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    Il buco dell’ozono potrebbe essere ancora un problema per gli animali dell’Antartide

    Caricamento playerDa tempo ormai lo strato di ozono che avvolge la Terra ed era stato gravemente ridotto dall’inquinamento atmosferico si sta riformando: si stima che si ripristinerà completamente entro la fine di questo secolo. Tuttavia al di sopra dell’Antartide, dove si era rarefatto di più, il cosiddetto “buco” continua a svilupparsi periodicamente ogni anno, raggiungendo la sua estensione maggiore tra settembre e ottobre. Negli ultimi quattro anni, spiega un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Global Change Biology, è stato particolarmente persistente, rimanendo fino a dicembre. È un fenomeno che preoccupa gli scienziati per i danni che potrebbe fare agli animali antartici.
    Lo strato atmosferico di ozono infatti filtra i raggi ultravioletti dannosi del Sole. In quantità eccessive, questi raggi possono causare seri problemi di salute, tra cui un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori cutanei e malattie degli occhi come la cataratta, agli esseri umani e alle altre specie animali, oltre che danni ai vegetali. Tra settembre e ottobre in Antartide è ancora inverno e la maggior parte delle specie viventi del continente sono protette dalla neve o dal ghiaccio marino. A dicembre invece inizia l’estate australe e dunque gli animali e le (poche) piante presenti in Antartide subiscono una maggiore esposizione ai raggi ultravioletti.
    Il buco nell’ozono sull’Antartide venne scoperto nel 1985 da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico Joe Farman. Il 16 maggio di quell’anno sulla rivista Nature fu pubblicato l’articoli che lo fece conoscere al mondo: è considerato uno dei più influenti del secolo scorso, visto ciò che ne derivò. Due anni dopo una conferenza internazionale vietò i clorofluorocarburi (CFC), i gas responsabili del danneggiamento della fascia di ozono e contenuti nei frigoriferi del passato tra le altre cose. Adesso, quasi quarant’anni dopo, la fascia di ozono si sta lentamente ricostituendo. Quello causato dall’articolo di Farman fu uno dei pochi eventi nella storia recente in cui i leader mondiali riuscirono a prendere una decisione comune per il bene della Terra e ad agire di conseguenza.
    Le temperature particolarmente basse creano le condizioni ideali per generare la reazione chimica in grado di dissolvere l’ozono ed è per questo che ancora oggi i principali buchi dell’ozono (ce n’erano in realtà diversi) rimangono quello sull’Antartide e quello sull’Artico. Nonostante la messa al bando dei CFC continuano a esserci altri fattori che contribuiscono a ridurre la quantità di ozono nell’atmosfera. Ad esempio, si pensa che il fumo prodotto dai grandi incendi boschivi che ci sono stati in Australia tra il 2019 e il 2020 abbia avuto un ruolo nell’aumento della durata del buco sull’Antartide: le particelle disperse nell’atmosfera dagli incendi causano reazioni chimiche con effetto analogo a quelle dovute ai CFC.
    Non sappiamo ancora molto degli effetti di questa persistenza del buco dell’ozono sulla salute degli animali antartici perché la questione non è ancora stata studiata in modo approfondito, ma il nuovo articolo, firmato dalla biologa esperta di cambiamento climatico Sharon Robinson e da altri ricercatori, hanno messo insieme quello che sappiamo.
    Sono stati fatti degli studi ad esempio sulla capacità dei muschi antartici di produrre delle sostanze chimiche che li proteggono dagli effetti negativi degli ultravioletti. È una cosa rassicurante per l’ecosistema del continente, ma significa anche che dovendo usare parte della loro energia per produrre queste sostanze i muschi ne impiegano meno per crescere.
    È anche stato osservato che il cosiddetto “krill”, cioè i piccoli crostacei che vivono nell’oceano in gran numero e rappresentano la base della catena alimentare dell’Antartide, si sposta a maggiori profondità per evitare i raggi ultravioletti. Questa migrazione potrebbe danneggiare tutti gli animali che mangiano il krill, e in particolare le foche, i pinguini e gli altri uccelli marini che hanno bisogno di tornare in superficie per respirare. Ciò che vale per i muschi terrestri peraltro vale anche per il fitoplancton, le alghe microscopiche di cui si nutre il krill, ragione per cui pure la crescita dei piccoli crostacei e di tutti gli animali che li mangiano potrebbe essere influenzata dal buco dell’ozono.
    Per quanto riguarda i rischi per la pelle, è probabile che le pellicce e le penne che ricoprono i mammiferi e gli uccelli antartici siano una protezione efficace dagli ultravioletti. Può darsi che invece i problemi agli occhi siano più probabili.

    – Leggi anche: Nove mesi isolata in Antartide LEGGI TUTTO

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    La FAO ha distorto degli studi sull’importanza di ridurre il consumo di carne?

    Caricamento playerDue scienziati hanno accusato l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) di aver distorto i risultati di due studi a cui hanno lavorato, e di averne usato un terzo in modo inappropriato, per sminuire quanto i cambiamenti nell’alimentazione delle persone possano ridurre le emissioni di gas serra globali. Più specificamente, sostengono che la FAO abbia sottostimato quanto diminuire il consumo di carne potrebbe contribuire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico.
    Paul Behrens, un professore associato dell’Università di Leida, nei Paesi Bassi, e Matthew Hayek, un ricercatore della New York University, sono due fisici che studiano l’impatto di varie attività umane sull’ambiente. E sono entrambi tra gli autori degli studi scientifici citati dalla FAO in un rapporto sulle emissioni causate dall’allevamento per la produzione di carne e latte che è stato presentato all’ultima conferenza dell’ONU sul clima, la COP28 di Dubai. In una lettera del 9 aprile hanno chiesto all’organizzazione di ritirare il rapporto e correggerlo «selezionando le fonti in modo più appropriato e rettificando gli errori metodologici».
    L’allevamento su larga scala è una delle attività che più contribuiscono alle emissioni di gas serra. Secondo le stime dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, tra il 2010 e il 2019 il settore agricolo, insieme a quello della gestione forestale, è stato responsabile del 21 per cento delle emissioni globali di gas serra. Di questo contributo, più di un quinto è dovuto ai rutti e alle flatulenze dei bovini, che contengono metano, un potente gas serra. Circa la metà invece è riconducibile ai cambiamenti nell’uso del suolo, come la deforestazione, che viene praticata in molte parti del mondo – prevalentemente Sud America, Africa e Asia – per ospitare nuovi pascoli per il bestiame e coltivare vegetali per nutrirlo.

    – Leggi anche: Quanta carne può mangiare il mondo?

    Il rapporto della FAO dice che introducendo dei miglioramenti nelle tecniche di allevamento e riducendo gli sprechi alimentari si potranno ridurre «significativamente» le emissioni dovute all’allevamento. E questo anche aumentando la produzione di alimenti di derivazione animale nei prossimi 25 anni, come si prevede che sarà necessario per rispondere alla crescita della domanda di carne e latticini – del 20 per cento rispetto al 2020, a livello globale (un aumento in linea con quello della popolazione mondiale).
    Il rapporto dice anche che la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura che si otterrebbe se le persone adottassero le diete consigliate dalle autorità statali, che generalmente nei paesi più ricchi raccomandano di ridurre il consumo di carne, sarebbe solo del 2-5 per cento.
    Secondo Behrens e Hayek però quest’ultima valutazione è scorretta e rischia di «dare una falsa impressione che la potenziale mitigazione delle emissioni attraverso il consumo ridotto di carne sia limitata, e che quindi l’aumento del bestiame dovrebbe essere la priorità».
    Lo studio su cui la FAO basa la stima del 2-5 per cento risale al 2017 e Behrens ne è il primo autore. Insieme a un gruppo di colleghi fece una stima di quale sarebbe stato l’impatto sulle emissioni di gas serra globali se in 37 diversi paesi del mondo (Italia compresa) la popolazione avesse cambiato la propria dieta in modo da seguire le raccomandazioni delle autorità nazionali.
    Lo studio arrivava alla conclusione che un cambiamento in tal senso nei paesi più ricchi avrebbe portato a una riduzione delle loro emissioni compresa tra il 13 e il 24,8 per cento. Per i paesi con un reddito medio intermedio lo studio aveva trovato invece una diminuzione minore, tra lo 0,8 e il 12,2 per cento, mentre per quelli più poveri aveva stimato un aumento delle emissioni di gas serra (del 12,4-17 per cento): questi ultimi sono paesi in cui buona parte della popolazione ha alimentazioni carenti sotto vari aspetti, e un miglioramento delle diete dal punto di vista della salute richiederebbe maggiori consumi alimentari.
    La prima ragione per cui Behrens e Hayek dicono che la FAO ha usato male questi dati è che dal 2017 molti paesi (tra cui la popolosa Cina) hanno modificato le proprie raccomandazioni sulla dieta, riducendo notevolmente la quantità di carne consigliata. Quindi lo stesso studio, se rifatto oggi, darebbe dei risultati diversi: è ormai datato.
    Ma non sarebbe l’unico errore, per i due scienziati. Secondo loro il rapporto della FAO «sottostima sistematicamente» il potenziale della riduzione dei consumi di carne in termini di riduzione delle emissioni attraverso una «serie di errori metodologici» elencati nel dettaglio nella loro lettera. Un altro riguarderebbe uno studio del 2021 a cui Hayek aveva partecipato, da cui il rapporto della FAO ha estratto una stima delle emissioni globali legate al settore alimentare. Secondo i due scienziati, il confronto tra questo dato e quelli dello studio del 2017 è stato fatto in modo scorretto nel rapporto e ha avuto come risultato una significativa sottostima della potenziale mitigazione del cambiamento climatico ottenibile con una riduzione del consumo di carne.
    Parlando con il Guardian, il primo giornale che si è occupato della questione, Hayek non ha detto che secondo lui gli errori non sono stati intenzionali, ma ha sottolineato che nessuno di quelli che lui e Behrens hanno individuato porti argomenti a favore di una riduzione del consumo di carne per il clima. Il Guardian, che si occupa spesso ed estesamente di clima e problemi ambientali, ha ricordato che la FAO, oltre a essere un’importante fonte di dati sul settore agricolo e uno degli enti i cui rapporti sono usati dall’IPCC e da altre organizzazioni delle Nazioni Unite, è anche un ente che ha l’obiettivo di aumentare la sicurezza alimentare nel mondo e dunque la produzione di cibo: per questo si potrebbe dire che abbia un conflitto di interessi.
    Behrens e Hayek hanno contestato lo studio della FAO anche perché avrebbe basato le proprie conclusioni sui possibili effetti di una riduzione del consumo di carne quasi unicamente sullo studio del 2017, mentre generalmente in ambito scientifico si considerano tutti quelli a disposizione, ben fatti e pertinenti. Tra le altre possibili ricerche sul tema non ha preso in considerazione il grande rapporto realizzato nel 2019 dalla ong EAT assieme all’autorevole rivista scientifica Lancet per suggerire come migliorare la salute delle persone e aumentare la sostenibilità della produzione di cibo. Il rapporto EAT-Lancet dice che la versione ottimale della «dieta della salute planetaria» prevede di non consumare affatto carne rossa, a patto di ricavare la giusta quantità di proteine da altre fonti.
    Un portavoce della FAO ha replicato alle contestazioni di Behrens e Hayek al Guardian:
    Come organizzazione che basa il proprio lavoro sulla scienza la FAO si impegna pienamente ad assicurare l’accuratezza e l’integrità delle proprie pubblicazioni scientifiche, specialmente viste le loro significative implicazioni per la politica e per la comprensione del pubblico. Il rapporto in questione è stato sottoposto a un rigoroso processo di revisione, condotto sia internamente che esternamente seguendo il metodo della revisione tra pari (peer review) in doppio cieco per garantire che la ricerca soddisfacesse i più alti standard di qualità e accuratezza, e che i potenziali pregiudizi fossero ridotti al minimo. La FAO indagherà sui punti sollevati dagli studiosi e si confronterà con loro sul piano tecnico. LEGGI TUTTO

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    Non è immediato capire il sesso di un ippopotamo

    La settimana scorsa lo zoo di Osaka, in Giappone, ha annunciato che uno degli ippopotami che ospita non è un maschio, come lo aveva sempre presentato ai visitatori, bensì una femmina. I gestori dello zoo se ne sono accorti dopo ben sette anni dall’arrivo dell’animale nella loro struttura: il motivo è che non è così immediato capire il sesso di un ippopotamo solo guardandolo.L’ippopotamo in questione si chiama Gen-chan e vive a Osaka dal 2017. In precedenza si trovava in uno zoo messicano, Africam Safari, dove era nata. Allo zoo di Osaka avevano sempre creduto che fosse un maschio perché così gli era stata presentata da Africa Safari e inizialmente non c’era ragione di pensare che non fosse vero. I maschi di ippopotamo non hanno uno scroto e i loro testicoli non scendono al di fuori della cavità addominale; il pene inoltre rimane ritratto all’interno del corpo quando non è eretto. E anche i genitali delle femmine sono nascosti.
    Gen-chan era arrivata in Giappone quando aveva 5 anni e i maschi di ippopotamo raggiungono la maturità sessuale intorno ai 7 anni e mezzo, quindi inizialmente anche il suo comportamento non dava indizi che contraddicessero lo zoo messicano.
    Lo zoo di Osaka ha cominciato ad avere dei dubbi perché col passare del tempo l’animale non faceva nulla di tipicamente maschile per un ippopotamo. Una portavoce ha spiegato all’agenzia di stampa AFP che tra le altre cose Gen-chan non spargeva le sue feci intorno a sé usando la coda, come fanno generalmente i maschi di ippopotamo per marcare il proprio territorio, né rivolgeva alle femmine di ippopotamo dello zoo dei richiami di accoppiamento. Inoltre gli addetti alla cura degli ippopotami non erano mai riusciti a vedere genitali maschili, per quanto di per sé questo non fosse risolutivo, perché gli ippopotami sono animali potenzialmente molto aggressivi e per questa ragione un’osservazione ravvicinata non era consigliabile.

    Per dirimere i propri dubbi alla fine lo zoo ha commissionato un test genetico a un’organizzazione esterna e ha appurato che Gen-chan è una femmina. Lo zoo ha deciso di non cambiare il suo nome e ha fatto sapere che alla luce di questa esperienza d’ora in poi eseguirà controlli indipendenti sul sesso dei suoi nuovi animali per evitare che succeda di nuovo qualcosa del genere.
    La conformazione dei genitali degli ippopotami da un lato e la loro aggressività dall’altro sono anche tra le ragioni per cui è parecchio difficile sterilizzare i circa 160 ippopotami che vivono in Colombia e che discendono dai 4 importati nel paese dall’Africa dal narcotrafficante Pablo Escobar, fra gli anni Settanta e Ottanta.
    In Colombia gli ippopotami hanno trovato condizioni ambientali molto favorevoli, oltre a un’assenza di predatori, e per questo si sono riprodotti in gran numero e sono diventati un problema: divorano la vegetazione, tolgono spazio agli animali locali, inquinano il terreno e l’acqua, scavano sentieri nella terra, cambiano il flusso e le condizioni dei corsi d’acqua, come l’acidità e l’ossigenazione. Tra le specie che danneggiano con la loro presenza ci sono ad esempio i lamantini. Il governo colombiano ha in programma di sterilizzare 20 ippopotami entro la fine del 2024 e 40 all’anno successivamente. Le operazioni chirurgiche per farlo sono costose, oltre che complesse: ciascuna costa l’equivalente di quasi 10mila euro.

    – Leggi anche: La sconcertante varietà di peni nel regno animale LEGGI TUTTO

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    Gli animali hanno una cultura?

    Un recente articolo scientifico sui bombi, un genere di insetti della stessa famiglia delle api, ha fornito alcune informazioni rilevanti a sostegno di un’ipotesi da tempo discussa nel campo dell’etologia, la parte della biologia che studia il comportamento animale. L’ipotesi è che la capacità tipicamente umana di imparare dagli altri più di quanto sia possibile imparare da sé nel corso di una vita – condizione necessaria per la formazione di quella che definiamo “cultura” – sia una capacità condivisa con altre specie animali.Pubblicato a marzo sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatrici e ricercatori della Queen Mary University of London e della University of Sheffield, l’articolo descrive i risultati di un esperimento in cui ai bombi era richiesto di risolvere un problema complesso su una specie di giradischi all’interno di una scatola. Per ottenere una ricompensa (una soluzione zuccherina) che percepivano ma non potevano raggiungere direttamente, i bombi dovevano compiere due azioni in sequenza: sbloccare un piatto girevole spingendo un fermo e poi ruotarlo in senso antiorario.
    I bombi, che sono considerati insetti prodigiosi nell’apprendimento sociale, non sono riusciti a risolvere il problema durante l’esperimento, nemmeno dopo un tempo di esposizione prolungata di 24 giorni. Alcuni ce l’hanno fatta solo dopo un addestramento: in pratica gli sperimentatori li hanno indotti ad apprendere il passaggio intermedio ponendo una prima ricompensa sul fermo che bisognava spingere per sbloccare la piattaforma. A quel punto i bombi sono riusciti a superare anche il secondo passaggio e ad arrivare alla soluzione zuccherina.
    Il risultato sorprendente e giudicato più significativo dai ricercatori è che un gruppo di bombi non addestrati, che come tutti gli altri non avevano inizialmente saputo risolvere il problema, è riuscito in seguito a capire come agire senza bisogno della prima ricompensa. Si è limitato ad apprendere dal comportamento di un bombo «dimostratore», cioè uno di quelli addestrati a superare il primo passaggio.

    La capacità degli animali non umani di compiere azioni nuove apprendendo dal comportamento dei propri simili è nota e studiata da decenni in specie come gli scimpanzé, i macachi, i corvi e le megattere. Il risultato descritto nello studio uscito su Nature è tuttavia considerato la prima prova della presenza di questa capacità sociale tra gli invertebrati, applicata alla soluzione di problemi particolarmente complessi: problemi cioè troppo difficili perché un solo individuo possa risolverli procedendo per tentativi ed errori.
    Alcuni commenti a questo esperimento e ad altri simili hanno interpretato i risultati come un’ulteriore prova della possibilità che la cultura, intesa come capacità di una specie di apprendere e diffondere comportamenti complessi in una popolazione, non sia un fatto unicamente umano. L’esempio dei bombi è significativo perché suggerisce che anche i comportamenti di insetti di cui sono note da tempo le sofisticate strutture sociali, come le api, potrebbero essere almeno in parte comportamenti appresi e non innati, che era l’ipotesi finora prevalente.

    – Leggi anche: Capiremo mai come ragionano gli animali?

    Sebbene nel linguaggio comune sia utilizzata in molti modi diversi, la parola “cultura” in etologia e in altre discipline affini ha un significato abbastanza preciso. Indica l’insieme di tradizioni comportamentali di una popolazione, cioè comportamenti tramandati attraverso l’apprendimento sociale e che persistono in un gruppo o in una società nel corso del tempo. I ricercatori hanno osservato nel regno animale numerosi comportamenti che soddisfano questa definizione di cultura cumulativa, contraddistinta da innovazioni sequenziali che si basano su altre precedenti.
    Quasi ogni parte della vita degli esseri umani si basa su conoscenze e tecnologie di questo tipo, troppo complesse per essere gestite da un individuo in modo indipendente e senza una tradizione culturale, appunto. Non sarebbe stato possibile altrimenti viaggiare nello Spazio, per esempio, ma nemmeno far funzionare un wc.
    Un articolo uscito a marzo sulla rivista Nature Human Behaviour ha presentato i risultati di un esperimento simile a quello con i bombi, ma condotto con gli scimpanzé da un gruppo di ricercatori dell’Università di Utrecht, nei Paesi Bassi, e del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, in Germania. Nel Chimfunshi Wildlife Orphanage, un rifugio per la fauna selvatica in Zambia, i ricercatori hanno lasciato a disposizione di una comunità di 66 scimpanzé, suddivisi in due gruppi, una scatola di noccioline che funzionava come una specie di distributore automatico.
    Gli scimpanzé potevano vedere e annusare le noccioline, ma per raggiungerle dovevano azionare il distributore raccogliendo una delle palline di legno lasciate dai ricercatori nelle vicinanze. La scatola aveva un cassetto a molla che bisognava aprire e tenere aperto, perché al suo interno si trovava un incavo in cui far scivolare la pallina per ricevere una manciata di noccioline. Dopo tre mesi in cui nessuno scimpanzé è riuscito a far funzionare il distributore, i ricercatori hanno selezionato in ciascuno dei due gruppi una femmina anziana per l’addestramento.
    «Non si può scegliere un animale a caso», ha detto Edwin van Leeuwen, uno degli autori dello studio, spiegando che per il successo dell’addestramento è importante selezionare individui audaci e di rango medio-alto all’interno del gruppo. Una volta finito l’addestramento delle due femmine, il distributore è stato riposizionato e lasciato di nuovo a disposizione dei due gruppi. Dopo due mesi trascorsi in presenza degli individui addestrati, 14 scimpanzé sono riusciti ad azionare il distributore osservando più volte il comportamento di un altro individuo che aveva capito come farlo funzionare.

    Sia lo studio sugli scimpanzé che quello sui bombi sono considerati importanti prove sperimentali dell’apprendimento sociale negli animali, di cui esistono da tempo numerose prove aneddotiche. La capacità di apprendere osservando e imitando il comportamento di altri individui è infatti ritenuto uno dei fattori che contribuiscono a determinare differenze comportamentali intraspecifiche tra gruppi diversi.
    Degli scimpanzé, per esempio, è ben nota la pratica di utilizzare dei bastoncini o dei fili d’erba per catturare le termiti, osservata e studiata fin dai primi anni Sessanta dall’etologa inglese Jane Goodall. Ma alla fine degli anni Novanta lo zoologo e psicologo Andrew Whiten scoprì insieme al suo gruppo di ricerca della University of St Andrews, in Scozia, e alla stessa Goodall che gli scimpanzé utilizzano le tecniche di cattura delle termiti in modo diverso a seconda del gruppo a cui appartengono. Quelli di alcune zone dell’Africa mangiano gli insetti direttamente dal bastoncino, mentre altri usano la mano libera per raccoglierli prima di mangiarli.

    – Leggi anche: Jane Goodall: dilettante, scienziata, attivista, simbolo

    In anni recenti è inoltre aumentata la quantità di prove dell’esistenza di comportamenti sociali, abitudini alimentari e persino canti e richiami diversi tra gruppi della stessa specie. Le differenze sono dovute a fattori ambientali, ma sono anche rese possibili dalla tendenza sociale ad accogliere e diffondere elementi di innovazione introdotti dai singoli individui all’interno dei gruppi. Prove di una simile evoluzione culturale sono state osservate tra le orche, i capodogli e altre cetacei, ma anche tra diverse specie di uccelli.

    Le differenze culturali all’interno di una stessa specie possono riflettersi anche in aspetti della vita sociale più stabili ed evidenti, come hanno mostrato alcuni ricercatori del dipartimento di biologia della Katholieke Universiteit Leuven, in Belgio, e del laboratorio di entomologia dell’istituto Embrapa, in Brasile, in un articolo pubblicato a marzo sulla rivista Current Biology. In un grande apiario a Jaguariúna, in Brasile, il gruppo di ricerca ha osservato 416 colonie di Scaptotrigona depilis, una specie di ape senza pungiglione diffusa in Sudamerica, per due lunghi periodi nel 2022 e nel 2023.
    Circa il 95 per cento delle colonie presentava favi costruiti in strati orizzontali sovrapposti, come torte nuziali su più livelli, il tipo di struttura preferita dalle Scaptotrigona depilis. Le restanti colonie presentavano invece una struttura a spirale: sia in un caso che nell’altro lo stile architettonico veniva mantenuto per molte generazioni di api. Inoltre non c’erano differenze nella velocità di costruzione, quindi nessun vantaggio in termini di efficienza nel seguire uno stile anziché l’altro.

    Per escludere che la differenza di stile derivasse da fattori genetici il gruppo di ricerca ha trapiantato alcuni individui da colonie i cui favi erano costruiti su più strati in colonie con favi strutturati a spirale, e viceversa. Prima di farlo ha svuotato le strutture ospitanti in modo da non lasciare adulti “indigeni” nella colonia, che avrebbero potuto influenzare il comportamento delle operaie importate. In breve tempo le api importate adottavano lo stile locale, che veniva ereditato anche dalle larve della colonia quando maturavano in adulti.
    Secondo il biologo Tom Wenseleers, a capo del laboratorio della KU Leuven che ha condotto la ricerca, le api potrebbero cambiare stile per far fronte all’accumulo di microscopici errori di costruzione commessi dai loro predecessori. Questo processo, in cui alcuni individui di insetti sociali influenzano indirettamente il comportamento di altri attraverso le tracce che lasciano nel loro ambiente, è definito stigmergia. Per avere conferma dell’ipotesi di Wenseleers il gruppo ha quindi introdotto micro-variazioni nella struttura di favi a strati orizzontali sovrapposti, e ha scoperto che in quel caso le api passavano effettivamente alla costruzione a spirale.
    I risultati dello studio sulle api a Jaguariúna suggeriscono che la trasmissione di differenti tradizioni nella costruzione dei favi attraverso le generazioni possa avvenire anche senza bisogno che gli individui siano direttamente istruiti dai loro coetanei. Permettono quindi di pensare alla cultura in termini più ampi, senza intenderla rigidamente come un insieme di comportamenti trasmessi da individuo a individuo fino a diventare caratteristici di un gruppo.
    Anche la trasmissione di comportamenti animali più complessi – come la costruzione delle dighe da parte dei castori o dei giacigli sugli alberi da parte degli scimpanzé – potrebbero avvenire in questo stesso modo indiretto, ha detto Whiten all’Economist. Ed è possibile che processi di stigmergia siano anche alla base della trasmissione di alcune tradizioni umane. LEGGI TUTTO

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    I progressi contro il cambiamento climatico, nel doodle di Google

    Caricamento playerCome ogni 22 aprile Google ha dedicato alla Giornata della Terra il suo doodle, cioè l’immagine che sostituisce il classico logo del motore di ricerca. La Giornata della Terra è la più nota e importante manifestazione al mondo sull’ecologia e sulla protezione dell’ambiente. Soprattutto negli ultimi anni però è diventato anche un momento per informare e sensibilizzare sul cambiamento climatico, e non solo sull’ambiente in generale.
    Il doodle di Google di quest’anno mostra i progressi fatti da diversi paesi nel tentativo di preservare alcuni luoghi dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Le lettere del logo di Google sono state sostituite dalle foto di alcuni dei luoghi in tutto il mondo «in cui persone, comunità e governi lavorano ogni giorno per aiutare a proteggere la bellezza naturale, la biodiversità e le risorse del pianeta», ha spiegato la società. La lettera G mostra le isole Turks e Caicos; la prima O l’Arrecife Alacranes (la più grande barriera corallina del Golfo del Messico meridionale); la seconda O è il Vatnajökull, in Islanda, il più grande ghiacciaio d’Europa; l’altra G il parco nazionale di Jaú, nella foresta amazzonica brasiliana; la L mostra la Grande Muraglia Verde in Nigeria, un ambizioso progetto avviato nel 2007 per realizzare una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri dalla costa occidentale dell’Africa, in Senegal, a quella orientale, in Gibuti; la E infine mostra la riserva naturale delle isole della regione di Pilbara, nell’Australia occidentale.

    La storia della Giornata della TerraLa Giornata della Terra fu indetta per la prima volta dalle Nazioni Unite nel 1970, quando ancora non si parlava di cambiamento climatico, seguendo gli intenti del movimento ecologista degli Stati Uniti. Tra gli ideatori della Giornata della Terra ci fu il senatore Democratico statunitense Gaylord Nelson, che aveva già organizzato una serie di incontri e conferenze dedicati ai temi dell’ambiente.
    Tra gennaio e febbraio del 1969 a Santa Barbara, in California, avvenne uno dei più gravi disastri ambientali degli Stati Uniti, causato dalla fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Union Oil: l’incidente portò Nelson a occuparsi in modo più attento e continuativo delle questioni ambientali, per portarle all’attenzione dell’opinione pubblica, ricalcando quanto avevano fatto i movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam.
    Il 22 aprile 1970 si tenne la prima Giornata della Terra, cui parteciparono milioni di cittadini statunitensi, con il coinvolgimento di migliaia di college, università, altre istituzioni accademiche e associazioni ambientaliste. Fu anche istituito l’Earth Day Network (EDN), un’organizzazione diventata poi internazionale per coordinare le iniziative dedicate all’ambiente durante tutto l’anno.
    Considerato il successo e l’interesse intorno alla Giornata della Terra, l’anno seguente le Nazioni Unite ufficializzarono la partecipazione all’organizzazione, dando nuova visibilità e rilievo all’iniziativa. In oltre 45 anni, la Giornata della Terra ha contribuito in modo determinante allo svolgimento di iniziative ambientali in tutto il mondo che, nel 1992, portarono all’organizzazione a Rio de Janeiro del cosiddetto Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Da allora la Giornata della Terra è anche diventata l’occasione per divulgare informazioni scientifiche, e rendere più consapevoli le persone sui rischi che comporta il riscaldamento globale e sulle soluzioni che possono essere adottate per contrastarlo.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    I bulldog francesi – come quello che in questa raccolta passa un po’ di tempo con il suo proprietario su una panchina a Pechino – sono una delle razze di cani classificate come brachicefale, cioè con il cranio schiacciato: il fatto di avere il cranio più largo che lungo fa sì che in questi cani i tessuti molli dell’apparato respiratorio, cioè quelli di naso, laringe e trachea, siano compressi e ostruiscano parzialmente le vie aeree. Per questo negli ultimi anni molti veterinari e organizzazioni per il benessere animale propongono di selezionarli in modo diverso, come spiegato qui. Tra gli altri animali fotografati in settimana c’è un altro cane, che corre tra i fiori, due cervidi, un orso bruno dell’Alaska, la lingua di una giraffa e una lucertola su un campo da tennis. LEGGI TUTTO

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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    Dovremmo cambiare i cani col muso schiacciato, per il loro bene

    Qualche settimana fa in Germania c’è stata una piccola polemica riguardo a una proposta di legge che, secondo alcuni articoli sensazionalistici, avrebbe vietato l’allevamento dei bassotti. In realtà il disegno di legge, promosso dai Verdi tedeschi – uno dei partiti di governo – non prevede nulla di così prescrittivo: semplicemente se fosse approvato proibirebbe di far riprodurre cani con caratteristiche fisiche che causano sofferenza agli animali, problemi di salute e una bassa aspettativa di vita. Nessuna specifica razza canina verrebbe vietata, si cercherebbe solo di evitare la diffusione di certi tratti estremi, come zampe eccessivamente corte o musi eccezionalmente schiacciati.Negli ultimi anni i problemi di salute particolarmente sofferti dai cani di certe razze sono stati una questione abbastanza discussa in diversi paesi, europei e no, anche con orientamenti ben più rigidi di quello tedesco. Nei Paesi Bassi ad esempio è in discussione da più di un anno una proposta di legge per vietare veramente il possesso di certi tipi di cani (non dei bassotti), oltre alla diffusione delle loro immagini nelle pubblicità e sui social network. È invece più permissiva la proposta di regolamento della Commissione Europea a proposito del benessere di cani e gatti presentata lo scorso dicembre, che dice solo che gli allevatori devono provvedere a evitare che «le strategie di riproduzione» causino la trasmissione di caratteristiche «nocive».
    In particolare la proposta di regolamento europeo «non osta alla selezione e alla riproduzione di cani e gatti brachicefali», cioè con il cranio schiacciato, come carlini, bouledogue francesi e Cavalier King Charles spaniel. Sono tra le razze di cani che secondo i veterinari hanno più problemi sanitari gravi dovuti alla loro conformazione fisica. Nella sua versione attuale la proposta di regolamento impone solo che i «programmi di selezione o riproduzione riducano al minimo le conseguenze negative che i tratti brachicefali hanno sul benessere».
    Un Cavalier King Charles spaniel durante una competizione di una mostra canina a New York, l’8 maggio 2023 (AP Photo/John Minchillo)
    Nel mondo esistono più di 300 diverse razze di cani. Appartengono tutte alla stessa specie, ma possono avere tratti fisici diversissimi che sono stati selezionati artificialmente nei secoli dalle persone, facendo accoppiare cani simili tra loro. «L’obiettivo della selezione era specializzare i cani in base a determinate caratteristiche: ci sono cani da difesa, cani da caccia, cani da compagnia e via dicendo», spiega Marco Melosi, presidente dell’Associazione nazionale medici veterinari italiani (ANMVI), «ma non si è mai fatta tanta attenzione a quelle che erano le conseguenze negative della selezione».
    Nel caso delle razze brachicefaliche è stata selezionata una forma del muso che si ritiene piaccia a molte persone perché ricorda le facce dei bambini. Il primo a ipotizzarlo fu l’etologo e psicologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la medicina nel 1973, noto soprattutto per i suoi studi sul comportamento di cani e uccelli. Nel 1943 Lorenz teorizzò che l’aspetto che ricorda quello dei bambini piccoli, il cosiddetto Kindchenschema, porta gli esseri umani a provare affetto per gli animali non umani che lo mostrano, oltre all’impulso di prendersene cura.
    Quale che sia la ragione per cui piacciono molto a tante persone, carlini e bouledogue francesi sono razze molto popolari in questi anni, tanto che le proposte legislative pensate per i loro problemi di salute a volte prevedono divieti di diffonderne le immagini sui social network. Sono anche molti gli influencer che hanno cani di queste razze – in Italia era piuttosto conosciuta la bouledogue francese di Chiara Ferragni, morta nell’estate del 2023 per un tumore.
    Una bouledogue francese a Londra, il 18 novembre 2023 (AP Photo/Kirsty Wigglesworth)
    I problemi legati alla brachicefalia non sono gli unici legati alla selezione delle razze, ma sono particolarmente dannosi e senza interventi chirurgici possono causare la morte prematura degli individui in cui sono più gravi. Il fatto di avere il cranio più largo che lungo fa sì che in questi cani i tessuti molli dell’apparato respiratorio, cioè quelli di naso, laringe e trachea, siano compressi e ostruiscano parzialmente le vie aeree. Per questo sono anche detti cani che vivono “con un filo d’aria”. Il loro disagio legato alla respirazione si aggrava quando le temperature sono più alte perché i cani disperdono il calore corporeo ansimando: i brachicefali possono espirare poca aria alla volta e per questo patiscono molto il caldo.
    Molto spesso poi succede che sviluppino una polmonite legata al vomito, la cosiddetta polmonite ab ingestis. Ogni volta che rimettono, questi cani rischiano che un po’ di vomito finisca nella trachea, che è compressa vicino all’esofago, e da lì nei bronchi, dove può causare un’infezione.
    Giulia Corsini, veterinaria specializzata in emergenze che lavora in un ospedale vicino a Cambridge, nel Regno Unito, dice che ogni settimana si trova ad avere a che fare con cani brachicefali che hanno problemi respiratori acuti e a cui deve essere fornito più ossigeno. Corsini ha descritto un caso tipo di polmonite ab ingestis in un libro pubblicato da poco, Salvare gli animali (Utet), e dice che «tra i cani che più di frequente arrivano nei reparti di emergenza ci sono carlini e Bulldog con problemi respiratori».
    I veterinari possono sottoporre questi cani a interventi chirurgici correttivi al naso o al palato che li aiutino a respirare meglio, ma non è una cosa da poco né per i cani, né per i loro proprietari. Anche dal punto di vista economico: tra esami del sangue, radiografie, TAC e operazioni si possono spendere diverse migliaia di euro. A queste vanno aggiunte spesso altre spese per altri problemi legati alla brachicefalia come il sovrappeso causato dal fatto che faticando a respirare i cani non fanno molto moto. Possono poi esserci problemi secondari gastrointestinali dovuti all’aumento della pressione intratoracica come ernia iatale, e problemi legati agli occhi sporgenti, come le ulcere corneali. Anche avere uno spazio insufficiente per i denti può portare disagi.
    «Nel Regno Unito i veterinari portano avanti una campagna educativa martellante sui rischi legati a queste razze», racconta Corsini, «si potrebbe dire che dal punto di vista economico vada contro il nostro interesse, visto che tutti i problemi di questi cani comportano grandi spese, ma, appunto perché ci importa molto del benessere dell’animale, suggeriamo di pensare ad altre razze o quantomeno di scegliere gli individui con una conformazioni anatomica più normale».
    In Italia è stata fatta una proposta di legge pensata per vietare alcune pratiche relative alla selezione di certe caratteristiche fisiche dei cani, ma attualmente non esistono misure in vigore che impongano qualcosa di specifico agli allevatori.
    Un carlino a Berlino, il 3 agosto 2013 (AP Photo/Gero Breloer)
    Melosi spiega che si sta provando a risolvere i problemi di salute dei cani brachicefali con un altro approccio, meno radicale. Dal 2019 l’ANMVI sta portando avanti un progetto insieme all’Ente nazionale cinofilia italiana (ENCI), l’organizzazione che cataloga e fissa gli standard per le razze canine e gestisce le competizioni cinofile in Italia, per migliorare la salute di questi cani riducendo il numero di quelli che hanno le caratteristiche fisiche più estreme.
    Da parte loro i veterinari hanno condotto un’indagine nazionale per stimare quale sia la frequenza di difficoltà respiratorie nei cani brachicefali italiani e classificare i diversi problemi in base alla gravità. Nel frattempo hanno adottato una campagna di comunicazione con volantini appesi negli studi e nelle cliniche veterinarie per informare sui problemi di salute frequenti nelle razze brachicefaliche.
    Invece la commissione tecnica dell’ENCI sta lavorando per spingere gli allevatori a sottoporre i cani a due test studiati nel Regno Unito e in Francia per individuare i cani che possono sviluppare la sindrome ostruttiva delle vie aeree superiori (spesso chiamata BOAS dall’acronimo in inglese). È da circa sei mesi che si stanno portando avanti questi test, pensati per capire quali siano i cani più sani e sceglierli per la riproduzione, dunque per portare avanti le nuove generazioni delle razze in questione.
    In passato era stato fatto qualcosa di simile per un altro problema di salute diffuso in varie razze di cani, cioè la displasia dell’anca, che riguarda ad esempio i pastori tedeschi e i golden retriever: negli ultimi quarant’anni i cani con questo problema sono via via diminuiti grazie alle verifiche fatte dagli allevatori prima di farli riprodurre. Ci vorrà del tempo però perché si vedano degli effetti su larga scala, più di qualche generazione molto probabilmente.
    Sia Corsini che Melosi consigliano a chi proprio volesse avere un cane di una razza brachicefala di acquistarne uno col pedigree, cioè di cui si abbiano informazioni su genitori e altri ascendenti. «Bisogna evitare come la peste di acquistare cuccioli di cane o altri animali sui siti fatti per vendere oggetti di seconda mano», aggiunge Corsini. Poi può essere una buona idea consultare qualche veterinario per avere un parere su una razza e sugli allevamenti a cui affidarsi. LEGGI TUTTO