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    Che cosa sappiamo sulla “misteriosa” malattia in Congo

    Nella provincia di Kwango, nella parte occidentale della Repubblica Democratica del Congo al confine con l’Angola, dalla fine di ottobre sono state segnalate decine di morti a causa di una malattia non ancora identificata. L’area dove è avvenuto il contagio è remota e le notizie sono per il momento scarse, come ha spiegato l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nonostante la mancanza di dettagli, negli ultimi giorni sono stati pubblicati articoli con toni allarmati e si è creata una certa confusione intorno a una malattia definita “misteriosa” o causata dal “virus del Congo”, anche se al momento non si sa né se sia causata da un virus né se questo abbia avuto origine nel paese.Lo scorso 29 novembre, il ministero della Salute congolese aveva avvisato l’OMS segnalando un aumento anomalo di morti causate da una malattia non diagnosticata nell’area di Panzi, nella provincia di Kwango. Secondo il bollettino più recente, tra il 24 ottobre e il 5 dicembre i casi di contagio sono stati circa 400 e sono state registrate 31 morti. Nei giorni seguenti sono circolate notizie su ulteriori decessi con stime che variano tra 70 e 140 morti, ma non è stato ancora possibile avere conferme ufficiali.
    Circa il 70 per cento delle persone morte aveva meno di 17 anni e tutti i casi più gravi avevano seri problemi di malnutrizione. Le condizioni di vita nell’area rurale interessata sono infatti peggiorate negli ultimi mesi, con minore disponibilità di cibo e quasi totale assenza di assistenza sanitaria. Le cause sono riconducibili all’estrema povertà e alla stagione delle piogge, che ha complicato le possibilità di accesso nell’area. Da Kinshasa, la capitale del Congo, sono necessari quasi due giorni di viaggio su strade e piste maltenute per raggiungere la zona.

    I sintomi più ricorrenti segnalati finora sono febbre, tosse, spossatezza e naso che cola. In alcune persone la malattia evolve con lo sviluppo di complicazioni respiratorie, anemia e forte inappetenza. I sintomi sono compatibili con una grande quantità di malattie già note e presenti nella zona, dunque i casi più gravi potrebbero essere conseguenza di malattie diverse tra loro. Come spiega l’OMS:
    Sulla base dell’attuale contesto nell’area interessata e dell’ampio spettro di sintomi, una certa quantità di malattie sospette deve essere esclusa attraverso ulteriori approfondimenti e analisi di laboratorio. Sono prese in considerazione, tra le altre: morbillo, influenza, polmonite acuta, malattia renale da infezione da Escherichia coli, COVID-19 e malaria.
    In particolare la malaria è solitamente diffusa nella zona e le piogge potrebbero avere contribuito a un aumento della popolazione di zanzare che trasmettono i parassiti che causano la malattia. L’unico modo per capirlo è attraverso la raccolta di campioni tra le persone contagiate e la loro analisi in laboratorio, cosa che si sta però rivelando difficoltosa perché nell’area non ci sono strutture per effettuare i test. Le analisi di alcuni campioni trasportati a Kinshasa sono ancora in corso e nel fine settimana non sono state comunicate molte informazioni dalle autorità sanitarie.
    Un “gruppo di risposta rapido” (RRT da “rapid response team”) è attivo nella zona da fine novembre e sabato 7 dicembre si è aggiunto un ulteriore gruppo di lavoro, che comprende alcuni esperti dell’OMS, per indagare i casi segnalati nel territorio e offrire maggiori trattamenti sanitari. Le attività prevedono anche l’impiego di test rapidi per COVID-19 e malaria, in modo da escludere i casi di malattie già note e concentrarsi nella raccolta di campioni da persone senza una diagnosi chiara.
    L’OMS ritiene che il rischio sanitario per la popolazione locale sia alto, mentre per ora è moderato per il resto del Congo e basso per l’estero. I trasferimenti di persone dalla zona in cui sono stati riscontrati i casi sono rari e le poche strade disponibili possono essere tenute sotto controllo, secondo le autorità locali. La valutazione del rischio potrebbe comunque cambiare nei prossimi giorni, man mano che diventeranno più chiare le cause e l’estensione del problema.
    Alla fine della scorsa settimana alcuni paesi, compresa l’Italia, hanno annunciato di avere intensificato i controlli negli aeroporti e negli altri punti di ingresso al nostro paese, per chi proviene dal Congo. Al momento non ci sono comunque elementi per ritenere che il rischio sia aumentato, come del resto chiarito dall’OMS nel suo bollettino.
    Tra domenica e lunedì si è parlato molto sui giornali, anche in questo caso con qualche allarmismo, di una persona proveniente dal Congo che era stata ricoverata in ospedale a Lucca con sintomi simili a quelli di un’influenza lo scorso 22 novembre e dimessa una decina di giorni dopo, una volta guarita. Come da prassi e per precauzione, l’ospedale ha informato l’Istituto Superiore di Sanità e saranno effettuate ulteriori verifiche sui campioni prelevati da quel paziente. Non ci sono comunque elementi per ritenere un collegamento con i casi rilevati in Congo, anche perché la persona interessata aveva lavorato nel paese a diverse centinaia di chilometri di distanza dalla zona in cui sono stati finora rilevati i casi. LEGGI TUTTO

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    Cosa sappiamo della nuova variante di mpox

    Caricamento playerIl virus dell’mpox, la malattia a cui un tempo ci si riferiva come “vaiolo delle scimmie” e che il 14 agosto è stata dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), è noto alla comunità scientifica dal 1970. Tra il 2022 e il 2023 si era già diffuso in varie parti del mondo, Europa compresa, a partire dall’Africa centrale e occidentale, dove è endemico. Attualmente è presente soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, dove quest’anno circola una nuova variante più contagiosa e più pericolosa: da gennaio al 7 agosto ci sono stati più di 14mila casi presunti (di più che in tutto il 2023) e 511 morti probabilmente dovute alla malattia.
    In Italia e negli altri paesi europei le infezioni registrate nell’ultimo anno sono state poche e d’importazione, cioè relative a persone che erano state all’estero, per cui per il momento qui non c’è da allarmarsi. Finora fuori dall’Africa è stato riscontrato un unico caso di infezione legata alla nuova variante, il sottotipo chiamato “1b”. È stato trovato in Svezia e le autorità sanitarie del paese hanno fatto sapere che la persona infettata si era contagiata durante un viaggio in Africa.
    Il virus dell’mpox, indicato dalla sigla MPXV, si trasmette stando a lungo molto vicino a una persona infettata (anche solo parlandole faccia a faccia), o attraverso oggetti con cui era stata in contatto, come lenzuola, abiti o aghi per iniezioni. Inoltre può passare da una donna incinta al feto. Contrariamente a quanto credono in molti, non si trasmette unicamente per via sessuale, anche se è una modalità di contagio comune.
    La malattia può essere asintomatica o causare sintomi di diversa gravità, che il più delle volte compaiono entro una settimana dal contagio e durano dalle due alle quattro settimane. I più comuni sono eruzioni cutanee, febbre, mal di gola, mal di testa, dolori muscolari, mal di schiena, spossatezza e linfonodi ingrossati. Le eruzioni cutanee, che possono evolvere in vescicole o pustole piene di un liquido giallastro causa di prurito o dolore, sono una delle caratteristiche che permettono di riconoscere la malattia. Di solito compaiono prima sul viso e successivamente possono diffondersi sul resto del corpo. Le persone malate rimangono contagiose fino a che non sono completamente guarite.
    Come molte altre malattie l’mpox è rischioso soprattutto per chi ha le difese immunitarie già indebolite per altre ragioni e i sintomi variano a seconda del ceppo del virus responsabile del contagio. Esistono due ceppi principali, che l’OMS identifica con le espressioni in inglese “clade I” e “clade II”. Il ceppo indicato con il numero romano I è stato trovato per la prima volta in Africa centrale ed è il più diffuso nella Repubblica Democratica del Congo. Il ceppo indicato con II, inizialmente riscontrato in Africa occidentale, è invece quello a cui si deve l’epidemia del 2022-2023, causata principalmente dal sottotipo IIb. I sintomi causati dal ceppo I sono più gravi rispetto a quelli dovuti al ceppo II.
    La variante individuata più di recente appartiene al ceppo I: tecnicamente avrebbe dovuto essere indicata come Ib, ma si è diffusa la dicitura 1b, col numero arabo. Era stata trovata inizialmente in un focolaio di mpox a Kamituga, una cittadina mineraria nel centro-ovest della Repubblica Democratica del Congo, a circa 270 chilometri dal confine col Ruanda. Poi sono stati trovati dei casi in Burundi, Kenya, Ruanda e Uganda e complessivamente quelli dovuti al sottotipo 1b che sono stati confermati dalle analisi di laboratorio sono più di 100. È tuttavia possibile che il numero reale sia più alto perché i test necessari per appurarlo non sono stati fatti su tutte le persone che mostravano sintomi compatibili con la variante (in Africa centrale i servizi sanitari non hanno le risorse per controllare tutti i presunti casi di mpox).
    Secondo le indagini dell’OMS, il nuovo ceppo virale si sta diffondendo prevalentemente attraverso i rapporti sessuali. L’organizzazione ha deciso di dichiarare l’emergenza sanitaria internazionale perché il virus si sta diffondendo dalla Repubblica Democratica del Congo ai paesi vicini. La nuova variante è ancora poco conosciuta, ma si ritiene che sia particolarmente contagiosa e che causi sintomi più gravi.
    In generale, nell’Africa centrale l’mpox rappresenta una minaccia maggiore rispetto ai paesi europei per via dei limiti delle strutture sanitarie locali: è più facile che i casi più gravi della malattia causino complicanze, come infezioni alle eruzioni cutanee, polmoniti, infezioni alle cornee (con rischi per la vista), diarrea e conseguente disidratazione, encefaliti o miocarditi, anche fino alla morte. È particolarmente rischiosa per i bambini, che nei paesi dell’Africa centrale sono tra le persone più esposte all’infezione.
    Olivia Wigzell, capo dell’Agenzia svedese per la salute pubblica, ha fatto sapere che la persona contagiata dalla variante 1b che si trova in Svezia è ricoverata vicino a Stoccolma e ha sottolineato che il fatto che sia in cura lì non significa che esistano dei rischi di contagio per la popolazione locale. La divisione europea dell’OMS ha invitato gli altri paesi del continente a intervenire velocemente e a segnalare eventuali casi di variante 1b come ha fatto la Svezia, ipotizzando che nei prossimi giorni e settimane potrebbero emergere altri «casi d’importazione».
    Al momento ci sono due vaccini che vengono usati per scongiurare i contagi da MPXV, ma nei paesi più colpiti dall’epidemia non è ancora stato possibile fare delle campagne vaccinali di larga scala. L’OMS sta raccogliendo donazioni e lavorando con le aziende produttrici di vaccini perché arrivino più dosi nelle zone in cui ce n’è maggiormente bisogno. La dichiarazione dello stato di emergenza internazionale dovrebbe anche favorire una maggiore coordinazione nel contrasto alla diffusione del virus.
    In Europa era stata fatta una campagna vaccinale contro l’mpox a partire dall’agosto del 2022, durante la precedente epidemia internazionale. In quell’occasione erano state interessate in modo prioritario le persone che rientravano nelle categorie ritenute più a rischio di contagio: chi lavora in laboratori a contatto con il virus, le persone con comportamenti sessuali considerati a rischio dalle autorità sanitarie, e quelle venute in contatto con persone malate.
    In passato l’mpox era chiamato “vaiolo delle scimmie”. Il virus che lo causa appartiene infatti all’ordine Orthopoxvirus, lo stesso del vaiolo, una malattia molto più rischiosa che però venne debellata nel 1980 grazie a una lunga campagna vaccinale internazionale (quella per cui le persone italiane con più di 47 anni hanno una cicatrice su un braccio). Il riferimento alle scimmie invece derivava dal fatto che inizialmente, nel 1958, era stato scoperto nei campioni biologici di scimmie in cattività, prima che facesse un “salto di specie” e diventasse un virus infettivo anche per gli esseri umani.
    Nel novembre del 2022 l’OMS decise di cambiare il nome ufficiale della malattia, raccomandando prima di tutto alla comunità medica e ai media di non usare più quello vecchio, perché sia su internet che in altri contesti veniva sfruttato per esprimere concetti razzisti e stigmatizzanti. LEGGI TUTTO