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    Il Sole sta invertendo il suo campo magnetico

    Caricamento playerL’aurora boreale e i fenomeni collegati dello scorso maggio osservati a basse latitudini, anche in Italia, sono stati gli indizi più visibili dell’attività solare ormai prossima al proprio massimo, ma chi studia la nostra stella sta attendendo con interesse un altro fenomeno che porterà il Sole a invertire il proprio campo magnetico. Non è un evento insolito o preoccupante e non avrà effetti catastrofici per la Terra, ma è forse il miglior promemoria su quante cose ancora ci sfuggono sul funzionamento della più grande fonte di energia di tutto il sistema solare, da cui dipendono le nostre esistenze.
    I ritmi del Sole sono ciclici, per quanto non molto regolari: in media ogni 11 anni la nostra stella raggiunge un massimo di attività per poi tranquillizzarsi fino a raggiungere un minimo, dopo il quale il ciclo ricomincia. In linea di massima, quando il Sole è più attivo c’è una maggiore frequenza e intensità di alcuni fenomeni, come le tempeste magnetiche, l’emissione di grandi quantità di particelle e le eruzioni solari, esplosioni altamente energetiche. Le cause di questa ciclicità non sono completamente chiare, ma in secoli di osservazioni è stato possibile identificare particolari andamenti e indizi che permettono di calcolare l’andamento di ogni ciclo, le sue caratteristiche e le conseguenze per la Terra, che si trova in media a 150 milioni di chilometri dal Sole.
    Gli indizi più evidenti, tanto da essere stati osservati per la prima volta due millenni fa, sono le “macchie solari”, cioè punti della superficie solare più freddi rispetto a ciò che li circonda: se mediamente il Sole ha una temperatura superficiale di circa 5.500 °C, le macchie solari raggiungono al massimo una temperatura intorno ai 3.600 °C. La quantità di macchie solari tende a cambiare nel corso del tempo e proprio osservando il loro andamento si è concluso che compaiono in gran numero quando il Sole raggiunge il massimo della propria attività.
    Macchie solari osservate nell’ottobre del 2014 (NASA)
    L’ipotesi più condivisa è che le macchie solari siano una conseguenza di ciò che avviene nella “zona convettiva” del Sole, uno strato interno e non osservabile direttamente nel quale l’energia termica prodotta dalla stella raggiunge la superficie. In questa zona il plasma (un gas estremamente caldo e carico elettricamente) che si trova verso l’esterno è più freddo e denso, di conseguenza tende a ricadere verso l’interno dove si scalda e torna verso la superficie cedendo energia.
    Le quantità di energia coinvolte nel processo sono tali da portare anche alla formazione di forti campi magnetici, che nelle fasi di alta attività solare possono diventare instabili portando alla formazione delle macchie sulla superficie della stella. Ogni macchia ha un proprio campo magnetico che viene perturbato dai flussi di plasma indebolendolo o rafforzandolo a seconda dei casi. Dalle zone in cui emergono, di solito sopra o sotto l’equatore del Sole, i flussi si spostano verso i poli e tendono ad avere un campo magnetico orientato in senso opposto rispetto a quello solare in quel momento.
    Il Sole in sezione: sotto la superficie è visibile la zona convettiva (NASA)
    Nelle fasi di massima attività solare, i campi magnetici provenienti dalle macchie solari sono talmente tanti e intensi da annullare la polarità normalmente presente ai poli del Sole e sostituirla con una nuova opposta a quella di partenza. Questo processo fa sì che in media ogni 11 anni il Sole inverta il proprio campo magnetico.
    Nel 2004, per esempio, il polo sud solare aveva una polarità negativa, quasi completamente scomparsa nel 2013 e sostituita completamente da una polarità positiva negli anni seguenti. Il processo di inversione del campo magnetico non è infatti repentino, ma richiede diverso tempo e dal momento in cui il cambiamento è più evidente trascorrono circa due anni prima che sia completo. Il Sole non è comunque molto puntuale e in alcuni cicli sono stati necessari fino a cinque anni prima che si completasse l’inversione.
    Le condizioni iniziali del polo sud solare nel 2004 (a) e la progressiva inversione della polarità iniziata nel 2013 (b) e conclusa nel 2017 (c), in una elaborazione basata sui dati dell’attività del Sole (J. Space Weather Space Clim.)
    Il modo in cui è orientato nel suo complesso il campo magnetico del Sole può avere qualche conseguenza per la Terra, costantemente esposta alle particelle cariche che arrivano dalla stella e dalle quali si protegge grazie al proprio campo magnetico. Nei periodi in cui la polarità è negativa al polo nord solare ed è positiva al polo sud, il campo che si genera è opposto a quello della Terra e ci possono essere conseguenze sull’intensità delle tempeste solari, che possono causare forti interferenze nei sistemi di telecomunicazioni sia satellitari sia al suolo, oltre a effetti più scenografici come le aurore.

    Per questo l’attività solare viene osservata con grande attenzione e negli ultimi anni ci sono stati importanti progressi nella raccolta di dati, grazie allo sviluppo di nuove sonde. Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea è stato lanciato nel 2020 per studiare le zone polari del Sole, in modo da prevedere i prossimi cicli solari e la loro intensità. Un paio di anni prima la NASA aveva messo in servizio Parker Solar Probe, una sonda che si sta avvicinando il più possibile al Sole, con l’obiettivo di compiere un passaggio ravvicinato ad appena (in termini astronomici) 6 milioni di chilometri dalla superficie solare. Altri telescopi sulla Terra sono invece utilizzati per mappare le macchie solari e produrre immagini ad alta risoluzione della superficie della nostra stella.
    Studiare il Sole non serve solamente a capire come funzioni la più importante fonte di energia per la nostra esistenza. Il Sole è una stella relativamente comune, come miliardi di altre stelle simili solo nella Via Lattea, la nostra galassia. Comprenderne il funzionamento rende possibile lo studio più accurato di sistemi solari diversi dal nostro e consente di fare confronti con altri tipi di stelle e capire se possano creare condizioni compatibili per la vita, su mondi lontani e che per ora nemmeno immaginiamo. Per quanto sia a 150 milioni di chilometri da noi, il Sole è la cavia perfetta per farlo. LEGGI TUTTO

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    Stanno aumentando anche le zecche

    Caricamento playerÈ il periodo dell’anno in cui tante persone fanno escursioni sui sentieri di montagna indossando pantaloni corti: ma passeggiando nei boschi e dove c’è l’erba alta si può rischiare di essere morsi da una zecca dei boschi, cosa che può comportare dei rischi. Questi animali infatti possono trasmettere due malattie pericolose per le persone, la borreliosi di Lyme e l’encefalite da zecche, presenti in Italia dalla metà degli anni Ottanta e dal 1994 rispettivamente.
    In Europa i casi di contagio registrati sono in aumento da anni e si ritiene che c’entri il cambiamento climatico. Le temperature più alte allungano il periodo di attività annuale delle zecche e favoriscono la loro proliferazione e la loro diffusione territoriale: in alta montagna fa troppo freddo, ma si trovano anche tra i 1.200-1.400 metri di altitudine. Sono quindi cresciute le popolazioni di questi animali e con esse le probabilità di essere morsi da individui vettori dei batteri che causano la malattia di Lyme o del virus dell’encefalite. Ci sono comunque varie precauzioni per evitare di essere morsi, e nel caso dell’encefalite esiste anche un vaccino, che è consigliato a chi è più esposto al rischio di incontrare zecche ed è gratuito per i residenti in aree particolarmente interessate dalla loro presenza.
    Cosa sono le zeccheLe zecche sono piccoli animali ematofagi, che cioè si nutrono del sangue di altri animali: per succhiarlo penetrano la pelle con il loro apparato boccale, detto rostro. Non sono insetti ma aracnidi, come i ragni e gli acari, e ne esistono numerose specie. Le zecche che possono mordere le persone non sono le stesse interessate al sangue dei cani e nella classificazione scientifica sono chiamate Ixodes ricinus. Vivono generalmente nei prati e nei boschi, tra l’erba alta e il fogliame, perché si trovano bene in condizioni fresche e umide – non bisogna temere di incontrarne nei parchi cittadini. D’inverno si rifugiano sotto il fogliame o sotto le rocce, e rimangono in uno stato di inattività, mentre con l’aumentare delle temperature cercano animali da parassitare.
    Percepiscono l’anidride carbonica e il calore emessi dal corpo degli animali più grandi e così si accorgono della presenza di un possibile ospite: a quel punto si spostano sull’estremità di una pianta, che si tratti di un filo d’erba o di un arbusto, e si aggrappano – non saltano e non hanno ali – poi all’ospite. Il morso di solito è indolore perché nella saliva delle zecche è presente una sostanza che ha un effetto anestetico. Se non vengono rimosse prima, le zecche succhiano il sangue dell’ospite per alcuni giorni e poi si lasciano cadere.
    Le malattie che le zecche possono trasmettereAl di là del fastidio legato al morso, i problemi più gravi legati agli incontri con le zecche derivano dai patogeni che possono essere presenti – ma non sempre, è importante saperlo – nella saliva di questi animali.
    Tra questi patogeni, in Europa, ci sono il Borrelia afzelii e il Borrelia garinii. Sono batteri che le zecche possono “raccogliere” succhiando il sangue di animali selvatici come roditori, caprioli, cervi, volpi e lepri, e che causano la borreliosi di Lyme. È una malattia che causa sintomi che riguardano la pelle, le articolazioni, il sistema nervoso e gli organi interni, più o meno gravi. Il primo sintomo è spesso una macchia rossa sulla pelle che ha origine nel punto del morso e da lì si espande: nelle settimane o nei mesi successivi si possono sviluppare diversi sintomi neurologici o cardiaci, che se la malattia non viene correttamente riconosciuta (non è sempre facile) e curata possono diventare cronici. Se viene diagnosticata si cura con una terapia antibiotica.
    Non esistono invece terapie per l’encefalite da zecche, o più propriamente “meningoencefalite”, spesso chiamata anche con l’acronimo inglese TBE. È causata da un virus del genere Flavivirus, simile a quelli responsabili della febbre gialla e della dengue. Nel 70 per cento dei casi una persona morsa da una zecca portatrice del virus non sviluppa sintomi, o ne manifesta di lievi. Nel restante 30 per cento dei casi invece si hanno sintomi simili a quelli di un’influenza, dunque febbre alta, mal di testa o mal di gola, stanchezza e dolori muscolari. Dopo 8-20 giorni di apparente benessere alcune delle persone che hanno questo decorso (tra il 10 e il 20 per cento) possono sviluppare altri sintomi, più gravi: confusione, perdita di coordinazione, difficoltà a parlare, debolezza degli arti e convulsioni. In una minoranza dei casi, specialmente tra le persone più vulnerabili, la malattia può essere mortale.
    Secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), tra il 2012 e il 2022 sono stati registrati ogni anno tra i 1.900 e i 3.700 casi di TBE all’incirca, di cui la maggior parte in alcuni paesi dell’Europa settentrionale, centrale e orientale. Nel 2022, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, i paesi più interessati sono stati Cechia, Germania, Svezia, Lituania e Polonia. In Italia nel 2022 i casi confermati sono stati 104: nei dieci anni precedenti non erano mai stati più di 55.
    Per quanto riguarda invece la malattia di Lyme, negli ultimi anni ci sono stati circa un migliaio di casi certificati in Europa, ma i dati sono carenti. In Italia la malattia è più presente rispetto alla TBE e finora è stata riscontrata soprattutto nelle regioni settentrionali e in particolare in Friuli Venezia Giulia, dove venne registrato il primo caso, Veneto (in particolare la provincia di Belluno) e Lombardia.
    Come evitare i morsi di zeccheSe tra la primavera e l’autunno si fanno passeggiate nei boschi o attraversando prati con l’erba alta in collina e in montagna sotto i 1.400 metri, conviene prendere alcune precauzioni per evitare i morsi di zecche. Il sito dell’Istituto superiore di sanità consiglia di indossare un cappello e coprire le gambe con calze, pantaloni lunghi e stivali (preferibilmente di colore chiaro, per vedere più facilmente eventuali zecche), e di non addentrarsi nelle zone con l’erba alta. Suggerisce inoltre di esaminare il proprio corpo e i propri abiti alla fine dell’escursione, per verificare di non avere zecche addosso; tendono a mordere soprattutto sulla testa, sul collo, dietro le ginocchia e sui fianchi.
    Se si scopre di avere una zecca attaccata, è utile avere a portata di mano una pinzetta (preferibilmente a punte sottili), dei guanti e una boccetta in cui conservarla successivamente. Bisogna rimuovere la zecca il prima possibile perché la probabilità di contrarre un’infezione dipende anche dalla durata del morso. Per farlo si deve indossare i guanti, avvicinare la pinzetta il più possibile alla superficie della pelle e poi usarla per staccare la zecca «tirando dolcemente» e «cercando di imprimere un leggero movimento di rotazione». Esistono anche strumenti specifici per quest’operazione.
    È importante non schiacciare il corpo della zecca mentre la si toglie perché così si potrebbe causare un rigurgito dell’animale e aumentare le probabilità di trasmissione di un virus o di un batterio. Bisogna inoltre ignorare alcune credenze piuttosto diffuse secondo cui per rimuovere una zecca bisognerebbe usare alcol, benzina, acetone, trielina, ammoniaca, olio o oggetti arroventati: causare una sofferenza alla zecca aumenterebbe sempre il rischio di provocarle un rigurgito. È bene invece disinfettare la zona del morso dopo la rimozione. Se il rostro, cioè la bocca della zecca, rimane all’interno della cute bisogna estrarlo con le pinzette o con un ago sterile.
    Per quanto riguarda la zecca rimossa, conviene conservarla in una boccetta con alcol al 70%: nel caso in cui si manifestino dei sintomi di un’eventuale malattia successivamente al morso, avere a disposizione i resti biologici dell’animale può essere utile per identificare correttamente la malattia e curarla al meglio. Nel caso in cui dopo il morso si sviluppasse uno o più sintomi della borreliosi di Lyme (compreso l’arrossamento della pelle che si allarga) o della TBE bisogna contattare il proprio medico.
    E i vaccini?Negli Stati Uniti esisteva un vaccino per la malattia di Lyme che però non si poteva usare in Italia perché in Europa sono presenti diverse e più numerose specie di batteri, hanno smesso di produrlo e sono in corso i test per l’approvazione di un nuovo vaccino. Esiste invece un vaccino per la TBE, disponibile in Italia e raccomandato alle persone più a rischio di morsi di zecche.

    – Leggi anche: Le zanzare invasive sono sempre più diffuse in Europa LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Tra gli animali fotografati in settimana ci sono: un pollo sopravvissuto a un grosso incendio in un mercato di Bangkok, in Thailandia; un boa constrictor, o boa costrittore (che come dice il nome uccide le sue prede stritolandole), rimesso in libertà in Colombia; un cane in un seggio elettorale per le elezioni europee in Ungheria. Poi tre formichieri in un parco faunistico in Messico e due leoni marini: uno che si fa i fatti suoi in California e un altro a cui viene chiesto un pronostico per la prima partita degli Europei di calcio, che sono iniziati venerdì sera con Germania-Scozia. LEGGI TUTTO

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    La NASA ha allarmato per sbaglio un po’ di gente

    Caricamento playerA causa di un inconveniente tecnico la NASA ha trasmesso in diretta per circa otto minuti sul proprio canale ufficiale della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) una simulazione su un’emergenza sanitaria a bordo, senza specificare che si trattasse di un test. Molte persone hanno quindi pensato che ci fosse un’effettiva emergenza e hanno segnalato il problema sui social network, generando una certa apprensione e obbligando la NASA a pubblicare un insolito messaggio per spiegare l’errore e rassicurare sulle condizioni di salute dell’equipaggio sulla ISS.
    La simulazione di emergenza era stata trasmessa intorno alle 00:30 (ora italiana) di giovedì, con la segnalazione di una malattia da decompressione che aveva coinvolto un astronauta a bordo della Stazione. Una persona dal centro di controllo di Hawthorne, in California, si era identificata come medica di bordo e aveva poi iniziato a fornire alcuni consigli sulle pratiche da seguire in orbita. Aveva suggerito di fare indossare all’astronauta una delle tute per le attività extraveicolari (quelle che vengono comunemente definite “passeggiate spaziali”), in modo da pressurizzarla e iniziare un trattamento con l’ossigeno per ridurre i sintomi dovuti alla decompressione.
    La medica aveva aggiunto che la prognosi per l’astronauta non era incoraggiante e che sarebbe stato necessario un suo rientro anticipato sulla Terra, in modo da poterlo sottoporre ad altri trattamenti in ospedale. La malattia da decompressione si verifica quando ci si sottopone a una rapida riduzione della pressione nell’ambiente, per esempio in seguito a un’emersione rapida da una certa profondità nell’acqua, tale da far sì che i gas normalmente disciolti nel sangue o nei tessuti formino piccole bolle all’interno dei vasi sanguigni che possono provocare danni importanti.
    La ISS è costantemente pressurizzata rispetto all’ambiente spaziale circostante e così lo sono le tute da indossare per le attività extraveicolari. Gli astronauti si sottopongono a lunghe ore di preparazione prima di una attività all’esterno della Stazione anche per acclimatarsi alle diverse condizioni di pressione. Perdite nella tuta o in alcuni ambienti della ISS potrebbero causare una malattia da decompressione e per questo si effettuano test e simulazioni per garantire la sicurezza degli equipaggi.
    Dopo otto minuti circa di trasmissione accidentale della simulazione senza avvertenze, la NASA ha diffuso un comunicato per smentire le notizie su un’emergenza a bordo e spiegare l’errore:
    Non è in corso alcuna situazione di emergenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Intorno alle 00:28 l’audio è stato trasmesso sul live streaming della NASA da un canale audio di simulazione a terra indicando che un membro dell’equipaggio stava sperimentando effetti legati alla malattia da decompressione (MDD). Questo audio è stato inavvertitamente deviato da una simulazione in corso in cui i membri dell’equipaggio e le squadre di terra si addestrano per vari scenari nello spazio e non è correlato a un’emergenza reale. In quel momento i membri dell’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale erano nel periodo di sonno.
    La simulazione era quindi avvenuta esclusivamente a terra e non aveva coinvolto in alcun modo l’equipaggio sulla ISS, che in quelle ore stava dormendo in vista di una attività extraveicolare programmata per giovedì. Attualmente a bordo della Stazione ci sono sei astronauti statunitensi e tre cosmonauti russi. LEGGI TUTTO

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    Le zanzare invasive sono sempre più diffuse in Europa

    Caricamento playerIl Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che si occupa principalmente di malattie infettive, ha pubblicato i dati riguardanti la diffusione nel 2023 di diversi tipi di zanzare e delle malattie che trasmettono. Come nell’anno precedente è cresciuta la diffusione di dengue e febbre West Nile, due malattie infettive di origine tropicale trasmesse dalle zanzare che provocano quasi sempre sintomi minimi o lievi, ma possono essere rischiose per le persone fragili. Sono aumentate anche le aree in cui è diffusa la zanzara tigre, una specie originaria dell’Asia ma ormai stabilmente diffusa in Europa meridionale, responsabile delle trasmissioni della dengue e di altre malattie.
    Le zanzare invasive come la zanzara tigre (il cui nome scientifico è Aedes albopictus) sono arrivate in Europa inizialmente attraverso i commerci internazionali: la loro diffusione è però stata favorita da certe pratiche di gestione del territorio ma anche dal cambiamento climatico. In diverse regioni europee oggi la stagione calda dura più a lungo e le giornate sono più calde e umide rispetto a qualche anno fa: sono tutte condizioni che favoriscono la diffusione delle zanzare invasive.
    Per quanto riguarda la dengue, una malattia di origine tropicale per cui non ci sono cure specifiche, ma che comunque risulta grave o letale solo raramente, nel 2023 i casi nell’Unione Europea sono stati 130: sono quasi raddoppiati dal 2022, quando furono 71. Per tutto il periodo dal 2010 al 2021 in tutti i paesi dell’Unione insieme a Islanda, Liechtenstein e Norvegia i casi furono 73.
    Anche i casi “importati”, cioè contratti in paesi extraeuropei da persone che sono poi ritornate in Europa, sono aumentati: nel 2023 sono stati più di 4.900, mentre nel 2022 furono 1.572. Quello del 2023 è il numero di casi importati più alto dall’inizio delle registrazioni a livello europeo, nel 2008. Nei primi mesi del 2024 in molti paesi europei i casi importati sono aumentati ulteriormente, cosa che potrebbe portare i numeri del 2024 a superare quelli dell’anno precedente. Quest’anno in Italia i casi di dengue sono stati 197, tutti importati, e non ci sono state morti associate alla malattia.
    Nel 2023 sono stati registrati 713 casi di febbre West Nile in nove paesi dell’Unione Europea, di cui 332 in Italia. Sono meno rispetto ai 1.133 casi europei del 2022 (che fu il secondo anno con il numero maggiore di casi, dopo il 2018), ma sono stati registrati in un numero più alto di regioni: 123, in 22 delle quali la West Nile è stata registrata per la prima volta.
    A differenza della dengue, quasi tutti i casi di febbre West Nile vengono contratti direttamente in Europa. Nella maggior parte delle persone infette la malattia non provoca sintomi; solo un quinto dei contagiati ne mostra qualcuno, solitamente lieve. In rari casi il virus può causare convulsioni, paralisi e coma, e in quelli più gravi, che riguardano generalmente persone anziane o debilitate per altre ragioni, può essere letale ed è bene prevenirne la diffusione anche perché come per la dengue non esiste una cura specifica.

    – Leggi anche: A cosa servono le zanzare?

    Questi dati non indicano che ci si debba allarmare per questi virus, ma le autorità sanitarie devono comunque tenere conto dei fattori che favoriscono l’aumento dei rischi e prevenirli, ad esempio con iniziative per il controllo delle popolazioni di zanzare e con l’informazione. Fra i metodi che anche i cittadini possono usare per limitare la diffusione delle zanzare c’è la rimozione dell’acqua stagnante da posti come giardini e sottovasi: le zanzare infatti depongono le proprie uova in luoghi umidi, come può essere il sottovaso di una pianta.
    Non tutte le specie di zanzare possono essere vettori di malattie, cioè contribuire alla loro trasmissione da persona a persona. Tra le specie autoctone europee, la zanzara comune (Culex pipiens) può fare da vettore al virus della febbre West Nile, mentre notoriamente le specie europee del genere Anopheles possono trasmettere la malaria se diffusa – l’Italia ne fu dichiarata libera dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1970 dopo diversi anni con assenza di casi. Invece la principale specie invasiva, la zanzara tigre, può fare da vettore per il virus della dengue, oltre che per quello della chikungunya, che ha caratteristiche simili alla dengue, e il virus Zika, che invece può avere conseguenze più gravi.

    – Leggi anche: Non bisogna allarmarsi per le zanzare che possono trasmettere la malaria trovate in Puglia

    La zanzara tigre, riconoscibile dalle visibili macchie bianche da cui prende il nome comune, è ben presente in Italia da più di trent’anni: originaria dell’Asia orientale, si è diffusa per via del trasporto accidentale delle sue uova dentro pneumatici usati e piante ornamentali commerciate tra continenti diversi. L’interno di uno pneumatico con un po’ d’acqua è un luogo ideale per le uova delle zanzare tigre, che possono resistere a temperature molto diverse e in assenza di acqua anche per mesi, e quindi nella stiva di una nave ad esempio.
    La diffusione della zanzara tigre in Europa: è ben presente nelle regioni indicate in rosso, assente da quelle indicate in verde, appena introdotta in quelle indicate in giallo (ECDC)
    In alcuni paesi europei la zanzara tigre non c’è ancora, ma sta pian piano espandendo il proprio areale, cioè la zona in cui prospera: negli ultimi dieci anni è arrivata in cinque nuovi paesi europei. Questo è dovuto in parte all’aumento delle temperature medie ma in parte anche alla capacità della zanzara di adattarsi a temperature più fredde.
    Ci sono poi altre tre specie di zanzare invasive che si sono stabilite in alcune regioni europee. Due sono arrivate anche in Italia, dove infatti sono state citate più volte sui giornali negli ultimi anni: la zanzara giapponese (Aedes japonicus) e la zanzara coreana (Aedes koreicus). Entrambe possono essere confuse con la zanzara tigre perché hanno a loro volta delle macchie bianche; per il momento sono presenti in diverse zone del Nord Italia (quella coreana un po’ più di quella giapponese).
    La zanzara giapponese è originaria di vari paesi dell’Asia orientale e non solo del Giappone. Sopporta bene anche le temperature che si registrano d’inverno nelle regioni temperate e può sopravvivere in assenza di acqua stagnante, a differenza della zanzara tigre. Grazie a queste caratteristiche si è stabilita negli Stati Uniti e nell’Europa centrale, dove è arrivata a partire dagli anni Novanta grazie ai commerci internazionali. Si sa che potrebbe a sua volta fare da vettore per i virus della febbre West Nile, della dengue e della chikungunya.
    La zanzara coreana, un po’ più presente in Italia ma meno in Europa rispetto a quella giapponese, ha cominciato a diffondersi più di recente ma sembra a sua volta più capace di sopportare temperature basse rispetto alla zanzara tigre. In alcune zone della Russia ha trasmesso un virus che causa l’encefalite che però non è presente in Europa. Come le altre specie del genere Aedes è attiva anche nelle ore diurne.
    La diffusione della zanzara coreana in Europa (ECDC)
    Una specie di zanzara più preoccupante per l’ECDC è la cosiddetta zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), che è originaria dell’Africa, ha a sua volta macchie bianche ed è ritenuta la più pericolosa per il trasporto dei virus; la malattia da cui prende il nome peraltro ha sintomi più gravi rispetto alla febbre West Nile e alla dengue. Da tempo la zanzara della febbre gialla si è espansa lungo le coste orientali del mar Nero, in alcune regioni della Russia, della Georgia e della Turchia, e recentemente anche a Cipro – l’isola del Mediterraneo orientale che è anche un paese membro dell’Unione Europea.
    Per questa come per le altre specie il fatto che sia presente non comporta necessariamente la trasmissione di malattie e in particolare la trasmissione della febbre gialla, il cui virus non è presente in Europa.

    – Leggi anche: Perché certe zanzare preferiscono pungere noi invece che altri animali LEGGI TUTTO

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    C’è un po’ troppa preoccupazione per il vermocane

    Caricamento playerDa alcuni mesi è stata segnalata nel Mediterraneo una maggiore presenza del vermocane, un piccolo animale marino descritto come vorace e in grado di causare punture particolarmente dolorose. Le notizie sui suoi frequenti avvistamenti, per lo più da parte dei pescatori, hanno suscitato una certa attenzione e qualche apprensione, complici titoli e articoli di giornale con toni alquanto allarmati in vista della stagione balneare, anche se in realtà le probabilità di incontro con i vermocani durante una nuotata sono basse, così come il rischio di essere urticati dalle loro setole.

    – Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” dedicata al vermocane

    I vermocani appartengono alla specie Hermodice carunculata, che a sua volta fa parte della grande classe dei policheti, comprendente circa 13mila specie diverse, ottomila delle quali sono presenti nel Mediterraneo. La loro presenza, in particolare lungo le coste del sud Italia, è attestata da almeno un paio di secoli e il loro nome può variare a seconda delle regioni e delle zone. Talvolta vengono chiamati “vermi di fuoco” o “vermi di mare”, per via della loro particolare forma e della loro colorazione rossastra.
    A prima vista un vermocane ricorda un millepiedi. Il suo corpo è infatti schiacciato e suddiviso in segmenti, il cui numero varia a seconda della lunghezza degli individui. Considerato che un vermocane adulto può raggiungere i 15-30 centimetri, i segmenti che lo costituiscono possono arrivare a 150. Ciascuno dei segmenti è dotato di “parapodi”, cioè delle piccole appendici muscolari che i vermocani utilizzano per muoversi sul fondale e per accennare qualche movimento quando una corrente li mantiene sospesi nell’acqua.
    (Wikimedia)
    Ogni segmento è inoltre ricoperto di setole minuscole che si ritiene contengano tossine urticanti, che questi animali utilizzano per difendersi dai predatori. I vermocani si muovono infatti molto lentamente sul fondale e in questo modo riescono a ridurre il rischio di essere cacciati da altri animali. Al tempo stesso, il sistema di difesa consente a questi animali di avvicinarsi alle prede, solitamente ricci di mare, molluschi, stelle di mare (echinodermi) e all’occorrenza pesci. I vermocani si muovono tra le alghe, i coralli e le rocce del fondale fino a 40 metri di profondità, anche se spesso possono essere osservati nelle acque più superficiali dove può avvenire qualche incontro con chi ha deciso di fare una nuotata.
    Le setole dei vermocani sono molto delicate e si spezzano facilmente quando entrano in contatto con qualcosa, compresa la pelle umana. Si conficcano negli strati più esterni della pelle e causano in poco tempo una forte irritazione, che viene di solito descritta come paragonabile a quella causata da alcune specie di meduse, anche se meno dolorosa. Nella zona interessata dal contatto si hanno una forte sensazione di bruciore e di prurito, talvolta accompagnata da un intorpidimento dove si sono conficcate le setole. Solo in casi rari possono esserci nausea e una sensazione di affanno, magari indotta dallo stress conseguente all’incontro imprevisto con un animale poco conosciuto e dall’aspetto poco incoraggiante.

    Non è ancora completamente chiaro se siano solamente le setole a causare l’irritazione o alcune sostanze al loro interno, probabilmente urticanti. Nel caso di un contatto viene comunque consigliato di provare a rimuovere le setole utilizzando del nastro adesivo, da applicare sulla parte e rimuovere nella direzione verso cui puntano le setole. L’uso di un panno caldo può aiutare a denaturare le eventuali sostanze urticanti, cioè a modificarne le caratteristiche fisiche in modo da ridurne l’effetto; viene anche suggerito l’uso di alcol sulla parte interessata per provare ad alleviare il dolore.
    I rischi derivanti da un contatto con vermocani sono stati esagerati su alcuni giornali, così come i racconti sull’effettiva probabilità di entrare in contatto con questi animali. I vermocani sono per lo più animali notturni e di giorno si nascondono sotto gli scogli, particolare che rende ulteriormente difficile un contatto diretto. L’aumento segnalato, e da verificare, della loro popolazione nel Mediterraneo da parte dei pescatori è invece valutato con attenzione perché potrebbe indicare qualche rischio per alcune specie ittiche, vista la voracità dei vermocani. La loro maggiore presenza è stata indicata già da un paio di anni da chi effettua la pesca lungo le coste di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
    Per verificare la distribuzione e la popolazione di vermocani nel Mediterraneo, da qualche tempo l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale gestisce il progetto “Worms Out” in collaborazione con altre istituzioni ed enti di ricerca. L’iniziativa serve a raccogliere dati ecologici e biologici, sia attraverso le segnalazioni degli avvistamenti sia tramite l’utilizzo di trappole collocate in mare. Per le segnalazioni è possibile utilizzare l’applicazione per smartphone avvistAPP, già sviluppata per il tracciamento di specie ittiche nel Mediterraneo. È stato inoltre preparato un questionario per valutare il livello di conoscenza e la quantità di avvistamenti da parte della popolazione.
    La raccolta di dati sarà importante per stimare l’andamento della popolazione di vermocani nel tempo, approfondendo le possibili cause del loro aumento. Il principale indiziato è l’aumento della temperatura media del Mediterraneo dovuto al riscaldamento globale. Il Mediterraneo è tra i bacini che si stanno scaldando più velocemente sul pianeta e le maggiori temperature favoriscono la proliferazione di alcune specie, talvolta a scapito di altre. LEGGI TUTTO

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    Il ritorno dei cavalli selvatici in Asia centrale

    Caricamento playerSette cavalli di Przewalski, appartenenti a quella che si ritiene essere l’ultima varietà di cavalli selvatici ancora esistente, sono stati trasferiti dagli zoo di Berlino e Praga, in Europa, alle steppe del Kazakistan, un grosso paese dell’Asia centrale occupato in gran parte da deserti e pianure che probabilmente è il loro luogo di origine. Fino a pochi anni fa i cavalli di Przewalski vivevano solo in cattività, ma dai primi anni Duemila grazie a una serie di trasferimenti dagli zoo europei ora ne esiste una popolazione libera in Mongolia e in Cina: in Kazakistan vogliono fare lo stesso.
    Il viaggio dei cavalli è durato circa 25 ore: 18 in aereo fino in Kazakistan, e poi altre 7 di camion fino alla zona in cui vivranno per il prossimo anno. Per tutto quel tempo hanno dovuto rimanere in piedi: in teoria dovevano essere trasferiti otto cavalli, ma uno di loro è dovuto rimanere a Praga perché si era seduto prima di salire sull’aereo (rimanere seduti a lungo può causare problemi di circolazione nei cavalli). Ora per circa un anno saranno tenuti sotto osservazione in una riserva di 80 ettari, così da accertarsi che resistano al freddo e ai parassiti e che siano capaci di procurarsi autonomamente da mangiare anche sotto la spessa coltre di neve che cade in inverno da quelle parti.
    Il gruppo è composto da due giumente (cioè femmine adulte di cavallo) e uno stallone (un maschio) provenienti dallo zoo di Praga, e da quattro giumente dallo zoo di Berlino. Inizialmente queste ultime non potranno accoppiarsi con lo stallone, ma è prevista l’introduzione di altri maschi, così da aumentare la diversità genetica della popolazione.
    Cavalli di Przewalski reintrodotti in Russia, mentre vengono nutriti dal presidente russo Vladimir Putin (Alexei Druzhinin/Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
    I cavalli di Przewalski (Equus ferus przewalskii) sono una specie o quantomeno una sottospecie distinta dal comune cavallo domesticato (Equus ferus caballus), cioè quello che tutti conosciamo, diffuso in tutto il mondo. Anche i cavalli comunemente chiamati “selvatici”, come i mustang degli Stati Uniti, sono in realtà inselvatichiti: discendono cioè da cavalli domestici fuggiti dai loro allevatori. Anche se ora vivono in libertà e non hanno contatti o quasi con gli umani fanno comunque parte della stessa specie, che nella classificazione scientifica è chiamata Equus ferus caballus.
    In realtà c’è chi dice che anche i cavalli di Przewalski siano inselvatichiti. Infatti anche se in tempi recenti non vivevano come animali di allevamento, le tracce archeologiche indicano che alcuni di loro lo furono, più di 5mila anni fa, da una popolazione umana dell’età del rame che viveva nell’attuale Kazakistan.
    Rispetto ai cavalli comuni, quelli di Przewalski sono un po’ più piccoli, hanno la criniera più ispida, e hanno anche due cromosomi in meno, ma sono comunque in grado di produrre prole fertile se si accoppiano con i cavalli comuni. C’è quindi qualche dubbio se classificarli scientificamente come una sottospecie di Equus ferus (come è il cavallo comune, Equus ferus caballus), o considerarla proprio una specie diversa, chiamata Equus przewalskii.

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    In realtà questi cavalli non sono mai stati osservati scientificamente in Kazakistan: da quando sono stati identificati scientificamente come una specie diversa dal cavallo domesticato sono stati visti solo nelle aree desertiche e montane della Mongolia e della Cina. È comunque ritenuto che il loro luogo di origine siano proprio le steppe, le grandi pianure semiaride che si estendono dall’Ucraina alla Mongolia passando anche dal Kazakistan, e che i cavalli selvatici si siano ritirati in aree più inospitali qualche secolo fa, in seguito ai conflitti con esseri umani e bestiame e ai cambiamenti del clima.
    La Mongolia è stata quindi la prima destinazione dei programmi di reintroduzione nel loro habitat originario. Altri programmi sono stati messi in atto nel nordovest della Cina, in Xinjiang, già da prima del 2000, e nella regione russa di Orenburg, al confine con il Kazakistan, nel 2016. Nel 2008 l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, ha modificato la classificazione dei cavalli di Przewalski da “estinto in natura” a “in pericolo critico”. Un ulteriore aggiornamento nel 2011 ha portato alla classificazione come “minacciati”.
    Pur essendosi estinti in natura, nel Novecento erano state create popolazioni piuttosto consistenti di cavalli di Przewalski anche in Europa, sia negli zoo che in aree protette più ampie. Ne esiste una nel sud della Francia, molto attiva nel fornire cavalli per i programmi di reintroduzione (una delle giumente mandate in Kazakistan dallo zoo di Berlino è originaria di qui), ma le più grandi sono in Ucraina.
    Una è quella di Askania Nova, nella regione di Kherson, nel sud del paese, la più grande d’Europa. L’altra si trova nella Zona di esclusione di Chernobyl, l’area attorno alla centrale nucleare rimasta disabitata dagli umani dopo il famoso incidente, e diventata nel tempo una sorta di riserva naturale.
    L’Ucraina e il sud della Russia sono peraltro l’ultimo posto in cui sopravvisse una varietà europea di cavallo selvatico: il tarpan, che si estinse alla fine dell’Ottocento. Anche in questo caso l’etichetta di “selvatico” è un po’ dibattuta: è probabile che discendessero da commistioni fra cavalli puramente selvatici e cavalli inselvatichiti. Secondo alcuni il cavallo comune discende proprio da dei tarpan domesticati diversi millenni fa.
    I programmi di reintroduzione dei cavalli di Przewalski avvengono anche all’interno dell’Europa, in habitat diversi da quelli originari dei cavalli. Nel 2023 un gruppo è stato portato dalla Francia agli altopiani della Spagna: l’idea è quella che i cavalli contribuiscano a limitare la diffusione di alcuni cespugli, che in certi casi possono aumentare il rischio di incendi. Prima lo facevano le pecore, che però sono diminuite con il depopolamento rurale e il declino della pastorizia.
    Anche nelle steppe la reintroduzione del cavallo selvatico dovrebbe portare diversi benefici ecologici. Filip Mašek, portavoce dello zoo di Praga, ha detto al Guardian che i cavalli disperdono i semi delle piante scavando con gli zoccoli il terreno per procurarsi da mangiare, e anche nella loro cacca. Il loro letame inoltre contribuisce a fertilizzare il terreno. Insomma per quanto la reintroduzione artificiale di specie estinte in una certa area abbia sempre il potenziale di creare squilibri in un ecosistema, la reintroduzione dei cavalli nella steppa kazaka potrebbe portare benefici più ampi di quelli riguardanti la singola specie.

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    Il problema nello studiare gli psichedelici

    Martedì scorso la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa di regolamentazione dei farmaci e del cibo negli Stati Uniti, ha giudicato insufficienti le prove presentate dall’azienda statunitense Lykos Therapeutics per sollecitare l’approvazione di una medicina a base di Mdma, la sostanza psicoattiva nota anche come ecstasy, per la cura del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). La notizia ha sorpreso diversi osservatori, perché le prove esaminate erano due studi clinici rigorosi: nessuno dei due dimostra l’efficacia della terapia, secondo il comitato consultivo della FDA, perché i rischi supererebbero i benefici.Da diversi anni la cura di alcune malattie mentali come il PTSD e la depressione attraverso gli psichedelici è oggetto di studi incoraggianti e investimenti cospicui. Per la cura del PTSD, un disturbo che riguarda circa il 3,9 per cento della popolazione mondiale e circa 13 milioni di persone solo negli Stati Uniti, la terapia a base di Mdma è peraltro già disponibile in Australia. Ma il giudizio espresso dalla FDA, ha scritto il New York Times, ha attirato una certa attenzione verso un limite degli studi su queste sostanze: il fatto che difficilmente una persona può avere il ragionevole dubbio di aver preso un placebo anziché uno psichedelico.
    L’Mdma non è propriamente uno psichedelico, perché ha effetti soprattutto stimolanti, diversi da quelli di sostanze come l’Lsd o la psilocibina. Appartiene però a una classe farmacologica che include anche sostanze che alterano le capacità sensoriali, e condivide con gli psichedelici diversi aspetti socioculturali relativi all’uso. Gli studi esaminati dalla FDA, come tutti quelli solitamente più attendibili e citati, erano studi controllati randomizzati (randomized controlled trial, RCT), cioè il tipo di studio clinico più adatto a ridurre pregiudizi e distorsioni nella valutazione dei risultati della sperimentazione di una cura. In pratica le persone che partecipano agli studi di questo tipo vengono assegnate casualmente o a un gruppo che riceve il trattamento oggetto della sperimentazione, o a un gruppo che riceve un placebo. Se lo studio è “cieco”, le persone non sanno se sono state assegnate a un gruppo o a un altro (e se è “doppio cieco”, non lo sanno nemmeno gli sperimentatori).

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    Negli studi sottoposti all’attenzione del comitato consultivo della FDA il campione di partecipanti era formato da persone da tempo malate di PTSD. La sperimentazione prevedeva che tutte si sottoponessero a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale intensiva, uno degli approcci di psicoterapia più diffusi, e che durante la terapia un gruppo di partecipanti assumesse il farmaco a base di Mdma e l’altro gruppo un placebo. I risultati mostrarono che le persone del primo gruppo avevano il doppio delle probabilità di guarire dal PTSD rispetto alle persone del secondo gruppo.
    Ma il problema degli studi controllati randomizzati nel caso degli psichedelici, come ha sintetizzato l’Atlantic, è che «praticamente nessuno può assumere una sostanza psichedelica e non saperlo». Secondo alcuni studiosi il fatto che non sia possibile condurre un RCT sugli psichedelici davvero in cieco rischia di indebolire le numerose prove dell’efficacia delle terapie che circolano ormai da anni. Perché impedisce ai ricercatori di sapere se quelle prove sono valide o sono condizionate dalle grandi aspettative delle persone riguardo alla potenza degli psichedelici. Altri sostengono che tutte le sostanze psicoattive – non soltanto gli psichedelici – siano un caso utile a mostrare i limiti degli RCT in generale, quando è necessario valutare cure che agiscono sulla mente.
    Fin dagli anni Sessanta gli studi controllati randomizzati sono considerati in ambito clinico il miglior metodo per escludere che alla base del miglioramento delle condizioni di persone a cui viene somministrato un certo farmaco ci siano ragioni non farmacologiche. Una delle ragioni più note è l’effetto placebo: la fiducia del paziente in sostanze e trattamenti presentati come risolutivi di un certo problema, indipendentemente dalla loro efficacia reale. Se il paziente ha aspettative altissime su un farmaco – come alcuni pensano succeda nel caso di molti studi sugli psichedelici – sapere di averlo ricevuto può indurre reazioni positive, e sapere che non lo ha ricevuto può indurre reazioni negative.
    Il problema è che negli studi clinici sulle medicine antitumorali, per dire, i partecipanti non percepiscono la differenza tra una flebo di soluzione salina e una di medicina. Ma le sostanze psichedeliche inducono alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo: tutte cose di cui è praticamente impossibile non accorgersi. Anche negli studi clinici sull’Mdma condotti da Lykos Therapeutics, sebbene gli effetti dell’Mdma siano diversi da quelli degli psichedelici, tutti i partecipanti hanno infatti indovinato in poco tempo a quale gruppo erano stati assegnati. «Credo sia ovvio che gli RCT non sono adatti allo studio delle sostanze psichedeliche», ha detto all’Atlantic Boris Heifets, neuroscienziato della Stanford University.

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    Per provare ad aggirare il problema alcuni ricercatori stanno cercando di strutturare gli studi in modo diverso. Uno studio in cieco sulle possibili proprietà antidepressive della ketamina pubblicato nel 2023, per esempio, prevedeva di somministrare il farmaco (o un placebo) a pazienti depressi tenuti al buio e anestetizzati, durante un intervento chirurgico programmato. Altri studi sull’Mdma hanno utilizzato come placebo sostanze diverse da quella oggetto di studio. Ma altri studiosi sostengono che il tentativo di elaborare studi in cieco adatti alla sperimentazione degli psichedelici, per quanto ingegnoso, trascuri il fatto che queste sostanze non sono riducibili alla loro azione biochimica. E la loro efficacia dipende proprio da quel contesto che alcuni ricercatori si sforzano di separare dagli effetti.
    La maggior parte dei protocolli delle attuali terapie psichedeliche prevedono infatti diverse sessioni di psicoterapia, prima, durante e dopo il trattamento. E fin dalle prime ricerche sugli psichedelici condotte negli anni Sessanta è noto che sia il contesto in cui le persone li assumono sia le loro aspettative possono fortemente influenzare la loro esperienza, come dimostrano anche ricerche più recenti. Uno studio clinico uscito a gennaio, per quanto limitato nel campione, ha mostrato che in un gruppo di 22 pazienti con PTSD sottoposti a psicoterapia e Mdma l’efficacia del trattamento dipendeva strettamente dalla forza del legame che si instaurava tra il terapeuta e il paziente.
    È molto probabile che nella sperimentazione clinica gli studi controllati randomizzati continueranno a essere considerati il gold standard, per la valutazione delle sostanze psicoattive come di qualsiasi altra sostanza. Ma questo non significa che non sia possibile ricavare altre informazioni altrettanto utili da studi condotti con metodi diversi da quello degli RCT, ha detto all’Atlantic Matt Butler, neuroscienziato del King’s College di Londra. Diversi ricercatori stanno già conducendo, per esempio, studi descrittivi che misurano sia le aspettative che gli effetti dei trattamenti, in cui i partecipanti sanno chiaramente quale sostanza stanno assumendo. LEGGI TUTTO