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    Si fa presto a dire test di Turing

    Caricamento playerL’8 giugno di settant’anni fa Alan Turing fu trovato morto nella propria casa di Wilmslow, in Inghilterra, dalla sua governante. Le analisi sul suo corpo portarono alla conclusione che uno dei più brillanti pionieri dell’informatica fosse morto il giorno prima – il 7 giugno – a causa di un avvelenamento da cianuro. Vicino al suo corpo c’era una mela mangiata a metà: si ipotizzò che Turing l’avesse usata per mascherare il sapore del veleno, ma non fu mai analizzata per verificare se contenesse tracce di cianuro. Turing morì dopo un periodo di grandi difficoltà, definito dalle leggi dell’epoca un criminale per la propria omosessualità e sottoposto alla castrazione chimica, dopo aver dato un contributo fondamentale all’informatica e allo sviluppo del concetto di “intelligenza artificiale”.
    Solo nel 2009, a più di mezzo secolo dalla sua morte, il governo britannico espresse il proprio rammarico per il trattamento riservato a Turing, così come alle migliaia di altre persone condannate per la loro omosessualità. Furono poi necessari altri quattro anni prima che la regina Elisabetta II concedesse a Turing una grazia postuma, riconoscendo il suo importante contributo per il progresso e la pace, soprattutto in un periodo drammatico come quello della Seconda guerra mondiale.
    Turing fu infatti uno dei protagonisti delle decodifica dei messaggi realizzati con Enigma, la macchina sviluppata dai nazisti per comunicare in codice e organizzare gli attacchi soprattutto contro i sottomarini degli Alleati, come raccontato nel film The Imitation Game con Benedict Cumberbatch. Ma il contributo più grande di Turing fu nello studio e nelle riflessioni intorno al rapporto tra gli esseri umani e le macchine, in un periodo in cui l’informatica per come la intendiamo oggi era agli albori e gli scenari in cui i computer avrebbero risolto molti dei nostri problemi sembravano ancora da fantascienza.
    Prima della Seconda guerra mondiale e di Enigma, Turing immaginò nei suoi studi una macchina in grado di svolgere qualsiasi compito, prospettando caratteristiche e funzionamenti non molto lontani da quelli dei computer che usiamo ogni giorno, smartphone compresi. Turing riteneva che la sua ipotetica macchina sarebbe stata in grado di rispondere a specifiche esigenze, a patto di fornirle un programma adeguato per farlo.
    Ma Turing era soprattutto affascinato dalla possibilità che un giorno le macchine potessero diventare sofisticate al punto da sembrare umane. Illustrò l’idea in un articolo pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica Mind, descrivendo un esperimento per mettere alla prova un sistema artificiale in una conversazione tra esseri umani.
    Fin dall’inizio dell’articolo Turing chiariva la difficoltà del problema: «Propongo di prendere in considerazione la seguente questione: “Le macchine possono pensare?”». La riflessione proseguiva segnalando come fosse difficile definire il concetto stesso di “pensare”, arrivando alla proposta di un gioco-test basato per lo più sul linguaggio da considerare come un’espressione di intelligenza.
    Una versione di Enigma (Getty Images)
    Nel corso del tempo sarebbero state elaborate varie versioni del test, oggi noto come “Test di Turing” dal nome del suo inventore, ma ci sono spesso elementi comuni. Nel test un valutatore deve essere in grado di distinguere veri interlocutori da un interlocutore artificiale, naturalmente senza poterli vedere e sapendo che uno di loro è una macchina. Il sistema artificiale supera la prova se il valutatore non riesce a distinguerlo dagli esseri umani.
    Nonostante fosse stato presentato in un articolo in parte speculativo e “minore” rispetto ad altre ricerche svolte da Turing – e non fosse definito esplicitamente come un modo per misurare l’intelligenza di un sistema – il test che porta il suo nome sarebbe diventato negli anni un importante punto di riferimento per chi si occupa di informatica e di sistemi di intelligenza artificiale. A oltre 70 anni dalla sua pubblicazione, si discute ancora oggi sulla possibilità che una macchina sviluppi una propria coscienza, tale da consentirle di articolare un pensiero e di averne consapevolezza.
    Nel corso del tempo il test di Turing avrebbe ricevuto diverse critiche per una certa ingenuità, dimostrata dal fatto che alcuni dei vincoli previsti possono essere facilmente aggirati per dare l’illusione al valutatore di avere effettivamente a che fare con un essere umano, anche se sta interagendo con una macchina fortemente limitata ma programmata per nascondere i propri limiti. Anche per questo motivo nacquero test alternativi, pur basati sugli assunti di Turing.
    ELIZA, un programma sviluppato negli anni Sessanta negli Stati Uniti, dava risposte all’apparenza “intelligenti” imitando uno psicologo. Il sistema suggeriva con una certa frequenza ai propri interlocutori umani di riflettere sulle loro affermazioni, proprio come avrebbe fatto un terapista, semplicemente componendo le proprie frasi in domande che contenevano parte delle risposte appena ricevute. Secondo alcuni parametri, ELIZA superava il test e in un recente studio ha anche battuto una delle versioni di GPT, il sistema di intelligenza artificiale che fa funzionare il famoso ChatGPT.
    Che un sistema concepito 60 anni fa, quando i computer avevano una frazione della capacità di calcolo di quelli attuali, ne abbia superato uno recentissimo e molto discusso proprio per le sue capacità si spiega col fatto che non esiste un’unica versione formalizzata del test. L’idea di base è quella che fu esposta da Alan Turing a metà Novecento, ma i modi in cui viene effettuato il test possono variare sensibilmente in base ai criteri scelti dai gruppi di ricerca che se ne occupano.
    Essendo il sistema più conosciuto e studiato degli ultimi anni, ChatGPT è finito al centro di molte sperimentazioni anche tese a verificare la sua capacità di produrre conversazioni così verosimili da poter essere scambiate per quelle prodotte da un essere umano.
    Nel luglio del 2023 un articolo pubblicato su Nature ha segnalato il superamento del test di Turing da parte di ChatGPT, pur evidenziando come rimangano irrisolti molti problemi legati al produrre sistemi che siano effettivamente in grado di ragionare. Alcuni particolari sistemi di AI come ChatGPT sono basati su modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) per la generazione di testi, che prevedono le parole da utilizzare man mano che scrivono una frase senza che abbiano una consapevolezza di ciò che stanno facendo (per alcuni esperti è un problema secondario, nel momento in cui una AI svolge comunque efficacemente il compito che le è stato assegnato).
    A inizio 2024 un altro studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha segnalato come la versione all’epoca più recente di ChatGPT producesse conversazioni non distinguibili da quelle dei suoi interlocutori umani, rivelando le proprie origini artificiali solo nel caso di risposte orientate in modo più marcato alla cooperazione e all’altruismo. La sperimentazione era stata effettuata basandosi su una serie di test solitamente somministrati per verificare la personalità e le scelte in particolari scenari, di tipo etico ed economico. Secondo il gruppo di ricerca, lo studio dimostra uno dei primi casi in cui una intelligenza artificiale ha superato «un rigoroso test di Turing», ma per alcune delle risposte fornite «non avrebbe probabilmente guadagnato molti amici».
    L’esperimento non può comunque essere considerato definitivo, visto che la questione del test di Turing e più in generale della capacità delle macchine di pensare è ancora ampiamente discussa tra chi si occupa di filosofia, di informatica e di matematica. La proposta di Turing non era del resto orientata a dare risposte, ma a fare domande: non aveva pensato il proprio test come una prova di intelligenza e umanità, ma come un gioco, una gara di imitazione. Lo immaginò in un’epoca molto diversa dalla nostra, dove sarebbe stato già sorprendente di per sé avere un programma che risponde a delle domande ed è in grado di portare avanti una conversazione.
    Oggi sappiamo che quei sistemi esistono, sono ormai nella nostra vita di tutti i giorni, ma sappiamo anche che non hanno consapevolezza di sé e che non “pensano”. E quando arriviamo a quest’ultima conclusione, ci interroghiamo su che cosa significhi davvero “pensare”, un concetto per nulla banale e sul quale si ragiona e specula praticamente da sempre. Turing era consapevole dell’impossibilità di dare una risposta convincente alla definizione di quel concetto, ancor prima di applicarlo alle macchine.
    Una statua dedicata ad Alan Turing a Manchester, Regno Unito (Getty Images)
    Di certo Turing avrebbe osservato con interesse i progressi raggiunti nel campo delle AI negli ultimi anni, visto che già nel suo articolo del 1950 ammetteva che «Le macchine mi sorprendono con grande frequenza», aggiungendo poi:
    L’idea che le macchine non possano suscitare sorprese è dovuta, a mio avviso, a un errore a cui sono particolarmente soggetti filosofi e matematici. Deriva dal presupposto che non appena un fatto viene presentato a una mente, tutte le conseguenze di quel fatto affiorano nella mente simultaneamente con esso. È un presupposto molto utile in molte circostanze, ma si dimentica troppo facilmente che è falso. Una conseguenza naturale di ciò è che si presuppone che non vi sia alcuna virtù nel mero elaborare conseguenze partendo da dati e principi generali.
    Alan Turing morì a 41 anni in circostanze mai completamente chiarite e che ancora oggi lasciano aperte molte domande. Due anni prima della sua morte, la polizia stava indagando su un furto avvenuto nella sua casa e Turing ammise di avere avuto una relazione fisica con un uomo, che gli aveva riferito di conoscere l’identità di chi aveva commesso il furto e che sarebbe stato quindi utile alle indagini. Nel marzo del 1952 Turing fu accusato di «grave indecenza e perversione sessuale» e si dichiarò colpevole e fu condannato alla castrazione chimica attraverso l’assunzione di estrogeni. La condanna per omosessualità comportò la fine dell’accesso da parte di Turing ai documenti e alle attività governative secretate, per esempio legate alle attività di intelligence durante la Guerra Fredda, nonostante pochi anni prima avesse dato un contributo importante nel decifrare i messaggi di Enigma.
    Il corpo di Alan Turing fu cremato due giorni dopo la morte e le ceneri furono disperse nel giardino del crematorio, nel punto in cui anni prima erano state disperse le ceneri di suo padre.
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    Dove chiedere aiutoSe sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22. LEGGI TUTTO

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    Mi tana es tu tana

    Caricamento playerDurante i grandi incendi tra il 2019 e il 2020 nel sud-est dell’Australia, sui social network e su alcuni giornali australiani si diffusero notizie sul comportamento virtuoso e altruistico dei vombati, ben disposti a raccogliere e ad accogliere animali di piccola taglia nelle loro tane sotterranee per proteggerli dal calore prodotto dalle fiamme.
    Dai racconti sembrava che i vombati avessero scelto volontariamente di aiutare gli altri animali, tanto che il loro comportamento fu definito “eroico”, cosa che non era vera e che tendeva a umanizzare il comportamento di una specie diversa dalla nostra. Di vero c’era però che alcune tane erano state comunque utilizzate come rifugio da altri animali, al punto da indurre un gruppo di ricerca ad approfondire la questione.
    I vombati sono nativi dell’Australia, assomigliano a grandi marmotte e a seconda delle specie da adulti possono arrivare fino a un metro di lunghezza e pesare tra i 20 e i 35 chilogrammi. Sono marsupiali erbivori, producono feci cubiche e hanno un metabolismo estremamente lento, che li aiuta a sopravvivere in condizioni aride o durante periodi in cui è più difficile trovare il cibo, come avviene nel corso degli incendi stagionali. Utilizzando i piccoli artigli sulle zampe e i denti resistenti, simili a quelli dei roditori, i vombati costruiscono tane sotterranee con reti intricate di tunnel che le mettono in collegamento, dove si riparano dai predatori e vivono al fresco.
    Quando tra il 2019 e il 2020 si svilupparono i grandi incendi nell’Australia sud orientale e iniziarono a circolare le notizie sulle presunte pratiche di accoglienza dei vombati, un gruppo di ricerca australiano iniziò a organizzare uno studio per capire come stessero effettivamente le cose. Nell’estate del 2021 alcuni ricercatori raggiunsero le zone del Woomargama National Park e in particolare della Woomargama State Forest, aree naturali coinvolte negli incendi degli anni precedenti. Posizionarono una trentina di fototrappole (fotocamere che si attivano al passaggio di qualcosa e che possono riprendere anche di notte utilizzando gli infrarossi) all’ingresso e all’interno di alcune tane dei vombati effettuando osservazioni per quasi un anno, fino all’aprile del 2022.
    Come racconta lo studio da poco pubblicato sul Journal of Mammalogy, le fototrappole hanno permesso di osservare un notevole traffico di altri animali intorno e nelle tane scavate dai vombati. Sono state contate più di cinquanta specie di vertebrati tra roditori, rettili e perfino qualche specie di uccello. La presenza di alcune di queste specie è stata osservata con maggiore frequenza in prossimità delle tane rispetto ad altre zone in cui non erano presenti gli ingressi ai tunnel.
    Frequentazione delle tane dei vombati da parte di altre specie (Journal of Mammalogy)
    Il gruppo di ricerca ha inoltre notato una certa preferenza da parte degli animali ospiti dei vombati per le tane presenti nelle zone dove gli incendi erano stati più distruttivi. Altri animali di taglia più grande, come canguri e wallaby (marsupiali simili ai canguri), si sono invece tenuti alla larga dalle tane, salvo queste non fossero allagate e offrissero allora un’opportunità di trovare refrigerio. I vombati possono essere del resto piuttosto aggressivi con gli invasori che ritengono essere una minaccia per i loro gruppi, mentre evidentemente non si curano più di tanto degli altri frequentatori occasionali delle loro tane e che ritengono innocui.
    Le tane dei vombati possono durare decenni e potenzialmente potrebbero offrire rifugio ad animali di specie diverse per un grande numero di generazioni. Secondo il gruppo di ricerca il fenomeno indica come le interazioni tra specie possano essere ancora più articolate e complesse di quanto finora osservato, soprattutto in contesti in cui viene attuata una coesistenza tutto sommato pacifica. Al tempo stesso, la ricerca mette sotto un’altra prospettiva il mito sulla presunta ospitalità dei vombati circolata negli anni scorsi, ricordando l’importanza di non proiettare sulle altre specie comportamenti tipicamente umani. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo successo per Starship

    Caricamento playerStarship, l’enorme astronave della società spaziale privata statunitense SpaceX, è tornata per la prima volta intera sulla Terra dopo un lancio sperimentale. Il lancio è avvenuto dalla base di Boca Chica, in Texas, senza equipaggio ed è considerato un nuovo importante progresso dopo i miglioramenti ottenuti con i tre test svolti in precedenza. SpaceX deve comunque effettuare ancora molti lanci prima di poter gestire i viaggi verso la Luna, come previsto dagli accordi con la NASA.

    SpaceX lavora a Starship da una decina di anni con l’obiettivo di sviluppare un sistema di lancio e un’astronave molto più potenti dei razzi che attualmente utilizza per portare satelliti in orbita ed equipaggi verso la Stazione Spaziale Internazionale. Oltre al contratto miliardario con la NASA, che vincola l’azienda ai piani lunari, SpaceX ha in programma di utilizzare Starship per trasportare in orbita satelliti e per far raggiungere un giorno agli astronauti Marte, il progetto più ambizioso di Elon Musk, il CEO della società e capo di Tesla e X.
    Il lancio è avvenuto alle 14:50 (ora italiana) con la grande astronave alta 50 metri che ha superato l’atmosfera, spinta da Super Heavy, il razzo alto 70 metri e dotato di 33 motori alimentati a ossigeno liquido e metano liquido. Il precedente volo sperimentale di Starship era avvenuto il 14 marzo scorso.
    Raggiunto l’ambiente spaziale, Super Heavy si è separato da Starship e ha avviato una manovra per tornare verso la Terra. A poche migliaia di metri dalle acque del Golfo del Messico, il razzo ha riacceso i motori per effettuare un ammaraggio controllato in assetto verticale. Non era mai accaduto prima che Super Heavy tornasse integro sulla Terra, uno dei principali progressi rispetto al test sperimentale dello scorso marzo quando si era distrutto nelle fasi di rientro.
    Starship inquadrata dal lato dello scudo termico (nero), montata sopra Super Heavy sulla rampa di lancio (SpaceX)
    Oggi come a marzo, SpaceX non aveva intenzione di recuperare né Super Heavy né Starship, ma sperimentare rientri meno traumatici è essenziale per mettere a punto le prossime versioni del sistema, quando sia il razzo sia l’astronave saranno riutilizzabili per più lanci.
    Il lancio di oggi aveva diverse somiglianze con il test dello scorso marzo, anche se SpaceX ha rivisto alcuni obiettivi, rinunciando per esempio ai test di riaccensione nell’ambiente spaziale di alcuni motori di Starship. L’obiettivo principale era riuscire a governare l’astronave, in modo che si potesse orientare nel modo corretto per effettuare il rientro circa 50 minuti dopo il lancio, resistendo alle temperature fino a 1.400 °C che si sviluppano a causa dell’interazione con l’atmosfera.
    L’astronave è protetta da 18mila piastrelle di ceramica esagonali, ciascuna grande più o meno quanto un piatto, e il test serviva per verificare la loro resistenza e soprattutto la capacità di rimanere saldamente attaccate al resto dell’astronave.
    Il piano di manovra di Starship per il lancio sperimentale di oggi (SpaceX)
    Starship è rientrata nell’atmosfera in assetto orizzontale e ha poi terminato il proprio viaggio nell’oceano Indiano. Per quanto malconcia a causa delle forti sollecitazioni subite durante il rientro, quando si trovava a poca distanza dall’acqua Starship ha acceso i motori per compiere un’ultima manovra e mettersi nuovamente in assetto verticale in modo da rallentare la discesa prima del contatto con l’oceano. Non era mai successo prima che l’astronave riuscisse a raggiungere l’acqua: nel test dello scorso marzo si era disintegrata durante il rientro.

    SpaceX ha in più occasioni ricordato che in questa fase i lanci sono semplicemente dei test, cioè un modo per sperimentare un sistema mai utilizzato prima e raccogliere una grande quantità di dati, che saranno utilizzati per i futuri lanci. LEGGI TUTTO

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    La capsula spaziale Starliner ha effettuato il suo primo lancio con astronauti a bordo

    Poco prima delle 17 (ora italiana) la capsula spaziale Starliner di Boeing è partita per la prima volta dalla base di lancio di Cape Canaveral negli Stati Uniti con due astronauti della NASA a bordo, dopo alcuni rinvii nelle settimane scorse dovuti a problemi tecnici di vario tipo. Starliner è stata trasportata oltre l’atmosfera terrestre da un razzo Atlas V di United Launch Alliance e nelle prossime ore raggiungerà la Stazione Spaziale Internazionale (ISS).A bordo di Starliner ci sono: Barry E. Wilmore, che ha 61 anni ed è al proprio terzo lancio, e Sunita L. Williams che di anni ne ha 58 ed è alla terza esperienza nello Spazio. Raggiunta la ISS, i due astronauti rimarranno a bordo per una settimana circa, in compagnia dell’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione, poi torneranno su Starliner per raggiungere nuovamente la Terra.
    Il test serve per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo da ricevere le certificazioni finali da parte della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per trasportare persone e materiale verso e dalla Stazione Spaziale Internazionale. Attualmente per queste attività la NASA può fare affidamento solamente su SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos). LEGGI TUTTO

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    Un mito duro a morire sul funzionamento della lingua

    Caricamento playerPer decenni milioni di studenti hanno studiato il gusto utilizzando una mappa che mostra come alcune zone della lingua siano specializzate nel percepire l’amaro, il dolce, l’acido e il salato. In realtà è ormai noto da tempo che non esiste una divisione così netta nella percezione dei gusti fondamentali, eppure uno studio pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine ricorda che il mito delle zone della lingua è ancora ampiamente diffuso e influisce sul modo in cui molte persone pensano alla nostra capacità di percepire i sapori, che non dipende esclusivamente dai recettori che abbiamo in bocca.
    La mappa della lingua deriva da un grande fraintendimento che ha ormai più di 80 anni. Nel 1942 lo psicologo Edwin Boring dell’Università di Harvard (Stati Uniti) scrisse un libro nel quale riportò alcuni estratti di una ricerca condotta in Germania quarantuno anni prima dal ricercatore David P. Hänig intitolata “La psicofisica del gusto”. Oltre a tradurlo in inglese, Boring adattò alcuni grafici dell’originale che mostravano come alcune zone della lingua fossero relativamente più sensibili a un gusto fondamentale rispetto a un altro.
    La traduzione e i grafici contenevano qualche semplificazione e furono in seguito interpretati da altri autori come un’indicazione del fatto che alcune aree della lingua abbiano la specifica capacità di reagire a un solo tipo di gusto e non agli altri. Negli anni seguenti furono prodotte molte mappe della lingua che rispecchiavano questa impostazione, indicanti di solito l’esclusiva capacità della punta della lingua di riconoscere il dolce, le parti laterali il salato e l’acido e infine il retro della lingua per l’amaro. Le mappe finirono nei libri di scuola e divennero il principale riferimento per studiare la nostra capacità di percepire i gusti.
    Esempio di una mappa della lingua utilizzata a lungo sui libri di testo scolastici (elaborazione da Wikimedia)
    In realtà la percezione dei gusti avviene in buona parte della lingua e senza una particolare specializzazione, grazie alla presenza di una enorme quantità di papille gustative (più propriamente “linguali”), le piccole strutture che si trovano sulla superficie della lingua e in altre zone della bocca. È vero che la punta della lingua contiene una maggiore quantità di papille specializzate nella percezione del dolce, ma sono comunque presenti anche quelle in grado di rilevare gli altri gusti fondamentali.
    In ambito accademico e di ricerca quella convinzione errata è stata rettificata da tempo e a ben vedere non aveva fatto molta presa nemmeno in passato, rispetto a quanto si fosse diffusa nel percepito comune. Per sfatare il falso mito è del resto sufficiente fare un esperimento: se si assaggia con la punta della lingua una fetta di limone, questa risulta chiaramente amara e acida anche se si sta utilizzando la zona che secondo la mappa dovrebbe farci percepire esclusivamente il dolce.
    Esistono vari tipi di papille con diverse funzioni, non legate alla sola percezione del gusto. Alcune ci aiutano a percepire la consistenza del cibo, altre a farlo scorrere verso il palato o a trattenerlo temporaneamente per rendere possibile il riconoscimento delle sostanze che lo compongono. Le strutture da cui dipende buona parte della percezione del gusto sono i cosiddetti “calici gustativi”, minuscole strutture ovoidali dotate di recettori che reagiscono al contatto con particolari molecole e inviano poi i segnali al cervello, che ci aiuta a distinguere il sapore di una carota da quello di un quadretto di cioccolato insieme altre informazioni che riceve da altre strutture, come quelle dell’olfatto.
    Altri recettori sono presenti in organi che non associamo all’idea di gusto come il fegato, il pancreas, ma anche i polmoni e il cervello. Il loro compito è di rilevare la presenza di particolari molecole in modo da attivare i meccanismi necessari per metabolizzarle. La presenza di particolari concentrazioni di zuccheri (carboidrati) nell’intestino viene per esempio rilevata da alcuni recettori, in modo che arrivino i segnali giusti al cervello per gestire i processi digestivi.
    Diego Bohórquez, della Duke University (Stati Uniti), si è specializzato nello studio dei segnali inviati dall’intestino verso il cervello. Il suo gruppo di ricerca ha identificato alcune cellule specializzate, che ha chiamato “neuropodi”, che si comportano in modo simile alle strutture per percepire il gusto e che sono direttamente in contatto con le cellule nervose, che inviano poi i loro segnali al cervello per indicare quali sostanze sono presenti in un dato momento nell’intestino durante il processo digestivo.
    Bohórquez ritiene che la percezione del gusto sia ancora più complessa di quanto fosse stato ipotizzato fino a pochi anni fa, e che abbia a che fare non solo con la nostra capacità di percepire i sapori, ma anche di incentivare il consumo di alcune sostanze importanti per il metabolismo.
    La stessa catalogazione dei gusti fondamentali è discussa da tempo e ha portato talvolta a confronti molto accesi tra gli esperti. Si è ritenuto a lungo che i gusti fondamentali fossero quattro – dolce, acido, salato e amaro – ma dopo anni di discussioni alla fine degli anni Ottanta è stato riconosciuto anche l’umami, un particolare gusto che viene spesso associato ad alcune cucine orientali, anche se in realtà si presenta quando consumiamo brodi di carne, pomodori molto maturi e alcuni formaggi stagionati come il parmigiano. I meno conservatori suggeriscono inoltre che debbano essere aggiunti altri due gusti fondamentali: il fritto e il grasso, ma la questione è ancora molto dibattuta.

    – Leggi anche: Le nuove mode del cibo LEGGI TUTTO

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    Cosa vuol dire davvero un “esame del sangue per i tumori”

    Caricamento playerIn una delle sessioni di domenica dell’incontro annuale sul cancro organizzato dall’American Society of Clinical Oncology (ASCO) a Chicago, un gruppo di ricerca britannico ha presentato una versione “ultra sensibile” di esame del sangue per prevedere la ricomparsa del tumore al seno nelle pazienti, mesi se non anni prima che si verifichi una recidiva. L’annuncio è stato molto ripreso dai media e presentato come «rivoluzionario», ma per quanto importanti e utili in alcuni ambiti diagnostici, i test di questo tipo sono ancora discussi e non è sempre semplice valutarne costi e benefici.
    Il test presentato alla conferenza dell’ASCO rientra nelle cosiddette “biopsie liquide”, un tipo di esami diagnostici relativamente nuovi che servono per rilevare e analizzare tracce genetiche lasciate dalle cellule tumorali nel sangue o, in misura minore, in altri fluidi corporei. Alcuni esami servono per diagnosticare la presenza di un tumore e determinarne il tipo – insieme alle tecniche tradizionalmente impiegate come la diagnostica per immagini – altri come il test annunciato domenica servono invece per valutare l’andamento della malattia quando questa era già stata diagnosticata in precedenza.
    Una biopsia liquida può quindi essere impiegata per rilevare una “malattia minima residua”, cioè tracce di un tumore troppo piccole per notarne la presenza con i metodi tradizionali. Molto dipende però dalla tipologia del tumore e dalle eventuali possibilità di intervenire con terapie precocemente, in modo da ridurre la sua diffusione.
    “Cancro” è infatti una parola ombrello che usiamo comunemente, anche se descrive fenomeni e malattie molto diverse tra loro. I tumori sono strutture dinamiche e crescono più o meno velocemente, a seconda dei modi in cui avvengono le mutazioni nelle cellule che li costituiscono. Sono proprio queste mutazioni casuali nel loro materiale genetico a far sì che le cellule coinvolte si comportino in modo anomalo: in alcuni casi il sistema immunitario riesce a distruggerle e a tenerle sotto controllo, in altri non le riconosce come una minaccia e il tumore progredisce.
    Dal tumore iniziale possono staccarsi alcune cellule che, sempre grazie alle mutazioni accumulate, riescono a viaggiare nell’organismo e a insediarsi in altre parti del corpo (vengono definite “cellule tumorali circolanti” o CTC), creando quelle che vengono definite “metastasi”. Non tutti i tumori sono metastatici: alcuni danno problemi localmente senza che le loro cellule finiscano altrove nell’organismo e – quando possibile – possono essere trattati con tecniche di asportazione oppure con farmaci e radioterapia per distruggere le cellule tumorali. I tumori metastatici sono invece più difficili da trattare, soprattutto se la loro diffusione in altre parti del corpo è già avvenuta, perché non sempre ci sono terapie adatte per fermare il processo.
    Alcuni tipi di cellule tumorali circolanti possono essere rilevati con una biopsia liquida, un test meno invasivo rispetto alle classiche biopsie dove si rimuove del tessuto cellulare con un intervento chirurgico per poi analizzarlo. Identificare le CTC non è però semplice, perché queste sono rare e si trovano nel sangue in concentrazioni estremamente basse. Inoltre, le loro caratteristiche variano da paziente a paziente e rendono difficile l’impiego di sistemi sufficientemente sensibili e specifici. Ma non ci sono solamente le CTC.
    Come per le altre cellule, man mano che le cellule tumorali muoiono si producono dei detriti che finiscono nella circolazione sanguigna per essere poi smaltiti dall’organismo. Questi minuscoli resti del tumore contengono frammenti di DNA e altro materiale genetico che può essere identificato partendo da un prelievo di sangue. È una categoria di test relativamente nuova che rientra nell’analisi del cosiddetto “DNA tumorale circolante” (ctDNA) e che soprattutto nelle persone che hanno già avuto un tumore può essere impiegata per fare previsioni, più o meno accurate, sul rischio di sviluppare recidive.
    La tecnica annunciata a Chicago da un gruppo di ricerca dell’Institute of Cancer Research di Londra riguarda proprio una biopsia liquida del ctDNA, che era stata messa alla prova sui campioni di sangue prelevati da 78 donne con varie forme di tumore al seno, in diverse fasi della malattia e delle terapie per trattarla. Indicatori molecolari di malattia residua erano stati identificati in tutte le 11 pazienti che avevano poi avuto una recidiva, ha spiegato il gruppo di ricerca. Nella maggior parte delle altre pazienti in cui i livelli di ctDNA non erano stati individuati dal test non erano stati rilevati casi di recidiva.
    La maggiore sensibilità dell’esame è stata ottenuta utilizzando l’intero genoma, cioè tutto il DNA all’interno di una cellula, e non limitandosi ad alcune porzioni del materiale genetico come avviene con altre biopsie liquide. L’annuncio è stato accolto con grande interesse per i progressi nelle tecniche di analisi, ma è ancora presto per capire se e quali benefici pratici possa portare il nuovo esame, così come i test simili che verosimilmente saranno sviluppati per altre forme di tumore.
    Le biopsie liquide hanno il potenziale di essere utili per comprendere meglio le caratteristiche genetiche di un tumore, il modo in cui evolve nel tempo o come reagisce alle terapie, oppure ancora per individuare precocemente le recidive e stimare la probabilità con cui si potranno verificare. Soprattutto su quest’ultimo aspetto medici e pazienti si devono comunque confrontare con le grandi incertezze date dai falsi positivi o negativi dei test, nonché dagli approcci da seguire per ridurre i rischi. Il ricorso a forme di chemioterapia preventiva, per esempio, è discusso tra gli specialisti, con medici che preferiscono aumentare la frequenza dei controlli e agire semmai quando viene diagnosticata una recidiva vera e propria, cercando di affrontarla da subito.
    L’attesa rimane l’approccio più seguito, sia per non sottoporre i pazienti a terapie che possono essere pesanti e debilitanti, sia perché per varie forme di tumore non ci sono possibilità di agire prima che queste abbiano tornato a manifestarsi con una recidiva. Il rischio, almeno in questa fase iniziale, è che si ricorra con una frequenza eccessiva alle biopsie liquide, anche se il loro esito non porterà poi comunque a qualche azione concreta nell’immediato. Gli esami di questo tipo potrebbero gravare sui sistemi di salute pubblica, sia in termini pratici sia di risorse economiche, senza portare a effettivi benefici per i pazienti.
    Le biopsie liquide hanno comunque grandi potenzialità e per questo c’è un notevole interesse da parte della ricerca, sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Gli investimenti nel settore non mancano soprattutto negli Stati Uniti, dove varie startup sono al lavoro per sviluppare e brevettare propri sistemi, che si potrebbero rivelare molto redditizi nel caso di un approccio sanitario orientato allo screening costante, non solo per le persone che hanno già avuto un tumore, ma anche per la popolazione sana. È stato proprio il grande interesse verso questi sistemi diagnostici di nuova generazione a portare allo scandalo di Theranos, società che prometteva di poter diagnosticare qualsiasi malattia da una goccia di sangue analizzata da un particolare scanner, che in realtà non aveva mai funzionato.
    Theranos aiuta a comprendere alcuni aspetti commerciali, ma fu naturalmente un caso estremo che non ha nulla a che vedere con i sistemi come quello annunciato per le biopsie liquide legate al tumore al seno. È bene però ricordare che lo studio realizzato dall’Institute of Cancer Research è stato effettuato per dimostrare il funzionamento del test in linea di principio, ma che saranno necessari molti altri approfondimenti per comprendere effettive potenzialità e opportunità offerte da questi nuovi approcci diagnostici, come ha detto Nicholas Turner, uno degli oncologi britannici coinvolti nel progetto: «L’analisi del sangue di un paziente per il ctDNA consentirà ai medici di diagnosticare la recidiva del cancro nella fase più precoce. Tuttavia, saranno necessari ulteriori test e ricerche prima di poter dimostrare se il rilevamento della malattia molecolare residua possa guidare la terapia in futuro». LEGGI TUTTO

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    Il mese di nascita influenza i risultati nella vita?

    Caricamento playerLa correlazione tra il mese di nascita e il successo negli sport è un fenomeno studiato da diversi decenni e noto come “effetto dell’età relativa” (Relative Age Effect, RAE). Fa riferimento a una distribuzione sbilanciata delle date di nascita dei giovani atleti selezionati dalle squadre di club nel professionismo, tra cui i nati nel primo semestre di ogni anno, e in particolare a gennaio e febbraio, sono spesso nettamente di più rispetto ai nati nel secondo semestre.
    Una delle più condivise spiegazioni di questo fenomeno è che selezionatori e talent scout tendono in molti casi a interpretare le buone prestazioni dei giovani atleti come un segno di abilità particolari anche quando quelle prestazioni sono banalmente l’effetto di uno sviluppo fisico più avanzato. Di conseguenza privilegiano nella selezione, anche senza volerlo, gli atleti nati prima all’interno di una stessa classe d’età. Effetti simili a quello dell’età relativa – che riguardano anche lo sviluppo psicologico e cognitivo, oltre a quello fisico – sono presenti in ambito scolastico, dove nei primi anni di formazione sono stati osservati risultati migliori tra i bambini nati prima o molto prima dei loro coetanei.
    La legge che regola le iscrizioni scolastiche, in Italia come in diversi altri paesi, prevede che siano iscritti alla scuola primaria i bambini e le bambine che compiono il sesto anno di età entro il 31 dicembre dell’anno di riferimento. Nella pratica significa che in una stessa classe di prima elementare possono capitare bambini che compiono sei anni a gennaio e altri che li compiono undici mesi dopo, a dicembre. Diversi studi mostrano come gli scolari più giovani, cioè nati alla fine dell’anno, abbiano maggiori probabilità di essere ripetenti e di avere risultati scolastici peggiori in più fasi della formazione scolastica (quarto, ottavo e decimo anno) rispetto ai compagni di classe più grandi.
    Gli effetti dell’età relativa tendono poi a dissiparsi man mano che emergono quelli più ampi della scolarizzazione e di altri fattori, che riducono gli svantaggi presenti nelle fasi iniziali. Gli svantaggi si riducono nel tempo anche perché le capacità fisiche e cognitive negli esseri umani aumentano molto rapidamente nei primi anni di vita, e sempre meno dopo: vale a dire che la differenza tra bambini di cinque e sei anni è generalmente molto maggiore di quella tra persone di 25 e 26 anni.
    Se non correttamente soppesate, le differenze iniziali di maturità e sviluppo possono tuttavia riflettersi in effetti residui a lungo termine sul rendimento scolastico. Gli alunni più giovani ottengono punteggi inferiori del 4-12 per cento rispetto ai più anziani al quarto anno di scuola, e del 2-9 per cento all’ottavo anno, secondo uno studio condotto in diversi paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), inclusa l’Italia, e pubblicato nel 2006 sul Quarterly Journal of Economics, una rivista della casa editrice dell’università di Oxford.
    Tre giocatori delle giovanili della squadra Auckland Rugby Union a Auckland, in Nuova Zelanda, il 5 agosto 2017 (Phil Walter/Getty Images)
    Durante la fase della pubertà gli effetti dell’età relativa possono combinarsi con quelli dovuti allo sviluppo biologico sfasato. A parità di classe d’età, un ragazzo nato prima può mostrare prima rispetto ai suoi coetanei più giovani gli effetti dell’incremento della produzione di testosterone e della conseguente accelerazione della crescita fisica e dello sviluppo della massa muscolare. Secondo una ricerca della Scuola universitaria federale dello sport di Macolin, in Svizzera, la differenza relativa nei maschi raggiunge l’apice poco prima dei 14 anni: dopodiché le differenze si riducono, perché i ragazzi dallo sviluppo tardivo iniziano a recuperare lo svantaggio. E a 20 anni la differenza nell’età biologica tra i ragazzi dallo sviluppo precoce e quelli dallo sviluppo tardivo è praticamente scomparsa.

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    Stabilire con precisione l’influenza degli effetti dell’età relativa sui risultati ottenuti nel corso della vita è complicato, perché diventa via via più difficile all’aumentare dell’età del campione di popolazione studiato. Gli effetti tendono infatti a sovrapporsi ad altri complessi fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, generalmente trascurati negli studi che mostrano una correlazione tra il successo e le nascite nei primi mesi dell’anno (o nei primi mesi del periodo di selezione pertinente). E in alcuni casi la correlazione scompare del tutto, per via di quei fattori, o addirittura diventa una correlazione inversa: i più giovani vanno meglio dei coetanei più anziani.
    Una ricerca del 2017 dell’università di Sydney su oltre 6mila nuotatrici e nuotatori professionisti, che avevano partecipato ai campionati nazionali dal 2000 al 2014, concluse che nelle classi comprese tra i 12 e i 14 anni diversi atleti mostravano vantaggi significativi associati all’età relativa. Vantaggi che però si dissipavano entro i 15-16 anni, con poche eccezioni. E verso i 17-18 anni emergevano anzi effetti inversi dell’età relativa: a ottenere risultati migliori rispetto ai coetanei erano cioè nuotatrici e nuotatori relativamente più giovani.
    In altri casi, in ambito sportivo ma non solo, la correlazione tra i risultati positivi e le nascite nei primi mesi dell’anno – almeno in parte spiegabile con gli effetti dell’età relativa – prosegue invece anche dopo la pubertà. La distribuzione anomala delle date di nascita nei primi mesi dell’anno tra i calciatori professionisti negli Stati Uniti, per esempio, è un fatto noto. Fu descritto in particolare da un libro divulgativo di grande successo, uscito nel 2005: Freakonomics, scritto dall’economista Steven Levitt e dal giornalista Stephen Dubner. Ma diverse ricerche in altri paesi del mondo hanno riscontrato nel tempo dati simili a quelli statunitensi.
    Un’analisi condotta nel 2015 dai ricercatori in statistica e studi economici Luca Fumarco e Giambattista Rossi mostrò una presenza anomala di nati a gennaio in un gruppo rappresentativo di calciatori di Serie A in attività nelle sette stagioni consecutive tra il 2007-2008 e il 2013-2014. Erano circa il 70 per cento in più di quanto ci si sarebbe potuto attendere sulla base dei normali livelli di nascita mensili italiani. E rispetto a quegli stessi livelli i calciatori nati a dicembre erano invece circa il 50 per cento in meno. L’analisi mostrò anche che i salari dei calciatori nati negli ultimi tre mesi dell’anno erano in media più bassi rispetto a quelli dei loro coetanei nati nei primi tre mesi dell’anno.
    Un gruppo di calciatori delle giovanili della squadra australiana Pendle Hill assistono a un allenamento al Wanderers Football Park a Sydney, in Australia, il 13 maggio 2022 (Mark Evans/Getty Images)
    La presenza degli effetti dell’età relativa anche in età adulta può dipendere da prassi e meccanismi di selezione – spesso contestati – che in età giovanile anziché ridurli amplificano quegli effetti, in contesti in cui esiste una competizione tra i bambini. Può capitare che gli studenti considerati più bravi dai loro insegnanti, per esempio, siano selezionati per partecipare a progetti o programmi che permettono loro di acquisire ulteriori conoscenze rispetto ai coetanei, come scritto da Fumarco e Rossi sul sito lavoce.info. E può capitare che a causa di questi meccanismi si attivino circoli viziosi dall’altra parte, per cui bambini con risultati peggiori si sentono demotivati e sono portati a impegnarsi di meno.

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    Gli effetti dell’età relativa sono stati utilizzati per spiegare distribuzioni anomale delle date di nascita anche in altri campioni molto specifici della popolazione adulta. Uno studio uscito nel 2016 su una delle riviste scientifiche pubblicate dalla Royal Statistical Society, uno dei più antichi e importanti istituti di statistica al mondo, mostrò che rispetto alla popolazione statunitense generale i senatori e i deputati hanno il 50 per cento in più di probabilità di essere tra le persone relativamente più giovani nelle loro rispettive classi di età. L’entità dell’effetto dell’età relativa era persino maggiore di quella riscontrata in altri studi, ma in generale coerente con i dati che emergono dalla ricerca nello sport professionistico.
    Gli autori dello studio, i ricercatori Daniel Muller e Lionel Page, cercarono di capire anche se l’età relativa fosse correlata alla qualità dei politici eletti al Congresso. Pur premettendo che «tutte le misure sono imperfette» e che «in definitiva la qualità di un politico rimane non osservabile», utilizzarono come indicatori pertinenti il livello di istruzione e l’età in cui ciascun politico era entrato in carica. Ma tra la qualità definita in questi termini e l’età relativa non trovarono correlazioni: i politici relativamente meno giovani non erano migliori dei loro colleghi.
    Una possibile spiegazione proposta nello studio riguardo all’effetto dell’età relativa sul successo in politica è che essere relativamente più anziani tra coetanei durante la giovinezza può aiutare a sviluppare capacità di leadership e spirito di intraprendenza. A piccole differenze presenti in quella fase della formazione potrebbero man mano aggiungersene altre, perché le persone che prendono l’iniziativa tra coetanei potrebbero acquisire più fiducia nelle loro capacità. Muller e Page conclusero che l’effetto dell’età relativa è probabilmente troppo piccolo per essere influente nella popolazione adulta generale, ma può essere evidente «in contesti competitivi in cui piccoli vantaggi iniziali possono avere effetti critici a lungo termine».
    Un bambino e due bambine ucraine in una scuola elementare a Berlino, in Germania, il 28 aprile 2022 (Maja Hitij/Getty Images)
    Un’altra ricerca di Page e delle due economiste comportamentali Dipanwita Sarkar e Juliana Silva-Goncalves, condotta nel 2019 su oltre mille adulti australiani di età compresa tra 24 e 60 anni, mostrò che in compiti che richiedevano semplici calcoli matematici le persone relativamente più anziane nelle loro rispettive classi d’età avevano più fiducia nelle proprie capacità rispetto a quelle relativamente più giovani. Erano inoltre più disposte a partecipare a qualche forma di competizione, e affermavano di essere più inclini a correre rischi in una serie di ambiti della loro vita.

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    La consapevolezza dell’effetto dell’età relativa è piuttosto condivisa negli Stati Uniti, dove nel tempo è emersa – soprattutto tra le classi sociali benestanti – una tendenza dei genitori a cercare di compensare preventivamente lo svantaggio che i loro figli potrebbero avere nelle rispettive classi, nei casi in cui siano molti mesi più giovani dei loro coetanei. Uno dei “rimedi” più comuni è una prassi che è il contrario della primina, chiamata redshirting (dal nome di una prassi equivalente diffusa negli sport universitari): consiste nell’attendere un anno in più prima dell’iscrizione alla scuola materna. In questo modo, nelle classi di età subito successive alla loro età anagrafica, i bambini “redshirt” risultano essere non i più giovani ma i più anziani.
    Gli effetti della pratica del redshirting sono però molto dibattuti. La discussione in ambito scientifico riflette peraltro un’incertezza che riguarda in generale gli studi sull’età relativa quando si concentrano non sugli effetti immediati ma su quelli a lungo termine, e sugli ambiti diversi da quello sportivo. Da una parte i risultati di molte ricerche hanno rafforzato nel corso del tempo l’idea che essere da piccoli più grandi dei propri coetanei – quindi in molti casi più veloci, più intelligenti e più forti fisicamente – produca una serie di vantaggi iniziali. Ma dall’altra parte ricerche dello stesso tipo che si concentrano su fasi della formazione successive indicano che dopo una certa età le disparità si attenuano, e che in alcuni casi sono anzi gli studenti relativamente più giovani a ottenere risultati migliori in ambito universitario.
    Da uno studio del 2011 su un campione di studenti dell’Università Bocconi a Milano, condotto dall’economista Michele Pellizzari e dallo statistico Francesco Billari, emerse che gli studenti relativamente più giovani andavano meglio rispetto ai loro coetanei più grandi, in particolare nelle materie tecniche. Una delle ipotesi formulate da alcuni psicologi, tra cui la statunitense Angela Duckworth, per spiegare perché la correlazione tra età relativa e risultati può diventare inversa nel corso del tempo è che gli svantaggi iniziali possono stimolare, tra le persone del sottogruppo inizialmente svantaggiato, una maggiore grinta e una costante predisposizione a cercare di superare i propri limiti.
    L’idea condivisa da Duckworth e da altri è che i bambini imparino a competere in alcuni ambiti, tra cui la scuola, in cui possono avere successo indipendentemente da fattori che invece li limitano in altri ambiti, per esempio lo sport. Di conseguenza acquisiscono rispetto ai loro coetanei più grandi una maggiore consapevolezza del fatto che, laddove non possono contare su un vantaggio iniziale assoluto, possono provare a raggiungere gli obiettivi tramite le motivazioni, la perseveranza e la dedizione.
    Altre ricerche suggeriscono in generale come gli effetti dell’età relativa non siano sufficienti a influenzare la vita delle persone sul lungo termine, e di come quegli effetti iniziali siano mitigati nel corso dello sviluppo da fattori ambientali e genetici che finiscono per essere molto più influenti dell’essere leggermente più giovani o meno giovani dei propri coetanei. Un gruppo di ricercatrici e ricercatori finlandesi, per esempio, condusse nel 2017 una ricerca sui politici nazionali molto simile allo studio di Muller e Page sui senatori e sui deputati statunitensi, ma riscontrò un fattore significativo. Scoprì che l’effetto dell’età relativa era presente anche nel parlamento finlandese, in cui molti politici erano effettivamente nati nei primi mesi dell’anno, ma valeva soltanto per gli uomini e non per le donne. LEGGI TUTTO

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    La Cina ha annunciato che un suo lander senza equipaggio è atterrato sul lato nascosto della Luna

    Sabato sera l’Agenzia spaziale cinese (CNSA) ha annunciato che un lander (cioè un robot costruito per compiere un atterraggio) della missione Chang’e 6 è riuscito ad atterrare sul lato nascosto della Luna, dove preleverà alcuni campioni di terreno e roccia da portare sulla Terra: se la missione verrà completata la Cina sarà il primo paese a riuscire a riportare sulla terra dei campioni della parte nascosta della Luna, cui si sa pochissimo.Si pensa che il lato nascosto possa avere una composizione chimica diversa da quella del lato meglio conosciuto, che è principalmente composto da rocce vulcaniche, e che contenga del ghiaccio: l’area non è mai visibile dalla Terra e già qualche anno fa erano state trovate tracce di ghiaccio in alcuni crateri costantemente in ombra sul lato visibile della Luna. Chang’e è il nome della dea della Luna in diverse mitologie cinesi.
    La Chang’e 6, partita dalla Terra il 3 maggio, è una delle missioni senza equipaggio più complesse e ambiziose della CNSA, a cui la Cina si preparava da molti anni: l’atterraggio sulla parte nascosta della Luna è particolarmente difficile poiché la comunicazione fra la Terra e il lander è disturbata dai profondi crateri presenti.
    Nel 2019, con la missione Chang’e 4 aveva portato sul lato nascosto della Luna un piccolo robot per studiarne la composizione del suolo e gli effetti del vento solare sulla sua superficie, ma senza riuscire a portare niente indietro. L’anno successivo la missione Chang’e 5 aveva raccolto e riportato sulla Terra dei campioni del lato visibile della Luna: la Cina era diventata così il terzo paese a riuscirci dopo gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.

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