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    Il buco dell’ozono potrebbe essere ancora un problema per gli animali dell’Antartide

    Caricamento playerDa tempo ormai lo strato di ozono che avvolge la Terra ed era stato gravemente ridotto dall’inquinamento atmosferico si sta riformando: si stima che si ripristinerà completamente entro la fine di questo secolo. Tuttavia al di sopra dell’Antartide, dove si era rarefatto di più, il cosiddetto “buco” continua a svilupparsi periodicamente ogni anno, raggiungendo la sua estensione maggiore tra settembre e ottobre. Negli ultimi quattro anni, spiega un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Global Change Biology, è stato particolarmente persistente, rimanendo fino a dicembre. È un fenomeno che preoccupa gli scienziati per i danni che potrebbe fare agli animali antartici.
    Lo strato atmosferico di ozono infatti filtra i raggi ultravioletti dannosi del Sole. In quantità eccessive, questi raggi possono causare seri problemi di salute, tra cui un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori cutanei e malattie degli occhi come la cataratta, agli esseri umani e alle altre specie animali, oltre che danni ai vegetali. Tra settembre e ottobre in Antartide è ancora inverno e la maggior parte delle specie viventi del continente sono protette dalla neve o dal ghiaccio marino. A dicembre invece inizia l’estate australe e dunque gli animali e le (poche) piante presenti in Antartide subiscono una maggiore esposizione ai raggi ultravioletti.
    Il buco nell’ozono sull’Antartide venne scoperto nel 1985 da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico Joe Farman. Il 16 maggio di quell’anno sulla rivista Nature fu pubblicato l’articoli che lo fece conoscere al mondo: è considerato uno dei più influenti del secolo scorso, visto ciò che ne derivò. Due anni dopo una conferenza internazionale vietò i clorofluorocarburi (CFC), i gas responsabili del danneggiamento della fascia di ozono e contenuti nei frigoriferi del passato tra le altre cose. Adesso, quasi quarant’anni dopo, la fascia di ozono si sta lentamente ricostituendo. Quello causato dall’articolo di Farman fu uno dei pochi eventi nella storia recente in cui i leader mondiali riuscirono a prendere una decisione comune per il bene della Terra e ad agire di conseguenza.
    Le temperature particolarmente basse creano le condizioni ideali per generare la reazione chimica in grado di dissolvere l’ozono ed è per questo che ancora oggi i principali buchi dell’ozono (ce n’erano in realtà diversi) rimangono quello sull’Antartide e quello sull’Artico. Nonostante la messa al bando dei CFC continuano a esserci altri fattori che contribuiscono a ridurre la quantità di ozono nell’atmosfera. Ad esempio, si pensa che il fumo prodotto dai grandi incendi boschivi che ci sono stati in Australia tra il 2019 e il 2020 abbia avuto un ruolo nell’aumento della durata del buco sull’Antartide: le particelle disperse nell’atmosfera dagli incendi causano reazioni chimiche con effetto analogo a quelle dovute ai CFC.
    Non sappiamo ancora molto degli effetti di questa persistenza del buco dell’ozono sulla salute degli animali antartici perché la questione non è ancora stata studiata in modo approfondito, ma il nuovo articolo, firmato dalla biologa esperta di cambiamento climatico Sharon Robinson e da altri ricercatori, hanno messo insieme quello che sappiamo.
    Sono stati fatti degli studi ad esempio sulla capacità dei muschi antartici di produrre delle sostanze chimiche che li proteggono dagli effetti negativi degli ultravioletti. È una cosa rassicurante per l’ecosistema del continente, ma significa anche che dovendo usare parte della loro energia per produrre queste sostanze i muschi ne impiegano meno per crescere.
    È anche stato osservato che il cosiddetto “krill”, cioè i piccoli crostacei che vivono nell’oceano in gran numero e rappresentano la base della catena alimentare dell’Antartide, si sposta a maggiori profondità per evitare i raggi ultravioletti. Questa migrazione potrebbe danneggiare tutti gli animali che mangiano il krill, e in particolare le foche, i pinguini e gli altri uccelli marini che hanno bisogno di tornare in superficie per respirare. Ciò che vale per i muschi terrestri peraltro vale anche per il fitoplancton, le alghe microscopiche di cui si nutre il krill, ragione per cui pure la crescita dei piccoli crostacei e di tutti gli animali che li mangiano potrebbe essere influenzata dal buco dell’ozono.
    Per quanto riguarda i rischi per la pelle, è probabile che le pellicce e le penne che ricoprono i mammiferi e gli uccelli antartici siano una protezione efficace dagli ultravioletti. Può darsi che invece i problemi agli occhi siano più probabili.

    – Leggi anche: Nove mesi isolata in Antartide LEGGI TUTTO

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    La scoperta di quattro nuove colonie di pinguini imperatori è una piccola buona notizia

    Attraverso alcune osservazioni satellitari sono state identificate quattro nuove colonie di pinguini imperatori in Antartide. È considerata una buona notizia, visto che recentemente alcune analisi avevano segnalato la scomparsa di numerosi individui di questi animali a causa della fusione dei ghiacci dovuta alle temperature anomale, sia nell’inverno sia nell’estate antartiche.La scoperta è stata resa possibile grazie all’osservazione dallo Spazio delle feci (guano) prodotte dai pinguini, che ricoprendo la superficie ghiacciata ne fanno variare il colore rendendo rilevabile in maniera indiretta la presenza delle colonie nelle immagini satellitari. La tecnica viene utilizzata da diversi anni e si è rivelata fondamentale per tenere sotto controllo le popolazioni di questi animali.
    L’identificazione delle nuove colonie è stata raccontata dal ricercatore Peter Fretwell sulla rivista scientifica Antarctic Science. Lo studio segnala che grazie alla nuova scoperta si può stimare la presenza di almeno 66 colonie di pinguini imperatori in Antartide, con le quattro da poco scoperte che riempiono alcuni spazi vuoti intorno alla costa antartica dove finora non era nota la presenza di questi animali.
    I pinguini imperatori vivono per lo più lungo le zone costiere sul ghiaccio fisso, cioè la parte di ghiaccio marino (banchisa) attaccata alla costa, che come suggerisce il nome rimane stabile nella medesima posizione senza muoversi a causa delle correnti marine o dei venti. Si riproducono sul ghiaccio fisso e depongono le uova tra maggio e giugno; i piccoli nascono un paio di mesi dopo, ma non sono autonomi fino a dicembre-gennaio. Il pinguino imperatore è la specie di pinguino più grande ma meno presente in Antartide, con una popolazione stimata di circa 600mila individui.
    Le quattro nuove colonie (rosso) identificate dallo studio, nel contesto delle colonie già note (grigio) lungo la costa antartica (British Antarctic Survey)
    Negli ultimi anni erano stati segnalati molti problemi legati ad alcune colonie di pinguini imperatori, che si erano fortemente ridotte o erano proprio scomparse. Uno studio pubblicato nel 2022 aveva per esempio segnalato che, a causa della riduzione del ghiaccio marino, in almeno quattro colonie erano morti migliaia di pinguini imperatori appena nati, con gravi conseguenze sulla loro popolazione. Nel nuovo studio, Fretwell ipotizza cha una delle quattro colonie ora identificate possa essere il frutto del trasferimento di animali da una delle colonie che si credevano perse.
    La ricerca segnala che tre delle quattro nuove colonie hanno meno di un migliaio di individui, quindi la scoperta non incide più di tanto sulle stime complessive sulla presenza dei pinguini imperatori. La novità è però importante perché dà la possibilità di avere un censimento più accurato delle colonie che costellano la costa antartica, anche in vista di futuri studi per calcolare meglio la presenza di questi animali e soprattutto la variazione nelle dimensioni delle colonie nel corso del tempo.
    Le frecce indicano le aree ricoperte dal guano dove sono state identificate le quattro nuove colonie (British Antarctic Survey)
    A causa del cambiamento climatico il ghiaccio marino in Antartide è meno presente rispetto a un tempo. Negli ultimi due anni, per esempio, si è registrata la copertura più scarsa di ghiaccio da quando si è iniziato a tenerla sotto controllo dalla fine degli anni Ottanta. Si stima che almeno un terzo delle colonie di pinguini imperatori abbia avuto qualche conseguenza, soprattutto in termini di riduzione della popolazione, da quando la perdita di ghiaccio è diventata più significativa. LEGGI TUTTO

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    Anche un orso polare è morto di influenza aviaria

    Alla lista dei numerosi mammiferi che negli ultimi due anni sono stati contagiati dal virus dell’influenza aviaria si è aggiunto anche un orso polare, trovato morto lo scorso ottobre a Utqiagvik, nell’estremo nord dell’Alaska. A fine dicembre il dipartimento per la Conservazione ambientale dello stato americano ha diffuso i risultati di un test per il virus effettuato sui resti dell’orso e il veterinario Bob Gerlach ha confermato all’Alaska Beacon che l’influenza è stata la causa della morte.Era già successo che orsi di altre specie fossero infettati dall’aviaria, ma questo è il primo caso noto nel mondo di un orso polare morto per la malattia. È stato segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità animale (WOAH) e agli altri paesi artici in cui vivono orsi polari.
    L’epidemia di influenza aviaria in corso è cominciata tra il 2020 e il 2021 e ha causato la morte di milioni di uccelli selvatici e di allevamento e migliaia di contagi tra i mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e non è ritenuta preoccupante per le persone, mentre è osservata con maggiore apprensione per quanto riguarda alcune specie di animali selvatici che in passato erano meno vulnerabili alle epidemie di influenza aviaria.
    Esistono numerosi tipi e varianti di virus che causano la malattia e quello responsabile dell’attuale epidemia è particolarmente aggressivo e provoca un’influenza detta ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per la salute degli animali che la contraggono e un’ampia diffusione dei contagi. Il virus responsabile è H5N1, le cui prime versioni furono identificate in Cina negli ultimi anni del Novecento. Da allora si sono fatti più frequenti i focolai tra gli uccelli selvatici e i contagi di mammiferi. Solo negli ultimi anni il virus è stato rilevato in modo significativo in Nord America, mentre in precedenza si era manifestato principalmente in Asia, in Europa e in Africa.

    – Leggi anche: Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi più recenti. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, scoiattoli, puzzole, volpi, puma e foche. In Alaska le volpi morte in cui è stata riscontrata la presenza del virus sono state tre dall’aprile del 2022.
    Gli orsi polari dell’Alaska si cibano principalmente di foche ma si ritiene che quello morto per l’aviaria abbia mangiato carcasse di uccelli e che in questo modo possa essere entrato in contatto col virus.
    Una delle maggiori preoccupazioni dei biologi riguardo all’epidemia di influenza aviaria è che si espanda maggiormente in Antartide, cioè all’estremo sud del mondo. A ottobre sono stati rilevati i primi contagi da H5N1 nella regione, tra gli stercorari antartici dell’isola di Bird, nell’arcipelago della Georgia del Sud, quindi non sul continente vero e proprio. Da allora centinaia di elefanti marini con sintomi influenzali sono morti nelle isole della zona e il virus è stato trovato sempre più vicino al continente. Il timore maggiore è che l’epidemia possa fare grossi danni raggiungendo le popolazioni di pinguini dell’Antartide.
    Secondo un rapporto di un gruppo di scienziati della WOAH e della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, pubblicato a dicembre, in Antartide gli effetti negativi dell’H5N1/HPAI potrebbero essere «immensi» perché sia le foche che gli uccelli della regione vivono in colonie di migliaia o centinaia di migliaia di individui, dunque in gruppi particolarmente esposti alla diffusione di una malattia contagiosa. Si teme un disastro ecologico. LEGGI TUTTO

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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    L’estensione invernale del ghiaccio marino in Antartide è stata molto minore del solito

    Secondo un’analisi preliminare del Centro dati nazionale sulla neve e i ghiacci degli Stati Uniti (NSIDC), a settembre il massimo di estensione del ghiaccio marino intorno all’Antartide è stato il più basso mai registrato. Il nuovo record, che dovrà essere confermato da altre analisi i cui risultati sono previsti per inizio ottobre, si aggiunge alle rilevazioni svolte nell’ultimo periodo che hanno segnalato un periodo di sensibile riduzione nella presenza di ghiaccio in Antartide, con conseguenze che si estendono oltre quelle per gli ecosistemi del continente.A settembre il ghiaccio marino antartico raggiunge il proprio massimo, più o meno in corrispondenza con la fine dell’inverno nell’emisfero australe. L’andamento è infatti ciclico e legato alle stagioni: il minimo della copertura si registra a febbraio con l’estate antartica, quando fonde una parte del ghiaccio, che inizia poi a riformarsi nei mesi seguenti fino al picco di settembre.La linea gialla mostra la media del massimo di copertura di ghiaccio marino nel periodo 1981-2010, in bianco la copertura rilevata il 10 settembre scorso (NSIDC)In media tra il 1981 e il 2010 la copertura massima di ghiaccio marino è stata di 18,7 milioni di chilometri quadrati. A settembre di quest’anno il massimo è stato invece di 16,9 milioni di chilometri quadrati, registrato il 10 di settembre: in sensibile anticipo rispetto al solito e senza riscontrare ulteriori aumenti nei giorni seguenti. Il nuovo record è di circa un milione di chilometri quadrati inferiore rispetto al precedente minimo nella stagione di picco rilevato nel 1986.Estensione del ghiaccio marino tra giugno e ottobre in Antartide (NSIDC)Secondo i gruppi di ricerca, le cause sono probabilmente riconducibili ad alcune condizioni del meteo nelle ultime settimane (specialmente nell’area del Mare di Ross, la grande baia nella parte meridionale dell’Antartide) e agli effetti del riscaldamento globale. Saranno necessarie altre analisi per confermare il ruolo del cambiamento climatico, ma la perdita di ghiaccio è comunque in linea con i modelli che studiano gli effetti dovuti all’aumento della temperatura media ai poli. LEGGI TUTTO