubblica in Cina. I funzionari avevano detto di essere al lavoro per analizzare le diagnosi di bambini con malattie respiratorie.Il giorno seguente, giovedì 23 novembre, l’OMS aveva poi comunicato di avere ricevuto nuove informazioni direttamente dal governo cinese, che aveva indicato di non avere rilevato la presenza di «nuovi o strani patogeni» legati alle polmoniti. Secondo le autorità sanitarie cinesi, la maggior quantità di malattie respiratorie sarebbe dovuta a più cause già note, a cominciare dai virus influenzali. L’ipotesi è che si siano diffusi più del solito in seguito alla rimozione delle forti limitazioni imposte nel paese negli anni scorsi per provare a ridurre la circolazione del coronavirus, con la cosiddetta “strategia zero-COVID”.Il lungo isolamento ha reso meno frequenti i contagi da influenza, contribuendo a una minore esposizione alla malattia e di conseguenza a una minore immunità nei suoi confronti rispetto ad altri periodi, specialmente nelle persone non vaccinate. Ciò ha fatto sì che i sintomi fossero più significativi e tali da rendere necessari accertamenti in ospedale per molti pazienti. Qualcosa di analogo potrebbe essere successo con altri virus e batteri che interessano con maggiore frequenza i bambini, come il virus respiratorio sinciziale (RSV) e il Mycoplasma pneumoniae.Le cause dell’attuale aumento di polmoniti tra i bambini sono comunque difficili da ricostruire sulla base delle informazioni fornite finora dal governo cinese, ritenute ancora insufficienti da molti osservatori. È forse anche per questo motivo che l’OMS ha scelto di chiedere pubblicamente spiegazioni, invece di seguire le vie della comunicazione interna.Un gruppo di lavoro dell’OMS si occupa infatti di sorvegliare le notizie che circolano sui giornali e sui social network, confrontandole con quelle fornite dalle istituzioni sanitarie dei singoli paesi, in modo da occuparsi il prima possibile di eventuali anomalie. Quando emergono stranezze, l’OMS invia una richiesta di maggiori informazioni al paese interessato, ma è raro che la procedura sia annunciata pubblicamente. Si preferiscono comunicazioni dirette e interne con le istituzioni coinvolte, arrivando a qualcosa di pubblico solo nel caso in cui ci siano elementi utili da condividere globalmente per esempio per ridurre i rischi di avere un’emergenza sanitaria.Nelle prime fasi di quella che sarebbe poi diventata la pandemia da coronavirus, l’OMS era accusata di essere troppo cauta nei confronti del governo cinese e di non avere richiesto da subito maggiore trasparenza sulla diffusione del SARS-CoV-2. La richiesta pubblica di chiarimenti mostra un cambiamento di approccio in un contesto in cui c’è più attenzione su questi temi da parte della popolazione in generale, che negli ultimi anni ha dovuto affrontare grandi difficoltà e limitazioni.Al momento mancano dati più precisi e ufficiali sulla diffusione delle polmoniti tra i bambini, anche se la richiesta dell’OMS ha portato a qualche maggiore concretezza. Il fatto che non sia stato segnalato un aumento di malattie respiratorie simili tra gli adulti sembra comunque rendere meno probabile la presenza di un nuovo virus, ancora non conosciuto. Per avere maggiori informazioni, i bambini con sintomi dovrebbero essere sottoposti ai test per i patogeni che con maggiore frequenza causano malattie respiratorie, in modo da comprendere meglio la causa dei loro problemi di salute. Una grande quantità di test negativi su virus e batteri noti più diffusi e in circolazione in questo periodo potrebbe dare qualche indicazione su eventuali nuovi patogeni.Secondo alcuni osservatori, la vicenda mostra come l’approccio delle autorità cinesi nel comunicare in maniera trasparente con le istituzioni sanitarie internazionali non sia cambiata molto, nonostante la recente pandemia avesse avuto origine proprio nel paese. Tra il 2019 e il 2020 la Cina era stata relativamente solerte nel condividere le informazioni su quello che sarebbe stato poi chiamato SARS-CoV-2, ma emersero comunque ritardi e omissioni nella gestione della prima fase dell’emergenza sanitaria che si sarebbe poi diffusa in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    Cosa ci dice sulla morte la ricerca sulle “near death experience”

    La presenza di funzioni autonome vitali nelle persone in arresto cardiaco è da tempo oggetto di studi, oltre che di riflessioni bioetiche complesse, generalmente basati sui segni rilevabili dall’“esterno” durante il tempo che precede l’eventuale interruzione del supporto vitale. Altri studi, più limitati, si concentrano invece sull’esperienza personale del paziente e in particolare sulle cosiddette esperienze di pre-morte o ai confini della morte (near death experience, NDE): sensazioni di vario tipo riferite da alcune persone che sopravvivono a una condizione di morte clinica reversibile, tipicamente l’arresto cardiaco.Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista medica Resuscitation ha cercato di misurare l’attività cognitiva e il livello di coscienza in pazienti ospedalizzati in fase di arresto cardiaco sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP, la procedura nota come massaggio cardiaco). I parametri dei pazienti sono stati misurati da elettroencefalografia (EEG), l’esame che registra l’attività elettrica spontanea del cervello, e ossimetria cerebrale, che misura la saturazione di ossigeno nel cervello. I risultati dello studio, considerato abbastanza raro nel suo genere (e comunque molto limitato), hanno mostrato una parziale correlazione tra segni di attività cerebrale e presenza di esperienze di pre-morte riferite da alcuni pazienti.Gli autori e le autrici dello studio hanno concluso che la quantità di dati raccolti non permette né di escludere né di dimostrare la presenza di attività cognitiva in persone il cui cuore abbia smesso di battere per un certo periodo di tempo. Lo studio è considerato comunque significativo: sia perché i risultati ammettono che la coscienza possa esistere in casi critici in cui i suoi segni non sono clinicamente rilevati, sia perché cerca di occuparsi in modo rigoroso – pur tra diversi limiti metodologici e strumentali – di un argomento comunemente trattato con approcci metafisici o pseudoscientifici.– Leggi anche: La storia di Eben Alexander, smontataNella letteratura scientifica sulle esperienze di pre-morte (NDE) i resoconti delle persone che le riferiscono tendono ad avere caratteristiche simili. Le esperienze positive includono sensazioni di distacco dal corpo, levitazione, serenità e sicurezza, e quelle negative principalmente sensazioni di angoscia. Alcune persone raccontano di aver visto parenti morti, altre persone figure bianche luminose, e altre ancora di aver rivissuto momenti della loro vita.Gli approcci sperimentali all’argomento e gli studi longitudinali sono tuttavia molto limitati: sia in termini di strumenti a disposizione per indagare il fenomeno (una cui dimensione soggettiva fondamentale rimane non misurabile), sia in termini di quantità di studi e ampiezza dei campioni analizzati. Alla guida del gruppo che ha pubblicato il recente articolo su Resuscitation c’era lo stesso ricercatore che condusse un altro studio simile nel 2013, già considerato tra i massimi esperti al mondo in materia: Sam Parnia, direttore di ricerca in rianimazione cardiopolmonare alla New York University School of Medicine e direttore del The Human Consciousness Project alla University of Southampton nel Regno Unito.Nel 2019 un gruppo internazionale di specialisti di terapia intensiva (tra cui Parnia), anestesisti, psichiatri, neurologi e neurofisiologi si riunì a New York per discutere delle prospettive future della ricerca sulle esperienze di pre-morte. Tra le proposte emerse durante l’incontro, le cui conclusioni furono poi pubblicate nel 2022 in un documento su Annals of the New York Academy of Sciences, ci fu quella di cambiare il nome delle esperienze pre-morte da near death experience (NDE) in recalled experiences of death (RED), qualcosa come “esperienze di morte rievocate”. Secondo il gruppo questa nomenclatura renderebbe più chiaro che il campo di studi è limitato alle esperienze che si verificano quando una persona è in condizioni critiche, quando il cervello non riceve più sangue né ossigeno.La domanda alla base della ricerca sulle NDE, spiegò Parnia alla rivista Nautilus nel 2022, è: «Cosa succede alla coscienza quando muori: muore a sua volta, o continua?». Parnia sostiene che, sulla base dei dati raccolti da lui e dai suoi colleghi e colleghe, l’attività cerebrale e un certo grado di coscienza possano ancora esistere anche quando altri parametri solitamente monitorati in fase di rianimazione cardiopolmonare (RCP) indicano che il paziente è clinicamente morto.– Leggi anche: Quand’è che una persona morta è davvero mortaIn situazioni normali il quadro delle condizioni del paziente è determinato dagli strumenti di monitoraggio della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di saturazione dell’ossigeno, che restano attivi fino a quando non viene accertata la cessazione irreversibile delle funzioni autonome vitali, condizione necessaria per interrompere la rianimazione. Ai 567 pazienti coinvolti nello studio prospettico più recente – ricoverati tra il 2017 e il 2020 in 25 ospedali, perlopiù negli Stati Uniti e in Regno Unito – sono stati applicati anche gli elettrodi per l’EEG in tempo reale e l’ossimetria cerebrale continua.Per poter verificare in caso di successo della rianimazione anche le eventuali percezioni consce o inconsce durante l’emergenza, ai pazienti sono stati applicati degli auricolari Bluetooth, senza interferire con l’intervento dei medici. È stato quindi utilizzato un tablet per mostrare una serie di immagini casuali e per trasmettere tramite gli auricolari una registrazione di tre parole ripetute: “mela”, “pera”, “banana”. Nella ricerca sull’apprendimento implicito diversi studi citati da Parnia indicano che le persone che non ricordano di aver ascoltato questi nomi di frutti – anche persone in coma profondo – e a cui sia chiesto di pensare casualmente a tre frutti possono comunque dare la risposta corretta.Soltanto 53 persone su 567 sono sopravvissute alla rianimazione, e 28 hanno risposto alle successive interviste: 11 hanno riferito percezioni o ricordi della rianimazione, e 6 di queste persone hanno descritto esperienze tipiche di pre-morte (NDE). La ridotta percentuale di sopravvivenza del campione, secondo gli autori e le autrici, ha condizionato in particolare la parte dello studio relativa alla verifica delle percezioni: su 28 pazienti intervistati nessuno ha riconosciuto le immagini proiettate sul tablet e soltanto uno ha riconosciuto lo stimolo sonoro (troppo poco per poter escludere che fosse casuale, secondo Parnia).Secondo il gruppo di ricerca la parte più significativa dei risultati dello studio riguarda l’attività cerebrale. La maggior parte delle 53 persone sopravvissute ha mostrato un EEG “piatto” durante la rianimazione, oltre che una limitata saturazione di ossigeno nel cervello (43 per cento il valore medio). Circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha però dato per brevi istanti segni di attività elettrica spontanea: onde cerebrali normali o quasi normali (Delta, Theta e Alfa), teoricamente compatibili con un qualche livello di coscienza. Inoltre i segni di attività rilevati tramite EEG emergevano in alcuni casi molto tempo dopo l’inizio della rianimazione cardiopolmonare: fino a un’ora dopo.Per ampliare il campione di 28 persone intervistate nel nuovo studio sono state coinvolte altre 126 persone che avevano subìto in passato arresti cardiaci. Quasi il 40 per cento del campione complessivo ha riportato una certa consapevolezza percepita dell’evento, ma senza ricordi specifici: «Ho sentito come se qualcuno mi stesse spingendo forte sul petto, cercavo di spingerli via ma mi sentivo le mani legate», ha detto una persona. Il 20 per cento delle persone ha raccontato esperienze di pre-morte. «Non ero più nel mio corpo. Galleggiavo senza peso. Ero sopra il mio corpo, direttamente sotto il soffitto della sala di terapia intensiva», ha detto una di loro. «Ricordo di essere entrato in un tunnel. Le sensazioni erano molto più intense del solito, la prima è stata di pace intesa», ha detto un’altra.La conclusione tratta dal gruppo di ricerca è che, sulla base dei risultati dell’EEG e compatibilmente con alcuni racconti dei pazienti, alcune persone sottoposte a rianimazione cardiopolmonare potrebbero essere coscienti durante la rianimazione anche in assenza di segni esterni visibili di coscienza.– Leggi anche: Perché sveniamo è un misteroUn’ipotesi di spiegazione delle esperienze di pre-morte proposta dal gruppo guidato da Parnia è che in condizioni normali il cervello disponga di un sistema che filtra la maggior parte degli elementi coinvolti nelle funzioni cerebrali, tenendoli fuori dalla nostra esperienza cosciente. Questo permette alle persone di funzionare normalmente nella quotidianità, dato che in circostanze normali «non potremmo funzionare con un accesso all’intera attività del nostro cervello nella sfera della coscienza», ha detto Parnia alla rivista Scientific American.In caso di morte imminente è invece possibile che nel cervello questo sistema di filtraggio venga rimosso, con il risultato che parti solitamente non attive diventino attive permettendo alla persona morente di avere accesso all’intera coscienza: «Tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato prima», ha detto Parnia. Sebbene il beneficio evolutivo di questo ipotetico meccanismo non sia chiaro, questo tipo di esperienze potrebbe «preparare le persone alla transizione dalla vita alla morte».Indipendentemente dall’ipotesi di spiegazione delle NDE, lo studio pubblicato su Resuscitation pone una serie di domande riguardo alle conoscenze sulla resistenza del cervello a fronte della prolungata privazione di ossigeno. «L’idea tradizionale è che il cervello muoia, una volta privato di ossigeno per 5-10 minuti», ha detto Parnia, aggiungendo che i risultati dello studio suggeriscono una capacità di resistenza a periodi più lunghi, «il che apre nuove strade per trovare trattamenti per i danni cerebrali in futuro».Lakhmir Chawla, un medico dell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Jennifer Moreno di San Diego, in California, e autore di studi sull’attività cerebrale in pazienti morenti sottoposti a EEG, ha detto a Scientific American che i dati raccolti dal gruppo di ricerca guidato da Parnia forniscono alcune importanti indicazioni. Per prima cosa suggeriscono che sarebbe opportuno «trattare le persone che stanno ricevendo la rianimazione cardiopolmonare come se fossero sveglie» (cosa che «raramente facciamo», ha aggiunto). I medici potrebbero inoltre considerare, per quei pazienti che considerano non più salvabili, di permettere ai loro familiari di salutarli, visto che «i pazienti potrebbero ancora essere in grado di sentirli». LEGGI TUTTO

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    Animali, buffi

    È stata annunciata l’immagine vincitrice dei Comedy Wildlife Photography Awards, un concorso che premia ogni anno le foto di animali più divertenti: mostra un canguro che sembra fingere di suonare una chitarra ed è stata scattata da Jason Moore fuori Perth, in Australia, mentre osservava questo e altri individui in un prato.Un canguro grigio occidentale a Perth, Australia, Air Guitar Roo, © Jason Moore/Comedy Wildlife Photography Awards 2023Il concorso è stato fondato nel 2015 da due fotografi professionisti e ambientalisti, Paul Joynson-Hicks e Tom Sullam, con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema della conservazione della fauna selvatica e dell’ambiente in modo leggero e positivo.Altre foto sono state premiate in categorie minori: Jacek Stankiewicz ha scattato quella di due verdoni che sembrano discutere su un ramo e che ha vinto nelle categorie Junior (per fotografi sotto i 18 anni) e Affinity Photo People’s Choice Award (scelta dal pubblico). Poi ci sono un airone striato che cade in acqua, una lontra ballerina, una libellula su una tartaruga e una famiglia di sule..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Fino a poco tempo fa le tartarughe marine erano quasi un mistero

    Le tartarughe marine non sono animali che si incontrano facilmente: a meno che non vivano in cattività, passano sulla terraferma solo i primi momenti della loro vita, quando escono dalle uova su una spiaggia per spostarsi subito nel mare, e anni dopo, se sono femmine, per deporre le proprie uova. Anche per questo per secoli abbiamo saputo pochissime cose sulle sette specie di tartarughe marine esistenti, comprese le tartarughe liuto (Dermochelys coriacea), quelle più grandi (arrivano a 400 chili di peso), e tuttora dobbiamo scoprirne.Lo racconta l’ecologo e divulgatore scientifico statunitense Carl Safina nel libro Il viaggio della tartaruga, appena pubblicato da Adelphi nella sua collana Animalia, dedicata a saggi sul comportamento di altre specie animali: ne pubblichiamo un estratto. Il 9 dicembre Safina parlerà di tartarughe marine e altri animali a Peccioli (Pisa), in occasione della nuova edizione di “A Natale libri per te”, una manifestazione progettata in collaborazione col Post e coordinata dal suo peraltro direttore Luca Sofri.***Nonostante millenni di venerazione e di commercio, le tartarughe marine sono incredibilmente misconosciute. Molti fatti basilari sulle varie specie, sui territori di nidificazione e sul comportamento sono stati oggetto di dibattito fino in tempi molto recenti, e alcuni restano ancora sconosciuti. Era il 1959 quando una Tartaruga Liuto avvistata al largo di Soay, nei pressi dell’isola di Skye in Scozia, non solo finì sulle prime pagine dei giornali, ma divenne argomento di discussione – come possibile mostro marino – perfino nella letteratura specializzata. Un testimone dichiarò quasi fuori di sé: «Rimanemmo pietrificati e lo osservammo mentre si avvicinava sempre di più… come un mostro infernale di tempi preistorici».Un disegno raffigura un serpente marino (che altro, se no?), benché entrambi i testimoni oculari avessero tracciato discreti schizzi di una Tartaruga Liuto sopra il pelo dell’acqua, e nonostante la sobria descrizione del secondo testimone contenesse alcune scrupolose osservazioni («quando la bocca era aperta … potevo vedere delle crescite filamentose simili a viticci pendenti dal palato»: le proiezioni usate per trattenere le meduse). Il punto è che nessuno disse: «Oh, ma si tratta di una grossa tartaruga – potrebbe essere una Liuto»; in molti luoghi al di fuori dei tropici, infatti, la gente non aveva ancora alcuna familiarità con le tartarughe marine.Una tartaruga liuto su una spiaggia di Trinidad, vicino a un cane, nel 2013 (AP Photo/David McFadden)Fino agli anni Sessanta e Settanta nessuno dei principali territori di nidificazione delle Tartarughe Liuto era noto alla scienza; e solo negli anni Sessanta gli scienziati capirono che il sesso delle tartarughine è determinato dalla temperatura di incubazione delle uova. Negli anni Settanta si stava appena cominciando a scoprire che le tartarughe marine migrano. Ancora nel 1988 l’idea che le Liuto nidificanti nei Caraibi si spingessero fino a latitudini temperate era considerata tutta da dimostrare.Fino a metà degli anni Novanta l’origine delle giovani Tartarughe Caretta trovate in acque messicane rimase sconosciuta; il territorio di nidificazione più vicino era il Giappone – distante oltre diecimila chilometri – e, poiché imprese migratorie di tale entità erano ritenute quasi impossibili, alcuni studiosi continuarono a cercare siti sconosciuti nel Nuovo Mondo. Uno di loro osservò: « Una migrazione transpacifica supererebbe di gran lunga la portata geografica nota delle migrazioni delle tartarughe marine». (Soltanto qualche anno dopo, i trasmettitori satellitari e le targhette identificative avrebbero fatto a pezzi quelle posizioni, dimostrando che effettivamente le Caretta giapponesi e australiane nuotano da costa a costa nel bacino del Pacifico e che quasi tutte le specie marine sono magistrali navigatrici).Negli anni Novanta non si sapeva pressoché niente della localizzazione delle tartarughe neonate dal momento in cui lasciano la spiaggia dove si sono schiuse fino a quando ricompaiono come giovani individui delle dimensioni d’un vassoio; di diverse specie non sappiamo essenzialmente ancora nulla. Perfino negli anni Novanta i ricercatori si limitavano a ipotizzare che spesso le tartarughe tornassero a deporre le uova sulla spiaggia della propria schiusa (oggi, le evidenze fornite in tal senso dal DNA sembrano convincenti).Tartarughe liuto appena uscite dal proprio guscio su una spiaggia della Thailandia, nel 2021 (Sirachai Arunrugstichai/Getty Images)A metà del ventesimo secolo, e anche successivamente, gli scienziati discutevano se tre tipi di tartarughe marine fossero davvero specie distinte (come ricorderete, nel mondo ne esistono soltanto sette). Ancora negli anni Sessanta ci si scontrava sul fatto che la Tartaruga di Kemp fosse o meno una specie a sé. Nessuno scienziato ne aveva mai vista una deporre le uova, e così qualcuno pensava si trattasse di ibridi. Le nidificazioni di massa della Tartaruga Olivacea e di quella di Kemp, cui partecipavano decine di migliaia di individui che arrivavano insieme sulle spiagge con la luce del giorno, rimasero a quanto pare sconosciute alla scienza finché nel 1960 un documentario amatoriale – girato nel 1947, sulla nidificazione di massa della Tartaruga di Kemp – non giunse infine nelle sale consacrate.La Tartaruga a Dorso Piatto, una specie australiana, rimase ignota alla scienza fino agli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, e per cent’anni gli studiosi discussero se si trattasse effettivamente di una specie distinta. Ancora nel 1996 infuriava il dibattito sulla cosiddetta «Black Turtle», la Tartaruga Nera («infuriava» per chi si occupava di Tartarughe Nere): si trattava di una specie a sé oppure soltanto di una razza di Tartaruga Verde? (L’analisi genetica dimostra che sono semplicemente Tartarughe Verdi con una colorazione più scura).Il fatto che almeno alcune Liuto compissero viaggi di andata e ritorno dai territori di alimentazione a quelli riproduttivi, per poi far nuovamente rotta verso la stessa area generale di foraggiamento non fu confermato fino al 2005. Cosa piuttosto notevole, poi, sempre nel 2005 un articolo erudito ammetteva: «Se le giovani tartarughe si spostino andando semplicemente alla deriva, o invece nuotino attivamente controcorrente, è materia di qualche dibattito». Oggi il tracciamento satellitare ha confermato quello che era probabile: se ne hanno voglia, le giovani tartarughe entrano nel flusso della corrente e lo attraversano. La scienza avanza. Ma il punto è che le tartarughe svelano i propri segreti lentamente, e molti restano chiusi «tra le loro piastre corazzate».Traduzione di Isabella C. Blum© 2007 Carl SafinaPublished by arrangement with Jean V. NaggarLiterary Agency, Inc., and The Italian Literary Agency© 2023 Adelphi edizioni s.p.a. Milano LEGGI TUTTO