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    Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie

    Caricamento playerIl gammaro dei fossi, un crostaceo appartenente all’ordine degli anfipodi, è ampiamente diffuso nei torrenti in Europa e la sua presenza è un valido indicatore della qualità dell’acqua dolce. All’apparenza è simile a un minuscolo gamberetto e per diverso tempo si pensò che tutti i suoi individui appartenessero a un’unica specie (Gammarus fossarum), ma è ormai evidente che le cose stanno diversamente. Si stima che 25 milioni di anni fa iniziarono a prodursi linee di discendenza separate che portarono a sue nuove sottospecie: a seconda di come vengono classificate le differenze genetiche di questi animali, le probabili specie di questi piccoli crostacei sono 32 o addirittura 152.
    Quello del gammaro dei fossi non è un caso isolato: i progressi nella ricerca e nella capacità di analizzare gli intricati percorsi evolutivi hanno aggiunto nuove importanti complicazioni nel modo in cui vengono classificate le specie. Nel nostro colossale e instancabile lavoro di classificare gli esseri viventi che condividono con noi il pianeta, il livello di complessità è ormai tale da fare mettere in discussione il modo stesso con cui per lungo tempo abbiamo identificato e definito le specie.
    Classificare le specie e provare a organizzarne i complessi gradi di parentela tiene impegnati i naturalisti da molti secoli e il loro lavoro, che si è modificato e arricchito nel corso del tempo, è stato accompagnato da polemiche, critiche e riflessioni filosofiche. Nel suo Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689, il filosofo britannico John Locke si interrogò a lungo sulla classificazione delle specie in un discorso più ampio su come si svilupparono la conoscenza umana e l’intelletto. Nel suo trattato scrisse: «I confini delle specie sono quali li fanno gli uomini, e non la natura, ammesso che in natura ci siano confini prefissati».
    Le riflessioni di Locke non piacquero al matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che scrisse Nuovi saggi sull’intelletto umano, un trattato che smontava punto per punto la maggior parte delle assunzioni formulate dal filosofo britannico. Tra le altre cose, Leibniz criticava lo scetticismo mostrato da Locke sulla classificazione delle specie e il tentativo di provare a fare ordine nella natura.
    Il lavoro di sistematizzazione e classificazione raggiunse l’apice nel diciottesimo secolo grazie agli studi del naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che perfezionò un sistema di nomenclatura binomiale che viene utilizzata ancora oggi con l’aggiunta di opportune integrazioni. La classificazione linneana organizza gli esseri viventi in vari livelli gerarchici: si parte dai regni (si aggiunse poi il concetto di dominio al di sopra, per includere batteri e archèi) che si dividono in phylum, si prosegue poi con le classi che si diramano a loro volta in ordini e ancora in famiglie, generi e infine specie.
    Esempio di classificazione (Zanichelli)
    Lavorando su proposte e riflessioni di alcuni importanti suoi predecessori, come lo svedese John Ray, Linneo perfezionò un sistema che prevedeva di utilizzare un binomio latino per identificare ogni specie. Utilizzò il primo nome per indicare il genere, che era per forza comune a più specie, e il secondo per caratterizzare una singola specie e distinguerla dalle altre.
    Nel caso del Gammarus fossarum, il minuscolo crostaceo europeo, Gammarus indica il genere, mentre fossarum è l’epiteto per distinguere una certa specie. Ma come abbiamo visto, questo sistema funziona solo fino a un certo punto, perché nel caso del gammaro dei fossi abbiamo via via scoperto l’esistenza di molte specie che per lungo tempo sono state chiamate tutte con lo stesso nome.
    Linneo aveva del resto pensato al suo sistema di classificazione in un periodo in cui le conoscenze scientifiche sulle specie erano ancora relativamente limitate, con una certa convinzione che esistessero da sempre più o meno in quel modo e che fossero il frutto di una creazione divina. Si confrontavano le caratteristiche, si identificavano le cose in comune e sulla base di quelle si stabiliva la classificazione.
    Fu necessario circa un secolo perché iniziasse a fare presa il concetto di evoluzione, grazie al lavoro di altri naturalisti come Charles Darwin. Le specie non erano dunque da sempre uguali, ma il frutto di un incessante processo di evoluzione, immaginabile come un gigantesco albero genealogico con migliaia di biforcazioni e rami. In quel contesto, stabilire con esattezza quando una specie fosse diventata tale si rivelò più difficile.
    Gammarus fossarum (Università di Amsterdam via Wikimedia)
    A quasi due secoli di distanza dal lavoro di Darwin, sappiamo molte cose in più sull’evoluzione e il caso del gammaro è solo uno dei tanti simili, come ha raccontato di recente il giornalista scientifico Carl Zimmer in un articolo sul New York Times. Nel 1758 Linneo aveva descritto una singola specie di giraffa classificandola come Giraffa camelopardalis e in seguito si aggiunsero nove sottospecie (cioè con differenze minime tali da essere considerate difficilmente una specie a sé). Oggi diversi studi sulle caratteristiche genetiche di questi animali hanno portato a una revisione della tassonomia, sulla quale non sono però tutti d’accordo.
    Alla tassonomia classica se ne sono aggiunte altre che identificano tre, quattro e perfino otto specie diverse. La seconda è tra le più condivise e comprende la giraffa settentrionale (G. camelopardalis), la giraffa reticolata (G. reticulata), la giraffa meridionale (G. giraffa) e la giraffa masai (G. tippelskirchi). Ne esistono nel complesso 117mila esemplari in Africa e per questo le giraffe sono considerate “vulnerabili” e non in pericolo immediato di estinzione, ma le cose cambierebbero se fossero considerate come specie distinte. In questo caso la giraffa settentrionale sarebbe tra gli animali a maggior rischio di estinzione, a causa della distruzione dei suoi habitat tra Niger ed Etiopia e del bracconaggio.
    Secondo alcune organizzazioni impegnate nella tutela delle giraffe, una classificazione più chiara potrebbe aiutare a salvare questi animali, facendo maggiori pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. È un esempio di come stabilire il confine tra una specie e un’altra abbia risvolti pratici non indifferenti, rispetto a discussioni e ragionamenti più teorici che possono apparire slegati dalla realtà. La definizione più condivisa di cosa sia una specie è del resto relativamente recente e viene impiegata da circa 80 anni.
    (Getty Images)
    Negli anni Quaranta del secolo scorso, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr fu infatti tra gli studiosi che provarono a introdurre una nuova definizione di specie, basandosi sul modo in cui gli esseri viventi si riproducono. L’idea di base è relativamente semplice: se due animali non si possono riprodurre tra loro, allora appartengono a specie diverse. Questa distinzione ebbe una grande presa tra i naturalisti, ma presentava comunque qualche problema. Una balena non può riprodursi con un cardellino, questo è abbastanza evidente, ma ci sono molti casi in cui animali di specie diverse in qualche modo imparentate riescono comunque a riprodursi tra loro (il limite successivo è l’eventuale capacità della prole di riprodursi e di non essere sterile).
    Zimmer nel suo articolo cita il caso di diverse specie di rane europee, studiate negli ultimi anni dall’erpetologo francese Christophe Dufresnes. Analizzandone il comportamento e le generazioni, Dufresnes ha notato che alcuni gruppi di rane portano di frequente alla nascita di incroci, ma solo in alcuni casi. Studiandone il materiale genetico, il ricercatore ha notato che i gruppi di rane con un antenato comune relativamente recente, e quindi maggiormente imparentate, tendono a produrre incroci con maggiore frequenza. Secondo le stime di Dufresnes sono necessari fino a sei milioni di anni prima che due gruppi di rane – che evolvono da una stessa biforcazione nell’albero evolutivo – perdano la capacità di incrociarsi, diventando di fatto due specie diverse.
    Gli studi come quelli di Dufresnes hanno contribuito ad aggiungere un quadro temporale alla definizione data da Mayr, ma non risolvono completamente il problema. Mostrano infatti che la differenziazione tra specie avviene molto lentamente, almeno per i tempi umani, e che ci può essere un periodo molto lungo in cui specie che si stanno differenziando continuano a essere in grado di incrociarsi e riprodursi. È un processo che avviene ancora oggi e che riguarda molti esseri viventi che abbiamo intorno, ma è difficile capire se stia ancora avvenendo o se si sia concluso.
    In tempi remoti un fenomeno simile a quello osservato in alcune specie di rane avvenne con gli orsi. Oggi vediamo un orso polare e un orso bruno e sappiamo che si tratta di due animali molto diversi, seppure con qualche elemento in comune. Sappiamo inoltre che la pelliccia molto chiara degli orsi polari è il frutto dell’adattamento all’ambiente circostante, che nel loro caso è quasi sempre fatto di neve e ghiaccio nei quali mimetizzarsi. L’orso bruno si è invece adattato a vivere su terreni dove una pelliccia scura si confonde meglio con l’ambiente che ha intorno. Oltre a questi aspetti più evidenti, queste due specie hanno altre caratteristiche tali da essere distinguibili anche nei resti di orsi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
    Proprio studiando quei reperti e analizzandone il DNA è emerso che per un lungo periodo orsi polari e orsi bruni si incrociarono tra loro. La loro differenziazione iniziò da un antenato comune circa mezzo milione di anni fa, ma per migliaia di anni i due gruppi continuarono a incrociarsi e a rimescolare il loro materiale genetico. Si differenziarono in modo più netto solamente 120mila anni fa e da allora i casi di incroci diventarono via via più sporadici, fino a quando le due specie furono pressoché incompatibili alla riproduzione comune. Il periodo precedente e molto lungo di incroci lasciò comunque il segno, se si considera che ancora oggi il 10 per cento del DNA di un orso bruno deriva da quello degli orsi polari.
    (Dietmar Denger/laif/Contrasto)
    Quando si parla di ibridi tendiamo a pensare ad animali con cui abbiamo una certa dimestichezza, come il mulo che è un incrocio tra un asino e una cavalla, o il porcastro che deriva dall’incrocio tra una scrofa e un cinghiale. In realtà ci sono molti altri esempi come la ligre, che nasce da un incrocio tra un maschio di leone e una femmina di tigre, il cama che ha come genitori un lama e un cammello, e ancora lo zebrallo, che nasce da una zebra e un cavallo. La grande varietà di ibridi osservabili oggi ci ricorda che i confini tra specie diverse sono spesso labili e che ci sono molte eccezioni alla regola di Mayr.
    A dirla tutta, un altro animale che conosciamo molto bene è anche il frutto di una ibridazione, per lo meno parziale: l’essere umano. La nostra evoluzione è stata tutt’altro che lineare e ha compreso lunghi periodi di riproduzione tra specie diverse. Le analisi genetiche svolte soprattutto negli ultimi anni sfruttando il DNA antico, per esempio, hanno evidenziato come per diverso tempo ci furono incroci tra gruppi di Neanderthal e umani moderni, tanto che si ritrovano ancora oggi tracce genetiche dei Neanderthal in alcune popolazioni. La differenziazione e classificazione delle specie e sottospecie di umani è ancora oggi molto dibattuta, a ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile stabilire che cosa sia davvero una specie.
    Chi si occupa di classificazione e tassonomia impara a muoversi nell’incertezza e a gestirla, come del resto fa praticamente chiunque si occupi di scienza, ma la mancanza di punti fermi può essere a volte frustrante. È probabilmente anche per questo motivo che di recente l’Unione ornitologica internazionale ha scelto di provare a mettere ordine nelle diatribe che spesso nascono intorno alla classificazione delle specie di uccelli.
    Nel 2021 l’Unione ha incaricato un gruppo di lavoro di riorganizzare le quattro liste più condivise di specie aviarie, realizzando un unico grande catalogo. Per farlo, nove esperti si confronteranno su oltre 11mila specie, votando di volta in volta sulla base di alcuni criteri per definire le singole specie. Il confronto non è sempre pacifico e richiede una certa capacità di mediazione, tra chi vorrebbe spesso mettere insieme più uccelli in un’unica specie e chi invece propone di mantenere una differenziazione più marcata.
    Le nuove opportunità offerte dai progressi in campo informatico potrebbero comunque aiutare, non solo nella catalogazione degli uccelli. Alcuni gruppi di ricerca hanno per esempio iniziato a lavorare a sistemi di riconoscimento automatico delle immagini, in modo da mettere a confronto molto più velocemente individui fotografati negli ambienti naturali con gli esemplari conservati nei musei o rappresentati nei loro cataloghi. Dal confronto possono emergere dettagli su somiglianze o altre caratteristiche da approfondire, anche sul piano genetico, in modo da fare meglio ordine.
    Al di là degli aiuti offerti dalle nuove tecnologie informatiche e di analisi genetica, il lavoro di catalogazione e costruzione delle tassonomie è comunque lungo e impegnativo, nonché enorme. A oggi la catalogazione ha interessato più o meno 2,3 milioni di specie, ma più si studiano i diversi ambienti e la loro diversità più emerge che ci sono ancora milioni se non miliardi di specie da scoprire e catalogare. Alcuni sono minuscoli e difficili da identificare e studiare a causa della loro alta variabilità, come alcuni gruppi di batteri, altri semplicemente vivono in ambienti dove un tempo non si riteneva potesse esserci la vita, come è il caso degli organismi estremofili.
    Ed è proprio studiando e catalogando gli estremofili che iniziano a esserci ipotesi e supposizioni su come potrebbero essere fatte forme di vita su altri pianeti. Forse un giorno dovremo catalogarle insieme alle altre, ma questa è un’altra storia. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Solitamente i cavalli vengono fotografati in piedi, come quelli che nella raccolta a seguire trovate al pascolo con la Sierra Nevada sullo sfondo. Capita più raramente di vederli sdraiati a riposare sul fieno, come in un’altra foto scattata in Germania. Insieme ai cavalli valeva la pena fotografare un maschio di lince pardina e un limulo (chiamato anche granchio a ferro di cavallo) rimessi in libertà, un orso andino, una sialia mexicana, una zebra di Grévy e una lepre che cerca di non farsi notare, dietro a un fico d’India. LEGGI TUTTO

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    Il lander Odysseus è caduto su un lato

    Il lander Odysseus, che ha raggiunto il suolo della Luna venerdì ed è il primo veicolo spaziale degli Stati Uniti a compiere un allunaggio controllato dai tempi delle missioni Apollo, è con ogni probabilità caduto su un fianco. Lo ha fatto sapere Intuitive Machines, la società privata che l’ha costruito e che collabora con la NASA alla missione.Il lander è ancora funzionante, ma anziché appoggiarsi sulla sua base composta da sei “zampe”, come previsto originariamente, durante la fase di contatto con il suolo lunare non è riuscito a stabilizzarsi completamente ed è caduto su un lato: molto probabilmente la sommità del lander è appoggiata a una roccia, e il lander è sdraiato.
    Nonostante questo dovrebbe essere in grado di proseguire parte della sua missione, che comporta analisi ed esperimenti da fare per conto della NASA. Ci sono però degli ostacoli. Ora che Odysseus è sdraiato su un fianco, le sue antenne non puntano direttamente alla Terra, cosa che potrebbe limitare il flusso di comunicazioni. Intuitive Machines ha detto di aver ricevuto comunicazioni da Odysseus, ma che il lander non ha ancora cominciato a fare fotografie del suolo lunare, come avrebbe dovuto fare.
    In conferenza stampa Stephen Altemus, l’amministratore delegato di Intuitive Machines, ha detto che ci sono buone speranze che Odysseus riesca a portare avanti i suoi esperimenti perché il grosso delle strumentazioni scientifiche si trova nella parte del lander che è rivolta verso l’alto e non al suolo, cosa che potrebbe comunque consentirne l’utilizzo. «Abbiamo ancora abbastanza capacità operative anche se siamo caduti su un fianco», ha detto Altemus.
    (NASA via AP)
    Odysseus fa parte della classe di veicoli Nova-C sviluppati sempre da Intuitive Machine, e ha l’aspetto di un grande prisma a base esagonale sorretto da sei “zampe”. Ha una massa di quasi 2 tonnellate e un diametro di 2 metri, e raggiunge un’altezza di circa 3 metri. L’attuale missione, denominata IM-1, è per lo più dimostrativa e serve per verificare le capacità di allunaggio automatico del sistema e per trasportare alcuni esperimenti e altro materiale sulla Luna.
    IM-1 fa parte del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma avviato dalla NASA per inviare sulla Luna piccoli robot automatici per esplorarne il suolo, raccogliere dati sulle sue caratteristiche e prepararsi meglio alle future esplorazioni con esseri umani del programma lunare Artemis.
    A differenza di quanto avveniva un tempo, l’iniziativa prevede un forte coinvolgimento di aziende private, che hanno la diretta responsabilità sull’organizzazione della missione e che la finanziano attraverso contratti di appalto con la NASA e accordi con altre aziende e organizzazioni, interessate a trasportare sulla Luna robot, sensori, oggetti e persino le ceneri di persone che in vita avevano espresso il desiderio di essere sepolte tra i crateri lunari. LEGGI TUTTO

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    Il cervello cambia durante il ciclo mestruale

    Caricamento playerPer una parte delle donne i giorni vicini alle mestruazioni sono associati a sbalzi d’umore e maggiore emotività e irritabilità, per cui è piuttosto noto che ci siano relazioni tra gli ormoni che regolano il ciclo mestruale e il cervello. Sappiamo anche che il cervello è pieno di recettori che reagiscono agli ormoni, compresi quelli che non c’entrano nulla con ovulazioni e mestruazioni. Tuttavia le ricerche su cosa succeda nelle diverse fasi del ciclo a livello dei neuroni sono ancora molto carenti, e tra le altre cose non si sa come mai certe donne sperimentino notevoli variazioni di umore e altre no.
    Di recente però due diversi studi hanno ampliato le conoscenze in questo ambito grazie a una serie di risonanze magnetiche cerebrali praticate su più di 50 giovani donne in buona salute durante diversi momenti dei loro cicli mestruali. Entrambi dicono che alcune regioni del cervello si modificano significativamente durante le fasi del ciclo. Per il momento non sappiamo se a questi cambiamenti fisici corrispondano variazioni nelle funzioni del cervello, negli stati emotivi o eventualmente nelle capacità cognitive, ma sapere che cervelli adulti possono cambiare «in modo super veloce», per dirla come Julia Sacher, tra le neuroscienziate autrici di uno dei due studi, è già un notevole progresso.
    Il ciclo mestruale è la sequenza di fasi periodiche che avvengono fisiologicamente nell’apparato riproduttivo femminile in età fertile, cioè più o meno tra i 12 e i 50 anni, e coinvolgono principalmente l’utero e le ovaie. Ogni mese la mucosa interna dell’utero, l’organo che può ospitare eventuali gravidanze, si modifica per accogliere un ovulo proveniente dalle ovaie (ovulazione). Spesso colloquialmente si usa l’espressione “ciclo” per indicare le mestruazioni, cioè il momento in cui la mucosa dell’utero (endometrio), se non è iniziata una gravidanza, perde la sua parte più superficiale, che viene espulsa come sangue e tessuti attraverso la vagina.
    Convenzionalmente il ciclo inizia il primo giorno di mestruazioni. Le mestruazioni durano dai 2 agli 8 giorni nella maggior parte dei casi e avvengono in contemporanea con l’inizio della prima fase del ciclo, la fase follicolare. Complessivamente dura circa 13-14 giorni: è la fase in cui all’interno delle ovaie si sviluppano vari follicoli, cioè sacche di liquido contenenti un ovulo ciascuna. Nella successiva fase ovulatoria, un solo ovulo viene rilasciato e arriva all’utero, dove nell’arco di circa 12 ore può essere fecondato. Poi arriva la fase luteinica, in cui l’endometrio si inspessisce; se non c’è stata fecondazione dopo circa 14 giorni si sfalda facendo iniziare la mestruazione. La maggior parte delle donne sperimenta quasi 450 cicli mestruali nella vita.
    A ogni fase del ciclo corrispondono diversi livelli di differenti ormoni nel corpo. Nella fase follicolare aumentano i livelli di estrogeni fino a un picco; nella fase ovulatoria c’è una notevole diminuzione dei livelli di estrogeni e aumenta progressivamente quello di progesterone; il picco di progesterone avviene nella fase luteinica, che si conclude con la diminuzione dei livelli di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni regolano il funzionamento di ovaie e utero, ma possono influenzare anche il resto del corpo.

    – Leggi anche: Cosa sono davvero le mestruazioni

    Per quanto riguarda il cervello, il primo studio che mostrò che in quello dei mammiferi succedeva qualcosa in risposta ai cambiamenti nei livelli di ormoni sessuali femminili risale al 1990.
    Un gruppo di ricerca del laboratorio di neuroendocrinologia della Rockefeller University di New York scoprì che nelle femmine di ratto i livelli di estrogeni hanno degli effetti sull’ippocampo, una parte del cervello che ha grande importanza cognitiva ed è fondamentale per la memoria. In particolare accertò che nell’ippocampo questi ormoni regolano la densità delle ramificazioni dei dendriti, i prolungamenti dei neuroni attraverso cui le cellule del cervello comunicano. Nell’ippocampo, che aumenta di volume negli adulti quando si è impegnati ad apprendere nuove abilità e conoscenze pratiche, ci sono numerosi recettori per gli ormoni sessuali.
    Studi successivi mostrarono poi che con la menopausa, cioè con la fine della fertilità femminile, la densità dei dendriti diminuisce in alcune parti del cervello, ma fino a poco tempo fa nessuno aveva osservato con costanza eventuali cambiamenti analoghi nel corso di uno stesso ciclo mestruale nelle medesime donne.
    I due recenti studi sui cambiamenti del cervello nel corso del ciclo lo hanno fatto. Sono indipendenti tra loro e sono stati divulgati lo scorso ottobre. Il primo è stato realizzato da un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le scienze cognitive e cerebrali umane e dell’Università di Lipsia, in Germania, di cui fa parte Sacher, ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Mental Health. Il secondo studio è stato fatto all’Università della California di Santa Barbara, negli Stati Uniti, ed è stato diffuso su bioRxiv in versione preprint, cioè prima di essere rivisto da ricercatori terzi e indipendenti (peer-review), pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo del gruppo di Lipsia.
    Allo studio tedesco hanno partecipato 27 donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con cicli mestruali regolari e senza patologie neurologiche o psichiatriche, che non si erano mai sottoposte a terapie ormonali, non avevano avuto gravidanze, aborti e non avevano allattato nell’anno precedente allo studio, e non usavano contraccettivi ormonali da almeno sei mesi. Dallo studio sono state escluse donne che mostravano sintomi umorali premestruali. A ognuna delle partecipanti sono sono stati fatti prelievi di sangue per monitorare i livelli ormonali in sei diversi momenti del ciclo mestruale; nelle stesse occasioni sono state sottoposte a risonanze magnetiche per analizzare l’ippocampo e il vicino lobo temporale mediale.
    In questo modo il gruppo di ricerca di Lipsia ha osservato che all’aumento dei livelli di estrogeni la parte esterna dell’ippocampo aumenta di volume e la materia grigia, costituita dai corpi dei neuroni e dai dendriti, si espande. Quando poi crescono i livelli di progesterone si espande la parte legata alla memoria.
    Lo studio realizzato in California, basato sulle risonanze effettuate su 30 donne di età media di circa 22 anni, ha osservato qualcosa di analogo oltre a modifiche nella sostanza bianca, che invece è costituita dagli assoni, i prolungamenti più lunghi dei neuroni. Gli autori di questo secondo studio hanno ipotizzato che i cambiamenti ormonali associati all’ovulazione possano favorire il trasporto di informazioni tra diverse parti del cervello.
    Per il momento comunque non si possono trarre conclusioni su eventuali effetti sulla memoria, sulle capacità cognitive o su altre funzioni del cervello.
    «In generale, il cervello femminile è ancora molto poco considerato negli studi delle neuroscienze cognitive», ha detto Sacher: «Anche se gli ormoni sessuali steroidei sono potenti modulatori dell’apprendimento e della memoria, meno dello 0,5 per cento della letteratura scientifica basata su tecniche di neuroimaging prende in considerazione le fasi ormonali come quelle del ciclo mestruale, l’influenza dei contraccettivi ormonali, della gravidanza e della menopausa. Siamo impegnati a rimediare a questo grosso buco della ricerca». Nell’ambito della fisiologia e della salute i corpi femminili sono stati studiati molto meno di quelli maschili: nuove scoperte in questo campo potrebbero aiutare a capire meglio i rischi e la resistenza a malattie come la depressione e l’Alzheimer quando riguardano le donne.

    – Leggi anche: Si possono, per scelta, eliminare le mestruazioni? LEGGI TUTTO

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    Qual è la posizione migliore per dormire?

    All’inizio del secondo capitolo dei Promessi sposi, Alessandro Manzoni scrive che «il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi», una delle battaglie più importanti della Guerra dei trent’anni tra Francia e Spagna nel Seicento. L’autore ricorda che il principe riuscì a dormire nonostante lo attendesse una battaglia decisiva perché «in primo luogo, era molto affaticato» e perché aveva già «stabilito ciò che dovesse fare, la mattina», mentre non fornisce informazioni sulla posizione che Condè mantenne a letto. A dirla tutta, anche se Manzoni ce lo avesse raccontato, ce ne saremmo fatti ben poco: a oggi non c’è infatti un consenso unanime sulla posizione migliore per dormire.Studiare il modo in cui le persone dormono non è semplice: non si possono ricostruire fedelmente in laboratorio le condizioni in cui normalmente una persona riposa come a casa propria, i sensori da indossare per tenere traccia dei movimenti a letto possono turbare il sonno e le persone in generale non sono molto affidabili nel raccontare le loro abitudini notturne. I vari gruppi di ricerca che se ne sono occupati hanno dovuto quindi confrontarsi con questi problemi e ciò spiega, almeno in parte, perché non si trovino molte ricerche solide nella letteratura scientifica.
    La posizione più usataLa pratica più semplice, ma non sempre affidabile, consiste nel chiedere a un gruppo selezionato di persone quali posizioni assumono di preferenza a letto quando si mettono a dormire. È un approccio che può offrire molti spunti, ma ha un grande difetto: mentre quasi tutti si ricordano l’ultima posizione prima di addormentarsi, nessuno ha davvero consapevolezza di quali posizioni assuma nel corso della notte, quando subentra l’alterazione della coscienza. Alcuni dicono di avere un vago ricordo, per esempio se si sono svegliati per qualche istante nottetempo, magari perché avevano un crampo o dovevano andare a fare pipì, ma anche in questo caso i ricordi sono confusi e talvolta contraddittori.
    Un approccio che offre qualche risultato più affidabile consiste nel riprendere gruppi di volontari mentre dormono, utilizzando telecamere a infrarossi che permettono di effettuare riprese anche al buio. Il sistema funziona bene se le persone dormono scoperte, mentre è meno affidabile se per ricreare il più fedelmente possibile le condizioni del normale riposo si utilizzano anche le coperte (il cui peso sembra influire sul modo in cui dormiamo e ci muoviamo a letto). Per questo da qualche tempo vengono sperimentati sistemi con telecamere con sensori che permettono di ricostruire tridimensionalmente le riprese, in modo da rilevare meglio i movimenti durante il sonno.
    Le immagini mostrano le posizioni assunte durante il riposo, anche nel caso di utilizzo di coperte (Sensors)
    Alle telecamere vengono talvolta aggiunti sensori di movimento da indossare, che possono fornire indicazioni più precise sulla posizione assunta nel corso della notte. Utilizzando questo sistema, uno studio ha ricostruito che in media una persona adulta trascorre circa metà del sonno sui fianchi, il 40 per cento dormendo sulla schiena (posizione supina) e il resto del tempo a pancia in giù (posizione prona).
    La stessa ricerca ha rilevato che più le persone invecchiano più tendono a preferire la posizione su un fianco. Per i bambini con più di tre anni di età le cose funzionano invece diversamente e il sonno sul fianco, supino e prono si distribuisce più o meno equamente. I neonati dormono quasi esclusivamente sulla schiena, sia perché hanno meno mobilità sia perché di solito hanno meno possibilità di muoversi, per come vengono messi nella culla anche per ridurre il rischio di soffocamento.
    Qualità del sonno e posizioneIl fatto che una posizione sia mantenuta senza costrizioni per la maggior parte del tempo potrebbe indicare che si tratti della migliore possibile, per ottenere un sonno di qualità e riposante, ma anche in questo caso trovare conferme non è semplice. Come racconta BBC Future, alcuni gruppi di ricerca hanno provato a valutare il rapporto tra posizione e qualità del sonno su alcuni volontari. Gli studi in tema non sono però molti e hanno coinvolto una quantità piuttosto limitata di persone.
    Uno studio osservazionale (cioè basato sulla semplice osservazione di ciò che accade senza interventi da parte di chi effettua la sperimentazione) è consistito nel far dormire alcune persone prendendo nota delle loro posizioni e chiedendo poi come si sentissero dopo avere dormito. Alla fine del test, le persone che avevano trascorso la maggior parte del tempo sul fianco destro avevano riferito di avere riposato un po’ meglio rispetto alle persone che avevano dormito sul fianco sinistro o in posizione supina.
    Una possibile spiegazione è che la maggior parte delle persone respira meglio quando dorme su un fianco, perché le vie aeree rimangono più distese e si riducono i rischi di piccole strozzature che potrebbero rallentare il flusso dell’aria. Per esempio: dormendo sul fianco ci sono meno probabilità che la lingua, l’ugola e gli altri tessuti molli del palato ostruiscano il passaggio dell’aria.
    (William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)
    Sono proprio i tessuti molli la principale causa del russare e delle apnee notturne, le fasi dove per qualche istante si smette di respirare e che col tempo possono essere rischiose per il sistema cardiocircolatorio. Non è del resto un caso se alle persone che russano viene consigliato di dormire il più possibile su un fianco, proprio per ridurre il fenomeno, il rischio delle apnee e per dare un po’ di tregua alle persone che dormono con loro.
    Destra o sinistra?Non è comunque chiaro se un fianco sia meglio dell’altro e le testimonianze nelle ricerche variano molto. Per le persone che soffrono di reflusso gastroesofageo, cioè del passaggio ricorrente degli acidi gastrici dallo stomaco verso l’esofago con bruciori e infiammazioni (che a lungo andare possono avere conseguenze importanti sulla salute e che di solito peggiora quando ci si stende a letto), sembra essere più indicato dormire sul fianco sinistro. È stato osservato che in alcune persone che dormono in questa posizione il reflusso diminuisce, probabilmente per via dell’orientamento che assume lo stomaco e in particolare lo sfintere esofageo, che insieme al cardias regola il passaggio delle sostanze tra esofago e stomaco.
    Alle persone con reflusso viene spesso consigliato di dormire utilizzando un paio di cuscini o comunque inclinando verso l’alto il materasso dalla parte della testa, in modo da ridurre la risalita dei succhi gastrici. È un accorgimento di solito efficace, anche se può risultare scomodo per alcuni e può incidere sulla qualità del sonno. Il fatto che nel medioevo si dormisse praticamente seduti non è di grande consolazione.
    Dormire sul fianco potrebbe comunque non essere molto indicato per chi ha problemi alle articolazioni delle gambe e in particolare alle anche. Per ridurre il rischio di ulteriori infiammazioni viene consigliato di inserire un cuscino tra le gambe, più o meno all’altezza delle ginocchia, in modo da ridurre il carico in particolare in prossimità della testa del femore, che si innesta nel bacino.
    Segni e rugheSul dormire o meno sul fianco potrebbero influire anche valutazioni non legate direttamente alla qualità del sonno, salvo non si abbia il terrore di avere qualche ruga. Una decina di anni fa un gruppo di chirurghi estetici scrisse un’analisi della letteratura scientifica disponibile sulle distorsioni che la pelle subisce mentre si dorme, in particolare quella del viso che rimane per molte ore compresso tra cuscini, coperte e materasso.
    L’analisi segnalava la possibilità di distinguere tra rughe di espressione e dovute a sollecitazioni meccaniche esterne, come tenere la faccia appoggiata a lungo su un cuscino, ma indicava comunque una certa difficoltà nel ricondurre alcuni tipi di rughe alla posizione assunta a letto. Mentre le rughe di espressione sono legate a una riduzione della tenuta dell’impalcatura della pelle (costituita per lo più da collagene) e della muscolatura del viso, le rughe da sonno hanno cause diverse e potrebbero quindi rispondere meno ai trattamenti più utilizzati per nasconderle, come l’impiego di neurotossine (come il botulino).
    Schema dei segni sulla pelle che potrebbero derivare dalla compressione del viso a letto (Aesthet Surg J)
    Il gruppo di chirurghi estetici aveva concluso la ricerca suggerendo la posizione supina per ridurre il rischio di avere molte rughe da sonno, pur riconoscendo la difficoltà di mantenere la medesima posizione durante tutta la fase del sonno: «La nostra posizione iniziale deriva da una scelta, ma inconsciamente cambiamo poi posizione nel corso della notte. La posizione supina potrebbe essere ideale per l’estetica del viso, ma potrebbe peggiorare condizioni come le apnee notturne, il reflusso gastroesofageo e il forte russamento».
    Schiena e torcicolloAl di là dell’estetica, la posizione sul fianco può rivelarsi problematica per le persone che soffrono di torcicollo. Analizzando il sonno di un gruppo di volontari, uno studio ha notato che chi segnalava di svegliarsi con problemi al collo trascorreva almeno una parte della notte in una posizione contorta: iniziava dormendo normalmente sul fianco, ma dopo un po’ ruotava il bacino comportando una torsione della colonna vertebrale. In quella posizione tendini e muscoli del collo possono subire stiramenti e maggiori sollecitazioni, dai quali derivano poi i problemi alla cervicale al risveglio. Più notti trascorse in una posizione contorta possono causare una maggiore infiammazione del collo, al punto da richiedere l’uso di antidolorifici o di fisioterapia per risolvere il problema.
    Anche in questo caso lo studio deve essere comunque preso con le molle. Non è infatti chiaro se i volontari assumessero quella posizione casualmente procurandosi poi il male al collo, o se invece finissero per assumerla per non sentire il dolore di un torcicollo già presente (“posizione antalgica”). In questo secondo caso, il problema non sarebbe stato causato dalla posizione sul fianco, ma da altri fattori preesistenti.
    Sempre BBC Future segnala uno studio che fu realizzato alcuni anni fa in Portogallo, con un gruppo di volontari che soffrivano di mal di schiena o di torcicollo. Ai primi fu detto di dormire su un fianco, mentre agli altri di dormire supini. Dopo un mese, il gruppo di ricerca effettuò un sondaggio tra i partecipanti e il 90 per cento di loro disse di avere notato un miglioramento, con la riduzione del dolore. Lo studio era però stato svolto su appena una ventina di persone, quindi un campione ridotto per trarre conclusioni in generale. Non era inoltre stato possibile verificare più di tanto il rispetto delle indicazioni sulla posizione da assumere, senza contare che comunque questa varia durante il riposo.
    Altre ricerche su posizione e qualità del sonno si sono concentrare sui cuscini e le loro caratteristiche, partendo dal presupposto che un sostegno per la testa e il collo sia importante per ridurre gli stress a carico della colonna vertebrale. La mancanza di un sostegno può interferire negativamente sull’allineamento delle vertebre, causando dolori muscolari al collo, alle spalle e fino all’area lombare.
    Cuscini e materassiIl materiale con cui è fatto il cuscino sembra non incidere più di tanto sulla salute della schiena e in particolare della cervicale. Altre ricerche hanno invece segnalato come la forma del cuscino sia importante, ma comunque con un certo grado di soggettività come spesso avviene con le cose tra salute e comfort. Un cuscino con un’infossatura al centro sembra favorire un sonno di maggiore qualità, ma anche in questo caso sarebbero necessari altri studi per tenere in considerazione tutte le variabili.
    Per quanto riguarda i materassi, quelli semirigidi offrono maggiore sostegno alla schiena e riducono il rischio di assumere posizioni troppo contorte. Girare e ruotare almeno un paio di volte all’anno il materasso aiuta a mantenerlo più confortevole e a farlo durare di più, visto che la pressione esercitata dal corpo varia molto dalla testa alle gambe.
    AbitudiniIn conclusione, non c’è in assoluto una posizione migliore delle altre per dormire, ma in alcuni casi può essere utile e salutare provare a cambiare abitudine, anche se può risultare molto difficile per chi è da sempre abituato ad addormentarsi in una certa posizione. Inoltre, si stima che ogni persona si sposti tra le 10 e le 40 volte nel corso di una notte, con una certa tendenza a tornare istintivamente nella propria posizione di abitudine dopo un po’ di tempo.
    Per provare a cambiare abitudine, gli esperti consigliano di utilizzare qualche ostacolo fisico che induca a mantenere la posizione consigliata, che nella maggior parte dei casi è quella su un fianco (specialmente per chi ha problemi di reflusso o di apnee notturne, come abbiamo visto). La tecnica più suggerita consiste nel cucire una pallina da tennis nel proprio pigiama, all’altezza della schiena o del torso, a seconda se si tende a dormire molto supini o proni. In questo modo quando si prova a cambiare posizione da addormentati si eviterà di rimanere sulla schiena o a pancia in giù, tornando a dormire su un fianco. Dopo qualche notte si perde l’abitudine a dormire nella posizione da evitare, ma è stato osservato che dopo un po’ di tempo il problema tende a ripresentarsi, rendendo necessarie nuove sessioni con la pallina da tennis.
    Negli ultimi anni sono stati sviluppati particolari dispositivi da indossare che rilevano la posizione e, nel caso sia quella scorretta, inviano una lieve scossa o una vibrazione che induce a sistemarsi meglio a letto. Il sistema sembra funzionare, ma nei primi tempi potrebbe ridurre la qualità del sonno a causa dei microrisvegli dovuti alle scosse o alle vibrazioni.
    Una via di mezzo senza palline da tennis e scosse prevede di utilizzare semplicemente un cuscino, oppure un cuneo di gommapiuma, da tenere alle spalle quando si dorme sul fianco, in modo da rendere meno probabile il ritorno in una posizione prona o supina. LEGGI TUTTO

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    Un rettile quasi fantastico

    Venerdì un gruppo internazionale di ricerca ha pubblicato sulla rivista Earth and Environmental Science Transactions of the Royal Society of Edinburgh una ricerca che descrive per la prima volta la struttura dello scheletro del Dinocephalosaurus orientalis, un rettile che visse circa 240 milioni di anni fa, durante il Triassico, e che ha un aspetto piuttosto sorprendente che ha portato molti a paragonarlo a un piccolo drago.Tra le altre cose, i ricercatori hanno mostrato per la prima volta il fossile di un esemplare conservato in condizioni piuttosto eccezionali: lo hanno descritto come il «più completo e articolato» fossile di Dinocephalosaurus orientalis scoperto finora, dato che raffigura uno di questi rettili nella sua interezza.
    Il primo fossile di questa specie fu scoperto nel 2003 nella provincia di Guizhou, nel sud della Cina, ma era incompleto: presentava soltanto il cranio e le prime tre vertebre cervicali. Da allora nella stessa zona sono stati scoperti altri 6 fossili di altri esemplari (5 dei quali mostrati per la prima volta all’interno della ricerca). I ricercatori, provenienti da Scozia, Germania, Stati Uniti e Cina, hanno confrontato i 7 fossili di Dinocephalosaurus orientalis scoperti finora per descrivere nel dettaglio la struttura dello scheletro: per completare gli studi sono stati necessari dieci anni.
    Il Dinocephalosaurus orientalis aveva un collo straordinariamente lungo, con 32 vertebre cervicali (per fare un paragone, l’essere umano ne ha 7), e una lunghezza complessiva di circa 5 metri. I suoi arti erano palmati, e sono stati trovati dei fossili di pesci in buono stato di conservazione nella regione dello stomaco di alcuni esemplari: questi dettagli fanno supporre che fosse un rettile marino, «adatto a uno stile di vita oceanico». «Siamo certi che stimolerà l’immaginazione di tutto il mondo grazie al suo aspetto così sorprendente, che ricorda il mitico drago cinese» ha detto Nick Fraser, uno degli scienziati coinvolti nel progetto.
    Scotland National Museums
    Negli scorsi anni il collo lungo del Dinocephalosaurus orientalis era stato paragonato a quello del Tanystropheus hydroides, un altro rettile marino che visse nel periodo del Triassico. Tuttavia, il Dinocephalosaurus ha un numero più alto di vertebre sia nel collo che nel busto, e a differenza del Tanystropheus ha un aspetto che ricorda quello di un serpente.
    La ricostruzione dello scheletro del Tanystropheus (Museum of Natural History Zurich)
    Ricostruzione in 3D del probabile aspetto del Dinocephalosaurus orientalis (National Scotland Museums)
    Gli studi sono stati condotti presso l’istituto di Paleontologia dei vertebrati e Paleoantropologia di Pechino, parte dell’Accademia cinese delle scienze.

    – Leggi anche: Il “più antico fossile italiano” non è quello che sembrava LEGGI TUTTO

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    È stata trovata una nuova sottospecie di Xylella in provincia di Bari

    Caricamento playerA Triggiano, in provincia di Bari, è stata trovata una nuova sottospecie del batterio Xylella fastidiosa, quello che negli ultimi anni ha causato la morte e l’abbattimento di milioni di ulivi. La nuova specie è stata trovata su sei mandorli. Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura della Puglia, ha detto all’agenzia di stampa ANSA che gli alberi su cui il batterio è stato trovato saranno abbattuti e verranno fatte analisi sulle piante presenti in un’area di 800 metri di raggio intorno. Il nome della sottospecie individuata sui mandorli è Xylella fastidiosa fastidiosa, mentre la sottospecie già ben nota è la Xylella fastidiosa pauca.
    La Xylella è la causa del “disseccamento rapido”, una malattia che se colpisce gli ulivi li porta a non produrre più olive e a morire in poco tempo. Si trasmette da un albero all’altro grazie ad alcuni insetti vettori, e principalmente attraverso il Philaenus spumarius, noto con il nome comune di “sputacchina”. È stato ricostruito che il batterio arrivò in Salento, nel sud della Puglia, nel 2008, trasportato da una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica. Della sua presenza ci accorgemmo solo nel 2013, quando in Salento molti ulivi cominciarono a morire per il disseccamento rapido, per cui non esiste una cura. Da allora il batterio ha continuato a diffondersi verso nord e negli ultimi due anni è arrivato in provincia di Bari.
    Da anni la Regione Puglia contrasta la diffusione del batterio facendo ripetuti controlli su ampie aree di territorio agricolo. Il Piano d’azione per contrastare la diffusione di Xylella fastidiosa in Puglia 2023-2024 prevede zone dette “cuscinetto” e “di contenimento” a nord delle zone infette in cui vengono fatte analisi a campione sugli insetti vettori e, se è confermata la presenza della Xylella, su piante della zona. È stato così che è stato trovato il batterio nei mandorli, dopo una raccolta di campioni fatta a gennaio.

    Dall’inizio dell’anno le operazioni di monitoraggio hanno già interessato 2.614 ettari di terreno, cioè circa 26 chilometri quadrati; le piante ispezionate sono state più di 17mila. Tra gennaio e febbraio gli abbattimenti sono stati 237, ma finora nessuno ha riguardato piante infette: sono state abbattute anche quelle valutate a rischio per contenere la diffusione del batterio.
    «Non dobbiamo creare allarmismi», ha detto Pentassuglia, «ma nemmeno abbassare la guardia». L’assessore ha poi aggiunto che non si sa ancora se la sottospecie di Xylella sia più o meno dannosa per gli ulivi o altre piante, ma ha ricordato che la sputacchina si nutre anche della linfa della vite, un’altra pianta fondamentale per l’economia agricola non solo pugliese, e anche per questo bisogna continuare a fare attenzione alla diffusione del batterio. LEGGI TUTTO

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    Uno storico satellite sta precipitando verso la Terra, ma non c’è da preoccuparsi

    Caricamento playerIl satellite ERS-2, grande più o meno quanto un minibus, sta precipitando verso la Terra. Ma non c’è da preoccuparsi: il suo rientro incontrollato nell’atmosfera avverrà nella serata di oggi e buona parte del satellite si disintegrerà ad altissima quota, con solo qualche possibilità che alcuni frammenti raggiungano il suolo.
    Non è la prima volta che succede, ma l’evento è a suo modo storico perché segna la fine dei uno dei primi satelliti europei per lo studio del clima lanciato a metà degli anni Novanta, con tecnologie all’epoca ancora poco utilizzate in orbita e che ora fanno parte di molti satelliti per l’osservazione del suolo, degli oceani e delle caratteristiche dell’atmosfera.
    Il satellite era stato sviluppato grazie a una collaborazione gestita dall’Agenzia spaziale europea (ESA) nell’ambito del programma European Remote Sensing (ERS) per lo studio della Terra all’inizio degli anni Novanta. L’ESA aveva inviato in orbita ERS-1 nel 1991 e quattro anni dopo aveva lanciato ERS-2, il satellite che ora sta tornando verso il nostro pianeta.
    La missione scientifica di ERS-2 era durata fino al 2011: anche se dopo 16 anni il satellite era ancora funzionante, l’ESA aveva deciso di fermarne le attività e di farlo distruggere nell’atmosfera, in modo da ridurre la presenza dei rifiuti spaziali in orbita, un problema sempre più sentito e con notevoli rischi per il funzionamento delle altre migliaia di satelliti che girano intorno alla Terra.
    Dopo aver fatto alcune manovre, il satellite era stato portato dai 780 chilometri dove effettuava buona parte delle proprie rilevazioni a 573 chilometri di altitudine e disattivato, in modo che lentamente perdesse quota fino a compiere un ingresso nell’atmosfera in una quindicina di anni. La previsione era abbastanza accurata e ora ERS-2 sta perdendo quota più velocemente e secondo le previsioni terminerà il proprio viaggio nella serata di mercoledì.
    Il satellite ERS-2 nelle fasi di preparazione prima del lancio (ESA)
    Non è però semplice stabilire con certezza su quale porzione del pianeta avverrà la distruzione, perché molto dipende dalla velocità del rientro e dalla densità dell’atmosfera, che varia a seconda di numerose variabili compresa l’attività solare. La traiettoria seguita da ERS-2 è comunque tenuta sotto controllo dall’ESA e da diverse altre organizzazioni, in modo da poter fare stime più accurate quando il satellite sarà intorno agli 80 chilometri di altitudine, il probabile momento in cui avverrà la distruzione.
    ERS-2 ha una massa di 2,5 tonnellate, comparabile con quella di diversi altri satelliti e detriti spaziali che in media rientrano nell’atmosfera con una frequenza di 7-15 giorni. A differenza dei satelliti più recenti, solitamente progettati per produrre la minor quantità possibile di detriti, ERS-2 ha alcuni componenti che potrebbero resistere alle sollecitazioni e alle alte temperature che si sviluppano nel rientro nell’atmosfera. La sua antenna principale era stata costruita in fibra di carbonio, un materiale molto resistente, di conseguenza alcune sue parti potrebbero arrivare al suolo.
    Anche se così fosse il rischio per la popolazione sarebbe comunque minimo, come ha spiegato l’ESA:
    Il rischio su base annua per un essere umano di essere ferito da un detrito spaziale è inferiore a 1 su 100 miliardi. Per fare un confronto, è un rischio: circa 1,5 milioni di volte inferiore rispetto a quello di morire in un incidente domestico; circa 65mila volta inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un fulmine; circa tre volte inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un meteorite.
    Il rischio è molto basso per un semplice motivo: buona parte della Terra è disabitata, considerato che gli oceani da soli ne ricoprono il 70 per cento e che ci sono enormi porzioni di territorio in cui non vive nessuno. La maggior parte degli esseri umani vive in aree densamente popolate e questo può creare una percezione distorta sull’effettiva presenza umana in tutto il pianeta.
    Rappresentazione schematica della carriera di ERS-2 nello Spazio (ESA)
    Quando furono lanciati nella prima metà degli anni Novanta, ERS-1 ed ERS-2 contenevano alcune delle tecnologie più avanzate disponibili all’epoca per l’osservazione e lo studio della Terra. I sensori di ERS-2 permisero di effettuare in modo più accurato la misurazione della temperatura superficiale del suolo e degli oceani, raccogliendo dati fondamentali per la costruzione dei modelli per lo studio del cambiamento climatico. ERS-2 fu anche molto importante per osservare l’assottigliamento dello strato di ozono in alcune parti dell’atmosfera, il cosiddetto “buco nell’ozono”, così come per analizzare alcuni andamenti atmosferici per migliorare l’affidabilità delle previsioni meteorologiche.
    Nel corso dei suoi 16 anni di utilizzo, ERS-2 fu inoltre impiegato per analizzare gli effetti di alcuni disastri naturali, come grandi inondazioni su alcune porzioni di territorio, e per studiare la salute delle foreste e identificare i casi di deforestazione illegale. Insieme a ERS-1, rese possibili oltre 5mila progetti scientifici e i dati raccolti in quegli anni sono ancora oggi preziosi per studiare andamenti e variazioni al suolo, negli oceani e nell’atmosfera.
    Lo stretto di Messina ripreso in varie date da ERS-2 (ESA)
    Per questi motivi ERS-1 ed ERS-2 sono considerati «i pionieri europei dell’osservazione della Terra» e le conoscenze accumulate con il loro sviluppo, e il loro utilizzo, ha reso poi possibile la produzione di satelliti di nuova generazione. Nel marzo del 2002 l’Agenzia spaziale europea inviò in orbita Envisat, un satellite che conteneva strumenti sperimentati nel programma ERS e aggiornati con nuove funzionalità. Alcuni dei sensori impiegati su ERS-2 avrebbero poi reso possibile il perfezionamento di strumenti molto importanti per valutare le variazioni nella conformazione del territorio (InSAR), oggi impiegati da Copernicus, l’iniziativa satellitare europea per lo studio della Terra.
    A differenza di ERS-2, ERS-1 smise di rispondere ai comandi prima di poter essere collocato a una quota che garantisse la sua fine nell’atmosfera entro pochi anni. Attualmente il satellite si trova a 700 chilometri di distanza dalla Terra e potrebbe impiegare fino a un secolo prima di raggiungere nuovamente il nostro pianeta.
    Difficilmente oggi si potrebbe verificare un imprevisto di questo tipo, per lo meno con i satelliti sotto la responsabilità dell’ESA. L’Agenzia ha infatti adottato nel 2022 il “Zero Debris Charter”, un trattato che prevede numerosi vincoli nella realizzazione e nella gestione dei satelliti, proprio per ridurre il problema dei rifiuti spaziali. L’ESA si è impegnata a utilizzare satelliti che possano essere manovrati per essere spostati in orbite che ne assicurino la fine nell’atmosfera, dove si potranno polverizzare senza causare problemi. Il trattato prevede inoltre che non passino più di cinque anni dal momento in cui un satellite viene disattivato al momento in cui viene distrutto.
    In quasi 70 anni di attività spaziali, sono stati trasportati in orbita migliaia di satelliti, molti dei quali non sono più funzionanti. Mentre i satelliti più recenti hanno spesso sistemi per modificare la loro orbita quando non servono più, in modo che si disintegrino al loro rientro nell’atmosfera o per essere parcheggiati in orbita a debita distanza dal nostro pianeta, i satelliti più vecchi sono impossibili da controllare dalla Terra e non possono essere smaltiti.
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    La presenza di così tanti detriti spaziali fa aumentare sensibilmente il rischio di collisioni con satelliti attivi. Incidenti di questo tipo possono portare alla produzione di nuovi detriti, che a loro volta diventano rifiuti spaziali rischiosi per altri satelliti e così via.
    Alla fine degli anni Settanta, il consulente della NASA Donald J. Kessler ipotizzò che un tale effetto domino potesse portare ad avere talmente tanti detriti nell’orbita bassa intorno alla Terra (a una quota tra 300 e 1.000 chilometri) da rendere impossibile l’esplorazione spaziale e l’impiego di nuovi satelliti per generazioni. La “sindrome di Kessler” viene evocata sempre più di frequente come un rischio da esperti e responsabili delle agenzie spaziali, che da anni lavorano alla sperimentazione di sistemi per ridurre la quantità di rifiuti spaziali intorno alla Terra. LEGGI TUTTO