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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Il settembre del 2023 è stato il più caldo mai registrato sulla Terra

    Il settembre del 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato secondo i dati del Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra. La temperatura media globale dell’aria è stata di 16,38 °C, che significa 0,93 °C in più della media per lo stesso mese tra il 1991 e il 2020, il trentennio di riferimento, e 0,5 °C in più rispetto al precedente massimo storico, registrato nel settembre del 2020. Più in generale tra gennaio e settembre le temperature globali sono state di 0,52 °C superiori alla media e di 0,05 °C in più rispetto allo stesso periodo più caldo mai registrato in un anno (il 2016).Secondo Samantha Burgess, vicedirettore del Copernicus Climate Change Service, le «temperature senza precedenti» di questi mesi fanno ipotizzare che con buona probabilità alla fine di dicembre il 2023 risulterà l’anno più caldo mai registrato.La temperatura media globale di settembre tra il 1940 e il 2023 (Climate Change Service di Copernicus)Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura. (AP Photo/Gregorio Borgia) LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico potrebbe aver reso più probabile l’alluvione in Libia

    Caricamento playerSecondo un primo studio scientifico, la possibilità che nel nord-est della Libia piovesse come nella notte tra il 10 e 11 settembre è stata resa 50 volte più probabile dal cambiamento climatico causato dalle attività umane. In altre parole, le alluvioni causate dalla tempesta Daniel sono legate al modo in cui l’umanità ha modificato l’atmosfera terrestre: è la conclusione di 13 scienziati della World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra ricercatori esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, nata per rispondere in modo rapido alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” quando si verifica un evento meteorologico estremo.Decenni di studi di climatologia dicono che una delle conseguenze del riscaldamento globale è l’aumento della frequenza di alcuni fenomeni, come precipitazioni particolarmente intense e siccità in diverse parti del pianeta. Ma solo confrontando i dati su un particolare evento con le statistiche del passato è possibile dire quali eventi meteorologici estremi abbiano davvero un legame con il cambiamento climatico. I risultati di questo primo studio vanno in questa direzione e sebbene ci siano ampie incertezze contestualizzano un po’ ciò che è successo rispetto al clima.Per la tempesta che ha interessato la Libia, e che prima aveva causato intense piogge anche su Grecia, Bulgaria e Turchia, gli scienziati della WWA hanno usato delle simulazioni: hanno confrontato la probabilità che un tale evento di precipitazione avvenga col clima attuale con quella che avrebbe avuto col clima di 200 anni fa, prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane riscaldassero l’atmosfera. Rispetto a quell’epoca la temperatura media globale è aumentata di 1,2 °C.Gli scienziati hanno condotto analisi diverse per la Libia da una parte e per la Grecia, la Bulgaria e la Turchia dall’altra, dato che si tratta di zone geografiche con caratteristiche diverse, per quanto affacciate sul mar Mediterraneo.Per la Libia la quantità di pioggia caduta tra il 10 e l’11 settembre è piuttosto straordinaria, «estremamente insolita» anche per il clima attuale, secondo lo studio: statisticamente ha una probabilità di verificarsi una volta ogni 3-6 secoli. In epoca pre-industriale tuttavia era ancora meno probabile. Le alluvioni generate hanno provocato la morte di più di 11mila persone secondo le stime della Mezzaluna Rossa (come si chiama la Croce Rossa nei paesi arabi), anche per via del cedimento di due vecchie dighe maltenute e in conseguenza del contesto politico instabile della Libia.Secondo lo studio della WWA, anche le precipitazioni come quelle che ci sono state in Grecia, Turchia e Bulgaria, e che complessivamente hanno causato la morte di almeno 28 persone, sono state rese più probabili dal cambiamento climatico: di 10 volte. Col clima attuale, per questi territori dobbiamo aspettarci che precipitazioni simili siano relativamente comuni: lo studio dice che c’è il 10 per cento di probabilità che accadano ogni anno.Lo studio ha dei limiti perché i modelli climatici di cui disponiamo sono molto efficaci nel descrivere eventi atmosferici su larga scala, meno quando si studiano territori circoscritti come quelli interessati dalle recenti alluvioni. Gli scienziati della WWA sono tuttavia piuttosto sicuri che il cambiamento climatico abbia avuto un’influenza su questi eventi, perché le proiezioni climatologiche per questa parte del Mediterraneo prevedono un aumento delle precipitazioni con l’aumento delle temperature, già rilevato nei dati degli ultimi anni.La World Weather Attribution (WWA) fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica possa rispondere il più velocemente possibile alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che giornalisti e altre persone di tutto il mondo si chiedono se un certo evento meteorologico abbia un legame con il riscaldamento globale.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati senza essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Tra gli enti che collaborano alla WWA ci sono l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Gli scienziati che collaborano agli studi dell’iniziativa lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    Lo sci e il cambiamento climatico

    Negli ultimi dieci anni un gruppo di scienziati francesi e austriaci ha cercato di capire quale sarà il futuro dello sci in Europa considerate le conseguenze del cambiamento climatico. Il gruppo ha stimato che senza la neve artificiale più della metà delle stazioni sciistiche europee si troverà in condizioni di scarsità di neve un anno su due a meno che non si applichino in tempi rapidi politiche di transizione energetica molto più decise di quelle di oggi. La previsione, spiegata in un articolo appena pubblicato sulla rivista Nature Climate Change, riguarda lo scenario in cui la temperatura media globale supererà di almeno 2 °C quella dell’epoca preindustriale, cioè prima che le emissioni di gas serra dovute alle attività umane causassero l’attuale riscaldamento del pianeta.L’accordo internazionale sul clima di Parigi del 2015 aveva fissato come obiettivo più ottimista 1,5 °C in più rispetto ai livelli preindustriali, e come obiettivo secondario 2 °C. La comunità scientifica ritiene ormai irrealistico il primo obiettivo, perché le politiche di transizione energetica introdotte finora non sono state abbastanza decise. Con quelle attuali, senza ulteriori cambiamenti, si prevede un aumento di 3 °C entro la fine del secolo.Lo studio sulle piste da sci europee è stato fatto innanzitutto perché il turismo invernale legato a questo sport è un importante settore economico per l’Europa: circa la metà delle stazioni sciistiche del mondo si trova nel continente e il 43 per cento delle giornate di sci che vengono praticate ogni anno avviene sulle Alpi.La possibilità di sciare però è legata al clima, prima di tutto perché la neve si conserva sulle piste solo al di sotto di certe temperature. In caso di assenza prolungata di precipitazioni – come quella che c’è stata con la siccità tra il 2021 e il 2023, peraltro legata al cambiamento climatico – la neve può essere assente. Si può rimpiazzarla con quella prodotta artificialmente, che però richiede molta acqua e particolari condizioni di temperatura e umidità nell’ambiente.Il numero di giorni dell’anno in cui le Alpi e altre montagne europee sono state coperte di neve è già diminuito nell’arco dell’ultimo secolo. Erano già state fatte delle ricerche per studiare l’impatto del cambiamento climatico sul turismo sciistico, ma nessuna finora aveva tenuto in considerazione il contributo della neve artificiale e analizzato tutte le montagne europee insieme. Il nuovo studio, che si basa su modelli statistici, ha invece preso in considerazione 2.234 stazioni sciistiche, rappresentative di tutte le montagne europee in cui si scia, e nelle stime ha tenuto conto dell’uso della neve artificiale.Nello studio le condizioni di scarsità di neve sono state definite come quelle medie che si sono verificate nei 6 anni peggiori per la presenza di neve nel periodo considerato, dal 1961 al 1990. Il turismo sciistico si considera ad «alto rischio» se le previsioni indicano che ogni due inverni su cinque ci sarà scarsità di neve.Lo studio parla invece di «rischio molto alto» se è prevista scarsità di neve ogni due anni. Quest’ultima condizione è quella anticipata per più della metà (il 53 per cento) delle stazioni sciistiche europee se si raggiungeranno i 2 °C sopra i livelli preindustriali, senza considerare il contributo della neve artificiale.Se il pianeta si riscalderà di più, e raggiungerà i 4 °C di temperatura media sopra i livelli preindustriali, sarà il 98 per cento delle stazioni sciistiche a essere a «rischio molto alto» in assenza di neve artificiale.Nei due scenari climatici futuri, se si tiene conto del contributo della neve artificiale, le prospettive per la pratica dello sci migliorano: considerando di produrre la metà della neve sulle piste in modo artificiale le stazioni a «rischio molto alto» si riducono al 27 per cento nel caso di un aumento di temperatura media di 2 °C, e al 71 per cento nel caso che l’aumento sia di 4°C. Per produrre la neve artificiale servono però acqua ed energia elettrica, e quindi non è detto che in futuro sarà possibile e raccomandabile procedere in questo modo per garantire la possibilità di sciare.Considerando solo gli Appennini, lo studio prevede condizioni di «rischio molto alto» in tutti gli scenari climatici futuri, compreso quello di soli 1,5 °C sopra ai livelli preindustriali, anche a fronte di un’intensissima produzione di neve artificiale. In sostanza dice che non si potrà più sciare sugli Appennini.Per quanto riguarda le stazioni sciistiche sulle Alpi italiane, che raggiungono altitudini molto maggiori, lo studio prevede invece rischi minori. Nello scenario dei 2 °C non si potrà fare a meno della neve artificiale, ma prevedendo di usarla per innevare solo un quarto delle piste il rischio è «moderato»: solo un terzo degli inverni sarebbe a rischio di scarsità di neve. Già con un aumento di 3 °C tuttavia anche lo sci sulle Alpi risulterebbe molto compromesso e richiederebbe un uso molto maggiore di neve artificiale, che a un certo punto non sarebbe in grado di compensare all’assenza di quella naturale.Queste stime ovviamente sono medie e non riguardano dunque per forza ogni singola stazione sciistica, ma nel complesso non sono positive per la pratica dello sci. Lo studio non prevede «la fine immediata del turismo sciistico in Europa», ha detto uno dei suoi autori, il climatologo Samuel Morin, ricercatore di Météo-France e del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche italiano: «ma condizioni sempre più difficili per tutte le stazioni sciistiche, alcune delle quali arriveranno, nel giro di qualche decennio, a un’offerta di neve criticamente bassa per poter operare come oggi».– Leggi anche: Quando potremmo superare il limite di 1,5 °C? LEGGI TUTTO

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    Il luglio del 2023 sarà il mese più caldo mai registrato sulla Terra

    Mancano ancora quattro giorni alla fine di luglio, ma si può già dire che questo sarà il mese più caldo mai registrato dal 1979, anno in cui le tecnologie satellitari resero possibili misurazioni accurate della temperatura superficiale di tutto il pianeta (non sarà solo il luglio più caldo di sempre, ma proprio il mese). È stato stimato dal Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, e confermato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO).«Per grandi parti del Nord America, dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa questa è un’estate atroce, ma per il pianeta intero è un disastro», ha commentato il segretario generale dell’ONU António Guterres, «e per gli scienziati non ci sono dubbi: la colpa è degli esseri umani».Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura.Le tre settimane più calde mai registrate sono state proprio le prime tre di luglio: durante la prima e la terza la temperatura globale ha superato la soglia di 1,5 °C in più rispetto alle temperature medie preindustriali, cioè rispetto all’epoca in cui le emissioni di gas serra dovute alle attività umane non avevano ancora cominciato a influenzare il clima terrestre (tra il 1850 e il 1900). La soglia di 1,5 °C è quella che fu stabilita con gli accordi di Parigi del 2015. Il fatto che sia stata superata per tre settimane non significa comunque che l’obiettivo di Parigi si possa definire fallito, per quanto sia ormai improbabile che sarà rispettato: la WMO ha chiarito che l’obiettivo si potrà considerare sfumato solo se la temperatura media globale annuale sarà superiore di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale per almeno vent’anni.Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C: potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, perché finora la media più alta del bacino erano stati i 28,25 °C dell’agosto del 2003.Secondo i dati di Copernicus, per quanto riguarda la temperatura media globale il precedente luglio più caldo mai registrato, nonché mese più caldo mai registrato, era stato quello del 2019. LEGGI TUTTO

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    Anche nei mari si raggiungono nuovi record di temperatura

    Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C, che potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. Il record precedente risaliva all’estate del 2020, quando nel Golfo Persico, vicino al Kuwait, erano stati registrati 37,6 °C. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, finora la media più alta erano i 28,25 °C dell’agosto del 2003.L’innalzamento delle temperature marine è una parte del riscaldamento globale causato dalle attività umane che si percepisce poco nella vita quotidiana, ma preoccupa da tempo la comunità scientifica che si occupa di clima e quest’anno ha attirato l’attenzione in modo particolare. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile infatti la media globale della temperatura marina superficiale aveva raggiunto il valore più alto mai registrato (21,05 °C) secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. In particolare si erano registrati valori di temperatura molto alti rispetto alla media nel nord dell’oceano Atlantico. Poi a maggio e a giugno i valori delle temperature medie delle superfici marine sono stati i più alti mai registrati per quei mesi, superando anche di 0,5 °C i record precedenti.Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, a causa delle temperature particolarmente alte raggiunte nel nord dell’Atlantico ci troviamo in un «territorio sconosciuto» per quanto riguarda il contesto meteorologico.Secondo le prime valutazioni dei climatologi questi record sono stati dovuti al più generale riscaldamento globale in combinazione con altri fattori che ancora non sono stati definiti con precisione. A giugno Albert Klein Tank, direttore dello Hadley Centre del Met Office, l’ufficio meteorologico nazionale del Regno Unito, aveva ipotizzato che c’entrasse l’indebolimento di alcuni venti che normalmente portano sabbia del deserto del Sahara al di sopra dell’Atlantico settentrionale e ne abbassano le temperature, perché la sabbia riflette la luce solare.Negli ultimi sette anni, ogni anno, le temperature medie degli oceani sono aumentate rispetto al precedente e nel 2022 hanno raggiunto i valori massimi dagli anni Cinquanta, quando si cominciarono a registrare con sistematicità. Il riscaldamento dei mari è un problema per varie ragioni: causa morie di animali e piante marine, contribuisce all’innalzamento del livello del mare (perché maggiore è la temperatura dell’acqua minore è la sua densità, e quindi maggiore il volume che occupa) e favorisce i fenomeni meteorologici estremi come gli uragani negli oceani e i grossi temporali nel bacino del Mediterraneo. Infatti tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’evaporazione dell’acqua e dunque l’umidità nell’aria che può intensificare le precipitazioni.#ImageOfTheDayThe marine heatwave sweeping across the Mediterranean Sea is hitting record highs, particularly in the central basinAccording to @CMEMS_EU, sea temperature anomalies have spiked to +5.5°C along the coasts of Italy, Greece and North Africa ♨️ pic.twitter.com/NcHpboKP60— 🇪🇺 DG DEFIS #StrongerTogether (@defis_eu) July 27, 2023Finora le temperature marine sono aumentate meno rispetto a quelle atmosferiche: in media di circa 0,9 °C rispetto ai livelli pre-industriali, mentre quella media dell’aria vicina al suolo è aumentata di 1,5 °C rispetto allo stesso periodo, cioè rispetto a prima che i paesi più ricchi cominciassero a diffondere grandi quantità di gas serra nell’atmosfera. Si stima che circa il 90 per cento del calore ceduto all’atmosfera dalle attività umane sia stato assorbito dagli oceani, che però hanno potuto assorbirne molto senza grosse ripercussioni per decenni.L’anomalia di temperatura, cioè la differenza rispetto alla temperatura media della superficie marina nel periodo 1971-2000, per la giornata del 24 luglio 2023 secondo i dati preliminari della NOAA; nell’Atlantico settentrionale e nel Mediterraneo si sono registrate temperature medie di 5 o anche 6 °C superiori alla media storica– Leggi anche: In Italia le grandinate sono aumentate LEGGI TUTTO

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    In Italia le grandinate sono aumentate

    I nubifragi, le trombe d’aria e le grandinate che negli ultimi giorni hanno colpito il Nord Italia, dal Friuli Venezia Giulia alla Lombardia, sono stati dovuti allo spostamento verso sud dell’anticiclone responsabile della precedente ondata di calore: l’incontro tra correnti d’aria fredda provenienti da nord con l’aria calda e umida sopra la Pianura Padana ha causato una serie di temporali molto intensi. È un fenomeno tipico della stagione estiva e che tuttavia secondo studi recenti è diventato più frequente negli ultimi anni, probabilmente per via del cambiamento climatico.«Dal 1999 al 2021 nel bacino del Mediterraneo le grandinate sono aumentate», spiega Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) ed esperto dell’uso dei satelliti per la meteorologia: «In particolare nell’ultimo decennio sono aumentate del 30 per cento, lo abbiamo misurato grazie ai satelliti». Laviola è uno degli autori di alcuni studi che hanno permesso di capire delle cose in più sulla grandine, un fenomeno meteorologico ancora relativamente poco compreso a causa della storica difficoltà di raccogliere dati al riguardo.Le grandinate possono verificarsi in qualunque punto del pianeta ma avvengono con frequenza molto maggiore in alcune regioni per via della morfologia del loro territorio: c’è più probabilità che si generino dove ci sono alte montagne che influiscono sulla circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera. Ad esempio grandina con particolare frequenza nella grande pianura al centro degli Stati Uniti, tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose, che è anche detta “Tornado Alley”, “corridoio delle trombe d’aria” (le trombe d’aria sono spesso associate alla grandine). Anche l’Italia, avendo due estese catene montuose, è molto soggetta a grandinate, specialmente nella Pianura Padana e ancora più in particolare in Friuli Venezia Giulia, le cui aree pianeggianti sono quasi completamente circondate dalle montagne.Non è comunque solo la forma del territorio a influire sulla probabilità che avvenga una grandinata, ma anche le condizioni atmosferiche, e per questo ci sono stagioni dell’anno in cui grandina più di frequente. In Italia la stagione delle grandinate è storicamente compresa tra aprile e ottobre, anche se in anni recenti sembra essersi estesa fino a novembre.È più probabile che grandini d’estate perché questo fenomeno si crea all’interno delle cosiddette nubi convettive, che sono dovute alla presenza di masse d’aria calda e umida nell’atmosfera e si possono riconoscere perché si sviluppano molto in verticale. Quando la superficie terrestre è particolarmente calda e lo è per molte ore al giorno, l’aria più vicina a terra sale verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata dal suolo e dagli specchi d’acqua. Se salendo in quota le masse d’aria calda e umida incontrano aria più fredda, il vapore acqueo condensa, formando una nube: è detta convettiva perché in fisica si definisce “moto convettivo” quel fenomeno per cui un fluido riscaldato si muove verso l’alto, mentre quello più freddo e denso va verso il basso.«All’interno delle nubi convettive», spiega Laviola, «le correnti ascendenti e discendenti sollevano ingenti quantità di masse d’acqua sotto forma di goccioline. Nel percorso verso l’alto si accrescono, si raffreddano fino a superare un livello di temperatura che si chiama “zero termico”, cioè dove c’è il passaggio di stato dal liquido al solido: quindi l’acqua ghiaccia. Ai cristalli d’acqua ghiacciata si avvicinano altre goccioline che ghiacciano attorno al nucleo principale, che è l’embrione del chicco di grandine, e lo rendono più grande: immaginiamo nuclei di ghiaccio che si muovono in un mare di piccole goccioline, salendo e scendendo». A volte succede anche che chicchi diversi si uniscano, creando grandine di grosse dimensioni.Legnano poco fa … pic.twitter.com/m6beddy2DG— Roberto Luraghi (@LuraghiRoberto) July 24, 2023A un certo punto le masse di ghiaccio diventano così grandi che la forza di gravità vince la spinta verso l’alto delle correnti ascensionali e quindi inizia a grandinare.È ciò che è successo negli ultimi giorni nel Nord Italia: l’aria vicina al suolo era molto calda per l’ondata di calore causata dall’anticiclone, una zona di alta pressione in cui l’aria tende a spostarsi dall’alto verso il basso. Quando l’anticiclone si è spostato verso sud, l’aria vicina alla superficie ha cominciato a salire, arrivando poi a formare nubi convettive.Fino a qualche decennio fa la grandine poteva essere studiata con molti limiti perché essendo un fenomeno fugace e molto localizzato, cioè che si verifica per poco tempo, di solito mezz’ora al massimo, su aree circoscritte, c’è poco tempo per rilevarla e non è detto che si abbiano gli strumenti adeguati per studiarla: le dimensioni dei chicchi di grandine infatti si misurano a terra coi grelimetri, pannelli orizzontali con una superficie di circa 20 centimetri per 40 che si deforma all’impatto con i chicchi di grandine. In Italia sono sufficientemente diffusi solo in Friuli Venezia Giulia, una regione storicamente molto interessata dalla grandine.Nell’ultima ventina d’anni però le osservazioni dirette coi grelimetri e coi radar meteorologici hanno potuto essere ampliate grazie ai satelliti dotati di strumenti di radiometria a microonde, che permettono di rilevare la presenza di chicchi di grandine all’interno delle nubi, e di farlo per un ampio territorio contemporaneamente. Dato che non misurano i chicchi caduti a terra, restituiscono la probabilità di una grandinata e delle dimensioni dei suoi chicchi, ma grazie a dei modelli matematici possono comunque fornire dati utili agli scienziati per capire quanto spesso grandina in una regione. Permettono inoltre di studiare anche le grandinate che avvengono in mare.Laviola e i suoi colleghi hanno appunto sviluppato un modo per sfruttare i dati dei satelliti a questo scopo e così hanno scoperto che dal 1999 al 2021 la frequenza delle grandinate nel bacino del Mediterraneo è aumentata. Vale sia per le grandinate con chicchi con diametro compreso tra i 2 e i 10 centimetri, che danneggiano sempre le coltivazioni e anche altre cose progressivamente al crescere delle dimensioni, sia per le cosiddette supergrandinate o grandinate estreme, quelle con chicchi dal diametro superiore ai 10 centimetri, che sono distruttive per qualunque cosa.In una delle recenti grandinate in Friuli è stato peraltro battuto il record europeo per chicco di grandine col diametro maggiore: 19 centimetri.Can confirm 19 cm based on the cloth pic.twitter.com/7OGda2s932— Federico Pavan (@PavanFederico00) July 25, 2023Il gruppo di ricerca di cui fa parte Laviola ha anche cercato di capire se il recente aumento delle grandinate possa essere legato al cambiamento climatico. Il problema è che 22 anni di dati non sarebbero sufficienti per dirlo, dato che «tutto quello che accade a una scala inferiore a cinquant’anni non è climatologia». Per questo i ricercatori hanno indagato sui cinquant’anni precedenti utilizzando altri tipi di dati: non sulla grandine, dato che non ce ne sono, ma su altre variabili atmosferiche che però hanno una forte influenza sulla probabilità di grandinate e su cui invece sono disponibili dati storici europei per il bacino del Mediterraneo a partire dal 1949.Una di queste variabili è la temperatura superficiale del Mediterraneo, che influenza la probabilità di grandinate perché più è alta più evaporazione genera: e questa è in aumento da decenni a causa del cambiamento climatico. Le altre sono un indice che dice quanta energia potenziale c’è nell’atmosfera che può generare moti convettivi, la temperatura media alla quota in cui si genera la convezione e l’altezza dello zero termico, cioè la quota in cui l’acqua liquida diventa ghiaccio: tutte queste variabili sono aumentate dal 1949 a oggi, anche per via del cambiamento climatico. E indirettamente hanno permesso di ricostruire che in questi decenni le condizioni favorevoli alle grandinate sono state sempre più frequenti.«Se gli ultimi settant’anni hanno dimostrato un trend in crescita, è abbastanza inverosimile che la tendenza cambi in futuro», conclude Laviola, «ma per il futuro abbiamo degli scenari, non previsioni. Aumenteranno le grandinate? Probabilmente sì, ma non sicuramente sì». LEGGI TUTTO