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    Il più grande ragno dei cunicoli finora scoperto

    In Australia è stato scoperto il più grande individuo mai osservato di ragno dei cunicoli (Atrax robustus), tra i ragni più velenosi e aggressivi al mondo. Per le sue grandi dimensioni è stato chiamato “Hercules” e sarà tenuto in cattività per poterne estrarre il veleno, in modo da produrre un antiveleno da utilizzare nel caso di persone morse accidentalmente da uno dei suoi simili. Se non trattato adeguatamente, il morso del ragno dei cunicoli può causare gravi problemi di salute e in alcuni casi la morte.Hercules era stato trovato lungo la regione della Costa Centrale in un luogo una cinquantina di chilometri a nord di Sydney, la città più popolosa dell’Australia. Inizialmente era stato trasportato in un ospedale della zona per poterlo gestire in sicurezza e in seguito era stato trasferito all’Australian Reptile Park, una piccola riserva che si occupa della cura e della tutela di molte specie locali. All’interno del parco un’area è dedicata all’estrazione del veleno da ragni e altri animali velenosi, proprio con l’obiettivo di produrre antidoti e di fare attività di ricerca sulla loro efficacia.
    Dopo avere ricevuto il ragno dei cunicoli, i responsabili del parco hanno velocemente realizzato di avere a che fare con l’individuo più grande mai identificato di Atrax robustus). Comprese le zampe, il ragno raggiunge una larghezza massima di 8,9 centimetri, ben al di sopra dei 5 centimetri raggiunti di solito dagli individui più grandi. È inoltre particolare che un maschio abbia dimensioni così grandi, considerato che solitamente sono più piccoli delle femmine, per quanto più letali.
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    Emma Teni, una delle responsabili del parco, ha detto ad Associated Press: «Siamo abituati alle donazioni di grandi ragni dei cunicoli, ma ricevere un maschio di questa specie così grande è come vincere alla lotteria. Anche se le femmine sono più velenose, i maschi hanno mostrato di essere più letali». L’estrazione del veleno consentirà di produrre maggiori quantità di antiveleno, che in caso di necessità può essere inviato agli ospedali che ne fanno richiesta. L’iniziativa fu avviata nel 1981 e da allora non sono state più registrate morti a causa del ragno dei cunicoli in Australia.
    Hercules e i suoi simili, per quanto di taglia inferiore, vivono nelle aree boschive, ma in alcuni casi possono essere trovati anche nei parchi e nei giardini dell’area di Sydney e più a nord fino alla città di Newcastle lungo la costa. La specie è presente solo in Australia come le altre sempre appartenenti al genere Atrax. In inglese sono di solito definiti “funnel-web spiders”, letteralmente “ragni dalla tela a imbuto” per via della particolare forma delle loro ragnatele. LEGGI TUTTO

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    L’antibiotico-resistenza è un gran problema

    Caricamento playerIl recente annuncio dello sviluppo del zosurabalpin – un antibiotico di nuova generazione ritenuto efficace contro un batterio molto difficile da trattare – è stato accolto come un nuovo importante progresso nell’affrontare il problema dell’antibiotico-resistenza, cioè della capacità di alcuni batteri di resistere ai farmaci e di portare avanti l’infezione talvolta con esiti letali. Il fenomeno è noto da tempo e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è uno dei più grandi rischi per la salute pubblica perché, con il passare del tempo, rende sempre meno efficaci farmaci che nel corso del Novecento avevano permesso di salvare la vita di milioni di persone.
    In generale gli antibiotici sono sostanze prodotte da un microrganismo in grado di ucciderne un altro o di limitarne la moltiplicazione. Gli antibiotici propriamente detti sono quelli prodotti in questo modo da alcuni microrganismi per contrastarne altri, mentre gli antibatterici non-antibiotici sono sostanze ottenute in laboratorio. Entrambi hanno comunque la medesima caratteristica, cioè uccidere o prevenire la crescita di particolari batteri, di conseguenza si utilizza comunemente il termine ombrello “antibiotici” per tutte e due le tipologie di sostanze.
    Lo sviluppo degli antibiotici, a partire dai primi esperimenti di Alexander Fleming sulla penicillina alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ha portato all’identificazione di circa 15 classi dalle quali è derivata la produzione degli antibiotici che utilizziamo ancora oggi. La varietà di queste sostanze non è molto ampia e questa scarsità è diventata una delle cause dell’antibiotico-resistenza, insieme a un uso su ampia scala e spesso eccessivo degli antibiotici nella seconda metà del Novecento.
    Una certa resistenza antibiotica da parte dei batteri è sempre esistita ed è stata essenziale per scoprire gli antibiotici che utilizziamo. I batteri sono organismi unicellulari e devono difendersi dagli agenti esterni, che potrebbero danneggiarli e compromettere le loro colonie. Per farlo nel corso di milioni di anni hanno sviluppato la capacità di produrre propri antibiotici, cioè sostanze che danneggiano per esempio altre specie di batteri, che altrimenti potrebbero distruggerli e rimpiazzarli. È un processo che riguarda anche i funghi e fu alla base dei primi lavori di Fleming, che derivò la penicillina proprio da una muffa (le muffe appartengono al regno dei funghi).
    Lo studio dei batteri e delle loro difese ha portato allo sviluppo di una grande varietà di antibiotici: alcuni sono ad ampio spettro, cioè contrastano specie diverse di batteri, mentre altri sono più specializzati verso una sola o poche specie di questi microrganismi. Le diverse tipologie di antibiotici servono appunto per provare a eludere le difese dei batteri ed eliminarli, in modo da aiutare il sistema immunitario del paziente a superare l’infezione.
    I batteri si riproducono di continuo, anche più volte in una sola ora, e lo fanno copiando il loro materiale genetico. In questo processo può accadere che si verifichino delle mutazioni, cioè degli errori nel processo di copiatura del materiale genetico. La maggior parte delle mutazioni è innocua e non ha conseguenze, ma alcune possono invece determinare una maggiore resistenza del batterio a uno o più antibiotici. Un trattamento con antibiotici elimina quindi i batteri senza la mutazione, mentre si rivela inefficace contro quelli che casualmente hanno sviluppato una certa resistenza. Questi possono a loro volta mutare, producendo batteri dotati di un ulteriore tipo di resistenza e rendendo quindi ancora più difficile la loro eliminazione con gli antibiotici.
    Esempio semplificato di sviluppo dell’antibiotico-resistenza (Ufficio federale della sanità pubblica della Confederazione Svizzera)
    I batteri resistono agli antibiotici in modo diverso a seconda del modo in cui sono fatti e delle mutazioni che hanno accumulato. Alcuni espellono semplicemente l’antibiotico che si è inserito nel materiale cellulare, mentre altri rendono impermeabile la loro membrana in modo che l’antibiotico non possa andare oltre. Ci sono altri casi in cui i batteri modificano la struttura dell’antibiotico rendendolo inattivo oppure ancora modificano alcune delle proteine batteriche e sulle quali sarebbe dovuto intervenire l’antibiotico.
    Come abbiamo visto l’antibiotico-resistenza è una caratteristica tipica dei batteri legata al modo in cui mutano ed evolvono, tuttavia un uso eccessivo o inappropriato degli antibiotici può facilitare l’emergere di batteri sempre più resistenti. Gli antibiotici vengono spesso utilizzati in modo poco o per nulla adeguato, spesso per trattare malattie che non sono causate da batteri, ma da virus contro i quali un antibiotico non può fare nulla. Una certa tendenza a ricorrere agli antibiotici senza motivo era emersa piuttosto chiaramente nelle fasi più acute della pandemia da coronavirus, nonostante tutte le principali istituzioni internazionali invitassero a non utilizzare questo tipo di farmaci per trattare COVID-19, una malattia virale a tutti gli effetti.
    L’antibiotico-resistenza può anche essere favorita da un uso scorretto degli antibiotici, per esempio quando si decide di accorciare la durata della terapia, oppure di ridurre le dosi di antibiotico e di fare da sé, senza avere consultato un medico. L’effetto della maggior parte degli antibiotici è relativamente breve e per questo le terapie spesso prevedono l’assunzione di una dose due o tre volte al giorno, per avere una copertura completa durante il trattamento. Assumerne meno o in orari non regolari può facilitare la sopravvivenza dei batteri e la loro proliferazione, con un aumentato rischio di mutazioni.
    I batteri che sviluppano una marcata resistenza possono causare numerose tipologie di infezioni, che possono diventare croniche o nei casi più gravi letali. Tra le infezioni più ricorrenti e difficili da trattare ci sono quelle del tratto urinario, le polmoniti, le infezioni della pelle, alcune forme di diarrea e le infezioni a carico del sistema circolatorio. Le persone ricoverate in ospedale sono inoltre a più alto rischio di contrarre infezioni batteriche, a cominciare da quelle da Acinetobacter baumannii, un batterio che può avere una forte resistenza agli antibiotici, compresi i carpapenemi, una classe di antibiotici ad ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea” (cioè trattamenti da adottare quando gli altri hanno fallito).
    Trattare le infezioni dovute a batteri resistenti è spesso molto difficile e rende necessaria la somministrazione di tipi diversi di antibiotici, che possono essere via via più potenti e mirati, ma anche più costosi. Trovare la giusta terapia richiede tempo in una fase in cui qualsiasi ritardo è un problema per il paziente, che continua intanto a peggiorare a causa dell’avanzare dell’infezione e degli altri problemi connessi. Le complicazioni possono rivelarsi letali, soprattutto nel caso dei ceppi batterici che si rivelano resistenti a più classi diverse di antibiotici. Il rischio è che con il tempo alcuni batteri diventino resistenti a tutti gli antibiotici oggi disponibili, vanificando i progressi raggiunti nel Novecento in questo campo.
    I dati raccolti dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) indicano che l’antibiotico-resistenza sta diventando un problema in molti paesi dell’Europa. In particolare negli ultimi anni è stato osservato un aumento della resistenza di Escherichia coli agli antibiotici solitamente più usati, con un conseguente aumento dei casi di infezioni croniche al tratto urinario e infezioni ancora più gravi. Nei paesi meridionali dell’Europa il fenomeno sembra essere più diffuso rispetto ai paesi della Scandinavia e ai Paesi Bassi. In generale, i paesi dove storicamente si registra un ricorso più prudente agli antibiotici sono anche i paesi dove il fenomeno della resistenza agli antibiotici è meno presente.
    Il problema dell’uso eccessivo degli antibiotici è comunque globale e l’OMS ha avviato diverse iniziative e progetti per sensibilizzare i governi e le autorità sanitarie nazionali sul problema, con ripetuti inviti a ridurre l’impiego degli antibiotici. In molti paesi, compresa l’Italia, sono state rafforzate le limitazioni legate alla possibilità di acquisto degli antibiotici in farmacia senza una prescrizione medica proprio per evitare gli approcci fai-da-te.
    Gli antibiotici non sono consumati solo direttamente dagli esseri umani, ma anche indirettamente attraverso la catena alimentare. Negli allevamenti si fa spesso ampio uso degli antibiotici per assicurarsi una crescita rapida e in salute degli animali, riducendo il rischio di infezioni. Le sostanze utilizzate sono le medesime impiegate sugli esseri umani e ci sono studi che hanno rilevato un effettivo passaggio di alcune di queste in chi consuma carne. Le ricerche in tema sono ancora in corso, ma si ritiene che il trasferimento sia minimo se confrontato con quello dovuto ai trattamenti medici negli esseri umani.
    Un uso solo quando strettamente necessario degli antibiotici ed esami diagnostici più accurati per stabilire in fretta la giusta terapia antibiotica sono considerati gli strumenti più importanti per contenere il problema dell’antibiotico-resistenza. Ma secondo l’OMS un approccio integrato deve anche passare attraverso lo sviluppo di antibiotici di nuova generazione, in modo da trattare i casi più difficili come quelli da Acinetobacter baumannii. Come ha segnalato un recente editoriale pubblicato dalla rivista scientifica Nature, sviluppare nuovi antibiotici non è semplice e ha forti implicazioni economiche.
    Si stima che solo un candidato antibiotico su 30 superi la fase di verifica in laboratorio per poi iniziare i test sui pazienti. L’intero processo dallo sviluppo all’approvazione da parte delle autorità di controllo può arrivare a costare intorno a un miliardo di euro, ma poiché si cerca di utilizzare il meno possibile gli antibiotici proprio per evitare l’antibiotico-resistenza i ritorni per l’azienda farmaceutica che ha investito così tanto sono generalmente bassi, spesso inferiori ai 100 milioni di euro all’anno. Di conseguenza le aziende farmaceutiche sono restie a fare grandi investimenti nel settore, salvo non ci siano incentivi e promesse di acquisto da parte dei governi tali da rendere sostenibile la loro attività di ricerca e sviluppo.
    La questione sarà affrontata nel corso della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre, con una serie di incontri dedicati alla resistenza agli antimicrobici (il problema riguarda anche, in modo diverso, i funghi e i virus) dopo gli ultimi organizzati ormai otto anni fa. Gli incontri di questo tipo servono di solito a fissare impegni e regole comuni, ma anche per fare il punto della situazione dopo la prima serie di iniziative adottate nel 2016 da oltre 150 paesi per ridurre e rendere più responsabile il consumo di antibiotici. LEGGI TUTTO

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    Dopo molti anni c’è un nuovo promettente antibiotico

    Un nuovo tipo di antibiotico si è rivelato molto promettente nel trattare un batterio che causa spesso infezioni gravi, soprattutto in ambito ospedaliero, e che ha una forte resistenza agli antibiotici tradizionali. La scoperta è stata annunciata con due ricerche pubblicate sulla rivista scientifica Nature, che raccontano il lavoro dei gruppi di ricerca che se ne sono occupati per conto di Roche, azienda farmaceutica e di diagnostica svizzera tra le più grandi e importanti al mondo. Il nuovo antibiotico dovrà superare i test clinici per verificarne efficacia e sicurezza, quindi non sarà disponibile a breve, ma secondo gli esperti potrebbe rivelarsi molto importante nel trattare infezioni batteriche pericolose specialmente per le persone fragili.L’Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi (CRAB) è un batterio che può provocare gravi infezioni proprio a causa della sua alta resistenza in particolare ai carbapenemi, una classe di antibiotici con un ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea”, cioè trattamenti da adottare quando tutti gli altri hanno fallito. I batteri tendono a mutare facilmente in modo da resistere agli antibiotici, oppure occupano gli spazi lasciati dalle specie più esposte all’azione antibiotica: se gli antibiotici vengono usati estensivamente, come è avvenuto per decenni, si riduce via via la loro efficacia rendendo alcuni tipi di batteri più resistenti ai trattamenti disponibili. Questa “antibiotico-resistenza” è diventata un problema globale e pone seri problemi per il trattamento di infezioni batteriche che si possono rivelare letali.
    I CRAB hanno inoltre la capacità di resistere a lungo fuori dall’organismo, anche in ambienti relativamente secchi, e di conseguenza riescono a diffondersi facilmente tra le persone. Negli ospedali l’infezione può essere causata per esempio dai sistemi di ventilazione, se privi di purificatori adeguati, oppure dal contatto con superfici contaminate. I CRAB causano soprattutto polmoniti e sepsi (una anomala ed eccessiva risposta immunitaria all’infezione) che nei pazienti con altri problemi di salute possono rivelarsi letali, specialmente se in mancanza di una buona risposta agli antibiotici.
    I batteri sono organismi unicellulari, cioè costituiti da una sola cellula, e la maggior parte degli antibiotici scoperti e sviluppati fino agli anni Settanta (sostanzialmente gli unici di cui disponiamo) agisce nel citoplasma, la parte interna del batterio delimitata dalla membrana cellulare interna ed esterna. Gli antibiotici scoperti nel tempo appartengono quasi tutti a una quantità limitata di classi ed è raro che se ne aggiungano di nuovi tipi, con funzionamenti diversi.
    Consapevoli delle grandi limitazioni che da decenni hanno impedito di identificare nuovi antibiotici efficaci, i gruppi di ricerca si sono messi al lavoro esaminando decine di migliaia di molecole per individuare quelle che mostravano almeno un minimo di attività antibiotica. L’analisi ha permesso infine di identificare una molecola di partenza su cui lavorare per creare il nuovo antibiotico, il cui principio attivo è stato chiamato zosurabalpin (se supererà i test clinici, sarà venduto con un nome commerciale diverso) ed è altamente specifico nei confronti di Acinetobacter baumannii.
    Il zosurabalpin ha la capacità di limitare un processo molto importante che avviene all’interno del batterio e cioè il trasporto tramite un complesso di proteine (LptB2FGC) di sostanze dall’interno della cellula verso lo spazio tra le due membrane (“periplasma”) che servono a rafforzare le sue protezioni dagli agenti esterni. Compromettendo il sistema di trasporto, si verifica un accumulo all’interno del batterio intossicandolo e facendolo morire. È un approccio diverso da quello seguito con altri antibiotici e sembra funzionare bene, almeno nei test condotti finora in laboratorio: sia in vitro – quindi in contenitori in cui erano presenti colonie di Acinetobacter baumannii – sia in vivo con test su topi per i quali è stato possibile trattare con efficacia polmonite e sepsi, che avrebbero altrimenti causato la loro morte.
    Dopo le verifiche in laboratorio, Roche ha avviato i primi test clinici per valutare la sicurezza del nuovo antibiotico, in vista dei prossimi test che saranno invece orientati a verificare l’efficacia del zosurabalpin. Il suo meccanismo di azione è particolare perché interviene nella parte più periferica del batterio e non direttamente nel citoplasma, di conseguenza dovrebbe mostrare una buona efficacia e ridurre il rischio che il batterio accumuli mutazioni che gli consentano di evitare l’accumulo delle proteine che non riesce a trasportare verso il periplasma. Questa eventualità non può comunque essere esclusa e in laboratorio sono emersi casi di mutazioni che hanno ridotto sensibilmente l’attività antibiotica.
    Un altro problema che potrebbe presentarsi è legato alla capacità di A. baumannii di potere fare a meno, almeno per un certo periodo di tempo, del trasporto di proteine verso le proprie membrane cellulari. In alcuni casi il batterio riesce infatti a interrompere la produzione di quelle proteine, evitando proprio che il loro accumulo lo porti a intossicarsi e a morire. La riduzione del trasporto rende comunque meno infettivo il batterio e di conseguenza la capacità stessa di A. baumannii di produrre grandi colonie, che portano poi alle polmoniti difficili da trattare.
    Al di là del caso specifico, il nuovo antibiotico segna soprattutto l’esplorazione di un nuovo approccio per contrastare i batteri fermandosi alla loro parte periferica e, visto che diversi altri utilizzano un sistema simile di trasporto, in futuro potrebbero essere sviluppati antibiotici contro altre specie batteriche. Tra i possibili obiettivi potrebbero esserci Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa, le cui infezioni non sempre vengono trattate con successo utilizzando i tradizionali antibiotici.
    L’approccio seguito con il zosurabalpin dovrebbe inoltre rendere possibile lo sviluppo di trattamenti altamente specifici, perché l’antibiotico è in grado di intervenire quasi esclusivamente su A. baumannii. Questo significa che la sua somministrazione non dovrebbe portare alla distruzione della flora batterica (il “microbioma”), cioè del complesso di batteri che vivono nell’intestino e che svolgono un ruolo centrale nei processi digestivi e per l’assorbimento delle sostanze nutrienti da parte del nostro organismo. I comuni antibiotici hanno spesso l’effetto collaterale di distruggere anche i batteri che ci sono utili, rallentando di conseguenza il processo di guarigione.
    I risultati dei primi test clinici condotti sul zosurabalpin saranno comunicati nel corso di quest’anno, ma i test proseguiranno con le altre fasi per diverso tempo. Roche dovrà poi presentare tutta la documentazione sui test eseguiti alle autorità di controllo come la Food and Drug Administration negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali nell’Unione Europea, che se non riscontreranno anomalie daranno la loro approvazione per l’impiego dell’antibiotico. Il ricorso allo zosurabalpin sarà probabilmente molto limitato e indicato per i casi in cui non hanno funzionato altri approcci terapeutici, proprio per evitare che si verifichi velocemente una resistenza batterica anche al nuovo antibiotico.
    Infine, dovranno essere anche concordati prezzi e forniture del zosurabalpin, un aspetto centrale perché non sempre per le aziende farmaceutiche è conveniente lo sviluppo di nuovi antibiotici. La fase di ricerca e dei test clinici può comportare investimenti intorno al miliardo di euro, per un prodotto che viene poi utilizzato solo in casi estremi e che magari porta a ricavi di meno di 100 milioni di euro all’anno. LEGGI TUTTO

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    Anche un orso polare è morto di influenza aviaria

    Alla lista dei numerosi mammiferi che negli ultimi due anni sono stati contagiati dal virus dell’influenza aviaria si è aggiunto anche un orso polare, trovato morto lo scorso ottobre a Utqiagvik, nell’estremo nord dell’Alaska. A fine dicembre il dipartimento per la Conservazione ambientale dello stato americano ha diffuso i risultati di un test per il virus effettuato sui resti dell’orso e il veterinario Bob Gerlach ha confermato all’Alaska Beacon che l’influenza è stata la causa della morte.Era già successo che orsi di altre specie fossero infettati dall’aviaria, ma questo è il primo caso noto nel mondo di un orso polare morto per la malattia. È stato segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità animale (WOAH) e agli altri paesi artici in cui vivono orsi polari.
    L’epidemia di influenza aviaria in corso è cominciata tra il 2020 e il 2021 e ha causato la morte di milioni di uccelli selvatici e di allevamento e migliaia di contagi tra i mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e non è ritenuta preoccupante per le persone, mentre è osservata con maggiore apprensione per quanto riguarda alcune specie di animali selvatici che in passato erano meno vulnerabili alle epidemie di influenza aviaria.
    Esistono numerosi tipi e varianti di virus che causano la malattia e quello responsabile dell’attuale epidemia è particolarmente aggressivo e provoca un’influenza detta ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per la salute degli animali che la contraggono e un’ampia diffusione dei contagi. Il virus responsabile è H5N1, le cui prime versioni furono identificate in Cina negli ultimi anni del Novecento. Da allora si sono fatti più frequenti i focolai tra gli uccelli selvatici e i contagi di mammiferi. Solo negli ultimi anni il virus è stato rilevato in modo significativo in Nord America, mentre in precedenza si era manifestato principalmente in Asia, in Europa e in Africa.

    – Leggi anche: Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi più recenti. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, scoiattoli, puzzole, volpi, puma e foche. In Alaska le volpi morte in cui è stata riscontrata la presenza del virus sono state tre dall’aprile del 2022.
    Gli orsi polari dell’Alaska si cibano principalmente di foche ma si ritiene che quello morto per l’aviaria abbia mangiato carcasse di uccelli e che in questo modo possa essere entrato in contatto col virus.
    Una delle maggiori preoccupazioni dei biologi riguardo all’epidemia di influenza aviaria è che si espanda maggiormente in Antartide, cioè all’estremo sud del mondo. A ottobre sono stati rilevati i primi contagi da H5N1 nella regione, tra gli stercorari antartici dell’isola di Bird, nell’arcipelago della Georgia del Sud, quindi non sul continente vero e proprio. Da allora centinaia di elefanti marini con sintomi influenzali sono morti nelle isole della zona e il virus è stato trovato sempre più vicino al continente. Il timore maggiore è che l’epidemia possa fare grossi danni raggiungendo le popolazioni di pinguini dell’Antartide.
    Secondo un rapporto di un gruppo di scienziati della WOAH e della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, pubblicato a dicembre, in Antartide gli effetti negativi dell’H5N1/HPAI potrebbero essere «immensi» perché sia le foche che gli uccelli della regione vivono in colonie di migliaia o centinaia di migliaia di individui, dunque in gruppi particolarmente esposti alla diffusione di una malattia contagiosa. Si teme un disastro ecologico. LEGGI TUTTO

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    Perché i cani capiscono in che direzione indichiamo, ma non cosa?

    Caricamento playerAlle persone che vivono con un cane capita abbastanza spesso di voler attirare la sua attenzione puntando il dito verso un oggetto che si trova a una certa distanza, come succede anche in molte normali interazioni umane. Di solito non passa molto prima che il cane raggiunga l’oggetto indicato, se è un biscotto o un gioco che conosce. La maggior parte dei cani rivolge in generale l’attenzione nella direzione giusta, ma ci mette un po’ a capire quale sia l’oggetto indicato, e a volte non lo capisce affatto.
    In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Ethology un gruppo di ricerca ungherese del dipartimento di etologia dell’Università Eötvös Loránd, a Budapest, ha cercato di fornire una spiegazione al fatto che i cani, quando viene loro indicato un oggetto, capiscono di solito in che direzione concentrare l’attenzione ma non su cosa. Dopo aver condotto una serie di esperimenti, il gruppo ha ipotizzato che questo comportamento dipenda dalla priorità che i cani tendono ad assegnare alla posizione anziché alla forma degli oggetti.
    È una conseguenza non soltanto del modo in cui vedono, ma anche del modo in cui “pensano”. Alcuni individui con particolari abilità cognitive riescono infatti a cambiare il loro approccio e imparano a elaborare le informazioni in un modo più simile a quello umano, in modo da riconoscere gli oggetti anche dal loro aspetto oltre che dalla posizione.
    Riconoscere gli oggetti a partire da un segnale che ne indica la posizione è una capacità che emerge abbastanza presto negli esseri umani durante lo sviluppo. È generalmente descritta negli studi sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla pragmatica (lo studio della relazione tra i segni e i loro utenti) come un effetto della condivisione di un codice comune e soprattutto di un contesto linguistico, senza i quali qualsiasi definizione “ostensiva” rimarrebbe indeterminata. In mancanza di un simile contesto definire un tavolo indicandolo, per esempio, non permetterebbe all’interlocutore o all’interlocutrice di comprendere quale delle numerose informazioni meritevoli di elaborazione – il colore, la forma, una parte del tavolo (il piede) anziché tutto – è la più pertinente tra tutte le informazioni disponibili.
    La capacità di comprendere l’intenzione comunicativa alla base dei gesti che indicano la posizione di un oggetto è una delle differenze più evidenti nella reazione a quei gesti da parte dei bambini rispetto alla reazione dei cani, ha scritto il gruppo di ricerca ungherese. Mentre i bambini già a nove mesi interpretano il gesto come un’indicazione dell’oggetto specifico, i cani interpretano quello stesso gesto come un generico segnale direzionale. Indipendentemente dall’intenzione della persona che utilizza il gesto, il significato del gesto per i bambini e per i cani è diverso.
    I ricercatori e le ricercatrici hanno definito «pregiudizio spaziale» la propensione dei cani a dare priorità nell’elaborazione delle informazioni alla posizione, alla distanza e alle relazioni spaziali tra gli oggetti, spesso a scapito delle caratteristiche degli oggetti. Per studiare questo comportamento hanno condotto in una stanza vuota del dipartimento di etologia dell’università due diversi esperimenti su 82 cani (39 femmine e 43 maschi) di varie razze, tra cui Border Collie (19), Bracco ungherese (17) e Whippet (6), ciascuno dei quali accompagnato dal suo proprietario o dalla sua proprietaria, che partecipava agli esperimenti.
    Nel primo esperimento i cani dovevano reagire a un gesto del loro proprietario o della loro proprietaria e imparare in quale tra due piatti posizionati all’estremo opposto della stanza, uno a destra e uno a sinistra, veniva posizionato un premio (un bocconcino). Dall’inizio della prova avevano 15 secondi di tempo per raggiungere il piatto corretto, e un massimo di 50 tentativi per apprendere il compito che era stato loro assegnato.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    Un secondo esperimento prevedeva l’utilizzo di un solo piatto per volta, posizionato al centro all’estremo opposto della stanza. A ciascun cane veniva dato il bocconcino in un solo tipo di piatto: o uno rotondo e bianco, o uno quadrato e nero. L’alternanza dei due tipi di piatto era semi-casuale: non veniva mai usato lo stesso tipo di piatto per più di due volte consecutive. Il compito dei cani in questo secondo esperimento, in pratica, era imparare a riconoscere l’oggetto dalle sue caratteristiche (forma e colore) anziché dalla sua posizione. Sia nel primo che nel secondo esperimento i ricercatori e le ricercatrici hanno misurato la velocità con cui il cane correva verso il piatto “corretto”.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    I risultati hanno mostrato che i tempi di apprendimento dei cani nel primo esperimento erano più brevi rispetto a quelli nel secondo esperimento, in cui in generale i cani avevano più difficoltà a memorizzare l’oggetto giusto. Per ottenere informazioni sulla duttilità mentale dei cani i ricercatori e le ricercatrici hanno poi replicato gli esperimenti con quelli che avevano ottenuto i risultati migliori, invertendo però la collocazione del bocconcino rispetto alle prove precedenti. In un esperimento lo hanno posizionato nel piatto a destra, per tutti i cani che nel primo esperimento lo avevano nel piatto a sinistra. E in un altro esperimento lo hanno posizionato soltanto nel piatto nero quadrato, per i cani che in precedenza lo avevano ricevuto in quello bianco rotondo.
    Alcuni cani riuscivano più facilmente e velocemente di altri a superare il compito, dimostrando maggiore capacità di modificare sulla base delle nuove informazioni il comportamento precedentemente appreso. I cani che più facilmente degli altri riuscivano a riconoscere il piatto dalla forma e dal colore erano tendenzialmente quelli con più capacità di superare il pregiudizio spaziale, al quale contribuiscono variamente non soltanto le particolari capacità sensoriali dei cani – in particolare quella visiva, già studiata in precedenti ricerche – ma anche le capacità cognitive individuali.
    Gli autori e le autrici dello studio hanno spiegato che le capacità visive dei cani sono diverse a seconda delle razze, in base alla forma della testa. «I cani con la testa più corta, scientificamente definiti “brachicefali”, sviluppano una visione simile a quella umana», ha detto Zsófia Bognár, una delle coautrici dello studio, perché la struttura della loro retina implica una visione più nitida e a fuoco rispetto a quella dei cani di razze con la testa più lunga. Come misura approssimativa della qualità della vista nei cani viene infatti utilizzata una misura della forma della testa chiamata “indice cefalico”, che si calcola dividendo la larghezza del cranio per la lunghezza del cranio: più è corta la testa, più è alto l’indice.
    Sulla base dei risultati complessivi degli esperimenti e dalla valutazione di altre caratteristiche dei cani tramite test cognitivi sulla memoria, l’attenzione e la perseveranza, lo studio ha tuttavia concluso che i cani con prestazioni cognitive migliori riescono a superare i limiti sensoriali e associano le informazioni agli oggetti con la stessa facilità con cui le associano alle posizioni. Se i cani di solito non comprendono quale oggetto stiamo indicando ma soltanto la posizione in cui si trova, in definitiva, dipende in primo luogo da limiti di visione relativi alle caratteristiche fisiche della razza: limiti che determinano in generale una maggiore attenzione verso gli oggetti in movimento anziché verso quelli fissi. Ma dipende in secondo luogo anche da capacità cognitive individuali di ciascun cane. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO

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    Perché non ci sono mammiferi verdi?

    Il colore verde di solito si associa al concetto di natura: sono verdi le foglie delle piante e lo sono molti animali, tra cui diversi tipi di insetti, molluschi e di vertebrati, in particolare tra i pesci, gli anfibi, i rettili e gli uccelli. Non sono verdi invece i mammiferi, la classe di animali vertebrati in cui rientrano anche gli umani: una peculiarità che nel tempo ha suscitato la curiosità dei lettori di riviste di divulgazione scientifica e dei frequentatori di forum online.Alla domanda “perché non ci sono mammiferi verdi?” non si può rispondere in modo univoco. La questione si può prendere da diversi punti di vista: quello dei ragionamenti sui vantaggi evolutivi dell’avere il pelo o la pelle di un colore piuttosto che di un altro, e quello sulle caratteristiche fisiche proprie dei peli, uno degli attributi che distinguono i mammiferi dagli altri animali.
    I colori della parte più esterna dei corpi degli animali, che si tratti di pelle nuda, squame, penne o peli, possono essere dovuti a due diversi meccanismi fisici. «Uno è la presenza di pigmenti all’interno delle cellule», spiega Adriano Martinoli, zoologo esperto di mammiferi e professore dell’Università dell’Insubria, nonché coautore del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani. I pigmenti sono sostanze colorate che determinano il colore di un tessuto. «E il colore dei pigmenti presenti in alcune cellule si può mischiare, non fisicamente ma alla vista, a quello di pigmenti contenuti in altre cellule, producendo nuovi colori».
    È un pigmento verde la clorofilla, la sostanza presente nelle cellule delle foglie che assorbe parte dell’energia del Sole che alimenta le piante. In autunno, quando le ore di luce diminuiscono, le cellule contenenti la clorofilla di molte piante diventano meno vitali e riducono via via la fotosintesi clorofilliana: come conseguenza le foglie cambiano colore, perché diventano visibili altre sostanze, in precedenza oscurate dal verde della clorofilla. Sono ad esempio i carotenoidi che hanno colori caldi che variano dal rosso al giallo. I pigmenti contenuti all’interno della pelle umana (oltre che nei capelli) sono invece le melanine: il colore varia in base alla quantità e al tipo di queste sostanze, fattori che sono influenzati dai geni e dall’esposizione alla luce solare.
    Il colore di un animale però può essere dovuto anche a qualcosa di più complesso, cioè a una «microstruttura fisica superficiale che riflette la luce in un certo modo», spiega Martinoli: «Ad esempio la colorazione scrotale di molti primati durante il periodo riproduttivo non è dovuta a un pigmento, ma alla riflessione della luce. Nelle cellule dell’epidermide infatti ci sono delle microstrutture che, riflettendo la luce, fanno apparire la superficie della pelle stessa di un certo colore, cosa che in realtà non è».
    È il caso della pelle dei mandrilli, i primati dell’Africa centro-occidentale noti per i colori sgargianti dei loro musi, rossi e blu. Il rosso è dovuto all’emoglobina, una proteina di colore rosso presente nel sangue (e quindi un pigmento), mentre il blu ha un’origine diversa. I pigmenti azzurri sono molto rari in natura e nel caso dei mandrilli il blu è prodotto dal modo in cui sono disposte le fibre di collagene nella loro pelle (il collagene è a sua volta una proteina). È un meccanismo che riguarda anche i colori delle penne di molti uccelli variopinti: non contengono pigmenti colorati, tant’è che se le si guarda ingrandite al microscopio le si vede bianche e marroncine.
    Una femmina di mandrillo e il suo piccolo nello zoo di New Orleans, negli Stati Uniti, nel 2020 (AP Photo/Gerald Herbert)
    Il fenomeno fisico responsabile di questi colori è simile a quello per cui il cielo diurno appare azzurro.
    La luce solare è una radiazione elettromagnetica ed è composta da onde di diversa frequenza. A ciascuna corrisponde un colore diverso, in uno spettro che va dal rosso al violetto, passando per l’arancione, il giallo, il verde e il blu. Quando la luce passa attraverso l’atmosfera non viene diffusa tutta allo stesso modo: quella a cui corrispondono frequenze più alte è diffusa molto di più per come sono fatte le particelle dell’atmosfera, e quindi vediamo il cielo azzurro perché la luce che è riflessa e che ci arriva è principalmente di questo colore. Anche il violetto corrisponde a un’alta frequenza ma il sole emette più luce blu che violetto.
    Qualcosa di analogo avviene con le penne degli uccelli o con la pelle di certi animali: in quest’ultimo caso c’entra la struttura microscopica del collagene.
    La struttura fisica dei peli, che sostanzialmente sono tubi di cheratina poco complicati, non consente di produrre questo tipo di effetto, a differenza delle più complesse penne degli uccelli. E per quanto riguarda i pigmenti può contenere solo i diversi tipi di melanina, che danno colori che variano tra il giallo e il marrone scuro. La feomelanina ad esempio dà sfumature tra il giallo e il rossiccio, mentre l’eumelanina è responsabile dei marroni scuri, che in alcuni casi arrivano vicino al nero. Quando i peli sono bianchi significa che non contengono pigmenti e il grigio è dato da una mescolanza di nero e bianco. Il rosso del pelo di certi mammiferi è comunque diverso da quello più acceso del piumaggio di alcuni uccelli, che invece è dovuto a un tipo di pigmenti che i mammiferi non hanno: i carotenoidi.

    – Leggi anche: Perché i capelli diventano bianchi

    A questa riflessione più strettamente legata alla fisica si può aggiungere un ragionamento sui vantaggi evolutivi legati al colore, basato su ciò che sappiamo della storia dei mammiferi. I mammiferi derivano da un gruppo di rettili ancestrale, come pure gli uccelli. Come spiega Martinoli, in questo gruppo probabilmente mancava già la capacità di produrre alcuni pigmenti, quindi non è stata ereditata. Oppure può darsi che la capacità ci fosse ma sia andata persa nel corso dell’evoluzione perché non era utile, cioè non forniva vantaggi adattativi.
    Infatti in origine i mammiferi occupavano «nicchie biologiche»: in un mondo in cui gli animali dominanti più diffusi sulla Terra erano rettili, i mammiferi vivevano nei pochi contesti rimasti liberi. Erano perlopiù animali di piccola o piccolissima taglia attivi di notte. Per questo è probabile che non avessero bisogno di avere un aspetto vistoso e colori sgargianti, così come una vista raffinata: l’olfatto e l’udito erano sensi più rilevanti.
    C’è anche un altro aspetto, cioè che la gran parte dei mammiferi ha una visione in bianco e nero, dicromica. La presenza dei colori non sarebbe stata utile per l’accoppiamento, come succede invece per molte specie di uccelli in cui i maschi attraggono le femmine anche per la qualità del loro piumaggio.
    I colori dei mandrilli, che sono primati (e quindi mammiferi) si spiegano per via di una peculiarità dei primati stessi. «Per dei casi fortuiti di mutazioni degli occhi i primati fanno eccezione e hanno una visione tricromica, cioè vedono i colori», prosegue ancora Martinoli. «E pare che nei primati ancestrali questa visione dei colori sia stata una chiave di successo, perché permetteva di distinguere molto bene i frutti maturi». Sarebbe stato un vantaggio evolutivo importante.

    – Leggi anche: La vita notturna salvò i mammiferi dai dinosauri

    Per quanto riguarda il mimetismo, cioè l’abilità di confondersi con l’ambiente, i colori vicini al marrone di molti piccoli mammiferi sono adatti a non risaltare al suolo e nel sottobosco. E anche pellicce che a noi possono apparire vistose, come quelle delle tigri, sono in realtà adatte al mimetismo se ci si vuole nascondere da animali (prede in questo caso) che hanno una visione dicromatica.
    In un certo senso comunque dei mammiferi col pelo verde ci sono, anche se non si tratta di pelo propriamente verde. Sono i bradipi, gli animali noti per la lentezza nei movimenti che vivono sugli alberi in alcune regioni dell’America centrale e meridionale: sui loro peli crescono delle alghe che fanno la fotosintesi, dunque sono verdi e danno questa sfumatura alla pelliccia dei bradipi. Gli scienziati ritengono che la presenza delle alghe sia vantaggiosa: sia perché consente di mimetizzarsi meglio tra le foglie degli alberi e nascondersi dai predatori, sia perché è una fonte aggiuntiva di cibo.
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    – Leggi anche: Perché i bradipi sono così lenti LEGGI TUTTO

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    Best of bestie

    Una delle raccolte più longeve del Post, tanto da guadagnarsi la sua quota di lettori affezionati, è quella delle foto di animali (o “bestie”, come le chiamiamo affettuosamente) e qui trovate la selezione delle migliori dell’anno, secondo noi. Ci teniamo sempre a dire che che gli animali mostrati sono solo una piccolissima parte di quelli con cui condividiamo il pianeta: le immagini vengono dalle agenzie fotografiche, i cui fotografi le scattano per lo più negli zoo, in riserve naturali o situazioni di vita quotidiana urbana. A volte le foto vengono scelte perché sono buffe, in altri casi perché dicono qualcosa di una specie o del contesto in cui vive (sempre più spesso minacciato dal cambiamento climatico). Sono però un invito a osservare bene, a scoprire un dettaglio in più e magari a guardare con occhi diversi gli stessi animali, anche quelli incontrati ogni giorno fuori dallo schermo. LEGGI TUTTO