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    Usare l’MDMA come farmaco si sta rivelando più complicato del previsto

    Caricamento playerIl 9 agosto la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici, ha deciso di non approvare una terapia per lo stress post-traumatico che prevede l’uso combinato dell’MDMA, una sostanza psicoattiva illegale nella maggior parte dei paesi del mondo, e della psicoterapia. Il trattamento, sviluppato dall’azienda Lykos Therapeutics, era il primo in cui fosse coinvolta l’MDMA a essere stato sottoposto alla FDA, le cui valutazioni hanno una vasta influenza anche al di fuori degli Stati Uniti.
    L’esito dell’analisi dell’agenzia era molto atteso nel campo di ricerca che negli ultimi vent’anni si è dedicato ai possibili impieghi di sostanze come l’MDMA e gli psichedelici per curare disturbi resistenti al trattamento con altri psicofarmaci, comprese certe forme di depressione. Il fatto che per ora questo trattamento non sia stato approvato non significa che i vari altri in attesa di essere valutati dall’FDA saranno giudicati allo stesso modo, ma la notizia ha deluso gli scienziati che studiano gli psichedelici, molte persone in attesa di nuove terapie per lo stress post-traumatico e tante altre che per varie ragioni in questi anni hanno formato un movimento di interesse per gli studi sugli effetti di psichedelici e affini.
    Ha anche reso evidenti alcuni dei problemi della ricerca farmacologica sulle sostanze psicoattive che sono piuttosto difficili da risolvere e gestire. Uno è il fatto che generalmente una persona che partecipa a uno studio che prevede l’assunzione di una di queste sostanze capisce in fretta se gli è stato somministrato un placebo, cosa che si fa con una parte dei soggetti partecipanti per distinguere eventuali effetti dovuti all’autosuggestione: per questo non è possibile ottenere risultati in linea con gli standard scientifici usati in tutti gli altri ambiti della medicina.

    – Leggi anche: Il problema nello studiare gli psichedelici

    Un altro grosso problema è il ruolo della psicoterapia: il trattamento proposto dalla Lykos prevede appunto di associare l’assunzione dell’MDMA a colloqui con psicoterapeuti adeguatamente formati, una formula prevista anche in molte altre sperimentazioni simili in attesa di analisi da parte dell’FDA. Quest’agenzia tuttavia si esprime unicamente sugli aspetti farmacologici e non ha dunque né l’obiettivo né la predisposizione per valutare la parte di psicoterapia.
    MDMA è l’abbreviazione di “3,4-metilenediossimetanfetamina”, una sostanza a cui ci si riferisce spesso come ecstasy. Anche se è di frequente associata a sostanze psichedeliche come l’LSD ed è studiata nello stesso campo di ricerca, non ha proprio lo stesso tipo di effetti. Gli psichedelici propriamente detti provocano alterazioni delle percezioni che possono essere associate a visioni o alla sensazione di aver compreso qualche verità sull’esistenza. L’MDMA invece provoca la scomparsa della stanchezza e di molte inibizioni e ha un effetto “empatogeno”, fa cioè percepire un trasporto affettivo e un senso di vicinanza per le persone che si hanno intorno. Per queste ragioni è storicamente molto assunta nei club di techno e ai rave, anche come alternativa all’alcol (a differenza del quale non fa aumentare l’aggressività).
    L’effetto dell’MDMA dura qualche ora e si conclude gradualmente. La sostanza non genera dipendenza e il principale effetto negativo, che può anche non verificarsi, è una specie di contraccolpo emotivo: una fase che si verifica qualche giorno dopo l’assunzione in cui si può provare ansia e malinconia. Tuttavia un’assunzione ripetuta, frequente e abituale può generare forme di depressione. Altri effetti collaterali di cui ogni tanto si sente parlare dai giornali sono solitamente causati da un dosaggio eccessivo, che può causare vari problemi fisici, oppure sono dovuti ad altre sostanze spacciate per MDMA.
    Negli ultimi anni l’MDMA è stata presa in considerazione come possibile farmaco da associare alla psicoterapia per curare lo stress post-traumatico, cioè quella forma di disagio che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche, come la partecipazione ai combattimenti di una guerra o una violenza sessuale. Metterebbe infatti i pazienti nella condizione di rielaborare insieme a un terapeuta i traumi che li affliggono, senza dover affrontare l’ostacolo dell’autogiudizio e l’angoscia causata dal ripensare ai traumi stessi: in pratica aiuterebbe le persone a tollerare i ricordi dolorosi e a evitare il meccanismo spontaneo che porta a non volerne parlare, e permetterebbe agli psicoterapeuti di discuterne con loro.
    Negli Stati Uniti era già stata usata in questo modo anche da alcuni psicoterapeuti non convenzionali tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie all’attività di divulgazione che portò avanti lo scienziato Sasha Shulgin, prima che fosse inserita nell’elenco delle droghe illegali.
    La Lykos Therapeutics ha sviluppato la propria terapia che prevede l’uso dell’MDMA a partire da queste vecchie esperienze. L’azienda è nata nel 2014 come branca a scopo di lucro di MAPS, un’organizzazione fondata nel 1986 per contrastare le politiche proibizioniste sulle droghe e promuovere sia la decriminalizzazione del loro consumo, sia la ricerca scientifica sui possibili effetti terapeutici degli psichedelici, interrotta per anni dopo che erano stati dichiarati illegali.
    Tra le diverse sostanze che si stanno studiando, la Lycos aveva scelto di dare la priorità all’MDMA perché è quella con meno effetti collaterali e per cui riteneva di avere maggiori possibilità di arrivare a un’approvazione da parte dell’FDA.
    Grazie ai risultati incoraggianti di alcuni studi iniziali, nel 2017 l’agenzia aveva concesso a questa sostanza un percorso preferenziale nei propri processi di approvazione, dato che per i disturbi per cui ne è proposto l’uso non ci sono molte cure. Sono passati 25 anni da quando l’FDA ha approvato per l’ultima volta dei farmaci per lo stress post-traumatico, gli antidepressivi a base di sertralina e paroxetina, e si stima che per il 40 per cento dei pazienti non siano una terapia efficace. Un’altra ragione per cui la Lycos aveva deciso di puntare sull’MDMA è che negli Stati Uniti si sente molto il bisogno di trovare nuovi trattamenti per lo stress post-traumatico: è una condizione che affligge molti reduci dell’esercito, le cui associazioni di rappresentanza hanno un’influenza politica significativa, e complessivamente 13 milioni di persone nel paese.
    Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, gli antidepressivi che oggi si usano contro lo stress post-traumatico, richiedono un’assunzione continuativa e prolungata nel tempo. Invece il trattamento proposto dalla Lycos prevede solo tre assunzioni di MDMA nella vita, da effettuare con l’assistenza di uno psicoterapeuta che metta a frutto gli effetti della sostanza in un colloquio. Dato che il sistema di approvazione da parte dell’FDA non si esprime sulla psicoterapia e sui suoi effetti, e dato che esistono moltissime forme diverse di psicoterapia (uno stesso terapeuta ne può usare diverse), la Lycos aveva sviluppato un proprio protocollo per i terapeuti, da seguire in tutte le fasi della sperimentazione per avere risultati coerenti.
    Molti psicofarmaci vengono assunti in associazione con forme di psicoterapia, ma possono anche essere prescritti da soli. Nel caso degli psichedelici e delle sostanze affini, almeno per come sono state studiate finora, gli effetti benefici si avrebbero solo tenendo insieme l’aspetto farmacologico e quello di terapia della parola.
    I risultati dello studio della Lycos sono stati molto positivi. Nella sperimentazione finale sono state coinvolte più di 190 persone: a sei mesi dalla fine del trattamento, il 71 per cento di quelle a cui è stata somministrata l’MDMA dopo il trattamento non ha più avuto sintomi riconducibili allo stress post-traumatico, contro il 48 per cento del gruppo a cui è stato dato il placebo (e che comunque ha seguito la psicoterapia).
    Nonostante questi risultati a giugno una commissione di scienziati a cui l’FDA aveva chiesto di giudicare lo studio si era espressa contro l’approvazione della terapia, e ora l’agenzia ha confermato la valutazione. Secondo un comunicato della Lycos che riassume le motivazioni dell’FDA – che non le ha diffuse pubblicamente – c’erano vari aspetti che la commissione ha trovato poco convincenti. Uno è il fatto che tra i partecipanti allo studio alcuni avessero assunto l’MDMA illegalmente in precedenza. Ma anche le incertezze riguardo alla mancanza di un vero effetto placebo nel gruppo di controllo e riguardo al contributo della psicoterapia hanno avuto un ruolo.
    La FDA ha chiesto alla Lycos di effettuare una nuova sperimentazione per fornire maggiori dati a sostegno dell’efficacia del trattamento. L’azienda ha detto che ci vorranno vari anni per farlo e ha annunciato che farà ricorso contro la decisione dell’agenzia.
    In Australia già dall’anno scorso l’MDMA e la psilocibina possono essere utilizzate all’interno di sessioni di psicoterapia. Anche in questo paese però c’è chi ha ancora posizioni molto caute sull’uso di queste sostanze perché non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine di queste terapie.
    In generale finora le ricerche sugli psichedelici – che sono tutto sommato recenti se si considerano solo quelle realizzate con i metodi scientifici più avanzati – non hanno indagato a sufficienza sui tipi di psicoterapia da associare al loro uso terapeutico. Alcune delle aziende farmaceutiche che stanno investendo in questo campo, e che diversamente dalla Lycos non sono nate dall’attivismo per la decriminalizzazione degli psichedelici, non hanno interessi a fare studi in questo ambito e si stanno concentrando sugli aspetti farmacologici, quelli determinanti per l’approvazione da parte dell’FDA.
    Per alcuni studiosi del settore è un problema: ci sarebbe il rischio che in futuro gli psichedelici e le sostanze affini come l’MDMA siano sì autorizzati per usi terapeutici, ma che anche in quanto tali siano oggetto di forme di abuso come gli antidepressivi tradizionali. LEGGI TUTTO

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    Ora alla Silicon Valley interessa l’ibogaina

    Caricamento playerNell’aprile del 2023 Sergey Brin, uno dei fondatori di Google nonché uno degli uomini più ricchi del mondo, decise di vendere le azioni della casa automobilistica Tesla in un momento in cui il loro valore era particolarmente alto: ci guadagnò 366 milioni di dollari. Li usò subito per aprire Catalyst4 Inc, un’organizzazione di venture capital non-profit che investe in startup che si dedicano a cause che stanno a cuore a Brin. Nell’ultimo anno Catalyst4 ha investito milioni di dollari in aziende che si occupano di ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera e nella ricerca sui disturbi neurologici.
    Questa settimana, secondo il Financial Times, Brin ha scelto chi riceverà il prossimo investimento, pari a 15 milioni di dollari. È la startup Soneira, un’azienda di biotecnologia che sta avviando studi clinici per capire se l’ibogaina – una sostanza allucinogena tratta dall’iboga, un arbusto che cresce nelle foreste pluviali di vari paesi dell’Africa occidentale – può essere usata in sicurezza per trattare alcuni tipi di lesioni cerebrali traumatiche.
    Quello di Brin è soltanto il più recente investimento massiccio nel settore delle sostanze psichedeliche da parte di un imprenditore della Silicon Valley. È una fascinazione legata in parte alla cultura da cui sono emerse molte di queste persone: l’uso di determinate sostanze è da sempre una parte molto raccontata dell’origine della Silicon Valley e della “controcultura” giovanile degli anni Sessanta a cui è legata. Ma si spiega anche con il fatto che, negli ultimi decenni, negli Stati Uniti sono molto aumentati casi di disturbi e malattie legate alla sfera della salute mentale difficilissimi da trattare. È il caso del disturbo post-traumatico da stress di cui soffrono molti reduci che hanno servito nell’esercito, della depressione e della dipendenza da oppioidi come il Fentanyl. Sono crisi che hanno spesso un forte impatto sul tessuto culturale delle città americane e che suscitano preoccupazione.
    Ha senso, quindi, che alcune persone molto ricche vogliano investire i propri soldi anche nella ricerca di soluzioni a problemi che al momento ne hanno poche: gli studi sulle sostanze psichedeliche negli ultimi anni sembrano dare qualche speranza in questo senso. In Australia, per esempio, dall’anno scorso gli psichiatri sono autorizzati a prescrivere la psilocibina, che è la sostanza presente nei funghi psichedelici, nel contesto di alcune terapie.
    Negli Stati Uniti ci sono stati tentativi di legalizzare alcune sostanze psicoattive in qualche stato, ma queste sostanze rimangono illegali a livello federale, il che scoraggia gli investimenti da parte delle grandi aziende farmaceutiche. Quasi tutti gli studi clinici sull’uso farmacologico delle sostanze psicoattive vengono quindi sponsorizzati da organizzazioni non-profit come Catalyst4.

    – Leggi anche: Il ritorno degli psichedelici

    L’ibogaina è meno conosciuta, anche perché si presta meno all’uso in contesti ricreativi, dato che gli stati mentali che induce sono molto intensi e faticosi, se non addirittura spaventosi sul momento. Le persone che l’hanno assunta normalmente la descrivono come un sogno lucido a occhi aperti che costringe a rivivere esperienze di vita dolorose, in modo però più distaccato di come succederebbe normalmente.
    Storicamente utilizzata dalle tribù dell’Africa occidentale per scopi medicinali ma anche nel contesto di rituali spirituali, si ottiene dalla corteccia delle radici dell’iboga, che viene frantumata e consumata come polvere o somministrata come estratto. Fu importata in Europa dagli esploratori francesi e belgi del diciannovesimo secolo e venduta inizialmente come stimolante. Alcuni medici cominciarono a utilizzarla per trattare le dipendenze da altre sostanze all’inizio del Novecento: il primo caso di successo si registrò in Messico nel 1913, quando una donna che soffriva di alcolismo grave ne guarì dopo un trattamento con compresse di ibogaina.

    Negli Stati Uniti cominciò a diffondersi negli anni Sessanta, e poi fu messa fuori legge nel 1967. Oggi è considerata una sostanza “senza uso medico accettato e con alto potenziale di abuso”, come l’LSD o l’eroina. Ma in alcuni paesi come Canada, Messico, Slovenia, Francia, Brasile e Paesi Bassi esistono cliniche – sia legali che illegali – che la offrono tra i trattamenti possibili per le dipendenze da sostanze. Sono comunque soluzioni molto costose: una clinica a Cancun (Messico), per esempio, chiede tra i 9 e i 15mila dollari a paziente per dieci giorni di trattamento, escluse le spese del viaggio.
    Gran parte dei dati esistenti sull’efficacia dell’ibogaina proviene da piccole ricerche e non è stata testata in studi clinici utilizzando gruppi di controllo trattati con sostanze che non fanno nulla (placebo), come accade negli studi medici più rigorosi. In Brasile, dove viene utilizzata da decenni per curare la dipendenza da crack, si riporta però un tasso di successo del 60 per cento tra i pazienti.

    – Leggi anche: Il problema nello studiare gli psichedelici

    Non è ancora molto chiaro come mai sembri essere così efficace nel trattare le dipendenze. Alcuni gruppi di ricerca ritengono che l’ibogaina favorisca le connessioni tra i neuroni e aumenti la neuroplasticità, fornendo al contempo nuove prospettive sulla natura del proprio comportamento autodistruttivo e degli eventuali traumi che vi stanno dietro. «L’ibogaina sembra resettare il cervello dal punto di vista farmacologico e, allo stesso tempo, produce una profonda visione psicologica dei fattori alla base della dipendenza», ha detto al New York Times Joseph Peter Barsuglia, psicologo e ricercatore che lavora con alcune cliniche che somministrano ibogaina in Messico.
    Brin è interessato da tempo alle possibili applicazioni mediche dell’ibogaina: una sua altra fondazione ha finanziato uno studio dell’Università di Stanford in cui questa sostanza è stata somministrata a 30 veterani dell’esercito statunitensi che avevano riportato traumi cranici o soffrivano di disordine post-traumatico da stress. Secondo lo studio, assumere ibogaina una sola volta aveva migliorato le loro funzioni cognitive e aveva ridotto molto i sintomi di ansia e depressione che avevano. Uno dei partecipanti ha raccontato al Washington Post che, dopo aver assunto la sostanza, «è sprofondato in uno stato onirico, rivivendo ricordi dimenticati: una vista sul lago da bambino; un serpente che sbuca da un mucchio di foglie; un ragazzino morto in Iraq, con la testa trafitta dalle schegge di una granata nemica. L’ibogaina […] ha dato una marcia in più al suo cervello».
    «Oggi non esiste alcun altro farmaco in grado di alleviare notevolmente i sintomi funzionali e neuropsichiatrici delle lesioni cerebrali traumatiche quanto fa, secondo le nostre osservazioni, l’ibogaina», ha detto il professor Nolan Williams, che ha condotto la ricerca. Negli Stati Uniti i veterani rappresentano il 6 per cento della popolazione, ma sono il 20 per cento delle persone che si suicidano ogni anno.
    La startup  su cui Brin ha investito, Soneira, proverà a fare un passo in più. Intanto vuole capire come fare a combinarla con medicinali per il cuore per limitare quanto possibile il rischio di aritmia cardiaca, che sopraggiunge in alcuni casi all’assunzione della sostanza con esiti che possono essere letali. E poi vuole svilupparne una versione sintetica, in modo da non dover dipendere dall’estrazione dell’iboga, che al momento viene in larga parte raccolta massicciamente e illegalmente da gruppi criminali in Gabon e Camerun, contribuendo alla deforestazione di questi paesi.

    – Leggi anche: I cactus non sono tutti uguali LEGGI TUTTO

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    I funghi allucinogeni non fanno compiere gesti folli

    Caricamento playerNegli ultimi giorni diversi siti e giornali si sono occupati della storia del pilota statunitense fuori servizio che domenica 22 ottobre è stato fermato e accusato di tentato omicidio e di condotta pericolosa dopo che aveva cercato di spegnere i motori di un aereo di Alaska Airlines in un volo da Seattle a San Francisco. Il pilota, che ha 44 anni e si chiama Joseph Emerson, ha poi attribuito il suo comportamento agli effetti dell’assunzione di funghi allucinogeni, ha detto che non dormiva da più di 40 ore e che soffre di depressione da circa sei anni.La spiegazione fornita da Emerson ha suscitato diverse perplessità tra studiosi ed esperti di sostanze allucinogene. Prima di tutto perché, stando alle ricostruzioni, dal momento dell’assunzione dei funghi da parte di Emerson al suo tentativo di spegnere i motori in volo erano trascorse almeno 48 ore. Questo rende altamente improbabile che l’effetto dei funghi, che non dura di solito più di 7 o 8 ore, fosse ancora presente: la sostanza allucinogena contenuta nei funghi, la psilocibina, è peraltro eliminata completamente dal corpo entro un giorno dall’assunzione.Oltre che essere incongruente sotto l’aspetto fisiologico, l’associazione tra l’assunzione dei funghi e il tentativo di provocare un incidente aereo mettendo a rischio la vita di decine di persone potrebbe contribuire a rafforzare in una parte dell’opinione pubblica una convinzione già abbastanza radicata secondo cui uno dei principali effetti collaterali dei funghi allucinogeni sarebbe compiere gesti pericolosi e dissennati. Questa idea, sostenuta perlopiù da informazioni aneddotiche, racconti sui media e rappresentazioni letterarie, non è però validata da un insieme altrettanto cospicuo di solide evidenze scientifiche.In generale gli studi sugli allucinogeni, come vale in misura minore anche per altre sostanze illegali in diversi paesi del mondo, sono stati storicamente limitati da scarsi finanziamenti, da una prolungata stigmatizzazione sociale verso queste sostanze e dalle difficoltà a reperirle legalmente e ottenere di volta in volta le autorizzazioni necessarie per studiarne gli effetti in ambienti sperimentali e controllati. Le ricerche e gli studi più attendibili condotti nel corso degli ultimi vent’anni, inclusi i più recenti, indicano tuttavia che il rischio di procurare danni a sé stessi e alle altre persone non è affatto tipico dell’assunzione di allucinogeni. È anzi un effetto raro, in confronto alla frequenza di questo stesso effetto associata all’assunzione di altre sostanze, soprattutto l’alcol.I funghi allucinogeni – i cui effetti erano già noti centinaia di anni fa alle popolazioni indigene dell’America centrale e del Messico – appartengono alla classe degli psichedelici, sostanze in grado di alterare temporaneamente la coscienza, i pensieri, l’umore e, attraverso particolari distorsioni sensoriali, anche le percezioni di chi le assume. Contengono una molecola, la psilocibina, che ha un meccanismo d’azione molto simile a quello dell’Lsd (l’altra sostanza psichedelica più famosa), ma meno duraturo e più gestibile: caratteristica che negli ultimi anni ha notevolmente incentivato la ricerca sui funghi per scopi terapeutici.– Leggi anche: Il ritorno degli psichedeliciNegli ultimi anni un numero crescente di studi clinici ha esplorato il potenziale delle sostanze psichedeliche e in particolare della psilocibina nella cura di diversi disturbi mentali, in particolare la depressione, riscontrando un’efficacia molto significativa, se confrontata con quella di altri approcci farmacologici. Gli stessi studi, descrivendo una certa variabilità degli effetti degli psichedelici a seconda dei pazienti che le assumono, ribadiscono quanto sia rilevante per l’efficacia delle cure che le sostanze siano assunte all’interno di un percorso psicoterapeutico.Gli effetti noti della psilocibina, come di altre sostanze psichedeliche, dipendono da molti fattori: la dose, l’età di chi la assume, l’umore, se si è mangiato o meno, la personalità e l’eventuale storia di dipendenze. E un altro fattore rilevante è il contesto e l’ambiente circostante, a volte definiti setting. Possibili effetti collaterali fisici a breve termine, come nausea, mal di testa, mal di stomaco e battito cardiaco accelerato, sono di solito lievi, e molte persone comunque non li segnalano.Riguardo ai comportamenti pericolosi e folli spesso associati nell’opinione pubblica all’assunzione di funghi allucinogeni diverse ricerche recenti suggeriscono che l’aneddotica e la disinformazione abbiano contribuito per lungo tempo a sovrastimare notevolmente questo rischio specifico. Nella ricerca sugli psichedelici è ampiamente nota l’influenza delle aspettative, delle storie cliniche e delle esperienze personali passate di chi assume queste sostanze sugli effetti dell’assunzione e anche sul rischio di comportamenti potenzialmente pericolosi. Come è noto che, proprio in considerazione dei rischi, persone molto giovani non dovrebbero assumere queste sostanze.Sebbene le segnalazioni di comportamenti autolesivi dopo l’assunzione di psilocibina siano molto rare, il fatto che siano ampiamente riportate dai media contribuisce notevolmente alla percezione pubblica dei rischi di questi comportamenti. Ma le morti che coinvolgono i funghi allucinogeni non sono una situazione clinica comune nella medicina forense quotidiana. E in ambito clinico la psilocibina ha una reputazione di sostanza generalmente sicura, molto meno dannosa – sia per chi ne fa uso che per la società – rispetto all’alcol e a quasi tutte le altre sostanze oggetto di studi. Il National Institute on Drug Abuse, l’istituto che si occupa di droghe e dipendenze negli Stati Uniti (dove la psilocibina è legale in alcuni stati), segnala comunque la necessità di ulteriori ricerche per comprendere meglio l’impatto degli psichedelici sulla guida e sull’esecuzione di attività che potrebbero essere compromesse: impatto peraltro noto e considerato nel caso dell’alcol e di molte altre sostanze legali, in Italia e in altri paesi del mondo.– Leggi anche: Il problema di capire chi sta guidando “da fatto”Un citato studio comparativo sui danni da sostanze, pubblicato sulla rivista Lancet nel 2010 e condotto dal ricercatore inglese in neuropsicofarmacologia David Nutt e da altri ricercatori dell’Imperial College di Londra, colloca le sostanze psichedeliche tra quelle con i punteggi più bassi in termini di dannosità per l’individuo e per la società, soprattutto la psilocibina. Gli stessi risultati sono emersi anche da altri studi pubblicati negli ultimi 15 anni su Lancet e sulla rivista Journal of Psychopharmacology, e condotti su gruppi di persone nei Paesi Bassi, in Europa e in Australia.In un sondaggio online per uno studio condotto nel 2016 da un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine, a Baltimora, sulle esperienze impegnative e difficili dopo l’assunzione di funghi allucinogeni (comunemente definite bad trip), l’11 per cento della popolazione intervistata ha riferito di essersi esposto o aver esposto altre persone a un rischio di danno fisico. Questi casi erano correlati perlopiù a dosi molto alte e all’assenza di un ambiente confortevole sul piano fisico e sociale (tutti aspetti che possono essere controllati in condizioni cliniche).Anche la definizione di esperienza negativa dopo l’assunzione di funghi, considerata una reazione avversa possibile ma facilmente limitabile in ambito clinico, è controversa e spesso molto romanzata. In termini generali il bad trip indica un disagio più o meno intenso durante l’azione della sostanza, e può implicare sentimenti di paura, ansia e paranoia. Per questa ragione, nell’ambito degli usi terapeutici degli psichedelici, quindi rivolti a persone che soffrono di particolari disturbi, è importante che l’esperienza sia preparata, seguita e supervisionata. Generalmente la più completa e comune misura di riduzione di questo rischio in ambito clinico è l’esclusione di soggetti con storia personale o familiare di disturbi psicotici o altri disturbi psichiatrici gravi.Un’altra idea molto radicata ma inesatta, influenzata in parte dalle rappresentazioni in film e libri e in parte da una scarsa familiarità con concetti e fenomeni della psichiatria, è che l’assunzione dei funghi allucinogeni induca a vedere cose che non ci sono. Le allucinazioni causate dall’assunzione di funghi, cioè le percezioni di immagini e suoni che non esistono nella realtà, sono molto rare e comunque associate a dosi molto elevate. Più che vedere cose che non ci sono, durante un trip in cui si è assunta una dose considerevole di psichedelici si tendono a vedere distorsioni di quello che invece c’è.La stessa parola “allucinogeni” infatti è scientificamente imprecisa e poco utilizzata in ambito accademico: perché include classi diversissime di sostanze, tra cui gli psichedelici propriamente detti (Lsd e psilocibina, appunto, ma anche mescalina e Dmt) e sostanze dissociative come ketamina e Pcp (la cosiddetta “polvere d’angelo”). Gli effetti dissociativi si chiamano così perché le sostanze che hanno questi effetti possono indurre la sensazione di uno scollegamento tra sé e l’ambiente fisico circostante. È una fase nota e ampiamente descritta nella letteratura scientifica sull’esperienza del trip psichedelico.– Leggi anche: Le droghe, in sostanzaGli studi neurobiologici sugli effetti dissociativi li attribuiscono alla temporanea disattivazione di cellule nervose in alcune aree cerebrali specifiche, il cui compito in condizioni normali è di filtrare la grande quantità di stimoli che raggiunge il cervello. In assenza della normale elaborazione di quegli stimoli visivi, uditivi, olfattivi e sensoriali, il cervello riceve molte più sollecitazioni, e questo può determinare un cambiamento più o meno marcato nell’elaborazione delle informazioni portando ad alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo.Le allucinazioni, in alcuni studi descritte come una sorta di «eccessiva interpretazione» delle informazioni visive, sono rare e segnalate in caso di dosi molto elevate. E definirle come la visione di cose che non esistono è una semplificazione. Come scritto dal neuroscienziato inglese Daniel Glaser, «qualunque cosa possa dirti un hippy fatto su un prato alle 3 del mattino, l’allucinazione non è un modo completamente diverso di vedere: è soltanto un diverso equilibrio tra ciò che stai immaginando e ciò che ti passa davanti agli occhi».Anche in assenza degli effetti di sostanze ciò che vediamo è sempre determinato da aspettative e pregiudizi, da ciò che abbiamo visto in passato e da ciò a cui stiamo pensando in quel momento. Vediamo continuamente forme che ricordano oggetti che non esistono realmente, secondo Glaser, ma di solito osserviamo quelle forme con maggiore attenzione quando non siamo sotto l’effetto di sostanze: «gli allucinogeni possono mettere in pausa questo meccanismo interiore di verifica dei fatti, e indurci a proiettare i nostri ricordi e le nostre riflessioni nel mondo reale».***Dove chiedere aiutoSe sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22. LEGGI TUTTO