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    Se piove finisce la siccità?

    Le piogge delle ultime settimane hanno fatto aumentare la quantità d’acqua presente sia nei laghi che nei fiumi del Nord Italia. Per qualche giorno all’inizio del mese la portata del Po è molto aumentata lungo tutto il corso del fiume e il 10 maggio i livelli del lago Maggiore, di quelli di Como e d’Iseo erano sopra le medie stagionali. Grazie a queste precipitazioni la condizione di siccità che da più di un anno riguarda tutto il Nord, e il Piemonte in modo particolare, si è attenuata, portando benefici per le coltivazioni e le foreste e riducendo il bisogno di consumare acqua delle riserve per l’irrigazione per qualche settimana. Tuttavia non si può dire che la siccità sia finita.La siccità non è data da una semplice assenza o forte carenza di pioggia. Si sviluppa lentamente, con mesi di precipitazioni insufficienti associate a temperature particolarmente alte, e si risolve altrettanto lentamente, soprattutto se dura da tanto come quella attuale, che ha avuto origine alla fine del 2021, quando nevicò pochissimo sulle Alpi. «È probabile che fino a quest’autunno ci sarà ancora un deficit d’acqua», spiega Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità: «Finché le riserve idriche non cominceranno a tornare alla normalità il problema rimarrà».Le riserve idriche non sono solo i laghi, ma anche le falde sotterranee e in generale la quantità d’acqua presente nel suolo. Perché tornino a riempirsi dopo una siccità prolungata servono precipitazioni nella media o abbondanti per un lungo periodo. Le piogge dell’ultimo periodo hanno sicuramente aumentato l’umidità del suolo, ma possono aver rimpinguato solo le riserve idriche più superficiali.Ramona Magno cura il bollettino mensile dell’Osservatorio Siccità di cui è appena uscito l’aggiornamento relativo al mese di aprile. Il rapporto segnala innanzitutto che, nonostante ora la situazione di molti grandi laghi non sia più preoccupante, il lago di Garda, il più grande dei laghi italiani, sia pieno per il 48,6 per cento («è un problema soprattutto per le aree agricole a valle», commenta Magno), e sottolinea che nel giro di qualche giorno l’aumento della portata del Po si è esaurito e ora i livelli d’acqua nel fiume sono tornati inferiori alla media di questo periodo dell’anno.– Leggi anche: Il piano per limitare gli sprechi d’acqua non sta andando come previstoIl bollettino contiene una serie di mappe che mostrano le condizioni di siccità in modi diversi. Per farsi un’idea della situazione Magno consiglia di osservare quelle basate sull’indice pluviometrico SPI (la sigla sta per l’inglese “Standardised Precipitation Evapotranspiration”), un valore che viene usato per rilevare le siccità meteorologiche, cioè quelle riduzioni delle precipitazioni al di sotto della media climatologica (almeno 30 anni) per un certo periodo in una determinata area. L’indice si basa sulla quantità di pioggia precipitata in uno o più mesi e quantifica di quanto è stata inferiore o superiore rispetto ai valori medi. La mappa che mostra l’SPI considerando il solo mese di aprile 2023 segnala perlopiù condizioni di siccità moderata e in poche zone: un po’ in Piemonte, lungo le coste della Romagna e nei vicini Appennini. È così appunto grazie alle piogge recenti.(Osservatorio Siccità)Tuttavia confrontando la mappa con una che invece mostra l’SPI calcolato tra il maggio del 2022 e il mese scorso, diventa evidente che la siccità non può considerarsi finita come potrebbe erroneamente suggerire la prima mappa. In Piemonte, Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia ci sono in realtà zone in condizioni di siccità estrema per quanto poco è piovuto. «Le piogge di un mese non sono sufficienti per appianare il deficit del lungo periodo, la siccità idrologica», spiega Magno: i territori indicati in giallo, arancione e ancor di più rosso continuano a mostrare gli effetti della carenza d’acqua che dura da più di un anno.(Osservatorio Siccità)Un’altra mappa del rapporto mette insieme i valori sulle precipitazioni a quelli sulle temperature e mostra che le regioni che più hanno subìto l’effetto combinato di carenza di piogge e temperature maggiori della media sono Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. Le alte temperature aumentano l’evaporazione dal suolo e la traspirazione delle piante, aggravando la carenza d’acqua.(Osservatorio Siccità)Le previsioni dei centri meteorologici europei dicono che da giugno ad agosto le temperature saranno probabilmente sopra la media in tutta l’Europa e in particolare in alcune zone già interessate dalla siccità: i paesi centro-occidentali e il Mediterraneo. Si prevede anche che saranno tre mesi più piovosi della media, ma bisogna ricordare che in generale in estate piove poco in Europa. Ancora per diversi mesi, aggiunge Magno, non si vedranno effetti legati a El Niño, quel complesso fenomeno climatico che avviene periodicamente nell’oceano Pacifico meridionale e che influenza gran parte del meteo terrestre: tornerà prossimamente secondo le valutazioni dell’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) dopo anni di La Niña, la fase opposta.«Da noi gli effetti si cominceranno a vedere verso la fine dell’anno e soprattutto l’anno prossimo», spiega Magno. Per via del Niño in molti paesi del mondo ci si aspetta un aumento delle temperature, anche in Europa, che si andrà a unire alla generale tendenza legata alla crisi climatica – a cui peraltro è stata ricondotta anche la siccità sia nell’Europa occidentale che in Nord Italia. Mentre l’influenza del Niño sulle precipitazioni in Europa non è ancora ben definita.Il dato apparentemente più positivo presente nel bollettino dell’Osservatorio Siccità riguarda la produzione di energia idroelettrica che nel mese di aprile è stata maggiore sia rispetto all’aprile del 2022 che a quello del 2021. Questo aumento però è stato possibile grazie alle alte temperature registrate sulle Alpi che hanno fatto fondere una buona percentuale della neve accumulatasi nei mesi invernali.Bisogna inoltre precisare che quest’anno di neve non se ne è accumulata moltissima. L’abbondante fusione di aprile e le nevicate limitate nei mesi precedenti sono la ragione per cui a metà aprile il deficit di neve accumulata sulle Alpi rispetto alla media dei precedenti 12 anni era del 67 per cento (la stima è stata fatta dalla Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, ente di ricerca nelle scienze ambientali), e del 73 per cento considerando solo il bacino del fiume Adige – che scorre vicino al lago di Garda.(Osservatorio Siccità)– Leggi anche: Perché l’alluvione in Emilia-Romagna è stata causata anche dalla siccità LEGGI TUTTO

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    Perché alcuni cibi ci disgustano?

    Caricamento playerNelle settimane scorse è circolato molto sui social un test online (in inglese) che cerca di misurare e classificare tramite un’autovalutazione il disgusto per alcuni cibi sulla base dei diversi fattori specifici che lo attivano. Nel test, intitolato Food Disgust Test e sviluppato da una piattaforma (IDRlabs) che pubblica quiz tratti da articoli scientifici, viene chiesto di esprimere approvazione o disapprovazione riguardo a 32 affermazioni del tipo: “Trovo disgustoso mangiare formaggio a pasta dura dalla cui superficie sia stata rimossa la muffa” e “Trovo disgustoso mangiare pesce crudo come il sushi”, ma anche “non bevo dallo stesso bicchiere da cui ha bevuto qualcun altro”.Come specificato dagli autori, il test di sensibilità al disgusto alimentare ha soltanto un valore didattico e non diagnostico (obiettivo per cui è consigliabile rivolgersi eventualmente a specialisti della salute mentale). Ha generato comunque un certo interesse ed è stato ripreso da alcuni siti di informazione per l’opportunità che offre di riflettere su una delle emozioni primarie, il disgusto, e sui condizionamenti sociali, culturali e ambientali che subisce. Questi condizionamenti contribuiscono a determinare la variabilità individuale e collettiva del disgusto alimentare e ne fanno qualcosa di molto più complesso e diverso da un meccanismo evolutivo di difesa dall’ingestione di sostanze tossiche e nocive.Il test circolato su internet si rifà a una classificazione dei fattori di disgusto basata su otto gruppi distinti, proposta nel 2018 da una ricercatrice e un ricercatore del Politecnico federale di Zurigo (ETH), Christina Hartmann e Michael Siegrist. Entrambi si occupano di comportamento dei consumatori, la disciplina che attraverso diverse branche delle scienze sociali (psicologia, sociologia, economia comportamentale, antropologia sociale e altre) studia il modo in cui le emozioni e le preferenze dell’individuo e del gruppo influenzano i comportamenti negli acquisti.Negli studi di Hartmann e Siegrist il disgusto per un certo tipo di cibi o un altro non è inteso come qualcosa che è soltanto o presente o assente, ma come una ripugnanza che può variare di intensità a seconda dei casi. Una delle scale di sensibilità al disgusto alimentare da loro descritte è il grado di sensibilità alla carne animale, che determina la tendenza a provare disgusto per la carne cruda o per le parti degli animali mangiate meno comunemente (le frattaglie, per esempio). Una persona può gradire molto il sapore e la consistenza di una certa pietanza a base di un certo taglio di carne, ma avere un intenso disgusto per pietanze a base di altre parti e tessuti dello stesso animale.Dei diversi fattori di disgusto alimentare, scrivono Siegrist e Hartmann, si ritiene che la sensibilità alla carne sia tra quelli con una più forte base culturale. Per ragioni molto radicate, che possono a loro volta essere influenzate da argomenti relativi ad aspetti religiosi e morali, un certo numero di persone in una determinata società può trovare disgustoso e inaccettabile mangiare carne di animali che invece sono parte della cucina di altri paesi in altre culture.In altri studi sul disgusto alimentare, simili fattori basati su argomenti di ordine culturale e morale sono risultati influenti anche nel caso del disgusto per i prodotti ottenuti tramite nuove biotecnologie, come gli OGM, o per quelli di origine animale considerati inappropriati, come i prodotti a base di insetti. I ricercatori suggeriscono che per molte persone influenzate da questi fattori il disgusto sia tale da renderli sostanzialmente insensibili a eventuali argomenti basati su una valutazione dei rischi e dei benefici dell’introduzione di quegli alimenti.– Leggi anche: Le farine di insetti, spiegateIl genere di disgusto alimentare di cui si sono più occupati Hartmann e Siegrist è però quello alla base di variazioni individuali e di gruppo meno omogenee e prevedibili rispetto a quello mediato da fattori culturali più estesi e condivisi. È in particolare un disgusto attivato da segni che possono essere interpretati in modo diverso da persona a persona. La sensibilità alle muffe indicata da Siegrist e Hartmann come altro possibile fattore di disgusto, per esempio, è un esempio abbastanza chiaro di come un disgusto correlato alla possibile presenza di organismi patogeni possa emergere anche in presenza di muffe che non comportano rischi significativi per la salute.Il disgusto determinato dalla sensibilità alle muffe è un meccanismo di difesa normalmente attivo di fronte ad alimenti potenzialmente dannosi, e cioè quelli su cui si sviluppano muffe che potrebbero renderli non più buoni da mangiare. I formaggi freschi, per esempio, richiedono di essere mangiati entro poche settimane, prima che la muffa favorisca la proliferazione di batteri nocivi. In questo caso il disgusto alimentare è strettamente correlato al disgusto in quanto emozione primaria, in grado cioè di attivare un comportamento necessario alla sopravvivenza: non ingerire il cibo andato a male.– Leggi anche: Partiamo dalle BasiLo stesso disgusto può però manifestarsi anche quando la muffa non comporta concreti rischi per la salute, come nel caso di quella che a volte si forma sulla superficie di formaggi a pasta dura o semidura, come il formaggio svizzero o il cheddar. In questo caso è possibile mangiare il formaggio dopo aver rimosso la parte ammuffita, facendo attenzione a tagliarla via e non a raschiarla (azione che potrebbe aumentare il rischio di contaminare la parte non ammuffita). E ci sono poi anche alcuni tipi di muffe commestibili notoriamente utilizzate per produrre alcuni formaggi, come il Camembert, il Gorgonzola, lo Stilton o altri meno diffusi, che a seconda delle abitudini e dei gusti possono risultare deliziosi ad alcune persone ma sgradevoli ad altre.La ragione evolutiva del disgusto per questo tipo di alimenti è che il deterioramento del cibo, sia quello di origine animale che quello di origine vegetale, è spesso segnalato da cambiamenti di colore, consistenza, odore e sapore. E alimenti che presentano cambiamenti di questo tipo possono quindi indurre una reazione di disgusto, anche quando i cambiamenti non indicano necessariamente la presenza di agenti patogeni, come nel caso di un frutto la cui polpa diventa scura per effetto dell’ossidazione pur rimanendo del tutto commestibile.Un altro fattore di disgusto alimentare descritto da Siegrist e Hartmann non riguarda nemmeno dei cibi specifici bensì le condizioni igieniche relative alla loro preparazione o alla loro assunzione. Anche in questo caso il disgusto deriva da una predisposizione evolutiva a evitare o ridurre rischi di contaminazione del cibo. Ma la soglia di accettabilità delle condizioni igieniche può variare molto, sia tra una cultura e l’altra, sia da persona a persona, e quindi in presenza di pratiche e abitudini alimentari condivise (ci sono persone che non mangiano stuzzichini se sono serviti su un piatto comune, per esempio).Nella letteratura scientifica il disgusto è considerato un’emozione primaria che protegge l’organismo scoraggiando l’ingestione di cibi il cui sapore o aspetto è spesso associato alla presenza di agenti patogeni. Si è quindi evoluto in un meccanismo più complesso, che aiuta a regolare il comportamento in varie situazioni sociali e interpersonali, tenendo conto dei relativi costi e benefici nell’evitare determinati stimoli. E per questa ragione è possibile considerarla «un’emozione dei confini», come ha spiegato la dottoressa e psicoterapeuta Serena Barbieri del centro clinico Spazio FormaMentis di Milano, nel podcast del Post Le Basi, a cura di Isabel Gangitano.È un’emozione che ha originariamente a che fare con la ricerca e la disponibilità di risorse nutrienti necessarie alla sopravvivenza. Non essere abbastanza “disgustati” mentre ci si muove all’interno di un ambiente potrebbe portare a ingerire sostanze nocive. Ma esserlo troppo – non mangiare un frutto un po’ ammaccato – potrebbe limitare le opportunità di nutrimento.Come ricordato dalla neuroscienziata canadese Rachel Herz, esperta nella psicologia degli odori e autrice del libro Perché mangiamo quel che mangiamo, il disgusto è l’unica emozione di base che deve essere «appresa», calibrando la propria reazione agli stimoli sulla base di regole e risposte condivise dai genitori, dagli altri membri del gruppo e dalla cultura in generale. E questa eredità culturale subisce l’influenza dell’ambiente.– Leggi anche: Perché ci piacciono i saponi che sanno di vaniglia e cioccolatoMolti degli alimenti che possono dare disgusto sono quelli ottenuti tramite la fermentazione, il processo in cui gli enzimi di alcuni microrganismi – batteri e funghi, in particolare lieviti e muffe – scompongono lo zucchero presente in un cibo in altre sostanze. È uno dei metodi di conservazione più antichi e relativamente economici al mondo, perché non prevede l’utilizzo di sale o di spezie ma soltanto l’assenza di ossigeno e il passare del tempo.Una delle ragioni per cui alcuni alimenti significano molto per determinate comunità è che contengono qualcosa di essenziale della flora o della fauna di una certa regione, ha scritto Herz. E lo stesso vale per i microrganismi che rendono possibile la fermentazione dei cibi, che variano notevolmente da una parte all’altra del mondo. I batteri utilizzati nella produzione del Kimchi, un piatto coreano a base di cavolo e ravanelli fermentati, non sono gli stessi utilizzati per produrre il formaggio Roquefort.Il disgusto è stato condizionato nel tempo anche dalla disponibilità di nuovi metodi, tecniche e strumenti di conservazione del cibo, dalla pastorizzazione ai frigoriferi, che hanno reso certi tipi di fermentazione meno necessari e diminuito la familiarità delle persone con certi sapori.In uno studio di antropologia, biologia e psicologia pubblicato nel 2021 sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori analizzarono i comportamenti di disgusto tra gli Shuar, un popolo indigeno che abita nella regione amazzonica dell’Ecuador e del Perù. E scoprirono che i membri dei gruppi e delle famiglie meno isolate e più integrate nella moderna economia di mercato – quelli che vivevano non di agricoltura, pesca e caccia, ma con un lavoro salariato o vendendo prodotti agricoli – avevano più alti livelli di sensibilità al disgusto, più probabilità di evitare cibo avariato e un minor numero di infezioni batteriche, virali e parassitarie.– Leggi anche: Il gusto del marcio LEGGI TUTTO

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    Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

    Quando si visita una città per la prima volta, percorrendone le strade a piedi, è abbastanza normale aiutarsi consultando una mappa sul proprio smartphone o seguendo cartelli e altre indicazioni. E imboccare una via anziché un’altra, in casi del genere, è solitamente un’azione guidata da un pensiero cosciente. La maggior parte delle azioni di tutti i giorni non sono di questo tipo: lavarsi i denti, preparare la moka o raggiungere l’ufficio sono azioni prese in carico da una specie di pilota automatico. Sono involontarie, in un certo senso: il risultato di decisioni prese per abitudine e senza che ne siamo coscienti.Le decisioni di questo secondo tipo coinvolgono principalmente quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria implicita (o procedurale), un insieme di processi della memoria a lungo termine che utilizza le nostre esperienze passate per permettere l’esecuzione di movimenti e operazioni senza che ce ne rendiamo conto, come andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale o usare una tastiera senza dover osservare i tasti. Sono decisioni che si distinguono da quelle coscienti anche sul piano neuro-anatomico: coinvolgono cioè aree del cervello specifiche, diverse rispetto a quelle più coinvolte quando invece cerchiamo, per esempio, di mimare il titolo di un film o risolvere un cruciverba.Comprendere come funziona la memoria quando svolgiamo determinate azioni per abitudine, senza farci caso, è utile a capire cosa succede nei casi patologici in cui particolari traumi o malattie compromettono quei processi. Ma è utile in generale a capire come fa il cervello a gestire ogni giorno migliaia di decisioni inconsce, normalmente, e come e perché azioni che inizialmente richiedono un certo grado di coscienza possono diventare azioni del tutto automatiche e portare ad abitudini molto difficili da cambiare.– Leggi anche: Quelli che vedono i suoniLa memoria implicita è uno dei due tipi principali di memoria a lungo termine: l’altra, quella esplicita (o dichiarativa), serve a richiamare ricordi coscienti di fatti del passato, o anche la data di un compleanno o l’orario di un appuntamento. Quella implicita è invece inconscia e non richiede sforzi, ma dura comunque a lungo: giorni, anni o decenni, a seconda dei casi. Un modo abituale di distinguere i due diversi tipi di memoria a lungo termine, come suggerito dall’esperta psichiatra statunitense Sara Jo Nixon, è ricordarsi che quella esplicita serve a «sapere cosa» e quella implicita a «sapere come».Attraverso la memoria implicita costruiamo ricordi che, una volta formati, è difficile rimuovere – dimenticare come si va in bicicletta, appunto – ed è molto facile richiamare: avviene di fatto, a livello inconscio, ogni volta che eseguiamo determinate azioni in modo automatico. Quando impariamo ad andare in bicicletta acquisiamo varie capacità motorie e di coordinazione necessarie per mantenere l’equilibrio, pedalare, sterzare e controllare l’andatura, tutto nello stesso momento. E succede più o meno la stessa cosa anche quando impariamo a guidare: sono tutte abilità che vengono memorizzate nella memoria implicita, in modo da non dover impiegare ogni volta che le mettiamo in pratica tutte le risorse mentali e la concentrazione richieste la prima volta.In un certo senso, come ha scritto la ricercatrice australiana Gina Cleo sul sito The Conversation, le abitudini e le azioni automatiche permettono di svolgere centinaia di attività mentre il cervello elabora tutte le altre informazioni che riceve ogni secondo. Ciascuno dei due diversi sistemi – quello dell’attività consapevole e quello delle decisioni inconsce – coinvolge inoltre aree diverse del cervello, sebbene nessun tipo di memoria sia del tutto autonomo ed esistano molte interdipendenze funzionali tra le varie parti del cervello.Sulla base di diversi studi di neurofisiologia e neuropsicologia si ipotizza che la parte più coinvolta nelle attività di organizzazione e pianificazione dei comportamenti e delle azioni volontarie sia la corteccia prefrontale. È la parte anteriore del lobo frontale del cervello, ed è responsabile dei processi decisionali: quelli che implicano un’intenzione. Permette di formare nuove connessioni nel cervello quando acquisiamo nuove conoscenze o apprendiamo una nuova abilità, per esempio, e richiede un certo sforzo cognitivo e cosciente.– Leggi anche: Pat Martino diventò un grande chitarrista per due volteUn’area strettamente connessa alla corteccia prefrontale ma distinta è quella dei gangli della base, un insieme di centri nervosi alla base del cervello, legati al controllo dei movimenti, alle emozioni e alla formazione delle abitudini. Sono strutture evolutivamente primordiali, tra le prime a formarsi nel cervello umano, e poiché funzionano in modo riflessivo e automatico non richiedono uno sforzo cognitivo.Quando in un contesto che tende a ripetersi eseguiamo una certa azione più volte e per un periodo di tempo abbastanza lungo, un comportamento inizialmente guidato da un’intenzione può progressivamente diventare un’abitudine. In questo caso l’intenzione viene meno e un impulso a mettere in atto un certo comportamento emerge in automatico perché ci troviamo in un contesto che ha stimolato quel comportamento altre volte in passato. Questo funzionamento spiega peraltro perché quest’area del cervello – in cui si trovano grandi quantità di dopamina, il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – sia la stessa area responsabile, tra le altre cose, dei comportamenti legati alle dipendenze patologiche.Alterazioni patologiche nei gangli della base, causate da fattori non ancora chiari, sono state riscontrate in diverse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, in cui la ridotta produzione di dopamina provoca gradualmente gravi disfunzioni nella regolazione dei movimenti.In alcuni casi non patologici, in condizioni di particolare stress e in presenza di altri fattori come i cambiamenti nella routine quotidiana o la mancanza di sonno, può capitare che strutture primordiali del cervello come i gangli della base, responsabili dei comportamenti abitudinari, prendano il sopravvento sulle strutture superiori, responsabili delle attività coscienti. Si ipotizza che sia questa, per esempio, la spiegazione fisiologica delle tragiche dimenticanze che portano alcune persone a lasciare i bambini in macchina senza rendersene conto, esattamente come è possibile che accada con lo smartphone o le chiavi di casa.– Leggi anche: Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemiaIn circostanze normali, ha scritto Cleo, le abitudini sono invece «scorciatoie della mente» che ci permettono di destinare la nostra concentrazione e la nostra capacità di ragionamento ad altre attività e pensieri nella vita quotidiana. Se per varie ragioni le abitudini smettono di produrre benefici o portano a risultati ritenuti controproducenti, può essere utile o necessario interromperle: cosa solitamente molto difficile da fare.Secondo lo psicologo inglese Benjamin Gardner, docente alla University of Surrey nel Regno Unito e autore di decine di studi scientifici e libri sul comportamento abitudinario, non esiste un approccio ideale per eliminare un’abitudine (in parte diversa dalla dipendenza, che presenta più fattori biologici e neurologici interdipendenti). Molto dipende dal comportamento che si vuole interrompere e dall’individuo che ne ha necessità. Ma i tre modi principali sono: smettere direttamente di fare una certa cosa, evitare lo stimolo ambientale che attiva un certo comportamento, oppure associare a quello stimolo un nuovo comportamento altrettanto soddisfacente.Seguendo un esempio posto da Gardner, se volessimo interrompere la nostra abitudine di mangiare popcorn appena mettiamo piede in un cinema, avremmo sostanzialmente tre possibilità. Potremmo dire a noi stessi «niente popcorn» ogni volta che andiamo al cinema, e quindi non comprarlo. Oppure potremmo smettere del tutto di andare al cinema, evitando il fattore scatenante. O infine potremmo sostituire il popcorn con qualcos’altro da mangiare, che si adatti meglio al nostro budget o alle nostre esigenze nutrizionali. LEGGI TUTTO

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    Per l’OMS la pandemia da coronavirus non è più un’emergenza internazionale

    Il Comitato di emergenza sul coronavirus dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – l’agenzia dell’ONU che si occupa di salute – ha stabilito che la pandemia da COVID-19 non è più un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale. La scelta è stata condivisa dal direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha ufficializzato la decisione.L’emergenza era stata dichiarata nel gennaio del 2020: da allora ci sono stati almeno 6,8 milioni di morti ufficiali riconducibili alla pandemia (il bilancio è sicuramente più alto), che però ormai da mesi è tenuta sotto controllo in varie parti del mondo. La stessa decisione dell’OMS era attesa da settimane: diversi funzionari dell’agenzia avevano anticipato che il 5 maggio sarebbe arrivata questa decisione.Ghebreyesus ha sottolineato che questa decisione non dovrebbe indurre le persone a ritenere finita la pandemia: «il virus è qui per rimanere, sta ancora uccidendo e mutando. Rimane il rischio che la nascita di nuove varianti causi aumenti di casi e di morti», ha detto nella conferenza stampa con cui ha annunciato la decisione dell’OMS.L’OMS dichiara un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale quando ci si trova di fronte a «un evento straordinario che può comportare rischi per la salute pubblica in altri stati». L’Organizzazione ha dichiarato questo tipo di emergenza altre sei volte: nel 2009 con l’epidemia di influenza H1N1, nel maggio del 2014 per la poliomielite, nel 2014 e nel 2019 per Ebola e nel 2016 per il virus Zika. Nell’estate del 2022 lo ha fatto anche per il cosiddetto vaiolo delle scimmie. LEGGI TUTTO

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    La linea immaginaria che separa gli animali dell’Asia da quelli dell’Oceania

    Caricamento playerLe più note linee immaginarie che nei secoli l’umanità ha disegnato sulla Terra, o meglio sulle sue rappresentazioni come planisferi e mappamondi, non separano regioni geografiche diverse. Se si attraversano i meridiani, le cui posizioni sono arbitrarie, ma anche l’Equatore, che invece si trova dov’è per definizione (sul parallelo corrispondente alla circonferenza massima del nostro pianeta), non cambiano le caratteristiche naturali circostanti. La stessa cosa vale per la maggior parte dei confini terrestri degli stati.C’è però una linea immaginaria, meno conosciuta, che invece corrisponde a una rilevante differenza tra i territori che separa, e che anzi si può dire sia stata “scoperta” proprio per questa differenza: si chiama linea di Wallace e si trova nel sud-est dell’Asia, dove divide in due l’Indonesia. A ovest della linea vivono le specie animali tipiche dell’Asia, come ad esempio gli elefanti, le tigri e i rinoceronti, ma anche scimmie come gli oranghi, a est invece ci sono le specie dell’Oceania, come i marsupiali, gli ordini di mammiferi a cui appartengono i canguri.La linea di Wallace deve il suo nome ad Alfred Russel Wallace, un naturalista britannico di cui quest’anno ricorre il secondo centenario della nascita che capì il meccanismo della selezione naturale nello stesso periodo in cui ci arrivò Charles Darwin, ma oggi è molto meno conosciuto.Negli anni Cinquanta dell’Ottocento Wallace viaggiò tra le isole che oggi fanno parte dell’Indonesia o dei paesi vicini per studiarne la biologia. In una lettera del 1856, indirizzata all’agente con cui collaborava per fare arrivare animali impagliati di vario genere agli studiosi del Regno Unito, raccontò di essersi accorto di una interessante differenza tra le isole di Bali e Lombok, che sono molto vicine tra loro: «Zoologicamente parlando appartengono a due province distinte, di cui rappresentano i limiti estremi». A Bali infatti ci sono animali simili a quelli del Borneo e di Sumatra, mentre le specie presenti a Lombok somigliano di più a quelle delle isole più orientali e dell’Australia.In particolare, Wallace si accorse che specie di uccelli molto comuni sull’isola di Giava erano molto presenti a Bali, ma mancavano da Lombok.Le differenze nella fauna delle due isole erano particolarmente sorprendenti e difficili da spiegare considerando che lo stretto di Lombok, il tratto di mare che le separa, non è tanto ampio: nei punti più vicini Bali e Lombok distano circa 35 chilometri in linea d’aria. Entrambe sono molto più lontane da isole che invece hanno una fauna simile. E nonostante la prossimità geografica le differenze tra gli animali balinesi e quelli lombokiani sono molto maggiori di quelle tra animali che vivono in terre lontanissime, come l’Europa e il Giappone.Wallace ipotizzò che in passato il livello del mare fosse più basso e che le isole fossero collegate ad altre terre, da cui erano state raggiunte dagli antenati degli animali suoi contemporanei; pensò anche che forse i fondali marini dello stretto di Lombok fossero così profondi da non essere mai stati privi di acqua e che per questo le faune di Bali e Lombok fossero rimaste isolate.A quei tempi ancora non si sapeva che i continenti che conosciamo non sono sempre stati dove sono oggi. Il geologo tedesco Alfred Wegener avrebbe cominciato a parlare della deriva dei continenti solo nel 1912 e solo negli anni Sessanta, grazie ai progressi della geologia marina e allo sviluppo della teoria della tettonica a placche, la comunità scientifica internazionale si sarebbe convinta del fatto che fino a 200 milioni di anni fa tutte le terre emerse fossero unite in un unico supercontinente.Nel Novecento lo studio della crosta terrestre ha dimostrato che Bali e Lombok appartengono a due diverse piattaforme continentali, la piattaforma di Sunda a ovest e quella di Sahul a est. Wallace non poteva sapere che più di 20 milioni di anni fa le due isole erano molto più distanti di oggi, ma ipotizzò comunque che la geologia avesse un impatto sulla loro ecologia, cioè sulla distribuzione delle specie e dei rapporti in cui convivono, e di fatto trovò un importante indizio sulla storia geologica dell’Oceania e sull’origine dei suoi animali, che si sono evoluti indipendentemente da quelli asiatici.Sebbene Bali e Lombok oggi siano molto vicine in linea d’aria, e in generale non ci siano grandissime distanze a separare molte delle isole indonesiane, la differenze faunistiche dovute al passato geologico si sono conservate. Per gli animali terrestri è impossibile attraversare a nuoto i tratti di mare profondi e agitati da correnti oceaniche che le separano, e i venti impetuosi sopra l’oceano impediscono l’attraversamento della linea di Wallace anche a insetti volanti e uccelli.Non fu Wallace a dare il proprio nome a questo confine, ma un altro naturalista britannico, Thomas Henry Huxley, che fu un importante sostenitore delle teorie di Darwin ed è noto anche in quanto nonno dello scrittore Aldous Huxley. Studiando gli animali delle Filippine, Huxley propose di spostare un po’ la linea immaginaria che di fatto Wallace aveva tracciato nei suoi studi, arrivando a includere l’arcipelago nella regione più orientale, e nel 1868 parlò per la prima volta di “linea di Wallace”.Per i suoi studi oggi Wallace è considerato il fondatore della biogeografia, la branca della biologia dedicata alle relazioni tra la distribuzione geografica delle specie e degli ecosistemi e alla loro storia.– Leggi anche: Il ghiacciaio che sposta i confini tra Italia e Svizzera LEGGI TUTTO

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    Gli ibis a cui era stato insegnato a migrare in Toscana saranno guidati in Andalusia

    Tra i vari progetti per ripopolare l’Europa di specie animali che si erano estinte nel continente ce n’è uno particolarmente affascinante per il metodo con cui da quasi vent’anni viene portato avanti. È quello che riguarda gli ibis eremiti, uccelli molto diffusi fino al Seicento: alla fine dell’estate un gruppo di scienziati vola dall’Austria, dalla Svizzera o dal sud della Germania in direzione della Toscana a bordo di una coppia di velivoli leggeri allo scopo di farsi seguire da uno stormo di giovani ibis e insegnare loro a migrare verso un clima più mite, come facevano i loro antenati.Il progetto sta funzionando piuttosto bene, e oggi c’è una popolazione di circa 200 ibis che in primavera si riproduce a nord delle Alpi e sverna attorno alla laguna di Orbetello, in provincia di Grosseto. Quest’anno tuttavia, per la prima volta dal 2004, non ci sarà una migrazione a guida umana verso l’Italia, bensì verso la Spagna, e la causa è il riscaldamento globale.Nei secoli passati gli ibis eremiti passavano la maggior parte della primavera e dell’estate nell’Europa continentale e i mesi freddi in Africa, più precisamente nelle regioni che oggi fanno parte della Mauritania e del Senegal o dell’Etiopia e dell’Eritrea. Ma vennero cacciati a dismisura, fino all’estinzione, e i pochi superstiti, rimasti in Marocco e in Turchia, smisero di migrare. Negli ultimi decenni gruppi di ibis cresciuti negli zoo sono stati liberati in alcune parti d’Europa, ma perché la popolazione cresca al punto da essere autonoma e prosperare senza l’intervento umano è necessario che torni a migrare, perché d’inverno non ci sarebbe abbastanza cibo per sostenere un gran numero di ibis.Questa è la ragione per cui il gruppo di ricerca Waldrappteam, guidato dal biologo austriaco Johannes Fritz, ha cercato un modo per insegnare agli ibis la migrazione, scegliendo la Toscana come meta per questioni di fattibilità. Dal 2004, quasi ogni anno, il Waldrappteam – Waldrapp è la parola tedesca per “ibis” – ha guidato una ventina di giovani ibis nati in cattività fino a Orbetello. Nel 2011 per la prima volta una ibis tornò in autonomia a nord delle Alpi, facendo il percorso in senso contrario, e quando poi intraprese il viaggio di ritorno in Toscana fu seguita da un gruppo di ibis a cui la migrazione non era stata insegnata dagli umani, ma che avevano comunque l’istinto a volare verso zone più calde.Da allora la migrazione avviene spontaneamente e si è pian piano creata la piccola popolazione migratoria di oggi, composta da uccelli nati in cattività e da altri del tutto selvatici che hanno imparato la via per l’Italia dai loro simili. Tutto sembrava procedere nella giusta direzione per arrivare a una popolazione di 260 ibis, giudicata sufficientemente grande per sopravvivere in autonomia, senza il sostegno umano, se non fosse stato per le temperature eccezionalmente alte registrate in Europa lo scorso ottobre, che fanno parte di una tendenza legata al cambiamento climatico.Nei primi anni della migrazione in autonomia gli ibis iniziavano il viaggio attraverso le Alpi intorno ai primi giorni di ottobre. Da allora però la data di partenza si è via via spostata in avanti, probabilmente per via delle temperature più miti che ci sono state di anno in anno. L’ottobre del 2022 è stato il più caldo dal 1800 nel Nord Italia, anche in Austria, in Svizzera e nel sud della Germania sono stati registrati dei record, e gli ibis hanno cominciato a mettersi in viaggio solo verso la fine del mese. La partenza ritardata però è problematica: dei 60 ibis che passano l’estate nelle tre colonie più settentrionali della popolazione, solo 5 sono riusciti ad arrivare in Toscana da soli.Gli altri 55 hanno provato più volte ad attraversare le Alpi senza successo. «Gli ibis eremiti sfruttano le correnti ascensionali per volare più in alto durante la migrazione», spiega Johannes Fritz, «in particolare quando devono attraversare i passi di montagna. Abbiamo osservato che più avanti nel corso dell’anno hanno difficoltà ad attraversare le Alpi e riteniamo che sia perché all’avvicinarsi dell’inverno vengono a mancare le correnti ascensionali di cui hanno bisogno. Ce lo suggerisce anche la nostra esperienza di piloti».I 55 ibis che l’anno scorso erano rimasti bloccati a nord delle Alpi sono poi stati aiutati dal Waldrappteam, che li ha catturati e trasportati a sud delle montagne. Una volta liberati, hanno subito ripreso il viaggio e hanno raggiunto da soli la Toscana.Non è detto che anche quest’anno gli ibis eremiti si trovino ad affrontare lo stesso problema: anche se è in corso un generale aumento delle temperature, di anno in anno resta una certa variabilità e può darsi che il prossimo ottobre le condizioni meteorologiche facilitino la migrazione. Tuttavia sul lungo termine il cambiamento climatico potrebbe danneggiare il progetto di reintroduzione degli ibis eremiti e per questo il Waldrappteam ha deciso di insegnare una rotta migratoria alternativa agli ibis, che non richiede di superare le Alpi, ma solo i più bassi Pirenei: in Andalusia, nel sud della Spagna, esiste una colonia sedentaria di ibis e la migrazione a guida umana del 2023, che si terrà ad agosto, sarà diretta lì.In rosa la rotta per la migrazione a guida umana del 2023, in lilla quelle delle migrazioni degli ibis che svernano in Toscana (Waldrappteam Conservation & Research)Per il gruppo di ricerca sarà una sfida impegnativa perché il percorso di viaggio sarà nuovo per la componente umana della missione e lungo il triplo di quello verso la Toscana. «Ci sarà poi la complicazione di dover chiedere permessi di vario genere in due nuovi paesi, la Francia e la Spagna, e gli aspetti logistici relativi all’alimentazione degli ibis potrebbero essere difficili», aggiunge Fritz: «Ci preoccupano particolarmente le temperature e la siccità che potremmo incontrare lungo questa rotta migratoria. Ma ci stiamo preparando».Sebbene quest’anno nei cieli italiani non si vedranno i paraplani del Waldrappteam seguiti da un piccolo stormo di ibis, non significa però che il progetto di reintroduzione non riguarderà più l’Italia. Fritz e i suoi collaboratori continueranno a lavorare con i partner italiani, tra cui il Parco Natura Viva di Bussolengo, in provincia di Verona, per contrastare le morti di ibis dovute a errori dei cacciatori o a caccia illegale e per sostenere la popolazione che sverna a Orbetello.Secondo Fritz, anche con le difficoltà causate dal cambiamento climatico l’Italia potrà continuare a essere frequentata dagli ibis. Innanzitutto perché alcuni degli ibis reintrodotti in Austria passano l’estate in Carinzia e da lì non devono attraversare montagne tanto alte da risultare invalicabili a fine ottobre. Poi perché è in programma la creazione di una nuova colonia in Friuli e infine perché gli scienziati sono ottimisti sul fatto che anche tra gli uccelli che si accoppiano più a nord alcuni riusciranno a raggiungere la Toscana anche in futuro.«La nuova rotta migratoria e la creazione di una nuova area di svernamento è un’estensione del progetto che aumenterà la flessibilità ecologica della popolazione di ibis e speriamo che li aiuterà ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico», conclude Fritz: «Speriamo che il nostro progetto faccia da modello nella mitigazione degli effetti del cambiamento climatico per le popolazioni animali».– Leggi anche: Come si insegna a migrare agli uccelli LEGGI TUTTO

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    Perché i capelli diventano bianchi

    La comparsa dei primi capelli grigi è tra i segni più evidenti e riconoscibili dell’invecchiamento, ma nonostante sia un fenomeno che riguarda praticamente tutte le persone, a oggi non conosciamo ancora di preciso tutti i meccanismi che portano all’incanutimento. Sappiamo che il processo può iniziare presto in alcuni individui, mentre per altri si presenta in età molto avanzata. Una nuova ricerca da poco pubblicata suggerisce che il fenomeno sia legato a un comportamento anomalo delle cellule staminali nel bulbo pilifero, che col passare del tempo diventano meno efficienti nel mantenere la colorazione del capello.I principali pigmenti responsabili della colorazione dei capelli sono le melanine, molecole complesse (polimeri) con forme e funzioni diverse a seconda di dove si trovano nel nostro organismo. Nel caso dei capelli, le due forme di melanina coinvolte sono l’eumelanina, che ha un colore marrone-nero, e la feomelanina, che ha invece un colore più chiaro e che vira dal giallo al rosso. La loro produzione avviene a partire da uno specifico aminoacido, la tirosina, grazie all’attività dei melanociti, cioè di cellule che si trovano nel bulbo pilifero e che colorano il capello man mano che cresce inserendo al suo interno un tipo di melanina a seconda del soggetto.In generale, le persone con i capelli scuri e castani hanno un eccesso di eumelanina, mentre quelle che li hanno chiari hanno soprattutto feomelanina. La proporzione tra i due polimeri è regolata dalle caratteristiche genetiche cui si aggiungono fattori ambientali, che possono influire sulla colorazione dei capelli. Tra i fattori ambientali, il principale è la luce solare che interviene sulla melanina proprio come avviene per l’abbronzatura della pelle.– Ascolta anche: La guida di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariI raggi ultravioletti del Sole hanno un effetto distruttivo nei confronti della melanina, ma c’è una importante differenza tra ciò che avviene nella pelle e nei capelli, come ha spiegato la divulgatrice scientifica Beatrice Mautino nel suo libro La scienza nascosta dei cosmetici:Nella pelle, che è un organo vivo, questa azione [dei raggi UV] genera una catena di segnali molecolari che spingono i melanociti a produrre altra melanina per creare una barriera protettiva. I capelli, invece, sono fibre “morte”, anzi, trattandosi di proteine, possiamo tranquillamente dire che non sono mai state vive, e quindi la distruzione della melanina si manifesta semplicemente con uno schiarimento, senza che questo scateni alcuna reazione da parte dei melanociti, che continueranno il loro lavoro di produzione come sempre.I capelli crescono dalla base, dove c’è il bulbo pilifero, di conseguenza è solo in quel punto che ricevono il colore grazie ai melanociti. Con l’arrivo delle stagioni in cui siamo di solito meno esposti ai raggi solari – l’autunno e l’inverno – il lavoro dei melanociti non viene turbato più di tanto dai raggi ultravioletti e la parte nuova del capello cresce più scura rispetto alla punta scolorita nel periodo precedente dall’effetto del Sole. I capelli “tornano scuri” semplicemente perché quelli scoloriti dopo un certo periodo cadono nell’ambito del loro ciclo naturale o vengono tagliati.L’invecchiamento turba però l’attività dei melanociti, che col passare del tempo tendono a colorare sempre meno i capelli, fino a quando questi iniziano a ingrigire ed eventualmente a diventare bianchi. Negli anni vari gruppi di ricerca hanno identificato alcune componenti genetiche che determinano questo processo, ma i suoi meccanismi e le sue cause non sono ancora del tutto chiare.Uno studio del 2016, per esempio, identificò il gene IRF4 come un possibile responsabile nella regolazione dell’espressione di un enzima, che avrebbe un ruolo importante nella sintesi della melanina e nel mantenimento dei melanociti. Lo studio aveva però rilevato come i fattori ambientali fossero responsabili del 70 per cento dei casi di incanutimento, aprendo a nuove ricerche sul tema.Negli ultimi anni le attenzioni di vari gruppi di ricerca si sono concentrate sulle cellule staminali che si specializzano diventando melanociti. Ogni bulbo pilifero ha una certa scorta di queste cellule, che grazie all’intervento di particolari proteine avviano quando necessario il loro processo di specializzazione per diventare ciò che tinge il capello. Inizialmente si pensava che l’incanutimento iniziasse quando nel bulbo termina la scorta di cellule staminali, ma non tutti erano convinti perché c’erano indizi sul fatto che l’ingrigimento potesse iniziare anche prima della carenza di queste cellule.Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Nature ha indagato questi meccanismi nei topi, trovando spunti e implicazioni anche per gli esseri umani. Il gruppo di ricerca ha analizzato per lungo tempo le cellule staminali nei bulbi piliferi della pelliccia dei topi notando che in realtà queste passano ciclicamente dallo stadio in cui sono mature e producono la melanina a quando smettono di produrla, con un meccanismo non osservato prima e difficile da spiegare con le conoscenze generali sulle staminali.Col passare del tempo, queste cellule perdono però la loro capacità di passare da uno stadio all’altro. Sembra che quando il pelo cade, nel suo ciclo naturale, il bulbo pilifero si indebolisca e alcune sue funzioni rimangano compromesse, compresa la produzione della proteina che fa da interruttore per dire alle staminali come comportarsi. Il risultato è che il nuovo pelo cresce privo di melanine e di conseguenza senza colore.Quando il gruppo di ricerca ha provato a strappare alcuno peli ai topi, per simulare più velocemente le fasi di caduta e crescita, è stato osservato un maggiore accumulo di staminali nella riserva del bulbo pilifero, senza il loro passaggio allo stadio in cui producono melanina. Il risultato è stato un ingrigimento del pelo dei topi in poco tempo.Lo studio ha preso in considerazione i topi, ma alcune delle conclusioni possono essere applicate agli esseri umani, secondo il gruppo di ricerca. Il meccanismo di perdita e ricrescita del capello, con l’incapacità di produrre il colore, dovrebbe essere simile ed è quindi probabile che siano effettuate nuove osservazioni negli esseri umani.Al momento non è però chiaro perché le staminali smettano di comportarsi come dovrebbero. La pratica di strappare i peli durante gli esperimenti sui topi potrebbe avere inoltre interferito nel processo, considerando che una perdita traumatica è diversa da quella naturale e potrebbe avere altri tipi di conseguenze ancora non completamente note.Dopo lo studio del 2016 (quello sul gene IRF4) era stata ipotizzata a breve la produzione di un principio attivo che avrebbe potuto arrestare l’ingrigimento dei capelli, ma a distanza di circa sette anni non ci sono stati grandi progressi. I risultati della nuova ricerca hanno portato a qualche dichiarazione simile e alquanto ottimistica per contrastare l’incanutimento, ma è probabile che ancora per molto tempo la colorazione dei capelli con le tinte sarà l’unica possibilità per mascherare la perdita del colore.Al di là degli aspetti estetici, le ricerche in questo settore sono importanti perché possono offrire nuovi elementi sul comportamento di alcuni tipi di cellule staminali, così come sul ruolo di particolari geni che potrebbero essere coinvolti anche in alcune malattie come i tumori e più in generale nei processi di invecchiamento.– Leggi anche: I trapianti di capelli funzionano? LEGGI TUTTO

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    Il mito dei diecimila passi al giorno

    È probabile che le smartphone sul quale state leggendo questo articolo stia diligentemente prendendo nota del numero di passi che state facendo oggi, in modo da scoprire se a fine giornata abbiate raggiunto i diecimila, l’obiettivo su cui sono tarati praticamente tutti i pedometri e gli altri dispositivi che tengono traccia della propria attività fisica. È un traguardo talmente noto e promosso da applicazioni, tracker per il fitness e pubblicità da essere diventato per molte persone il metodo principale per distinguere le giornate in cui si è fatto qualcosa per la propria salute da quelle in cui si è stati indolenti e sedentari. Eppure lo standard dei diecimila passi non ha solide basi scientifiche e nacque molti anni fa più per ragioni di marketing che altro.La storia del contapassi ha origini incerte e ancora oggi dibattute, ma la sua invenzione viene spesso fatta risalire all’orologiaio svizzero Abraham-Louis Perrelet, il quale nel 1777 aveva perfezionato un primo meccanismo per la carica automatica degli orologi portatili che sfruttava i movimenti di chi li indossava. Partendo da quel sistema, tre anni dopo Perrelet aveva inventato un pedometro basato su alcuni principi di funzionamento dei suoi orologi e che consentiva di contare il numero di passi e di calcolare la distanza percorsa.Perrelet aveva probabilmente elaborato la propria idea basandosi su invenzioni e prototipi realizzati in passato, se si considera che già un secolo prima era stata segnalata l’esistenza di strumenti per misurare i passi e che già Leonardo da Vinci nel sedicesimo secolo aveva ipotizzato la costruzione di un pedometro a scopo militare (Leonardo aveva progettato anche un odometro, per misurare le distanze).Sarebbero stati però necessari circa due secoli dall’invenzione di Perrelet e alcuni intraprendenti giapponesi per rendere popolari i pedometri, la camminata come attività per tenersi in forma e l’obiettivo dei diecimila passi. Iniziò tutto un anno prima delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, quando l’attenzione verso lo sport era crescente tra i giapponesi e l’eminente medico Iwao Ohya aveva iniziato a mettere in dubbio le abitudini di vita dei suoi connazionali. Dopo la Seconda guerra mondiale il settore terziario in Giappone si era rapidamente espanso e molte persone avevano iniziato a condurre una vita sedentaria, con molte ore passate alle scrivanie dei loro uffici.Stava per iniziare l’evento sportivo più conosciuto al mondo e Ohya riteneva che si dovesse fare qualcosa per spingere i giapponesi a muoversi di più per tenersi in salute. Si mise in contatto con Juri Kato dell’azienda produttrice di orologi Yamasa Tokei Keiki, proponendogli di costruire un pedometro impostato per contare diecimila passi al giorno. Non è chiaro perché avesse scelto proprio quell’obiettivo, ma dalle ricostruzioni sembra che fosse stata una scelta piuttosto arbitraria e legata alla necessità di proporre un numero tondo, facile da ricordare e ragionevolmente raggiungibile in una giornata.Una delle prime pubblicità del Manpo-kei (Yamasa Tokei Keiki)Juri Kato lavorò un paio di anni realizzando infine un pedometro meccanico, il Manpo-kei, nome traducibile dal giapponese come “contatore di diecimila passi”. Fu messo in vendita con una vasta campagna pubblicitaria, che metteva bene in evidenza la possibilità di contare i passi e soprattutto di assicurarsi che fossero almeno diecimila. In Giappone nacquero associazioni per promuovere l’importanza della camminata come attività sportiva accessibile a buona parte della popolazione, senza particolari distinzioni legate alle condizioni fisiche e all’età. Tra le strade di Tokyo e delle altre città giapponesi diventava sempre più frequente osservare persone con il Manpo-kei per tenere traccia dei loro passi.Nei decenni successivi furono messe in vendita versioni alternative e imitazioni di quel pedometro non solo in Giappone, ma in vari altri paesi occidentali, dove iniziava ad affermarsi la moda dei 10mila passi. La miniaturizzazione dei componenti elettronici e la progressiva diffusione dei dispositivi digitali portò i contapassi a essere sempre più diffusi, sia come singoli gadget elettronici sia all’interno di lettori MP3, poi dei cellulari e infine degli smartphone e dei tracker.Mentre i primi pedometri meccanici utilizzavano un piccolo pendolo o una piccola sfera di metallo per rilevare il movimento e far scattare un contatore, gli attuali dispositivi elettronici impiegano sistemi microelettromeccanici (MEMS), che mettono insieme sensori di vario tipo per rilevare il movimento. Sono solitamente più affidabili, anche grazie agli algoritmi che utilizzano i dati rilevati dai MEMS per valutare se sia stato effettivamente compiuto un passo o un altro movimento del corpo. Grazie agli accelerometri e ad altri sensori, per esempio, gli smartphone possono ricostruire la loro posizione nello spazio (se sono messi in tasca rivolti verso l’alto o verso il basso per esempio), utilizzando queste informazioni per calcolare correttamente i passi, con un margine di errore relativamente basso.Tra dispositivi e applicazioni l’assortimento è ormai molto ampio, ma una costante è rimasta: sono quasi tutti impostati con l’obiettivo dei diecimila passi giornalieri, pari a circa 7 chilometri.Un pedometro offerto dalla catena di fast food McDonald’s nell’ambito di un’iniziativa di marketing nel 2004 (Getty Images)Diecimila è un numero tondo e chiaro, facile da comunicare e ricordare, ma come mostra la storia del pedometro moderno non è sostenuto da particolari basi scientifiche. Camminare fa sicuramente bene ed è un’attività fisica a basso impatto per l’organismo, ma ogni persona è fatta diversamente e le sue condizioni di salute variano nel tempo a causa dell’invecchiamento e di altri fattori, di conseguenza non può esserci un numero di passi “salutare” uguale per tutti.Alcuni gruppi di ricerca hanno comunque messo alla prova la teoria dei diecimila passi, per vedere se porti effettivamente a qualche beneficio. Uno studio pubblicato nel 2019, per esempio, ha preso in considerazione 16.741 volontarie con un’età compresa tra 62 e 101 anni che tra il 2011 e il 2015 avevano utilizzato un pedometro per calcolare il numero di passi compiuti ogni giorno. Dall’analisi dei dati è emerso che le donne più sedentarie non superavano i 2.700 passi al giorno e che per le volontarie con una media di 4.400 passi giornalieri era stimabile una riduzione della mortalità pari al 41 per cento. La riduzione continuava a progredire all’aumentare dei passi giornalieri per poi stabilizzarsi intorno alla media di 7.500 passi al giorno. Oltre questo numero i benefici non erano sostanzialmente apprezzabili, secondo la ricerca a indicazione del fatto che basta camminare meno rispetto al diffusissimo obiettivo dei diecimila passi per ottenere comunque benefici.Lo studio aveva però preso in considerazione solamente la mortalità, trascurando altri fattori importanti, ma più difficili da stimare come la qualità della vita, le capacità cognitive e il mantenimento di particolari condizioni fisiche.Un’altra ricerca pubblicata nel 2020 aveva invece coinvolto 5mila persone, arrivando a conclusioni simili sul fatto che diecimila passi non influiscano sulla longevità. Dallo studio era emerso che per le persone che facevano 8mila passi al giorno il rischio di morte prematura era circa la metà rispetto a chi non ne faceva più di 4mila. Anche in questo caso non erano stati rilevati benefici statisticamente rilevanti nel fare più passi oltre gli 8mila giornalieri. Risultati simili erano stati ottenuti da un altro studio pubblicato nel 2021.– Ascolta anche: La scienza dei diecimila passi raccontata da “Ci vuole una scienza”Le ricerche effettuate negli anni hanno poi segnalato come siano poche le persone che fanno diligentemente almeno diecimila passi ogni giorno, seguendo per esempio le indicazioni dei loro dispositivi per contare i passi. Uno studio svolto in Belgio e spesso citato era consistito nel fornire pedometri ad alcune centinaia di volontari, incentivandoli a effettuare almeno diecimila passi al giorno per un anno. Tra le circa 660 persone che arrivarono alla fine della sperimentazione, solo l’8 per cento raggiunse l’obiettivo. A quattro anni di distanza, praticamente nessuno dei partecipanti allo studio aveva mantenuto l’abitudine di camminare a lungo nella giornata, tornando alla propria media personale prima dell’esperimento.Secondo gli esperti e le principali istituzioni sanitarie, camminare è una delle attività fisiche più semplici ed efficaci per mantenersi in forma. In generale, il consiglio è di dedicare all’attività fisica circa due ore e mezza ogni settimana, come extra rispetto a quella che eventualmente già si fa per lavorare o nel quotidiano. Considerando una media di circa cinquemila passi effettuati nel corso di una giornata, l’aggiunta di due-tremila passi equivalenti a una breve camminata può essere un obiettivo realistico per la maggior parte delle persone e fa raggiungere la quantità di passi segnalata negli ultimi anni dalle ricerche che hanno messo in dubbio il mito dei diecimila passi. LEGGI TUTTO