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    Come si comporta il cervello nei momenti da ricordare

    Diverse ricerche di neuroscienze pubblicate negli ultimi decenni hanno permesso di scoprire che la conversione delle esperienze quotidiane in ricordi permanenti avviene per una sua parte significativa quando dormiamo. Il sonno agisce sul cervello come una specie di pulizia della memoria, utile a stabilire quali pensieri trattenere e quali scartare. Se una selezione del genere non fosse normale, in una certa misura, ricorderemmo qualsiasi cosa: come il protagonista del racconto Funes el memorioso, dello scrittore argentino Jorge Luis Borges.Un importante studio pubblicato a marzo sulla rivista Science e seguito da altri studi sullo stesso argomento ha descritto un processo neurofisiologico osservato nei topi, che potrebbe spiegare come il cervello dei mammiferi riconosce, tra le molte attività quotidiane, quelle che diventeranno ricordi a lungo termine. Le “contrassegna” con improvvise e potenti onde cerebrali ad alta frequenza, che vengono poi attivate in momenti successivi di riposo e durante il sonno. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca della New York University, guidato dall’influente neuroscienziato ungherese György Buzsáki, che si occupa da oltre trent’anni di studi sull’ippocampo, una delle aree del cervello responsabili della memoria.
    Le onde cerebrali sono oscillazioni di vario tipo prodotte dall’attività elettrica del tessuto nervoso nel sistema nervoso centrale, di solito rappresentate attraverso tracciati ottenuti tramite l’elettroencefalogramma poligrafico, che possono anche essere convertite in suoni (e persino in composizioni). Il tipo particolare di attività cerebrale studiato da Buzsáki e da altri è detto «increspature delle onde acute» (sharp wave ripples, SWR), secondo una definizione data alla fine degli anni Settanta dal neuroscienziato inglese e premio Nobel John O’Keefe, che le aveva osservate mentre studiava la memoria spaziale dei ratti.
    Le increspature delle onde acute sono generate dall’attivazione di molte migliaia di neuroni con una frequenza di pochi millisecondi: si verificano principalmente durante il sonno, ma anche in stato di veglia, quando il cervello riposa tra un’attività e un’altra. Che fossero coinvolte nel consolidamento e nella conservazione dei ricordi era noto da precedenti studi del gruppo di Buzsáki e di altri gruppi. Quello pubblicato a marzo su Science è però il primo studio a suggerire che queste specifiche oscillazioni siano coinvolte anche nel processo di selezione delle esperienze da fissare nella memoria a lungo termine.

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    Per condurre lo studio il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha impiantato degli elettrodi nell’ippocampo di un gruppo di topi in laboratorio, in modo da registrare le loro onde cerebrali mentre completavano una serie di percorsi in un labirinto, intervallati da pause indotte nella loro attività esplorativa (uno zuccherino diluito in una soluzione). Di ciascun individuo hanno registrato l’attività cerebrale di diverse centinaia di neuroni simultaneamente. Sebbene le increspature delle onde acute dell’ippocampo siano uno degli eventi cerebrali più simultanei in assoluto tra quelli osservati nel cervello dei mammiferi, i neuroni che le generano non si attivano tutti nello stesso momento ma in sequenza.
    Per provare a capire il funzionamento di queste particolari oscillazioni è utile immaginare «una melodia al pianoforte», ha detto a Quanta Magazine Daniel Bendor, un neuroscienziato della University College London non coinvolto nello studio del gruppo di Buzsáki. Una sequenza specifica di neuroni si attiva per registrare un’esperienza, più o meno come un pianista batte i tasti della tastiera in un certo ordine. Poi, durante il sonno, il cervello ripete quella sequenza ma più velocemente, centinaia o migliaia di volte. E le increspature delle onde acute si propagano dall’ippocampo, che è una specie di stazione di passaggio per i ricordi episodici di particolari esperienze, verso la corteccia, che è coinvolta nella memoria a lungo termine.

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    Il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha scoperto che ogni sequenza, cioè ogni ordine specifico di attivazione dei neuroni, «codificava» una particolare sezione del labirinto attraversata dai topi. E ha scoperto che i neuroni si attivavano poi secondo la stessa sequenza ma a velocità maggiore in momenti in cui i topi riposavano tra un’attività e un’altra, e mentre dormivano.
    I percorsi compiuti dai topi nel labirinto e subito seguiti da 5-20 increspature delle onde acute, durante la momentanea inattività indotta, erano quelli che venivano riprodotti di più anche durante il sonno, attraverso serie di 2-4mila increspature. Il giorno successivo i topi mostravano di ricordare di più le sezioni di labirinto associati alle increspature, mentre i percorsi seguiti da pochissime o nessuna increspatura – sia durante le pause momentanee che durante il sonno – non erano diventati ricordi duraturi.
    Il nuovo studio ha prima di tutto confermato un modello noto da tempo: gli esseri umani e gli altri mammiferi fanno esperienza dell’ambiente per alcuni istanti, poi si fermano, poi riprendono l’esplorazione, poi si fermano ancora, e così via. Dopo aver prestato attenzione a qualcosa, scrivono gli autori e le autrici dello studio, il cervello passa spesso a una modalità di provvisoria rivalutazione «inattiva», sia durante il giorno che nel sonno, in modo da rafforzare le connessioni tra le cellule coinvolte nel processo di memorizzazione.

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    Lo studio più recente di Buzsáki e dei suoi colleghi è il primo loro studio a mostrare increspature delle onde acute nella fase di esplorazione attiva, suggerendo l’ipotesi che siano parte di un meccanismo innato e inconscio di «etichettatura» delle esperienze con schemi neuronali che si attivano poi in un secondo momento. «Molte parti della nostra esperienza di veglia vengono ritagliate e legate insieme ad altre esperienze utilizzando questo schema nell’ippocampo», ha detto Buzsáki a Discover Magazine.
    È come se il cervello avesse due diverse modalità: una di acquisizione e una di archiviazione. Non è del tutto a riposo quando siamo inattivi, perché rielabora ciò che è stato «contrassegnato» durante l’attività. «Le increspature delle onde acute si verificano quando non siamo attenti, ma sono importanti quanto lo è la modalità attiva», ha detto Buzsáki. Ed è questa la ragione per cui le pause sono necessarie per il funzionamento del cervello e della memoria, come mostrano da tempo diversi studi, anche molto recenti, sugli effetti della privazione del sonno su vari processi neurofisiologici e sui comportamenti.
    Non è chiaro come né perché questo sistema si sia evoluto nei mammiferi, ha detto la ricercatrice Wannan Yang, coautrice dello studio, in un comunicato stampa diffuso dal centro ospedaliero universitario della New York University. «Future ricerche potrebbero tuttavia mostrare che dispositivi o terapie in grado di regolare le increspature delle onde acute possono migliorare la memoria o addirittura ridurre il ricordo di eventi traumatici», ha aggiunto Yang. Interrompere le increspature potrebbe diventare, per esempio, parte di un trattamento per condizioni come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in cui le persone ricordano determinate esperienze in modo troppo vivido.

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    Lo studio pubblicato a marzo su Science ha fornito informazioni rilevanti sugli schemi di attivazione neuronale attraverso cui il cervello, non soltanto durante il sonno ma anche durante le pause, rafforza il ricordo di determinate esperienze. Lascia tuttavia inevasa la domanda sul perché alcune esperienze siano conservate e altre no. A volte le esperienze che ricordiamo sembrano del tutto casuali o irrilevanti, e comunque diverse da ciò che selezioneremmo se potessimo scegliere, perché è come se il cervello stabilisse priorità diverse, ha detto a Quanta Magazine Loren Frank, neuroscienziato della University of California.
    Dal momento che le esperienze nuove e quelle di grande impatto emotivo tendono a essere ricordate meglio, secondo Frank è possibile che siano le oscillazioni interne dei livelli di determinati neuromodulatori e neurotrasmettitori, come la dopamina o l’adrenalina, a influenzare i neuroni responsabili della selezione delle esperienze da ricordare. LEGGI TUTTO

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    Il cervello cambia durante il ciclo mestruale

    Caricamento playerPer una parte delle donne i giorni vicini alle mestruazioni sono associati a sbalzi d’umore e maggiore emotività e irritabilità, per cui è piuttosto noto che ci siano relazioni tra gli ormoni che regolano il ciclo mestruale e il cervello. Sappiamo anche che il cervello è pieno di recettori che reagiscono agli ormoni, compresi quelli che non c’entrano nulla con ovulazioni e mestruazioni. Tuttavia le ricerche su cosa succeda nelle diverse fasi del ciclo a livello dei neuroni sono ancora molto carenti, e tra le altre cose non si sa come mai certe donne sperimentino notevoli variazioni di umore e altre no.
    Di recente però due diversi studi hanno ampliato le conoscenze in questo ambito grazie a una serie di risonanze magnetiche cerebrali praticate su più di 50 giovani donne in buona salute durante diversi momenti dei loro cicli mestruali. Entrambi dicono che alcune regioni del cervello si modificano significativamente durante le fasi del ciclo. Per il momento non sappiamo se a questi cambiamenti fisici corrispondano variazioni nelle funzioni del cervello, negli stati emotivi o eventualmente nelle capacità cognitive, ma sapere che cervelli adulti possono cambiare «in modo super veloce», per dirla come Julia Sacher, tra le neuroscienziate autrici di uno dei due studi, è già un notevole progresso.
    Il ciclo mestruale è la sequenza di fasi periodiche che avvengono fisiologicamente nell’apparato riproduttivo femminile in età fertile, cioè più o meno tra i 12 e i 50 anni, e coinvolgono principalmente l’utero e le ovaie. Ogni mese la mucosa interna dell’utero, l’organo che può ospitare eventuali gravidanze, si modifica per accogliere un ovulo proveniente dalle ovaie (ovulazione). Spesso colloquialmente si usa l’espressione “ciclo” per indicare le mestruazioni, cioè il momento in cui la mucosa dell’utero (endometrio), se non è iniziata una gravidanza, perde la sua parte più superficiale, che viene espulsa come sangue e tessuti attraverso la vagina.
    Convenzionalmente il ciclo inizia il primo giorno di mestruazioni. Le mestruazioni durano dai 2 agli 8 giorni nella maggior parte dei casi e avvengono in contemporanea con l’inizio della prima fase del ciclo, la fase follicolare. Complessivamente dura circa 13-14 giorni: è la fase in cui all’interno delle ovaie si sviluppano vari follicoli, cioè sacche di liquido contenenti un ovulo ciascuna. Nella successiva fase ovulatoria, un solo ovulo viene rilasciato e arriva all’utero, dove nell’arco di circa 12 ore può essere fecondato. Poi arriva la fase luteinica, in cui l’endometrio si inspessisce; se non c’è stata fecondazione dopo circa 14 giorni si sfalda facendo iniziare la mestruazione. La maggior parte delle donne sperimenta quasi 450 cicli mestruali nella vita.
    A ogni fase del ciclo corrispondono diversi livelli di differenti ormoni nel corpo. Nella fase follicolare aumentano i livelli di estrogeni fino a un picco; nella fase ovulatoria c’è una notevole diminuzione dei livelli di estrogeni e aumenta progressivamente quello di progesterone; il picco di progesterone avviene nella fase luteinica, che si conclude con la diminuzione dei livelli di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni regolano il funzionamento di ovaie e utero, ma possono influenzare anche il resto del corpo.

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    Per quanto riguarda il cervello, il primo studio che mostrò che in quello dei mammiferi succedeva qualcosa in risposta ai cambiamenti nei livelli di ormoni sessuali femminili risale al 1990.
    Un gruppo di ricerca del laboratorio di neuroendocrinologia della Rockefeller University di New York scoprì che nelle femmine di ratto i livelli di estrogeni hanno degli effetti sull’ippocampo, una parte del cervello che ha grande importanza cognitiva ed è fondamentale per la memoria. In particolare accertò che nell’ippocampo questi ormoni regolano la densità delle ramificazioni dei dendriti, i prolungamenti dei neuroni attraverso cui le cellule del cervello comunicano. Nell’ippocampo, che aumenta di volume negli adulti quando si è impegnati ad apprendere nuove abilità e conoscenze pratiche, ci sono numerosi recettori per gli ormoni sessuali.
    Studi successivi mostrarono poi che con la menopausa, cioè con la fine della fertilità femminile, la densità dei dendriti diminuisce in alcune parti del cervello, ma fino a poco tempo fa nessuno aveva osservato con costanza eventuali cambiamenti analoghi nel corso di uno stesso ciclo mestruale nelle medesime donne.
    I due recenti studi sui cambiamenti del cervello nel corso del ciclo lo hanno fatto. Sono indipendenti tra loro e sono stati divulgati lo scorso ottobre. Il primo è stato realizzato da un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le scienze cognitive e cerebrali umane e dell’Università di Lipsia, in Germania, di cui fa parte Sacher, ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Mental Health. Il secondo studio è stato fatto all’Università della California di Santa Barbara, negli Stati Uniti, ed è stato diffuso su bioRxiv in versione preprint, cioè prima di essere rivisto da ricercatori terzi e indipendenti (peer-review), pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo del gruppo di Lipsia.
    Allo studio tedesco hanno partecipato 27 donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con cicli mestruali regolari e senza patologie neurologiche o psichiatriche, che non si erano mai sottoposte a terapie ormonali, non avevano avuto gravidanze, aborti e non avevano allattato nell’anno precedente allo studio, e non usavano contraccettivi ormonali da almeno sei mesi. Dallo studio sono state escluse donne che mostravano sintomi umorali premestruali. A ognuna delle partecipanti sono sono stati fatti prelievi di sangue per monitorare i livelli ormonali in sei diversi momenti del ciclo mestruale; nelle stesse occasioni sono state sottoposte a risonanze magnetiche per analizzare l’ippocampo e il vicino lobo temporale mediale.
    In questo modo il gruppo di ricerca di Lipsia ha osservato che all’aumento dei livelli di estrogeni la parte esterna dell’ippocampo aumenta di volume e la materia grigia, costituita dai corpi dei neuroni e dai dendriti, si espande. Quando poi crescono i livelli di progesterone si espande la parte legata alla memoria.
    Lo studio realizzato in California, basato sulle risonanze effettuate su 30 donne di età media di circa 22 anni, ha osservato qualcosa di analogo oltre a modifiche nella sostanza bianca, che invece è costituita dagli assoni, i prolungamenti più lunghi dei neuroni. Gli autori di questo secondo studio hanno ipotizzato che i cambiamenti ormonali associati all’ovulazione possano favorire il trasporto di informazioni tra diverse parti del cervello.
    Per il momento comunque non si possono trarre conclusioni su eventuali effetti sulla memoria, sulle capacità cognitive o su altre funzioni del cervello.
    «In generale, il cervello femminile è ancora molto poco considerato negli studi delle neuroscienze cognitive», ha detto Sacher: «Anche se gli ormoni sessuali steroidei sono potenti modulatori dell’apprendimento e della memoria, meno dello 0,5 per cento della letteratura scientifica basata su tecniche di neuroimaging prende in considerazione le fasi ormonali come quelle del ciclo mestruale, l’influenza dei contraccettivi ormonali, della gravidanza e della menopausa. Siamo impegnati a rimediare a questo grosso buco della ricerca». Nell’ambito della fisiologia e della salute i corpi femminili sono stati studiati molto meno di quelli maschili: nuove scoperte in questo campo potrebbero aiutare a capire meglio i rischi e la resistenza a malattie come la depressione e l’Alzheimer quando riguardano le donne.

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    Cosa ci dice sulla morte la ricerca sulle “near death experience”

    La presenza di funzioni autonome vitali nelle persone in arresto cardiaco è da tempo oggetto di studi, oltre che di riflessioni bioetiche complesse, generalmente basati sui segni rilevabili dall’“esterno” durante il tempo che precede l’eventuale interruzione del supporto vitale. Altri studi, più limitati, si concentrano invece sull’esperienza personale del paziente e in particolare sulle cosiddette esperienze di pre-morte o ai confini della morte (near death experience, NDE): sensazioni di vario tipo riferite da alcune persone che sopravvivono a una condizione di morte clinica reversibile, tipicamente l’arresto cardiaco.Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista medica Resuscitation ha cercato di misurare l’attività cognitiva e il livello di coscienza in pazienti ospedalizzati in fase di arresto cardiaco sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP, la procedura nota come massaggio cardiaco). I parametri dei pazienti sono stati misurati da elettroencefalografia (EEG), l’esame che registra l’attività elettrica spontanea del cervello, e ossimetria cerebrale, che misura la saturazione di ossigeno nel cervello. I risultati dello studio, considerato abbastanza raro nel suo genere (e comunque molto limitato), hanno mostrato una parziale correlazione tra segni di attività cerebrale e presenza di esperienze di pre-morte riferite da alcuni pazienti.Gli autori e le autrici dello studio hanno concluso che la quantità di dati raccolti non permette né di escludere né di dimostrare la presenza di attività cognitiva in persone il cui cuore abbia smesso di battere per un certo periodo di tempo. Lo studio è considerato comunque significativo: sia perché i risultati ammettono che la coscienza possa esistere in casi critici in cui i suoi segni non sono clinicamente rilevati, sia perché cerca di occuparsi in modo rigoroso – pur tra diversi limiti metodologici e strumentali – di un argomento comunemente trattato con approcci metafisici o pseudoscientifici.– Leggi anche: La storia di Eben Alexander, smontataNella letteratura scientifica sulle esperienze di pre-morte (NDE) i resoconti delle persone che le riferiscono tendono ad avere caratteristiche simili. Le esperienze positive includono sensazioni di distacco dal corpo, levitazione, serenità e sicurezza, e quelle negative principalmente sensazioni di angoscia. Alcune persone raccontano di aver visto parenti morti, altre persone figure bianche luminose, e altre ancora di aver rivissuto momenti della loro vita.Gli approcci sperimentali all’argomento e gli studi longitudinali sono tuttavia molto limitati: sia in termini di strumenti a disposizione per indagare il fenomeno (una cui dimensione soggettiva fondamentale rimane non misurabile), sia in termini di quantità di studi e ampiezza dei campioni analizzati. Alla guida del gruppo che ha pubblicato il recente articolo su Resuscitation c’era lo stesso ricercatore che condusse un altro studio simile nel 2013, già considerato tra i massimi esperti al mondo in materia: Sam Parnia, direttore di ricerca in rianimazione cardiopolmonare alla New York University School of Medicine e direttore del The Human Consciousness Project alla University of Southampton nel Regno Unito.Nel 2019 un gruppo internazionale di specialisti di terapia intensiva (tra cui Parnia), anestesisti, psichiatri, neurologi e neurofisiologi si riunì a New York per discutere delle prospettive future della ricerca sulle esperienze di pre-morte. Tra le proposte emerse durante l’incontro, le cui conclusioni furono poi pubblicate nel 2022 in un documento su Annals of the New York Academy of Sciences, ci fu quella di cambiare il nome delle esperienze pre-morte da near death experience (NDE) in recalled experiences of death (RED), qualcosa come “esperienze di morte rievocate”. Secondo il gruppo questa nomenclatura renderebbe più chiaro che il campo di studi è limitato alle esperienze che si verificano quando una persona è in condizioni critiche, quando il cervello non riceve più sangue né ossigeno.La domanda alla base della ricerca sulle NDE, spiegò Parnia alla rivista Nautilus nel 2022, è: «Cosa succede alla coscienza quando muori: muore a sua volta, o continua?». Parnia sostiene che, sulla base dei dati raccolti da lui e dai suoi colleghi e colleghe, l’attività cerebrale e un certo grado di coscienza possano ancora esistere anche quando altri parametri solitamente monitorati in fase di rianimazione cardiopolmonare (RCP) indicano che il paziente è clinicamente morto.– Leggi anche: Quand’è che una persona morta è davvero mortaIn situazioni normali il quadro delle condizioni del paziente è determinato dagli strumenti di monitoraggio della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di saturazione dell’ossigeno, che restano attivi fino a quando non viene accertata la cessazione irreversibile delle funzioni autonome vitali, condizione necessaria per interrompere la rianimazione. Ai 567 pazienti coinvolti nello studio prospettico più recente – ricoverati tra il 2017 e il 2020 in 25 ospedali, perlopiù negli Stati Uniti e in Regno Unito – sono stati applicati anche gli elettrodi per l’EEG in tempo reale e l’ossimetria cerebrale continua.Per poter verificare in caso di successo della rianimazione anche le eventuali percezioni consce o inconsce durante l’emergenza, ai pazienti sono stati applicati degli auricolari Bluetooth, senza interferire con l’intervento dei medici. È stato quindi utilizzato un tablet per mostrare una serie di immagini casuali e per trasmettere tramite gli auricolari una registrazione di tre parole ripetute: “mela”, “pera”, “banana”. Nella ricerca sull’apprendimento implicito diversi studi citati da Parnia indicano che le persone che non ricordano di aver ascoltato questi nomi di frutti – anche persone in coma profondo – e a cui sia chiesto di pensare casualmente a tre frutti possono comunque dare la risposta corretta.Soltanto 53 persone su 567 sono sopravvissute alla rianimazione, e 28 hanno risposto alle successive interviste: 11 hanno riferito percezioni o ricordi della rianimazione, e 6 di queste persone hanno descritto esperienze tipiche di pre-morte (NDE). La ridotta percentuale di sopravvivenza del campione, secondo gli autori e le autrici, ha condizionato in particolare la parte dello studio relativa alla verifica delle percezioni: su 28 pazienti intervistati nessuno ha riconosciuto le immagini proiettate sul tablet e soltanto uno ha riconosciuto lo stimolo sonoro (troppo poco per poter escludere che fosse casuale, secondo Parnia).Secondo il gruppo di ricerca la parte più significativa dei risultati dello studio riguarda l’attività cerebrale. La maggior parte delle 53 persone sopravvissute ha mostrato un EEG “piatto” durante la rianimazione, oltre che una limitata saturazione di ossigeno nel cervello (43 per cento il valore medio). Circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha però dato per brevi istanti segni di attività elettrica spontanea: onde cerebrali normali o quasi normali (Delta, Theta e Alfa), teoricamente compatibili con un qualche livello di coscienza. Inoltre i segni di attività rilevati tramite EEG emergevano in alcuni casi molto tempo dopo l’inizio della rianimazione cardiopolmonare: fino a un’ora dopo.Per ampliare il campione di 28 persone intervistate nel nuovo studio sono state coinvolte altre 126 persone che avevano subìto in passato arresti cardiaci. Quasi il 40 per cento del campione complessivo ha riportato una certa consapevolezza percepita dell’evento, ma senza ricordi specifici: «Ho sentito come se qualcuno mi stesse spingendo forte sul petto, cercavo di spingerli via ma mi sentivo le mani legate», ha detto una persona. Il 20 per cento delle persone ha raccontato esperienze di pre-morte. «Non ero più nel mio corpo. Galleggiavo senza peso. Ero sopra il mio corpo, direttamente sotto il soffitto della sala di terapia intensiva», ha detto una di loro. «Ricordo di essere entrato in un tunnel. Le sensazioni erano molto più intense del solito, la prima è stata di pace intesa», ha detto un’altra.La conclusione tratta dal gruppo di ricerca è che, sulla base dei risultati dell’EEG e compatibilmente con alcuni racconti dei pazienti, alcune persone sottoposte a rianimazione cardiopolmonare potrebbero essere coscienti durante la rianimazione anche in assenza di segni esterni visibili di coscienza.– Leggi anche: Perché sveniamo è un misteroUn’ipotesi di spiegazione delle esperienze di pre-morte proposta dal gruppo guidato da Parnia è che in condizioni normali il cervello disponga di un sistema che filtra la maggior parte degli elementi coinvolti nelle funzioni cerebrali, tenendoli fuori dalla nostra esperienza cosciente. Questo permette alle persone di funzionare normalmente nella quotidianità, dato che in circostanze normali «non potremmo funzionare con un accesso all’intera attività del nostro cervello nella sfera della coscienza», ha detto Parnia alla rivista Scientific American.In caso di morte imminente è invece possibile che nel cervello questo sistema di filtraggio venga rimosso, con il risultato che parti solitamente non attive diventino attive permettendo alla persona morente di avere accesso all’intera coscienza: «Tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato prima», ha detto Parnia. Sebbene il beneficio evolutivo di questo ipotetico meccanismo non sia chiaro, questo tipo di esperienze potrebbe «preparare le persone alla transizione dalla vita alla morte».Indipendentemente dall’ipotesi di spiegazione delle NDE, lo studio pubblicato su Resuscitation pone una serie di domande riguardo alle conoscenze sulla resistenza del cervello a fronte della prolungata privazione di ossigeno. «L’idea tradizionale è che il cervello muoia, una volta privato di ossigeno per 5-10 minuti», ha detto Parnia, aggiungendo che i risultati dello studio suggeriscono una capacità di resistenza a periodi più lunghi, «il che apre nuove strade per trovare trattamenti per i danni cerebrali in futuro».Lakhmir Chawla, un medico dell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Jennifer Moreno di San Diego, in California, e autore di studi sull’attività cerebrale in pazienti morenti sottoposti a EEG, ha detto a Scientific American che i dati raccolti dal gruppo di ricerca guidato da Parnia forniscono alcune importanti indicazioni. Per prima cosa suggeriscono che sarebbe opportuno «trattare le persone che stanno ricevendo la rianimazione cardiopolmonare come se fossero sveglie» (cosa che «raramente facciamo», ha aggiunto). I medici potrebbero inoltre considerare, per quei pazienti che considerano non più salvabili, di permettere ai loro familiari di salutarli, visto che «i pazienti potrebbero ancora essere in grado di sentirli». LEGGI TUTTO

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    Il verme estratto vivo dal cervello di una paziente in Australia

    Caricamento playerNel cervello di una donna ricoverata in Australia per alcuni problemi di salute è stato trovato un verme vivo lungo circa 8 centimetri, che era cresciuto nel suo organismo nel corso di diversi mesi. Il caso, il primo di questo genere a essere registrato, è stato di recente esposto in uno studio scritto dai medici che avevano curato la paziente e pubblicato su Emerging Infectius Diseases, una rivista scientifica pubblicata dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie degli Stati Uniti. Parassitosi di questo tipo sono estremamente rare, ma secondo gli autori potrebbero passare spesso inosservate complicando il loro tracciamento.– Leggi anche: L’ameba mangia-cervello, parliamoneTutto era iniziato nel gennaio del 2021 in un ospedale del New South Wales, uno stato dell’Australia, quando una donna di 64 anni era stata ricoverata a causa di persistenti dolori addominali ed episodi di diarrea che proseguivano ormai da tre settimane. La paziente aveva inoltre riferito di avere spesso la tosse e di faticare a dormire, con frequenti sudori notturni.Dopo avere effettuato alcuni esami, i medici avevano diagnosticato una probabile infezione polmonare la cui causa era ignota. La terapia per trattarla aveva iniziato a dare qualche risultato positivo, ma dopo alcune settimane la paziente era stata nuovamente ricoverata con febbre e tosse. Non trovando spiegazioni convincenti per i sintomi, i medici si erano orientati verso una possibile malattia autoimmune, prescrivendo farmaci per ridurre l’attività immunitaria e provare a vedere se in questo modo ci fossero miglioramenti nelle condizioni della loro paziente.Nei primi mesi del 2022, la paziente aveva iniziato ad avere difficoltà a ricordare le cose e aveva iniziato a sviluppare una forma di depressione. I medici erano allora intervenuti effettuando una risonanza magnetica all’encefalo, notando una sospetta lesione tale da rendere necessarie una biopsia per fare qualche approfondimento diagnostico. Nel giugno dello scorso anno la paziente era stata quindi sottoposta a un intervento chirurgico alla testa per ispezionare la lesione. Spostando alcuni dei tessuti cerebrali che apparivano danneggiati, la neurochirurga che stava facendo l’operazione aveva notato una strana struttura cilindrica simile a un filamento, un corpo estraneo che aveva deciso di asportare. Con sua grande sorpresa e tra lo stupore delle altre persone in sala operatoria, dopo pochi istanti si era accorta di avere iniziato l’estrazione di un verme cilindrico (o per meglio dire un nematode) vivo, lungo circa 8 centimetri e con un diametro intorno al millimetro.(Canberra Health Services via AP)Analisi successive avevano permesso di stabilire che il parassita era un esemplare di Ophidascaris robertsi, un nematode che conduce buona parte del proprio ciclo vitale all’interno dei pitoni tappeto (Morelia spilota), serpenti molto comuni in Australia e che devono il loro nome ai motivi che hanno sulla pelle simili a quelli dei tappeti orientali.Quando uno di questi nematodi diventa il parassita di un pitone tappeto, produce uova che vengono poi rilasciate nell’ambiente insieme alle feci del serpente. Le uova vengono poi accidentalmente ingerite da alcuni mammiferi, magari mentre brucano l’erba, ed è nel loro organismo che le uova si schiudono e portano alla formazione degli stadi iniziali del parassita. Se un pitone si nutre di uno dei mammiferi infetti, riceve il nematode e il ciclo torna a ripetersi. In questo modo il parassita ha la possibilità di continuare a riprodursi e diffondersi.Non è chiaro come la paziente sia entrata in contatto con Ophidascaris robertsi, ma i medici hanno una buona ipotesi sulla base delle abitudini della 64enne e alcune ricerche svolte nell’area in cui vive. Vicino alla sua casa c’è un lago intorno al quale vivono alcuni esemplari di pitoni tappeto, con i quali non aveva comunque mai avuto contatti diretti. La paziente frequentava la zona per raccogliere alcune varietà di spinaci selvatici che utilizzava poi per la preparazione dei piatti. È probabile che alcune foglie avessero tracce delle feci di un pitone tappeto contenenti le uova del parassita, che la paziente le avesse portate in casa e consumate senza lavarle a sufficienza, contaminando altri alimenti sullo stesso tagliere o senza lavarsi accuratamente le mani dopo averle maneggiate.Nella maggior parte dei casi un lavaggio poco accurato non implica che necessariamente ci si ritrovi con un parassita, ma qualche rischio c’è e di solito è sufficiente qualche accorgimento come lavarsi le mani e non usare le stesse stoviglie per alimenti diversi per ridurre i rischi. Non si può inoltre escludere che al momento della contaminazione la paziente avesse qualche problema al sistema immunitario, che non si era quindi attivato al meglio per eliminare il parassita. Esistono comunque moltissimi parassiti e alcuni sono più abili di altri nel passare inosservati eludendo le difese del sistema immunitario.Nel loro studio, i medici australiani hanno spiegato di non essere riusciti a diagnosticare prima il problema della loro paziente perché le larve del parassita sono molto piccole, difficili da identificare soprattutto se i sintomi sembrano indicare altre cause del malessere. È probabile che alcuni dei disturbi segnalati inizialmente dalla paziente fossero dovuti allo spostamento delle larve dal tratto intestinale ad altri organi, compresi i polmoni le cui condizioni avevano spinto i medici a sospettare inizialmente un’infezione polmonare. Non si sa esattamente come abbia fatto il verme a finire nella scatola cranica della donna.Il gruppo di ricerca ha spiegato che a sei mesi circa dalla rimozione del nematode i problemi neurologici segnalati dalla paziente erano ancora presenti, seppure migliorati rispetto al periodo precedente. Le condizioni di salute della paziente sono tenute sotto controllo ancora oggi a circa un anno di distanza dall’intervento chirurgico, anche perché la ripresa nel caso di danni neurologici può richiedere molto tempo. Un farmaco somministrato dopo la scoperta del nematode dovrebbe aver soppresso altre eventuali larve nell’organismo della paziente. LEGGI TUTTO

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    Non riuscire a capire i colori

    Una ciliegia rossa. Per la maggior parte delle persone sono sufficienti poche parole per immaginare un frutto con una particolare forma e soprattutto con un colore specifico, quello che del resto associamo nel nostro immaginario alle ciliegie mature al punto giusto. Eppure ci sono persone che a causa dei loro problemi di visione non sanno che cosa sia il rosso, o qualsiasi altro colore. Hanno una rara condizione che si chiama “agnosia per il colore” e non riguarda problemi di percezione o il daltonismo, ma è piuttosto una incapacità di capire il colore.Studiare queste persone è importante non solo per provare ad alleviare i loro problemi, ma anche per capire meglio come funziona il nostro cervello, come distingue i colori e come organizza le informazioni che derivano dalla loro presenza per dare un senso a ciò che abbiamo intorno.L’agnosia per il colore è nota da tempo, ma ha ricevuto particolari attenzioni negli ultimi vent’anni soprattutto grazie a un paziente chiamato MAH dai ricercatori per tutelarne la privacy. È una delle pochissime persone che a quanto pare ha ereditato questo condizione, invece di svilupparla in seguito a un evento traumatico come un ictus. Solitamente sono infatti episodi di questo tipo a danneggiare le aree del cervello deputate alla visione, che smettono di funzionare come dovrebbero, mentre è estremamente raro che l’agnosia per il colore sia trasmessa per linea familiare.La storia di MAH è particolare. Aveva una quarantina di anni quando ebbe un ictus, che non gli lasciò particolari conseguenze. Aderì a un programma di riabilitazione e fu in quell’occasione che i neurologi che lo seguivano notarono qualcosa di strano quando si trattava di sottoporlo ai test che riguardavano i colori. Era restio a svolgere prove sul riconoscimento di un colore dall’altro e si sbagliava spesso. Inizialmente i medici avevano pensato che quelle stranezze fossero dovute all’ictus: MAH però aveva poi confidato di avere da sempre problemi con i colori.MAH riusciva a vederli normalmente tutti, non era daltonico quindi, e riusciva a svolgere vari test, come quelli in cui si devono raggruppare oggetti dello stesso colore. Se però gli veniva chiesto di ordinare in una certa sequenza degli oggetti colorati, non riusciva a superare il test. Non era in grado di associare il concetto di rosso a un oggetto rosso e nemmeno di immaginare il colore di oggetti a lui familiari, come quello della sua automobile. Se gli veniva mostrato il disegno di un frutto di un colore diverso da quello che avrebbe dovuto avere non notava nulla di strano.Gli esiti dei test avevano lasciato perplessi i medici: la spiegazione più logica era che MAH avesse subìto un danno cerebrale, ma dagli esami non erano emersi elementi per ritenerlo. Lo stesso MAH, oltre a confermare di avere avuto sempre quella condizione, aveva spiegato che anche sua madre soffriva di agnosia per il colore, e così anche la sua figlia più grande. Era il primo caso osservato di agnosia per il colore di tipo familiare, o “dello sviluppo” come sarebbe stata in seguito definita dai gruppi di ricerca.Come racconta all’Atlantic, il neuroscienziato J. Peter Burbach ha trascorso gli ultimi anni alla ricerca di altre persone con la medesima condizione, cercando di distinguerle da quelle che hanno invece sviluppato l’agnosia per il colore in seguito a un evento traumatico. Burbach dice che finora è stato «un compito pressoché impossibile». È impensabile che la famiglia di MAH sia l’unica, ma trovare altre persone non è semplice perché chi è nato con quella condizione vive una normalità diversa e non è detto che ne abbia consapevolezza. Anche per questo motivo è difficile fare una diagnosi, che avviene solo nel caso in cui un medico insista mentre sta conducendo la visita per altri problemi neurologici più evidenti.L’agnosia per il colore non deve essere confusa con l’acromatopsia cerebrale, altra condizione che porta chi ne soffre a vedere il mondo sostanzialmente in tonalità di grigio a causa dell’incapacità del cervello di elaborare correttamente i colori. Non dipende insomma da parti del sistema visivo come occhi e nervo ottico, che inviano correttamente i segnali sulla presenza del colore al cervello.Le condizioni neurologiche intorno ai colori sono del resto numerose e non sempre semplici da distinguere e diagnosticare. Un altro tipo di disturbo impedisce per esempio alle persone di dare un nome al colore che vedono, ma non gli impedisce di indicarne uno richiesto tra una serie di opzioni disponibili.Marlene Behrmann, una ricercatrice che si occupa di visione all’Università di Pittsburgh (Stati Uniti) ha detto sempre all’Atlantic che le persone con agnosia per il colore riescono a percepire il rosso o il verde, per esempio, ma «hanno in un certo senso perso il concetto stesso di colore». Non riescono a costruire e mantenere nella loro mente l’idea di un determinato colore e per questo non trovano particolarmente strano il disegno di una ciliegia viola.Trovare altre persone con una forma di agnosia per il colore come quella di MAH potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a portare avanti le conoscenze sulla visione in generale, un meccanismo altamente complesso. Il confronto tra queste persone e il resto della popolazione vedente potrebbe inoltre offrire spunti importanti per comprendere in generale come vediamo e interpretiamo le cose che abbiamo intorno.Un maggior numero di persone con la forma di agnosia per il colore che ha MAH consentirebbe inoltre di effettuare studi genetici alla ricerca delle mutazioni che lo determinano. Il gene o i geni interessati potrebbero influenzare altri meccanismi legati allo sviluppo cerebrale, tali da offrire nuove opportunità di studio. La ricerca non è semplice, ma i ricercatori confidano che facendo conoscere più diffusamente questa condizione alcune persone interessate si sentano incentivate a mettersi in contatto con loro. LEGGI TUTTO

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    Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

    Quando si visita una città per la prima volta, percorrendone le strade a piedi, è abbastanza normale aiutarsi consultando una mappa sul proprio smartphone o seguendo cartelli e altre indicazioni. E imboccare una via anziché un’altra, in casi del genere, è solitamente un’azione guidata da un pensiero cosciente. La maggior parte delle azioni di tutti i giorni non sono di questo tipo: lavarsi i denti, preparare la moka o raggiungere l’ufficio sono azioni prese in carico da una specie di pilota automatico. Sono involontarie, in un certo senso: il risultato di decisioni prese per abitudine e senza che ne siamo coscienti.Le decisioni di questo secondo tipo coinvolgono principalmente quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria implicita (o procedurale), un insieme di processi della memoria a lungo termine che utilizza le nostre esperienze passate per permettere l’esecuzione di movimenti e operazioni senza che ce ne rendiamo conto, come andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale o usare una tastiera senza dover osservare i tasti. Sono decisioni che si distinguono da quelle coscienti anche sul piano neuro-anatomico: coinvolgono cioè aree del cervello specifiche, diverse rispetto a quelle più coinvolte quando invece cerchiamo, per esempio, di mimare il titolo di un film o risolvere un cruciverba.Comprendere come funziona la memoria quando svolgiamo determinate azioni per abitudine, senza farci caso, è utile a capire cosa succede nei casi patologici in cui particolari traumi o malattie compromettono quei processi. Ma è utile in generale a capire come fa il cervello a gestire ogni giorno migliaia di decisioni inconsce, normalmente, e come e perché azioni che inizialmente richiedono un certo grado di coscienza possono diventare azioni del tutto automatiche e portare ad abitudini molto difficili da cambiare.– Leggi anche: Quelli che vedono i suoniLa memoria implicita è uno dei due tipi principali di memoria a lungo termine: l’altra, quella esplicita (o dichiarativa), serve a richiamare ricordi coscienti di fatti del passato, o anche la data di un compleanno o l’orario di un appuntamento. Quella implicita è invece inconscia e non richiede sforzi, ma dura comunque a lungo: giorni, anni o decenni, a seconda dei casi. Un modo abituale di distinguere i due diversi tipi di memoria a lungo termine, come suggerito dall’esperta psichiatra statunitense Sara Jo Nixon, è ricordarsi che quella esplicita serve a «sapere cosa» e quella implicita a «sapere come».Attraverso la memoria implicita costruiamo ricordi che, una volta formati, è difficile rimuovere – dimenticare come si va in bicicletta, appunto – ed è molto facile richiamare: avviene di fatto, a livello inconscio, ogni volta che eseguiamo determinate azioni in modo automatico. Quando impariamo ad andare in bicicletta acquisiamo varie capacità motorie e di coordinazione necessarie per mantenere l’equilibrio, pedalare, sterzare e controllare l’andatura, tutto nello stesso momento. E succede più o meno la stessa cosa anche quando impariamo a guidare: sono tutte abilità che vengono memorizzate nella memoria implicita, in modo da non dover impiegare ogni volta che le mettiamo in pratica tutte le risorse mentali e la concentrazione richieste la prima volta.In un certo senso, come ha scritto la ricercatrice australiana Gina Cleo sul sito The Conversation, le abitudini e le azioni automatiche permettono di svolgere centinaia di attività mentre il cervello elabora tutte le altre informazioni che riceve ogni secondo. Ciascuno dei due diversi sistemi – quello dell’attività consapevole e quello delle decisioni inconsce – coinvolge inoltre aree diverse del cervello, sebbene nessun tipo di memoria sia del tutto autonomo ed esistano molte interdipendenze funzionali tra le varie parti del cervello.Sulla base di diversi studi di neurofisiologia e neuropsicologia si ipotizza che la parte più coinvolta nelle attività di organizzazione e pianificazione dei comportamenti e delle azioni volontarie sia la corteccia prefrontale. È la parte anteriore del lobo frontale del cervello, ed è responsabile dei processi decisionali: quelli che implicano un’intenzione. Permette di formare nuove connessioni nel cervello quando acquisiamo nuove conoscenze o apprendiamo una nuova abilità, per esempio, e richiede un certo sforzo cognitivo e cosciente.– Leggi anche: Pat Martino diventò un grande chitarrista per due volteUn’area strettamente connessa alla corteccia prefrontale ma distinta è quella dei gangli della base, un insieme di centri nervosi alla base del cervello, legati al controllo dei movimenti, alle emozioni e alla formazione delle abitudini. Sono strutture evolutivamente primordiali, tra le prime a formarsi nel cervello umano, e poiché funzionano in modo riflessivo e automatico non richiedono uno sforzo cognitivo.Quando in un contesto che tende a ripetersi eseguiamo una certa azione più volte e per un periodo di tempo abbastanza lungo, un comportamento inizialmente guidato da un’intenzione può progressivamente diventare un’abitudine. In questo caso l’intenzione viene meno e un impulso a mettere in atto un certo comportamento emerge in automatico perché ci troviamo in un contesto che ha stimolato quel comportamento altre volte in passato. Questo funzionamento spiega peraltro perché quest’area del cervello – in cui si trovano grandi quantità di dopamina, il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – sia la stessa area responsabile, tra le altre cose, dei comportamenti legati alle dipendenze patologiche.Alterazioni patologiche nei gangli della base, causate da fattori non ancora chiari, sono state riscontrate in diverse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, in cui la ridotta produzione di dopamina provoca gradualmente gravi disfunzioni nella regolazione dei movimenti.In alcuni casi non patologici, in condizioni di particolare stress e in presenza di altri fattori come i cambiamenti nella routine quotidiana o la mancanza di sonno, può capitare che strutture primordiali del cervello come i gangli della base, responsabili dei comportamenti abitudinari, prendano il sopravvento sulle strutture superiori, responsabili delle attività coscienti. Si ipotizza che sia questa, per esempio, la spiegazione fisiologica delle tragiche dimenticanze che portano alcune persone a lasciare i bambini in macchina senza rendersene conto, esattamente come è possibile che accada con lo smartphone o le chiavi di casa.– Leggi anche: Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemiaIn circostanze normali, ha scritto Cleo, le abitudini sono invece «scorciatoie della mente» che ci permettono di destinare la nostra concentrazione e la nostra capacità di ragionamento ad altre attività e pensieri nella vita quotidiana. Se per varie ragioni le abitudini smettono di produrre benefici o portano a risultati ritenuti controproducenti, può essere utile o necessario interromperle: cosa solitamente molto difficile da fare.Secondo lo psicologo inglese Benjamin Gardner, docente alla University of Surrey nel Regno Unito e autore di decine di studi scientifici e libri sul comportamento abitudinario, non esiste un approccio ideale per eliminare un’abitudine (in parte diversa dalla dipendenza, che presenta più fattori biologici e neurologici interdipendenti). Molto dipende dal comportamento che si vuole interrompere e dall’individuo che ne ha necessità. Ma i tre modi principali sono: smettere direttamente di fare una certa cosa, evitare lo stimolo ambientale che attiva un certo comportamento, oppure associare a quello stimolo un nuovo comportamento altrettanto soddisfacente.Seguendo un esempio posto da Gardner, se volessimo interrompere la nostra abitudine di mangiare popcorn appena mettiamo piede in un cinema, avremmo sostanzialmente tre possibilità. Potremmo dire a noi stessi «niente popcorn» ogni volta che andiamo al cinema, e quindi non comprarlo. Oppure potremmo smettere del tutto di andare al cinema, evitando il fattore scatenante. O infine potremmo sostituire il popcorn con qualcos’altro da mangiare, che si adatti meglio al nostro budget o alle nostre esigenze nutrizionali. LEGGI TUTTO