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    La reintroduzione dei ghepardi in India non sta andando affatto bene

    Tra il 17 settembre 2022 e il 18 febbraio 2023 venti ghepardi sono stati portati in India dalla Namibia e dal Sudafrica per un progetto di reintroduzione, cioè per cercare di far tornare la specie nel paese, dove è estinta almeno dal 1952. Il progetto è stato molto apprezzato dal primo ministro indiano Narendra Modi, che in occasione del suo 72esimo compleanno era stato invitato ad aprire la gabbia del primo ghepardo rilasciato in libertà in India. Ma per il momento non si può dire che il piano di reintroduzione stia andando bene, anzi.Da marzo sei dei ghepardi arrivati dall’Africa sono morti, così come tre dei quattro cuccioli che erano nati nel frattempo. Tra luglio e agosto tutti i ghepardi superstiti che erano stati lasciati liberi all’interno del Parco nazionale di Kuno-Palpur, che si trova nel centro dell’India, sono stati ricatturati dal gruppo di esperti che segue il progetto e ora sono tenuti all’interno di zone recintate.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan, con la sottospecie dei ghepardi asiatici, Acinonyx jubatus venaticus secondo la nomenclatura scientifica. Oggi ne restano pochissimi e solo in Iran: negli anni Settanta erano circa 300, adesso, secondo l’ultimo conteggio ufficiale iraniano, ce ne sarebbero solo 12.La specie è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo dovuta a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici e della caccia: durante la dominazione britannica dell’India, venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame. Negli scorsi decenni si è provato più volte a reintrodurli, ma senza successo, e perché il Project Cheetah fosse approvato era stata necessaria l’autorizzazione della Corte Suprema indiana. Gli animali presi per la reintroduzione venivano dalla Namibia e dal Sudafrica perché sono due tra i paesi dell’Africa meridionale con le più grandi popolazioni di ghepardi.Il piano iniziale del Project Cheetah prevedeva che i ghepardi provenienti dall’Africa si acclimatassero nell’ambiente indiano gradualmente: prima all’interno di aree recintate ristrette, per un periodo di quarantena di 50-70 giorni, poi dentro aree recintate più ampie per uno o due mesi e infine in libertà nel Parco di Kuno-Palpur, dopo essere stati dotati di radiocollari per seguirne gli spostamenti. Sempre secondo il piano iniziale, prima sarebbero stati liberati i maschi e poi, dopo qualche settimana, le femmine. Nell’esecuzione del piano però ci sono stati ritardi e problemi, tanto che dei 20 ghepardi arrivati dall’Africa solo 12 sono stati liberati. E dopo che due di quelli sono morti, così come quattro di quelli ancora in cattività, i superstiti che erano liberi nel territorio del parco sono stati ricatturati.Le cause di morte dei ghepardi sono elencate nel primo rapporto annuale del Project Cheetah, ma non sono tutte note con esattezza. Il primo individuo morto, una femmina proveniente dalla Namibia, aveva problemi di insufficienza renale pregressi che non hanno risposto alle cure date all’animale. Il secondo ghepardo morto era un maschio sudafricano, deceduto improvvisamente all’interno della recinzione di acclimatamento più ampia: non si sa perché. Un’altra femmina, sudafricana, è stata uccisa da un maschio durante un tentativo di accoppiamento. Tre dei cuccioli nati in India invece sono morti a causa del caldo estremo dello scorso maggio; il quarto è sopravvissuto, ma essendo stato rifiutato dalla madre ora viene accudito dai responsabili di Project Cheetah.Le morti più problematiche per il progetto sono state quelle di una femmina e due maschi appena dopo essere stati messi in libertà: sono morti per setticemia, cioè per un’infezione, legata a ferite che si erano formate vicino e sotto i radiocollari. «Queste circostanze sono senza precedenti per la specie e non erano state anticipate dagli esperti internazionali di ghepardi», spiega il rapporto. I ricercatori del progetto ritengono che i radiocollari non siano stati l’origine dei problemi dei ghepardi, ma piuttosto che abbiano facilitato lo sviluppo di infezioni che potrebbero essere state causate da insetti o parassiti indiani a cui i ghepardi, provenendo da un altro ambiente, erano particolarmente vulnerabili.Le persone che si occupano del Project Cheetah sono comunque ottimiste sulla reintroduzione e nel rapporto sottolineano che «alcune morti sono eventi inevitabili». Tuttavia non era previsto che morissero così tanti ghepardi ancora nella fase in cattività. In un articolo pubblicato sul quotidiano indiano The Hindu l’esperto di animali selvatici Ravi Chellam, amministratore delegato di Metastring Foundation, una società che si occupa di raccogliere dati sulla biodiversità indiana, ha rivolto alcune critiche al Project Cheetah e ipotizzato che nel rapporto sul primo anno della reintroduzione si sia cercato di giustificare a posteriori le morti dei ghepardi.Secondo Chellam il fatto che una dei ghepardi sia morta per un problema di salute pregresso potrebbe indicare che la scelta degli animali dall’Africa non è stata fatta nel migliore dei modi, considerando peraltro che il trasporto da un continente a un altro e la permanenza in cattività sono esperienze stressanti per un animale selvatico anche quando non è particolarmente vulnerabile. Anche la nascita dei cuccioli e la morte di un’altra femmina durante un tentativo di accoppiamento fa pensare a una gestione scorretta degli animali: «Perché c’è stata fretta di farli accoppiare in cattività quando sarebbe potuto succedere una volta lasciati liberi nel parco?».In generale Chellam pensa che il fatto che nove morti siano avvenute con gli animali in cattività sia problematico e che i responsabili del progetto dovrebbero anche valutare se ghepardi che hanno passato così tanto tempo in aree recintate ristrette possano poi sopravvivere in autonomia una volta liberati.Anche altri esperti internazionali di fauna selvatica hanno dei dubbi sulla bontà della gestione del progetto. Tra questi c’è il veterinario sudafricano, esperto di ghepardi, Adrian Tordiffe, che ha fatto parte di una commissione di consulenza per il Project Cheetah. Ha detto alla rivista Time che lui e altri esperti stranieri a un certo punto sono stati esclusi dalle riunioni della commissione e hanno ricevuto in ritardo le informazioni sugli animali malati.Attualmente si sta considerando di proseguire il progetto di reintroduzione in un altro parco naturale, sempre nello stato del Madhya Pradesh in cui si trova quello di Kuno-Palpur. È possibile che alcuni ghepardi siano liberati nella riserva di Gandhi Sagar entro la fine dell’anno. Sono poi attesi altri ghepardi dall’Africa l’anno prossimo: da progetto ne dovrebbero arrivare più o meno una dozzina ogni anno per i prossimi cinque anni, con l’obiettivo di creare una popolazione di almeno 40 individui.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    In Europa le alghe a tavola andavano forte

    Le alghe sono un ingrediente importante nella cucina di molti paesi asiatici, mentre sono pressoché assenti dalla tradizione culinaria europea. La nostra esperienza a tavola raramente si spinge oltre le alghe utilizzate come guarnizione di un piatto o come sperimentazione di qualche estroso chef, eppure secondo uno studio condotto sui resti di alcuni nostri antenati sembra che tra l’età della pietra e il Medioevo il consumo di alghe fosse diffuso in buona parte dell’Europa. Il gruppo di ricerca ritiene che si utilizzassero sia le alghe di mare sia quelle di acqua dolce, seppure con qualche differenza a seconda della vicinanza o meno alle aree costiere.Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, ha preso in considerazione i resti di 74 individui provenienti da una trentina di siti archeologici in Europa, risalenti a migliaia di anni fa quando le società erano di cacciatori-raccogliotori, al successivo sviluppo dell’agricoltura e infine alle società più evolute e organizzate del Medioevo. Per capire quale fosse la loro dieta, il gruppo di ricerca ha analizzato i depositi di tartaro sulla loro dentatura, utilizzando un sistema per analizzarne la composizione molecolare.– Leggi anche: Perché non mangiamo tanto i fioriIl tartaro si forma a causa della placca batterica e dei sali presenti nella saliva, con depositi che si calcificano e al cui interno rimangono intrappolate altre sostanze la cui presenza può essere rilevata anche dopo molto tempo. Prelevando campioni di tartaro e analizzandoli, il gruppo di ricerca ha identificato molecole tipiche di alcune specie di alghe, che evidentemente erano state masticate ed era una costante nella dieta di quegli individui. Come prevedibile, la presenza di tracce molecolari delle alghe è risultata più marcata nei resti trovati in siti archeologici sulle zone costiere, ma sono stati comunque trovati indizi sul consumo di piante acquatiche anche nell’entroterra, dove si consumavano specie vegetali provenienti da laghi e stagni.(Nature Communications)In passato altri studi avevano indagato le abitudini alimentari delle persone vissute migliaia di anni fa, basandosi soprattutto sui resti di animali e molluschi – come ossa e conchiglie – che possono essere ritrovati con relativa facilità nei siti archeologici. Ricostruire la dieta legata ai vegetali è invece più difficile, perché raramente si trovano indizi sufficienti, per esempio sugli utensili e le suppellettili. L’analisi di carbonio e azoto sui reperti può rivelare la presenza di resti animali, mentre più raramente dà qualche indicazione sui vegetali. Il gruppo di ricerca ha quindi seguito un approccio diverso, cercando le “firme biologiche” dei vegetali con un sistema di analisi molecolare.Il consumo di alghe era stato ipotizzato in precedenti studi per le popolazioni europee vissute nel Mesolitico, il periodo intermedio dell’età della pietra tra i 12mila e i 10mila anni fa. Si riteneva che gli individui dell’epoca fossero grandi consumatori di alghe, ma che l’abitudine alimentare si sarebbe persa quando iniziò a diffondersi l’agricoltura e a ridursi la necessità di cacciare e raccogliere dagli ambienti naturali. Il nuovo studio mette fortemente in dubbio questa ipotesi, segnalando come il consumo di alghe fosse ancora continuato a lungo per svariati millenni.Non è chiaro che cosa determinò la fine del consumo di alghe in epoca medievale in Europa e la ricerca non fa ipotesi al riguardo. Non ci sono inoltre molte fonti sul loro utilizzo nei documenti del Medioevo, circostanza che spinge a qualche cautela e alla necessità di effettuare ulteriori approfondimenti per esempio analizzando ulteriori campioni da altri siti archeologici.Laverbread (Wikimedia)Alcune tracce dell’impiego delle alghe nella cucina europea sono comunque arrivate fino ai giorni nostri. Nel Galles si prepara ancora il “laverbread”, una pietanza a base di Porphyra umbilicalis e di Ulva lactuca, due specie di alghe che vengono fatte bollire fino a quando iniziano a disfarsi. Il risultato finale è una sorta di pasta gelatinosa che può essere mangiata da sola, oppure per accompagnare piatti a base di carne. In Asia diverse alghe appartenenti al genere Porphyra sono impiegate per numerose preparazioni, l’utilizzo più noto è quello per il sushi (nori).In generale, le alghe sono nutrienti e possono far parte della dieta, a patto di non eccedere a causa del loro alto contenuto di iodio. Sono disponibili durante tutto l’anno e spesso in grandi quantità, circostanze che probabilmente influirono sul loro consumo un tempo in Europa e che ancora oggi determina un loro ampio utilizzo nei paesi orientali. LEGGI TUTTO

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    I funghi allucinogeni non fanno compiere gesti folli

    Caricamento playerNegli ultimi giorni diversi siti e giornali si sono occupati della storia del pilota statunitense fuori servizio che domenica 22 ottobre è stato fermato e accusato di tentato omicidio e di condotta pericolosa dopo che aveva cercato di spegnere i motori di un aereo di Alaska Airlines in un volo da Seattle a San Francisco. Il pilota, che ha 44 anni e si chiama Joseph Emerson, ha poi attribuito il suo comportamento agli effetti dell’assunzione di funghi allucinogeni, ha detto che non dormiva da più di 40 ore e che soffre di depressione da circa sei anni.La spiegazione fornita da Emerson ha suscitato diverse perplessità tra studiosi ed esperti di sostanze allucinogene. Prima di tutto perché, stando alle ricostruzioni, dal momento dell’assunzione dei funghi da parte di Emerson al suo tentativo di spegnere i motori in volo erano trascorse almeno 48 ore. Questo rende altamente improbabile che l’effetto dei funghi, che non dura di solito più di 7 o 8 ore, fosse ancora presente: la sostanza allucinogena contenuta nei funghi, la psilocibina, è peraltro eliminata completamente dal corpo entro un giorno dall’assunzione.Oltre che essere incongruente sotto l’aspetto fisiologico, l’associazione tra l’assunzione dei funghi e il tentativo di provocare un incidente aereo mettendo a rischio la vita di decine di persone potrebbe contribuire a rafforzare in una parte dell’opinione pubblica una convinzione già abbastanza radicata secondo cui uno dei principali effetti collaterali dei funghi allucinogeni sarebbe compiere gesti pericolosi e dissennati. Questa idea, sostenuta perlopiù da informazioni aneddotiche, racconti sui media e rappresentazioni letterarie, non è però validata da un insieme altrettanto cospicuo di solide evidenze scientifiche.In generale gli studi sugli allucinogeni, come vale in misura minore anche per altre sostanze illegali in diversi paesi del mondo, sono stati storicamente limitati da scarsi finanziamenti, da una prolungata stigmatizzazione sociale verso queste sostanze e dalle difficoltà a reperirle legalmente e ottenere di volta in volta le autorizzazioni necessarie per studiarne gli effetti in ambienti sperimentali e controllati. Le ricerche e gli studi più attendibili condotti nel corso degli ultimi vent’anni, inclusi i più recenti, indicano tuttavia che il rischio di procurare danni a sé stessi e alle altre persone non è affatto tipico dell’assunzione di allucinogeni. È anzi un effetto raro, in confronto alla frequenza di questo stesso effetto associata all’assunzione di altre sostanze, soprattutto l’alcol.I funghi allucinogeni – i cui effetti erano già noti centinaia di anni fa alle popolazioni indigene dell’America centrale e del Messico – appartengono alla classe degli psichedelici, sostanze in grado di alterare temporaneamente la coscienza, i pensieri, l’umore e, attraverso particolari distorsioni sensoriali, anche le percezioni di chi le assume. Contengono una molecola, la psilocibina, che ha un meccanismo d’azione molto simile a quello dell’Lsd (l’altra sostanza psichedelica più famosa), ma meno duraturo e più gestibile: caratteristica che negli ultimi anni ha notevolmente incentivato la ricerca sui funghi per scopi terapeutici.– Leggi anche: Il ritorno degli psichedeliciNegli ultimi anni un numero crescente di studi clinici ha esplorato il potenziale delle sostanze psichedeliche e in particolare della psilocibina nella cura di diversi disturbi mentali, in particolare la depressione, riscontrando un’efficacia molto significativa, se confrontata con quella di altri approcci farmacologici. Gli stessi studi, descrivendo una certa variabilità degli effetti degli psichedelici a seconda dei pazienti che le assumono, ribadiscono quanto sia rilevante per l’efficacia delle cure che le sostanze siano assunte all’interno di un percorso psicoterapeutico.Gli effetti noti della psilocibina, come di altre sostanze psichedeliche, dipendono da molti fattori: la dose, l’età di chi la assume, l’umore, se si è mangiato o meno, la personalità e l’eventuale storia di dipendenze. E un altro fattore rilevante è il contesto e l’ambiente circostante, a volte definiti setting. Possibili effetti collaterali fisici a breve termine, come nausea, mal di testa, mal di stomaco e battito cardiaco accelerato, sono di solito lievi, e molte persone comunque non li segnalano.Riguardo ai comportamenti pericolosi e folli spesso associati nell’opinione pubblica all’assunzione di funghi allucinogeni diverse ricerche recenti suggeriscono che l’aneddotica e la disinformazione abbiano contribuito per lungo tempo a sovrastimare notevolmente questo rischio specifico. Nella ricerca sugli psichedelici è ampiamente nota l’influenza delle aspettative, delle storie cliniche e delle esperienze personali passate di chi assume queste sostanze sugli effetti dell’assunzione e anche sul rischio di comportamenti potenzialmente pericolosi. Come è noto che, proprio in considerazione dei rischi, persone molto giovani non dovrebbero assumere queste sostanze.Sebbene le segnalazioni di comportamenti autolesivi dopo l’assunzione di psilocibina siano molto rare, il fatto che siano ampiamente riportate dai media contribuisce notevolmente alla percezione pubblica dei rischi di questi comportamenti. Ma le morti che coinvolgono i funghi allucinogeni non sono una situazione clinica comune nella medicina forense quotidiana. E in ambito clinico la psilocibina ha una reputazione di sostanza generalmente sicura, molto meno dannosa – sia per chi ne fa uso che per la società – rispetto all’alcol e a quasi tutte le altre sostanze oggetto di studi. Il National Institute on Drug Abuse, l’istituto che si occupa di droghe e dipendenze negli Stati Uniti (dove la psilocibina è legale in alcuni stati), segnala comunque la necessità di ulteriori ricerche per comprendere meglio l’impatto degli psichedelici sulla guida e sull’esecuzione di attività che potrebbero essere compromesse: impatto peraltro noto e considerato nel caso dell’alcol e di molte altre sostanze legali, in Italia e in altri paesi del mondo.– Leggi anche: Il problema di capire chi sta guidando “da fatto”Un citato studio comparativo sui danni da sostanze, pubblicato sulla rivista Lancet nel 2010 e condotto dal ricercatore inglese in neuropsicofarmacologia David Nutt e da altri ricercatori dell’Imperial College di Londra, colloca le sostanze psichedeliche tra quelle con i punteggi più bassi in termini di dannosità per l’individuo e per la società, soprattutto la psilocibina. Gli stessi risultati sono emersi anche da altri studi pubblicati negli ultimi 15 anni su Lancet e sulla rivista Journal of Psychopharmacology, e condotti su gruppi di persone nei Paesi Bassi, in Europa e in Australia.In un sondaggio online per uno studio condotto nel 2016 da un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins University School of Medicine, a Baltimora, sulle esperienze impegnative e difficili dopo l’assunzione di funghi allucinogeni (comunemente definite bad trip), l’11 per cento della popolazione intervistata ha riferito di essersi esposto o aver esposto altre persone a un rischio di danno fisico. Questi casi erano correlati perlopiù a dosi molto alte e all’assenza di un ambiente confortevole sul piano fisico e sociale (tutti aspetti che possono essere controllati in condizioni cliniche).Anche la definizione di esperienza negativa dopo l’assunzione di funghi, considerata una reazione avversa possibile ma facilmente limitabile in ambito clinico, è controversa e spesso molto romanzata. In termini generali il bad trip indica un disagio più o meno intenso durante l’azione della sostanza, e può implicare sentimenti di paura, ansia e paranoia. Per questa ragione, nell’ambito degli usi terapeutici degli psichedelici, quindi rivolti a persone che soffrono di particolari disturbi, è importante che l’esperienza sia preparata, seguita e supervisionata. Generalmente la più completa e comune misura di riduzione di questo rischio in ambito clinico è l’esclusione di soggetti con storia personale o familiare di disturbi psicotici o altri disturbi psichiatrici gravi.Un’altra idea molto radicata ma inesatta, influenzata in parte dalle rappresentazioni in film e libri e in parte da una scarsa familiarità con concetti e fenomeni della psichiatria, è che l’assunzione dei funghi allucinogeni induca a vedere cose che non ci sono. Le allucinazioni causate dall’assunzione di funghi, cioè le percezioni di immagini e suoni che non esistono nella realtà, sono molto rare e comunque associate a dosi molto elevate. Più che vedere cose che non ci sono, durante un trip in cui si è assunta una dose considerevole di psichedelici si tendono a vedere distorsioni di quello che invece c’è.La stessa parola “allucinogeni” infatti è scientificamente imprecisa e poco utilizzata in ambito accademico: perché include classi diversissime di sostanze, tra cui gli psichedelici propriamente detti (Lsd e psilocibina, appunto, ma anche mescalina e Dmt) e sostanze dissociative come ketamina e Pcp (la cosiddetta “polvere d’angelo”). Gli effetti dissociativi si chiamano così perché le sostanze che hanno questi effetti possono indurre la sensazione di uno scollegamento tra sé e l’ambiente fisico circostante. È una fase nota e ampiamente descritta nella letteratura scientifica sull’esperienza del trip psichedelico.– Leggi anche: Le droghe, in sostanzaGli studi neurobiologici sugli effetti dissociativi li attribuiscono alla temporanea disattivazione di cellule nervose in alcune aree cerebrali specifiche, il cui compito in condizioni normali è di filtrare la grande quantità di stimoli che raggiunge il cervello. In assenza della normale elaborazione di quegli stimoli visivi, uditivi, olfattivi e sensoriali, il cervello riceve molte più sollecitazioni, e questo può determinare un cambiamento più o meno marcato nell’elaborazione delle informazioni portando ad alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo.Le allucinazioni, in alcuni studi descritte come una sorta di «eccessiva interpretazione» delle informazioni visive, sono rare e segnalate in caso di dosi molto elevate. E definirle come la visione di cose che non esistono è una semplificazione. Come scritto dal neuroscienziato inglese Daniel Glaser, «qualunque cosa possa dirti un hippy fatto su un prato alle 3 del mattino, l’allucinazione non è un modo completamente diverso di vedere: è soltanto un diverso equilibrio tra ciò che stai immaginando e ciò che ti passa davanti agli occhi».Anche in assenza degli effetti di sostanze ciò che vediamo è sempre determinato da aspettative e pregiudizi, da ciò che abbiamo visto in passato e da ciò a cui stiamo pensando in quel momento. Vediamo continuamente forme che ricordano oggetti che non esistono realmente, secondo Glaser, ma di solito osserviamo quelle forme con maggiore attenzione quando non siamo sotto l’effetto di sostanze: «gli allucinogeni possono mettere in pausa questo meccanismo interiore di verifica dei fatti, e indurci a proiettare i nostri ricordi e le nostre riflessioni nel mondo reale».***Dove chiedere aiutoSe sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22. LEGGI TUTTO

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    Questa non è una coscia di pollo

    Ci sono casi in cui un pollo arrosto può essere divisivo: petto o coscia? C’è chi preferisce il primo, più semplice da mangiare e privo di ossa, e chi la seconda, di solito meno asciutta e con uno strato di pelle più spesso intorno. Chi appartiene a questa seconda categoria è quasi sempre convinto di avere nel piatto una vera coscia, del resto la chiamano tutti così, ma sta in realtà mangiando un “polpaccio”.La confusione deriva dalla poca familiarità con l’anatomia degli uccelli, dal fatto che tutti – persino i macellai – chiamano spesso “coscia” una parte dell’animale che non lo è, e dalla diffusa convinzione che polli e simili abbiano l’articolazione del ginocchio al contrario rispetto alla nostra e in generale a quella dei mammiferi.Gli arti inferiori degli uccelli variano molto a seconda delle specie, ma mantengono comunque tratti comuni che si ritrovano anche nei polli (Gallus gallus domesticus). Sono animali digitigradi: utilizzano come unico punto di appoggio le loro falangi, cioè le ossa che formano le loro dita (lo sono anche cani, gatti e altri animali). Si distinguono quindi dai plantigradi: gli animali che camminano poggiando tutta la pianta del piede, come fanno gli esseri umani e gli orsi per esempio.Quando camminiamo sulle punte dei piedi in un certo senso imitiamo l’andamento dei digitigradi e manteniamo sollevato il metatarso e il tarso, l’insieme delle ossa che si trovano tra le falangi e la caviglia. I polli camminano costantemente in questo modo e non hanno propriamente un tarso, perché questo nel corso della loro evoluzione si è fuso con il metatarso formando un osso unico e relativamente allungato che spesso viene erroneamente identificato come l’equivalente del nostro polpaccio (tibia e perone). In realtà è più corretto immaginarlo come un prolungamento del piede, che rimane sempre sollevato per via del modo in cui camminano gli uccelli.Arto inferiore di un uccello a confronto con un piede umanoProseguendo dalla zampa verso l’alto, al termine del tarsometatarso c’è l’articolazione della caviglia, anatomicamente diversa dalla nostra, ma orientata allo stesso modo: si flette proprio come avviene quando pieghiamo i piedi verso l’alto. La caviglia è l’articolazione più evidente degli arti inferiori degli uccelli, perché non è coperta dalle piume, e visto che la conformazione del tarsometatarso induce in inganno, molti sono convinti di osservare il ginocchio degli uccelli e da questo derivano la conclusione (errata) che questi animali abbiano l’articolazione al contrario rispetto a noi. Ma, appunto, quella è una caviglia, non un ginocchio, ed è quindi orientata nel verso normale.La confusione tra caviglia e ginocchio degli uccelli ha conseguenze sul resto della comprensione dell’anatomia degli arti inferiori di questi animali e ci porta alla convinzione errata per molti da cui eravamo partiti: la coscia che non è una coscia. Ciò che comunemente chiamiamo in questo modo è in realtà l’equivalente del “polpaccio” in altri animali, prova ne sia il fatto che l’osso che lo costituisce non è il femore, ma il tibiotarso, cioè la fusione di parte del tarso (quindi ancora una parte dell’osso della zampa) con la tibia. Questa parte non è in alcun modo una coscia, che si trova invece nel segmento successivo proseguendo sempre dal basso verso l’alto.La parte del tibiotarso termina con il ginocchio vero e proprio, quasi sempre nascosto dalle piume e meno evidente al punto da non essere molto preso in considerazione quando pensiamo a come è fatto un pollo. Oltre il ginocchio c’è poi il femore dove troviamo infine la vera coscia con la muscolatura tipica di quella parte anatomica.(Saikiran Kesari su Unsplash)A causare talvolta qualche confusione aggiuntiva c’è l’abitudine di distinguere tra “sovracoscia” e “fuso”: la prima indica la parte del femore, mentre la seconda quella dove si trova il tibiotarso. Se da un lato in questo modo non si chiama quest’ultima con il nome di un’altra parte anatomica, la parola “sovracoscia” può trarre in inganno, perché sembra implicare che ci sia un altro pezzo di coscia, mentre in realtà è quel pezzo stesso a essere la coscia. Una ricerca sul dizionario potrebbe portare a ulteriore confusione, come dimostra la definizione che dà di sovracoscia il Nuovo De Mauro: «Taglio di carne di pollo, tacchino e sim. che comprende la parte superiore della coscia».Non aiutano nemmeno gli emoji a schiarirsi le idee, almeno su diversi sistemi operativi come quello degli iPhone.(Apple)Come spesso accade, l’anatomia degli uccelli ci appare particolare perché è diversa dalla nostra, che usiamo spesso come modello e con la quale tendiamo a definire cosa è “normale” e cosa no. La loro evoluzione è iniziata nel giurassico partendo dai dinosauri, quando ancora nessuno si poneva il problema tra petto o coscia. LEGGI TUTTO

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    La NASA non riesce ad aprire questo barattolo

    Caricamento playerDa qualche giorno i tecnici della missione spaziale OSIRIS-REx della NASA hanno un problema: non riescono ad aprire completamente il contenitore che conserva al suo interno i campioni dell’asteroide Bennu, riportati sulla Terra alla fine di settembre dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Due elementi del sistema di chiusura si sono bloccati e per forzarli sarà necessario un nuovo strumento, non previsto dalle procedure che erano state definite per aprire il contenitore mantenendolo isolato, per evitare contaminazioni dall’esterno. Non è un problema insormontabile, ma richiederà diversi giorni per essere risolto.La sonda OSIRIS-REx aveva prelevato del materiale da Bennu nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche secondo sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico ora difficile da aprire, per la raccolta dei detriti. Era il componente più importante della missione e aveva richiesto diverso tempo per lo sviluppo e soprattutto per sperimentarne l’affidabilità qui sulla Terra, prima di utilizzarlo nello Spazio a grande distanza da noi.In un certo senso il sistema di prelievo era stato pensato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per creare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da far sollevare i detriti e farli confluire in una camera di raccolta, lungo la circonferenza del dispositivo. La parte inferiore del TAGSAM, quella entrata in contatto con la superficie di Bennu, è infatti parzialmente cava con un tronco di cono al suo centro, che favorisce il passaggio del materiale sollevato dall’asteroide verso una linguetta che fa da diaframma, impedendo che ciò che è passato oltre possa tornare indietro, perdendosi nuovamente nell’ambiente spaziale.Il prelievo tre anni fa era andato meglio del previsto, al punto da intasare parte del diaframma. Il braccio robotico aveva poi collocato il TAGSAM all’interno di una capsula, che a fine settembre di quest’anno aveva protetto il contenitore nel suo turbolento rientro nell’atmosfera terrestre. Il recupero nel deserto dello Utah (Stati Uniti) era stato un successo e la capsula con il suo contenuto era stata poi trasferita al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.Il momento del prelievo dall’asteroide, la struttura circolare al fondo del braccio robotico è il TAGSAMPer svolgere questa attività la NASA aveva predisposto vari sistemi di isolamento, in modo da evitare contaminazioni con l’ambiente terrestre, che renderebbero meno utili le analisi per scoprire che cosa c’è (o non c’è) su un asteroide come Bennu. Il contenitore era stato collocato in una teca isolata e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. All’interno della teca erano stati inseriti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione.Tecnici al lavoro intorno alla teca durante una simulazione (NASA)Ogni strumento era stato testato e certificato per essere presente all’interno della teca e questo spiega le difficoltà degli ultimi giorni per i tecnici della NASA. Dopo avere rimosso e raccolto il materiale in eccesso che si era depositato nel diaframma del TAGSAM, i tecnici hanno iniziato a rimuovere i 35 elementi che tengono chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano stati raccolti i detriti di Bennu. Sono riusciti a rimuoverli tutti tranne due, nonostante ripetuti tentativi: e questo impedisce di sollevare il coperchio per raggiungere il serbatoio con il resto dei pezzi di Bennu. Piegando il diaframma i tecnici sono comunque riusciti ad accedere almeno parzialmente ad alcune sezioni del serbatoio e hanno poi utilizzato pinze e altri strumenti per estrarre i detriti più piccoli, ma non sono riusciti a fare altrettanto con quelli più voluminosi.La parte inferiore del TAGSAM con alcuni detriti, l’anello scuro è il diaframma (NASA)Gli strumenti attualmente contenuti nella teca isolata non sono adatti per forzare i due elementi bloccati, di conseguenza si stanno studiando soluzioni alternative, che comporteranno o un uso più creativo degli strumenti già a disposizione o l’introduzione nella teca di nuove utensili (c’è una sorta di camera intermedia nella teca per evitare le contaminazioni). Prima di procedere, la NASA sperimenterà le nuove soluzioni con modelli del TAGSAM attraverso alcune simulazioni, in modo da poter poi procedere senza mettere a rischio l’integrità del contenuto.I responsabili della missione hanno atteso tre anni prima che OSIRIS-REx portasse sulla Terra alcuni frammenti di Bennu, quindi non hanno particolare fretta e la priorità rimane il recupero in sicurezza di quanto più materiale possibile. Il 12 ottobre nel corso di una conferenza stampa la NASA aveva intanto presentato i primi risultati raggiunti dall’analisi dei detriti accessibili nel TAGSAM, segnalando la presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo di formazione del sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibile la formazione della vita sulla Terra. LEGGI TUTTO

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    Le creme per la pelle non penetrano, evaporano

    Caricamento playerI cosmetici sono un tema su cui si trovano tantissime informazioni in giro per internet, ma molto spesso poco accurate scientificamente. Anche per questo, oltre che per le formule spesso oscure usate dal marketing promozionale dei prodotti, non è sempre facile capire a cosa servano e cosa facciano davvero. Da anni Beatrice Mautino, divulgatrice scientifica e co-autrice del podcast del Post Ci vuole una scienza, dà numerose e accurate dritte per riuscire a farsi un’idea spiegando la chimica e la fisica dei cosmetici. Lo fa sui suoi canali social, in eventi pubblici e con una serie di libri: il terzo è appena uscito in libreria, pubblicato da Gribaudo, e si intitola La scienza dei cosmetici. Ne pubblichiamo un estratto che spiega che, diversamente da come pensano molte persone, le creme cosmetiche non penetrano nella pelle, né vengono assorbite.***Un’amica che formula cosmetici per una grossa azienda mi ha confessato che odia l’acido ialuronico perché glielo fanno mettere dappertutto. In questo libro nomineremo spesso i cosiddetti ingredienti emozionali, quelli che non hanno nessun ruolo effettivo in un cosmetico, ma vengono aggiunti alle formule perché creano un certo immaginario, suscitano determinate emozioni e aiutano il dipartimento marketing a presentare il prodotto come diverso da quello dell’anno precedente che aveva una formula pressoché identica con l’unica differenza di quell’ingrediente emozionale attorno al quale viene fatto girare tutto.Ci sono però degli ingredienti che un ruolo ce l’hanno, magari anche molto importante, ma nel tempo sono diventati anch’essi emozionali, caricati di aspettative che non possono mantenere. L’acido ialuronico è fra questi e viene raccontato dal marketing come ingrediente che “penetra in profondità”, restaura la pelle cadente e rimpolpa le rughe.L’analogia non dichiarata, ma suggerita, è quella con i filler, cioè le iniezioni con acido ialuronico che si fanno in medicina estetica e che, trattandosi di iniezioni, possono penetrare davvero in profondità grazie all’ago. Il cosmetico con acido ialuronico può fare la stessa cosa? Ovviamente no, non ci si può nemmeno avvicinare. Chimicamente parlando, l’acido ialuronico è un grosso polimero, costituito da migliaia di unità di acido glucuronico e N-acetilglucosammina, appartenente alla famiglia dei glicosamminoglicani, ed è uno dei principali componenti del tessuto connettivo e della matrice extracellulare, dove svolge funzioni molto importanti all’umor vitreo dell’occhio.La sua struttura molecolare lo rende una spugna efficientissima, in grado di assorbire per ogni grammo di polvere di acido ialuronico fino a 6 litri d’acqua, e quindi è un umettante molto efficace, in grado di trattenere acqua sulla superficie della pelle.Il passaggio da umettante molto efficace a ingrediente emozionale è dovuto, come dicevamo, all’analogia con i trattamenti di medicina estetica e un certo rimando dei cosmetici in commercio a quello che chiamano “effetto filler”, cioè all’illusione di riuscire a ottenere un rimpolpamento della pelle e una riduzione della profondità delle rughe grazie all’azione “in profondità” dell’acido ialuronico. La verità è che questa molecola è enorme e non riesce a superare lo strato corneo. Non ci riesce neanche nelle sue versioni “a basso peso molecolare”, cioè spezzettato, perché per quanto siano spezzettate rimangono comunque troppo grandi e inadatte a superare la barriera molto selettiva della pelle. L’acido ialuronico, così come pressoché tutti gli ingredienti cosmetici, non penetra in profondità e svolge la sua azione dall’esterno.– Ascolta anche: “Tutto sul sudore, i deodoranti e gli antitraspiranti”, una puntata di Ci vuole una scienzaSe non penetrano in profondità, come mai quando stendiamo le creme sulla pelle le vediamo “assorbire” velocemente?Questa domanda mi è stata posta diverse volte nel corso della mia attività di divulgazione sui cosmetici. In rete circolano articoli allarmistici sulla percentuale altissima, superiore al 60-70%, di ingredienti di un cosmetico che verrebbero assorbiti. Una volta, un gentile lettore di Le Scienze, la rivista per la quale scrivo ormai da molti anni, mi ha chiesto se poteva incolpare la crema idratante per i valori un po’ troppo alti di colesterolo nel sangue, dato che la crema lo conteneva. In effetti, se ci pensate, l’effetto più evidente che notiamo dopo aver steso un prodotto idratante è la sua scomparsa in un tempo che può essere anche molto veloce. D’altronde, se non viene assorbita dove va?Ho dovuto rispondere al gentile lettore che la causa probabilmente la doveva cercare nella sua passione per i formaggi più che nell’idratazione, perché la pelle, anche per ciò che riguarda i grassi, il suo lavoro di bloccarne la penetrazione in profondità lo fa bene.Gli ingredienti emollienti come il colesterolo possono essere incorporati nelle riserve di grassi dello strato corneo, soprattutto se la loro composizione mima quella naturalmente presente nella pelle, come abbiamo visto. Alcuni di questi possono anche penetrare attraverso i venti strati di cellule morte che compongono lo strato corneo, ma man mano che si addentrano nell’epidermide, l’ambiente diventa sempre più acquoso e, di conseguenza, inospitale per loro. Per contro, a fermare l’acqua e a impedire che ogni bagno possa trasformarci in spugne, c’è proprio lo strato di grassi idrorepellente che cementa lo strato corneo.Questi sono solo due esempi che rendono l’idea di come la barriera della pelle, per quanto non sia totalmente impermeabile, è comunque molto selettiva. L’approccio è quello descritto dal “modello del formaggio svizzero” che si usa per gestire la sicurezza di ambiti molto complessi come l’assistenza sanitaria o l’ingegneria, in cui si dà per scontato che ci siano dei buchi, cioè delle falle nel sistema, ma la presenza di tante fette fa sì che i buchi siano quasi sempre tappati dalla fetta successiva.Illustrazione tratta da “La scienza dei cosmetici” (Per cortesia dell’editore)Ogni tanto qualcosa riesce a superare tutte le barriere, infilando una serie di buchi particolarmente fortunata, ma si tratta di eccezioni che, nel caso della pelle, dipendono dalle condizioni della pelle stessa, dalle dimensioni della sostanza, dalla sua struttura chimica, dalla presenza di eventuali cariche elettriche, dalla temperatura e anche dal tempo di contatto.Tutto il resto rimane fuori o, al massimo, si va a integrare nello strato corneo; quindi, la risposta alla domanda iniziale sul destino delle creme e degli altri prodotti è che, molto banalmente, evaporano.
L’acqua, i grassi o gli oli siliconici usati come base per produrre i cosmetici sono “solventi”, cioè sono dei vettori che hanno la funzione principale di trasportare le sostanze funzionali rimangono lì sulla superficie dove possono svolgere la loro azione. È l’evaporazione a darci quella sensazione di leggerezza e freschezza che proviamo quando vediamo un idratante “assorbirsi bene”.Ma quindi, se niente si assorbe, come fanno i medicinali a passare? Questa è un’altra delle domande che ricevo spesso quando spiego che gli ingredienti cosmetici non sono pensati per essere assorbiti dalla pelle. Tendiamo a prendere la parte per il tutto. Se si parla di cosmetici non si parla di medicinali. Il fatto che abbiano lo stesso aspetto non significa che lavorino allo stesso modo. Le pomate medicinali sono formulate per far penetrare i principi attivi alla profondità necessaria (e comunque non è facile nemmeno in quel caso), ma la parte cosmetica di una pomata medicinale si comporta esattamente come le creme cosmetiche, cioè in parte evapora e in parte si deposita.Ma quindi, allora, i cosmetici non servono?
In genere questo è l’ultimo round, quello della delusione.Nella primavera 2023 sono stata invitata da Cosmetica Italia, l’associazione di categorie delle aziende cosmetiche, al Cosmoprof di Bologna, la più importante fiera cosmetica al mondo. Mi è stato chiesto di tenere una breve relazione sulla comunicazione dell’efficacia dei cosmetici dal punto di vista di chi fa informazione scientifica e si trova spesso e volentieri a ridimensionare le pubblicità o a spiegare il funzionamento di qualche meccanismo apparentemente oscuro. Avevo di fronte a me qualche centinaio di aziende a cui ho detto che a forza di giocare continuamente al rialzo con la medicalizzazione dei cosmetici e la promozione di effetti “impossibili” ci saremmo fatti tutti male: sia chi i prodotti li compra e ripone in loro troppe aspettative rimanendone poi inevitabilmente deluso, sia chi li produce perché poi è difficile tornare indietro al “vero valore del cosmetico” come ripetono spesso tutti gli addetti ai lavori. Se la comunicazione dei cosmetici fa passare l’idea che per funzionare debbano “penetrare in profondità”, poi è inevitabile rimanerci male e pensare che “allora non servono a niente” quando si scopre che non penetrano. Non so se il mio appello sia stato raccolto da qualcuno, ma fermiamoci a pensare: è così importante che un cosmetico sia assorbito? Non ci basta che funzioni, cioè che faccia quello per cui l’abbiamo comprato e, per esempio, idrati la nostra pelle? Se lo fa rimanendo all’esterno non va bene lo stesso?© 2023 Gribaudo – IF – Idee editoriali Feltrinelli srl– Leggi anche: I cosmetici “ecobio” non esistono LEGGI TUTTO

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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Forse Dracula era vegetariano

    Un articolo di biologia molecolare pubblicato ad agosto sulla rivista scientifica Analytical Chemistry ha presentato i risultati di un’analisi delle tracce di biomolecole ritrovate su tre lettere scritte da Vlad III di Valacchia, noto anche come Vlad Tepes, nobile e condottiero rumeno del XV secolo a cui si ispirò lo scrittore irlandese Bram Stoker per creare il personaggio Dracula. I risultati hanno ricevuto diverse attenzioni su alcuni media perché definiti da uno dei coautori dello studio, pur tra molte cautele e con grande approssimazione, teoricamente compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III non includesse carne, per necessità e mancanza di alternative.Oltre che per questa supposizione, basata su risultati comunque molto parziali, l’articolo ha attirato curiosità e interesse per altre ipotesi che suggerisce e per la tecnica utilizzata dal gruppo di ricerca, in parte composto da ricercatori e ricercatrici del laboratorio di spettrometria di massa organica dell’Università degli Studi di Catania. Ha accresciuto inoltre la relativa popolarità di un ambito di ricerca in espansione già da alcuni anni: la paleoproteomica, cioè l’analisi del complesso di proteine recuperate da resti di materiali paleontologici e beni culturali come oggetti personali, lettere autografe e altri documenti.L’analisi delle tre lettere di Vlad III – una del 1457 e due del 1475 – ha permesso di individuare e isolare migliaia di peptidi, l’unione di due o più molecole di aminoacidi, che costituiscono le proteine. Tra quelli che mostravano segni di degrado coerenti con un’età di oltre 500 anni, circa cento peptidi erano di origine certamente umana, e più o meno duemila provenivano dall’ambiente. I dati analizzati non possono essere considerati esaustivi, stando alle conclusioni del gruppo di ricerca, ma potrebbero indicare che, compatibilmente con alcuni racconti, Vlad III abbia sofferto negli ultimi anni della sua vita di emolacria, una condizione clinica rara che porta alla produzione di sangue nelle lacrime. Ed è anche probabile che abbia sofferto di processi infiammatori delle vie respiratorie e della pelle. Il gruppo di ricerca comunque non ha tratto conclusioni sulla relazione tra queste condizioni (comunque difficili da confermare) e le caratteristiche del personaggio letterario di Stoker.(American Chemical Society, agosto 2023)Secondo lo studio, sebbene altre persone abbiano verosimilmente maneggiato le lettere all’epoca, è presumibile che le proteine antiche più importanti siano correlate a Vlad III, che scrisse e firmò queste lettere. L’interpretazione dei dati ha inoltre permesso di ricostruire attraverso l’analisi di migliaia di peptidi non umani, riconducibili a batteri, virus e funghi, le condizioni ambientali della Valacchia, una regione storico-geografica dell’attuale Romania meridionale, nella seconda metà del XV secolo, un periodo di clima eccezionalmente freddo in Europa. In quel periodo la Valacchia era un punto d’incontro strategico per soldati, schiavi e mercanti provenienti da tutta Europa e dal Medio Oriente, ed è probabile che questi flussi abbiano favorito non soltanto la circolazione di beni commerciali e tradizioni culturali, ma anche di malattie ed epidemie.Uno dei coautori dello studio è l’israeliano di origini kazake Gleb Zilberstein, tra i più conosciuti ricercatori impegnati in questo tipo di analisi su materiali paleontologici e documenti antichi. È stato lui, come recentemente raccontato dal New Yorker, a recuperare negli archivi della città di Sibiu, in Romania, le tre lettere di Vlad III, di cui due in perfette condizioni. «Queste molecole sono più stabili del DNA e forniscono maggiori informazioni sulle condizioni ambientali, sulla salute, sullo stile di vita e sull’alimentazione del personaggio storico a cui appartenevano le molecole», disse Zilberstein al Guardian parlando delle tecniche utilizzate per lo studio.Sorpreso dall’assenza di proteine alimentari di origine animale tra i campioni analizzati, Zilberstein aveva in seguito parlato al quotidiano inglese Times dell’alimentazione di Vlad III ipotizzabile a partire dall’analisi delle lettere, tra cui una scritta il 4 agosto 1475 agli abitanti della città di Sibiu, in Romania. Tutti i peptidi ritrovati nei campioni e solitamente associati all’alimentazione umana provenivano da frutta e verdura, e alcune tracce da funghi e moscerini della frutta.Questi dati, secondo Zilberstein, sono compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III, che non includeva carne ma soltanto verdura e frutta piuttosto matura, fosse condizionata dal clima particolarmente freddo nell’Europa del XV secolo e dalla scarsità di cibi molto proteici all’epoca in Valacchia. «Il prototipo del vampiro potrebbe essere stato vegetariano o vegano», aveva detto Zilberstein: non per scelta etica, ma per ragioni di salute o per mancanza di alternative, dal momento che «secondo i bioarcheologi gli aristocratici di tutta Europa avevano una dieta molto povera e la carne non veniva mangiata spesso».– Leggi anche: Mangiare la carne solo in qualche occasionePer comprendere come siano possibili analisi come quelle condotte sulle lettere di Vlad III di Valacchia è utile riprendere alcune nozioni di biologia. Contrapposta alla genomica, che si occupa dei geni umani, la proteomica è la branca della biologia molecolare che studia come le diverse proteine codificate da quei geni interagiscono negli organismi viventi. Ogni proteina ha le proprie caratteristiche, determinate dalle catene di aminoacidi da cui è costituita e dalla forma che assume ripiegandosi su sé stessa. E ogni forma determina a una funzione specifica, tra le moltissime assolte dalle proteine negli esseri viventi (dalla regolazione del metabolismo alla risposta agli stimoli o al trasporto delle molecole).La proteomica cerca di comprendere sia le relazioni tra le proteine, sia come queste si ripieghino su sé stesse e a quali funzioni assolvano. E per farlo utilizza varie tecniche, metodi e strumenti di laboratorio, tra cui gli spettrometri di massa, dispositivi che servono a selezionare e studiare – una molecola alla volta – migliaia di tipi di proteine contenute all’interno di un campione. Lo studio del complesso delle proteine espresse da un determinato organismo (proteoma), sia in condizioni fisiologiche che a seguito di alterazioni proteiche, permette di comprendere i meccanismi alla base dell’insorgenza delle malattie e, potenzialmente, di individuarne i primi indizi.Sfruttando il fatto che le proteine tendono a degradarsi più lentamente del DNA e possono, nelle giuste condizioni, rimanere pressoché invariate per milioni di anni, da circa due decenni un gruppo di scienziati utilizza metodi e strumenti della proteomica su opere d’arte e resti archeologici, espandendo le prospettive di ricerca di una branca nota appunto come paleoproteomica. Studi di questo tipo, argomento di un lungo articolo del New Yorker nel 2018, hanno permesso negli ultimi anni di raccogliere varie informazioni biologiche, come per esempio la presenza di sottilissimi strati di colla di pesce su sculture religiose del XVII secolo e denti da latte umani in fosse di resti fossili risalenti al Neolitico.Sebbene sia un ambito di ricerca in rapida espansione, i cui metodi e strumenti sono peraltro migliorati nel tempo a fronte dei continui progressi nel campo delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale, attualmente la proteomica ha una serie di limiti.Uno riguarda la conservazione dei materiali, e il fatto che il legame tra proteine e minerali sia un processo complesso e non ancora studiato in modo sistematico nei contesti archeologici. Un altro problema riguarda la fragilità stessa dei materiali e i danni provocati da alcune tecniche di campionamento. E un altro limite riguarda l’incompletezza dei database di riferimento utilizzati per individuare le proteine antiche, peraltro spesso danneggiate, nei materiali archeologici: condizione che può incrementare la probabilità di falsi positivi e falsi negativi.– Leggi anche: Il più grande contributo di un’intelligenza artificiale alla biologia LEGGI TUTTO