More stories

  • in

    Le categorie per classificare gli uragani non bastano più?

    Caricamento playerDagli anni Settanta gli uragani che suscitano maggiori preoccupazioni quando si avvicinano alle coste dell’America del Nord sono quelli «di categoria 5». Questa descrizione fa riferimento alla scala Saffir-Simpson, un sistema di classificazione per le tempeste tropicali più forti che si formano nel nord dell’oceano Atlantico o nel nord-est dell’oceano Pacifico basata sulla misura della velocità dei venti. Rientrano nella categoria 1, quella associata a danni limitati, le tempeste con venti di velocità compresa tra 119 e 153 chilometri orari. La categoria 5 invece è quella degli uragani i cui venti superano i 252 chilometri orari, ed è associata a danni «catastrofici».
    La scala non contempla una velocità massima oltre la quale non si può più parlare di categoria 5, perché già con venti di 252 chilometri orari si possono avere danni gravissimi. Tuttavia secondo due scienziati statunitensi potrebbe esserci una buona ragione per aggiungere una “categoria 6” alla scala o almeno discutere l’idea. In un articolo pubblicato la settimana scorsa sull’autorevole rivista Proceedings of the National Academy of Sciences Michael Wehner e James Kossin lo hanno proposto perché il cambiamento climatico sta causando un aumento della frequenza delle tempeste tropicali più intense. Secondo loro distinguerle dalle altre aiuterebbe a far conoscere questo problema ed eviterebbe di sottostimare i rischi per la sicurezza di infrastrutture e persone.
    La “categoria 6” ipotizzata da Wehner e Kossin comprenderebbe le tempeste tropicali con venti di velocità superiore a 309 chilometri orari. Dal 2013 a oggi ce ne sono state cinque, un uragano e quattro tifoni, come sono chiamati gli uragani del nord-ovest del Pacifico, a cui sono esposte le coste del sud-est asiatico: il tifone Haiyan, che nel novembre del 2013 uccise migliaia di persone nelle Filippine; l’uragano Patricia, che ha riguardò l’ovest del Messico nell’ottobre del 2015 e i cui venti arrivarono a 346 chilometri orari di velocità; il tifone Meranti del 2016, il tifone Goni del 2020 e il tifone Surigae del 2021.

    – Leggi anche: Che differenza c’è tra uragani e tifoni

    In generale la frequenza delle tempeste tropicali più intense è aumentata. Se si considerano i 42 anni tra il 1980 e il 2021, quelli per cui si hanno dati affidabili, le tempeste tropicali classificabili come di categoria 5 sono state 197: la metà è stata registrata negli ultimi 17 anni del periodo e i cinque più forti, già citati, sono avvenuti tutti negli ultimi nove anni.
    Questo fenomeno è legato all’aumento della temperatura degli oceani, che si stanno scaldando a livello globale come l’atmosfera, anche se più lentamente: semplificando, tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’energia che può generare precipitazioni particolarmente intense. E secondo le stime di Wehner e Kossin nello scenario in cui la temperatura media globale aumenterà di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali il rischio tempeste “di categoria 6” raddoppierà.
    Non è la prima volta che degli scienziati mettono in discussione la scala Saffir-Simpson, che ha vari limiti e peraltro è usata solo in Nord America e non in Asia, dove si verificano tifoni e cicloni. Il suo difetto principale è che è basata unicamente sulla velocità del vento, e non sulla forza delle onde che si abbattono sulle coste all’arrivo di una tempesta e delle inondazioni che può causare, sebbene la maggior parte dei danni dovuti agli uragani sia causata proprio dall’acqua e non dall’aria.
    Tuttavia già in passato e anche in questa occasione alcuni scienziati si sono detti contrari all’ampliamento della scala con una “categoria 6”. Michael Fischer del laboratorio oceanografico e meteorologico dell’Atlantico della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, ha detto al Washington Post che potrebbe essere controproducente perché potrebbe far sottostimare gli uragani di categoria 5.
    Le agenzie statali statunitensi che si occupano di meteorologia e dei rischi legati agli uragani in ogni caso non hanno in programma di modificare l’uso della scala Saffir-Simpson al momento. Già oggi in realtà le associano delle previsioni sulle inondazioni, che però sono meno note, soprattutto dove solitamente non arrivano uragani. Deirdre Byrne, un’oceanografa della NOAA, si è espressa abbastanza positivamente sulla proposta di una “categoria 6” («non sarebbe inappropriata») ma ha detto che forse sarebbe più utile associare la scala Saffir-Simpson a un sistema simili che classifichi i rischi legati alle alluvioni, ad esempio con una scala da A a E.
    Gli stessi Kossin e Wehner hanno detto che per decidere se estendere la scala esistente bisognerebbe prima commissionare una ricerca sociologica per verificare come modificherebbe la percezione del rischio delle persone. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    I campi da golf sono spesso un buon posto dove avvistare animali: a questo giro in uno a Bela-Bela, in Sudafrica, c’erano zebre, manguste e scimmie, mentre in un altro a Panama una fila di uccelli in ombra. Poi un cane lavato nella toelettatura che ha aperto da poco in una prigione femminile di La Paz, in Bolivia, un servalo, due vari rossi, un pitone verde e piccolissimi pesci rilasciati in natura. LEGGI TUTTO

  • in

    Che animali sono davvero gli ermellini

    Caricamento playerMercoledì sera, durante il Festival di Sanremo, sono state presentate le mascotte per le Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina del 2026: sono due ermellini e si chiamano Tina e Milo, dai nomi delle città coinvolte nella manifestazione. Tina rappresenta le Olimpiadi e ha la pelliccia bianca; suo fratello Milo rappresenta le Paralimpiadi – è nato senza una zampa, ma cammina usando la coda – e ha la pelliccia marrone.
    Nella realtà gli ermellini sono bianchi d’inverno e marroni d’estate. In tutte le stagioni sono piuttosto difficili da vedere, non solo perché in Italia vivono solo sulle Alpi, ma anche perché sono piuttosto piccoli (massimo 30 centimetri di lunghezza), vivono soprattutto sotto terra o sotto la neve e si mimetizzano. Sono tra le specie italiane di mammiferi selvatici di cui sappiamo meno cose perché la loro elusività rende difficile studiarli e perché, anche tra i biologi, sono spesso ignorati a vantaggio di specie che si notano di più, come lupi e orsi tra i carnivori, e cinghiali, cervi e stambecchi tra gli erbivori. Meriterebbero più attenzione però: ci sono buone ragioni per pensare che la diminuzione della neve sulle Alpi dovuta al cambiamento climatico non complichi solo la pratica degli sport invernali ma metta a grosso rischio la conservazione della specie.
    «Vederli nella trasmissione più seguita d’Italia mi è sembrata un’allucinazione», racconta Marco Granata, biologo e dottorando dell’Università di Torino che è una delle poche persone a studiarli in Europa: «È una specie molto trascurata: per chi dedica la sua vita alla conservazione degli ermellini e cerca di farli conoscere è davvero strano vederli in televisione».
    Nella primavera del 2023 Granata ha iniziato un progetto di ricerca nelle Aree Protette Alpi Marittime, nel Piemonte sud-occidentale, per capire sul campo quale sia il metodo migliore per monitorare la presenza degli ermellini dato che «c’è un disperato bisogno di dati» che permettano di stimare quanti siano e in che misura siano danneggiati dagli effetti del riscaldamento globale. Tra i metodi testati ci sono le fototrappole, cioè quelle fotocamere che scattano quando rilevano un movimento e che si usano anche per altri animali selvatici, e le cosiddette Mostela, delle scatole con dei buchi contenenti fototrappole che possono essere interessanti come nascondigli per alcuni piccoli animali.

    Gli ermellini (Mustela erminea) sono mustelidi, cioè appartengono a quella famiglia di mammiferi carnivori in cui rientrano anche le lontre, i tassi, i visoni, le donnole, le puzzole (da cui derivano i domesticati furetti), le faine e le meno conosciute martore. In Italia si trovano solo sulle Alpi, mentre a latitudini più settentrionali vivono anche in zone di pianura. A differenza degli orsi, ma anche delle volpi e dei lupi che mangiano anche vegetali, gli ermellini e gli altri mustelidi sono esclusivamente carnivori. Gli ermellini in particolare cacciano soprattutto roditori, come le arvicole, e occasionalmente uccelli. Sulle Alpi si stima che abbiano un’aspettativa di vita attorno all’anno e mezzo, mentre in cattività possono vivere anche dieci anni.
    Studiare gli ermellini è complicato anche perché non ce ne sono tanti in un unico posto, piuttosto il contrario: sono animali solitari che, essendo cacciatori, si fanno competizione tra loro e che per questo non possono condividere il proprio territorio con loro simili. Per tutte queste ragioni, sebbene sappiamo che sono presenti più o meno su tutto l’arco alpino, negli anni sono stati pubblicati solo tre studi scientifici italiani sugli ermellini: uno è del 1995, il secondo del 2001 (ha come primo autore lo zoologo Adriano Martinoli, una delle voci del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani) e il terzo del 2006. Tutti e tre avevano limiti geografici e di finalità, e non permettono di stimare quanti ermellini possano esserci in Italia. «Abbiamo zero informazioni su questo», conferma Granata.

    «A lungo termine mi piacerebbe costruire una rete di monitoraggio per conservare la specie sull’arco alpino», continua il biologo. Dato che anche negli altri paesi non ci sono molti dati, gli ermellini non sono considerati in pericolo dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN, cioè l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione) tuttavia siamo piuttosto sicuri che siano danneggiati dal cambiamento climatico. In Nord America, dove la specie è a sua volta presente, è stato stimato che gli ermellini e le donnole siano diminuiti di più dell’80 per cento negli ultimi 60 anni.
    Tale diminuzione della loro popolazione è stata ricondotta al riscaldamento globale per diverse ragioni e una ha a che fare con la neve. Per via delle loro dimensioni gli ermellini sono prede di altri animali, come volpi e uccelli rapaci, e il cambiamento del colore della loro pelliccia nel corso dell’anno è funzionale proprio a nascondersi dai predatori. Se c’è meno neve però la pelliccia bianca invernale li rende al contrario molto visibili e più facili da cacciare.
    Sempre in Nord America la loro diminuzione ha anche altre probabili cause, tra cui la caccia praticata dagli esseri umani. Sulle Alpi anche la presenza delle piste da sci potrebbe danneggiarli: uno studio del 2013 fatto tra Piemonte e Valle d’Aosta ha mostrato che le piste creano problemi a vari piccoli mammiferi, comprese le principali prede degli ermellini, perché ne frammentano l’habitat, e per questo potrebbero danneggiare anche loro, sia indirettamente che direttamente.
    Le mascotte delle Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina 2026; per Granata sono abbastanza precise come rappresentazione degli animali, anche se i veri ermellini non hanno il naso rosa e una coda in proporzione più corta rispetto al resto del corpo (Ufficio Stampa Milano Cortina 2026, ANSA)
    «Io sono un po’ ossessionato dai fantasmi», dice Granata per spiegare come mai si sta dedicando a questo campo della biologia, «e studio questi animali così elusivi, che sono come dei fantasmi selvatici perché non li vedi mai, perché vorrei che non diventassero dei fantasmi veri e propri, cioè che scomparissero del tutto».

    – Leggi anche: In Nuova Zelanda invece gli ermellini sono invasivi e molto dannosi, per questo c’è un piano per eliminarli LEGGI TUTTO

  • in

    Un malfunzionamento ai freezer ha distrutto decenni di ricerca di un’importante università svedese

    Il Karolinska Institutet, una delle più importanti università di medicina al mondo con sede a Stoccolma, in Svezia, ha reso noto questa settimana che un malfunzionamento ad alcuni dei suoi freezer durante le vacanze di Natale ha distrutto moltissimi campioni raccolti in decenni di ricerca. Il Karolinska Institutet – che è anche l’ente che ogni anno assegna il premio Nobel per la medicina – è uno dei più importanti centri di ricerca al mondo per le discipline biomediche.Non è ancora del tutto chiaro il motivo del malfunzionamento. I campioni erano conservati in vasche raffreddate con azoto liquido, a una temperatura di -190°C, quando fra il 22 e il 23 dicembre si è verificata un’interruzione nella fornitura di azoto liquido a 16 serbatoi. Questi contenitori possono resistere per quattro giorni senza azoto liquido aggiuntivo, ma anche a causa delle vacanze di Natale ne sono rimasti sforniti per cinque. L’innalzamento della temperatura al loro interno ha causato la distruzione dei campioni.
    I campioni distrutti provenivano da diverse istituzioni di ricerca, che spesso inviano il loro materiale a enti con macchinari più sofisticati per condurre alcuni test, ed erano principalmente quelli utilizzati per la ricerca sulla leucemia. La raccolta di alcuni gruppi di campioni durava da 30 anni, con l’obiettivo anche di studiare l’evoluzione della malattia e la risposta del corpo umano ai trattamenti.
    Alcuni giornali svedesi hanno scritto che il valore stimato dei campioni distrutti era di circa 500 milioni di corone (circa 44 milioni di euro). La polizia, che sta indagando sull’accaduto, ha detto che la perdita è sicuramente nell’ordine dei milioni, ma non è ancora stata fatta una stima ufficiale.
    Matti Sällberg, che è stato a capo del laboratorio di medicina del Karolinska Institutet per undici anni ed è tuttora un professore all’università, ha detto al Guardian che la denuncia alla polizia è stata fatta per poter prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, ma che «al momento non ci sono indicazioni che l’incidente sia dovuto a un intervento esterno». Si sta tuttavia cercando di capire come sia stato possibile che nessuno si sia accorto del malfunzionamento per così tanti giorni. Sällberg ha aggiunto che i campioni distrutti erano tutti relativi al dipartimento di ricerca e che quindi la loro perdita non influirà sulle cure dei pazienti che sono al momento ricoverati nell’ospedale legato all’istituto. Tuttavia, la perdita in termini di materiale di studio è grandissima. LEGGI TUTTO

  • in

    Avremo farmaci sviluppati dalle intelligenze artificiali?

    Sviluppare un nuovo farmaco è un po’ come fare una scommessa: si investono tempo e moltissimo denaro nella ricerca e nella sperimentazione di qualcosa che non si sa se davvero funzionerà e che potrebbe rivelarsi un costosissimo fallimento. Una nuova molecola molto promettente in laboratorio può mostrarsi inefficace nella sperimentazione animale o nei test clinici sugli esseri umani e prevederlo prima è spesso impossibile. Per ridurre uno dei rischi di impresa più grandi che esistano, negli ultimi tempi le aziende farmaceutiche hanno iniziato a esplorare le nuove possibilità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), i cui progressi sono diventati evidenti anche ai meno esperti nell’ultimo anno soprattutto grazie al successo di ChatGPT di OpenAI.Alcune aziende hanno iniziato a utilizzare le AI per provare a prevedere efficacia e sicurezza di nuovi principi attivi, altre per rendere più semplice e rapido il complicato processo di selezione dei volontari che partecipano ai test clinici. Lo hanno fatto sia sviluppando al proprio interno nuove divisioni dedicate ai sistemi di intelligenza artificiale, sia appoggiandosi alle società e startup nate di recente proprio per applicare le AI al settore dei farmaci.
    A inizio gennaio le due aziende farmaceutiche Eli Lilly e Novartis hanno stretto un accordo con Isomorphic Labs, una società controllata da Alphabet (la holding di Google) e nata da una divisione di DeepMind, una delle più innovative aziende nel settore delle AI. Trattandosi di accordi per un valore complessivo di 3 miliardi di dollari se ne è parlato molto e non solo tra gli addetti ai lavori, ma le condizioni prevedono investimenti piuttosto misurati nel tempo. Eli Lilly anticiperà 45 milioni di dollari, ma i restanti 1,7 miliardi di dollari dell’accordo saranno pagati solo al raggiungimento di alcuni risultati ambiziosi, come l’avvio dei test clinici o l’approvazione dei nuovi principi attivi. Qualcosa di analogo riguarda anche Novartis che anticiperà 37,5 milioni di dollari e investirà altri 1,2 miliardi di dollari nel tempo, sulla base di un sistema basato su incentivi e risultati.
    DeepMind è tra le società che più hanno sperimentato l’impiego delle AI in ambito scientifico e in particolare nell’analisi e nella previsione delle caratteristiche delle proteine. La forma di una proteina determina infatti anche la sua funzione, di conseguenza lo studio e la previsione della sua struttura sono fondamentali nello sviluppo di molti farmaci. Isomorphic Labs parte da quelle conoscenze e ha l’obiettivo di accelerare in modo significativo la fase di scoperta di nuove molecole per i farmaci che attualmente dura diversi anni e richiede molte risorse, portandola dalla media di cinque anni a due.
    Sfruttando diversi modelli di apprendimento automatico, Isomorphic Labs ha sviluppato una piattaforma per prevedere le caratteristiche delle molecole e il modo in cui potranno interagire con l’organismo. Avere la possibilità di fare queste valutazioni in maniera più accurata consente di orientare la ricerca, riducendo il rischio di un fallimento nelle fasi successive quando dalla sperimentazione in laboratorio si passa ai test clinici con le persone. Il sistema naturalmente non garantisce sempre la produzione di molecole efficaci e sicure, ma secondo i responsabili dell’azienda può limitare sensibilmente gli insuccessi e soprattutto potrebbe accelerare le fasi di sviluppo.
    In un certo senso i sistemi di Isomorphic Labs hanno qualcosa in comune con i modelli generativi come ChatGPT, che tra le altre cose riescono a comporre testi come in una normale conversazione utilizzando la statistica per prevedere qualche parola da inserire dopo quella che hanno appena prodotto. Le AI per lo sviluppo dei farmaci fanno qualcosa di simile, ma per progettare le strutture molecolari rispettando alcune regole e limitazioni che vengono scelte dagli operatori. In poco tempo, il sistema è in grado di produrre numerose varianti della stessa molecola, affinando man mano il risultato in base agli effetti previsti sull’organismo.
    Sanofi, un’altra grande azienda farmaceutica, ha avviato una collaborazione con la società Exscientia che nella sua documentazione si presenta con frasi alquanto audaci come: “In futuro tutti i farmaci saranno progettati con le AI. Il futuro è ora con Exscientia”. Anche questa azienda ha l’obiettivo di scoprire nuovi principi attivi e di prevederne le caratteristiche e le interazioni con l’organismo, ancora prima di avviarne lo sviluppo e la sperimentazione.
    L’azienda farmaceutica italiana Menarini ha invece avviato una collaborazione con Insilico Medicine, società fondata tra Hong Kong e New York che sostiene di avere già sviluppato 17 potenziali nuovi farmaci sui quali effettuare i test clinici. L’accordo ha un valore stimato intorno ai 500 milioni di dollari e coinvolge Stemline Therapeutics, una delle controllate di Menarini, che avrà l’esclusiva per lo sviluppo, la sperimentazione e l’eventuale vendita di un nuovo principio attivo per il trattamento di alcune forme di tumore. Le possibilità di successo, però, sono ancora tutte da dimostrare.
    Per questo motivo ha suscitato una certa attenzione nel settore l’avvio dei test clinici su un nuovo farmaco sperimentale di Genentech per trattare la colite ulcerosa, una malattia cronica che comporta una forte infiammazione del colon, tale da far aumentare nel tempo il rischio di tumore rispetto a chi non ha questa condizione. Il principio attivo era stato sviluppato per trattare altri problemi di salute, ma da alcune simulazioni con sistemi di intelligenza artificiale è emerso che avrebbe potuto dare qualche risultato contro la colite ulcerosa.
    Talvolta può accadere che un farmaco sperimentale si riveli inefficace nel trattare la condizione per cui era stato sviluppato, mentre mostra di essere promettente contro un’altra malattia. Scoprirlo però non è semplice e richiede spesso anni di lavoro o qualche coincidenza favorevole. I gruppi di ricerca di Genentech sono riusciti a ottenere questo risultato in nove mesi utilizzando anche le AI per confrontare milioni di ipotesi, fino a trovare conferme sulla probabile utilità del loro farmaco nel trattare le cellule del colon coinvolte nella malattia.
    Già nel 2022 erano emersi indizi sul possibile uso del farmaco contro la colite ulcerosa, ma ora saranno necessari i test clinici per confermare la sua efficacia su pazienti veri. Le sperimentazioni di questo tipo fuori dai laboratori sono richieste dalle autorità di controllo per assicurarsi non solo che un farmaco sia efficace, ma anche sicuro per chi lo utilizza.
    I tempi dei test clinici sono molto lunghi e spesso hanno una fase iniziale molto costosa, sia in termini di tempo sia di denaro, per la selezione dei volontari che dovranno far parte della sperimentazione. Per alcuni test clinici è infatti necessario avere persone con diagnosi chiare della malattia che si vuole trattare, distribuiti in particolari fasce della popolazione per genere, età, condizione economica e provenienza geografica. In molti studi più il campione selezionato è di qualità, più ci si possono attendere dati affidabili.
    Partendo da questi presupposti, alcune aziende farmaceutiche hanno iniziato a sfruttare sistemi di intelligenza artificiale per organizzare la selezione dei volontari nei test clinici. Le AI possono accedere a enormi elenchi, come quelli degli ospedali o quelli tenuti dalle istituzioni sanitarie, effettuando rapidamente una preselezione in base ai criteri richiesti dall’azienda farmaceutica. In questo modo si riducono i tempi successivi della selezione e, almeno in linea teorica, si possono ottenere gruppi di volontari più adatti alla sperimentazione da svolgere.
    La multinazionale farmaceutica Amgen ha sviluppato uno strumento di intelligenza artificiale che si chiama ATOMIC, specializzato nella ricerca e nella classificazione dei dati clinici provenienti da medici, ospedali e altre istituzioni sanitarie. Amgen dice che con il nuovo sistema è in grado di selezionare in meno di nove mesi i volontari per uno studio clinico, rispetto all’anno e mezzo di lavoro richiesto in precedenza. La società ha già usato lo strumento per l’avvio di alcuni test clinici legati alle malattie cardiovascolari e al trattamento dei tumori con buoni risultati, di conseguenza utilizzerà ATOMIC per buona parte delle nuove selezioni in programma per quest’anno.
    La selezione dei volontari è naturalmente un ambito molto diverso rispetto a quello dello sviluppo di nuovi principi attivi, ma è comunque importante perché una sua migliore gestione potrebbe consentire alle aziende farmaceutiche di risparmiare tempo e denaro. È inoltre un settore in cui secondo gli esperti ci sono maggiori margini di successo in breve tempo e minori rischi, considerata la diversa complessità dell’iniziativa.
    Soluzioni di questo tipo sono inoltre viste come una naturale evoluzione degli strumenti basati sulle AI che avevano iniziato a farsi spazio nelle aziende farmaceutiche. Per esempio l’azienda svizzera Roche ha sviluppato un sistema che ha chiamato RocheGPT con dati e informazioni legati all’azienda, alle sue attività e agli ambiti di ricerca. RocheGPT è visto come una sorta di ChatGPT, ma altamente specializzato sulle caratteristiche di Roche e in grado di fornire risposte di vario tipo e in vari ambiti, non necessariamente legati alla sola ricerca, ma anche alla gestione delle attività aziendali.
    Altre aziende farmaceutiche hanno iniziato a sperimentare le AI per accelerare altri processi che di solito richiedono molto tempo legati alla compilazione della documentazione da presentare agli organismi regolatori, come la Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) in Europa. In alcuni casi si tratta di documenti accessori e meno importanti, in altri dell’organizzazione dei dati dei test clinici sui quali è comunque necessario un controllo umano finale. Al momento FDA ed EMA non hanno regole esplicite sull’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, ma iniziano a essere sollevati dubbi e preoccupazioni per la loro mancanza, come del resto sta avvenendo in diversi altri settori in cui hanno iniziato a diffondersi le AI di ultima generazione.
    A essere molto interessate al settore farmaceutico non ci sono solamente le società che sviluppano sistemi di intelligenza artificiale, ma anche le aziende che producono microprocessori. Nvidia, uno dei principali produttori al mondo di chip e molto attivo nel settore dei sistemi per le AI, ha contratti con almeno una ventina di aziende farmaceutiche per fornire i propri processori o i centri dati che vengono impiegati per la grande quantità di calcoli richiesti da alcuni modelli di intelligenza artificiale. La domanda è alta e secondo alcuni analisti in breve tempo alcune delle aziende farmaceutiche più grandi competeranno per i dati e la capacità di elaborarli.
    L’interesse intorno ai sistemi di intelligenza artificiale nell’ultimo anno è stato senza precedenti e di sicuro ha portato ad aspettative che in alcuni ambiti sono molto più alte rispetto alle effettive capacità di alcune AI. Gli investimenti, comunque, non mancano in numerosi settori e si prevede che si manterranno alti anche nel corso di quest’anno. In ambito farmaceutico si stima che nell’ultimo decennio ci siano stati investimenti per circa 18 miliardi di dollari in società di biotecnologie che hanno al centro i sistemi di intelligenza artificiale. Se agli inizi riguardavano per lo più società di dimensioni relativamente piccole o medie, ora interessano alcuni dei marchi più famosi e potenti al mondo. LEGGI TUTTO

  • in

    Dopo 878 giorni, Oleg Kononenko ha stabilito il nuovo record di permanenza nello Spazio in più missioni

    L’Agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha reso noto che il cinquantanovenne cosmonauta russo Oleg Kononenko ha stabilito domenica il nuovo record di permanenza di un essere umano nello Spazio nel corso di più missioni, trascorrendo in orbita più di 878 giorni; il record precedente apparteneva al cosmonauta russo Gennady Padalka.Kononenko, da settembre scorso in missione sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dovrebbe raggiungere un totale di mille giorni nello spazio il 5 giugno. Ed entro la fine di settembre potrebbe averne accumulati in totale 1.110. «Sono orgoglioso di tutti i miei successi, ma sono ancora più orgoglioso del fatto che il record per la durata totale della permanenza umana nello Spazio resti di un cosmonauta russo», ha detto Kononenko all’agenzia di stampa russa TASS.
    Anche il record mondiale di permanenza ininterrotta di un essere umano nello Spazio appartiene a un cosmonauta russo: lo stabilì nel 1995 Valeri Polyakov, che rimase nello Spazio per 437 giorni a bordo della stazione spaziale russa Mir. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    C’è tutta una varietà di nomi interessanti, tra gli animali fotografati nei giorni scorsi: un guanaco, due basilischi piumati, un nyala e alcuni tsessebe (o sassaby comune, se vi aiuta). E poi c’è la solita folcloristica storia della marmotta Phil e delle sue previsioni per il Giorno della Marmotta, insieme a delfini in fuga da un’orca, una gallina in strada durante una protesta degli agricoltori in Francia e un geco tigre. LEGGI TUTTO

  • in

    E se fossimo lo “zoo” di una specie aliena?

    Nel 1973, in un articolo intitolato L’ipotesi dello zoo, pubblicato sulla rivista di scienze planetarie Icarus, l’astrofisico della Harvard University John Allen Ball teorizzò che l’assenza di interazioni con forme di vita intelligente extraterrestre, ammesso che esistano, fosse spiegabile ipotizzando una loro volontà di rimanere nascoste. In pratica civiltà extraterrestri più evolute e antiche della nostra eviterebbero deliberatamente qualsiasi interazione, rendendo la parte dell’Universo in cui viviamo una sorta di area protetta. «L’ipotesi dello zoo prevede che non li troveremo mai perché non vogliono essere trovati, e hanno la capacità tecnologica di assicurarsene», scrisse Ball.L’ipotesi di Ball, che in seguito lavorò all’osservatorio Haystack del Massachusetts Institute of Technology fino alla pensione, nel 2006, è la stessa alla base di diverse storie di fantascienza, raccontate anche molto prima che lui la formulasse nel 1973. Ma per quanto bizzarra possa apparire, è una delle molte ipotesi di spiegazione del cosiddetto paradosso di Fermi: un dibattito in corso da oltre settant’anni sulla discrepanza tra le alte aspettative di vita intelligente extraterrestre e l’assenza di qualsiasi prova a sostegno. L’ipotesi dello zoo è stata recentemente ripresa in un articolo pubblicato sul numero di gennaio della rivista Nature Astronomy.
    Scritto dall’astrobiologo inglese Ian Andrew Crawford e dall’astrofisico tedesco Dirk Schulze-Makuch, l’articolo esamina alcuni dei più noti tentativi di spiegazione del paradosso di Fermi proposti nel corso degli anni. Suggerisce che le civiltà tecnologiche extraterrestri siano estremamente rare (o assenti) nella galassia, o esistano ma si nascondano da noi. E conclude che, considerando il nostro impegno nella continua esplorazione dello Spazio, potremmo essere in grado di escludere una delle due possibilità in un futuro non troppo lontano: qualche decennio.
    Crawford è un professore di scienze planetarie e astrobiologia alla Birkbeck University of London: si è occupato a lungo di esplorazioni lunari, ha lavorato con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e nel 2023 ha ricevuto dalla NASA il premio “Michael J. Wargo”, assegnato a scienziati che si siano distinti per la ricerca nel campo dell’esplorazione spaziale. Schulze-Makuch è un professore del centro di astronomia e astrofisica dell’Università Tecnica di Berlino e professore a contratto del dipartimento di scienze della Terra e dell’ambiente della Washington State University ed è noto soprattutto per le sue pubblicazioni sulla vita extraterrestre, tra cui il libro del 2017 The cosmic zoo: complex life on many worlds.
    Il paradosso di Fermi prende il nome da un aneddoto secondo cui nel 1950 il famoso scienziato italiano Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica nel 1938, a un certo punto disse «Dove sono tutti quanti?» in una conversazione sulla mancanza di prove di vita extraterrestre. Lo chiese mentre era a pranzo con altri scienziati durante una visita a Los Alamos (la città del New Mexico sede del centro di ricerca che aveva sviluppato la prima bomba atomica statunitense).

    – Leggi anche: Robert Oppenheimer, il “padre dell’atomica”

    La domanda attribuita a Fermi, scrivono Crawford e Schulze-Makuch, può essere considerata un paradosso soltanto se si presuppone che esistano forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute: se non esistono, non c’è alcun paradosso. La possibilità che non esistano tende tuttavia a essere difficile da ammettere per moltissime persone: probabilmente, secondo Crawford e Schulze-Makuch, perché è vista come una violazione del principio copernicano secondo cui né la Terra né l’umanità sono in una posizione di privilegio nell’Universo. La recente scoperta di esopianeti potenzialmente abitabili in sistemi solari diversi dal nostro ha ulteriormente rafforzato una certa diffusa convinzione che possano esistere forme di vita su altri mondi.
    L’esopianeta Ross 128 b, in orbita attorno alla stella Ross 128 a circa 11 anni luce dal Sole, in una rappresentazione dell’Osservatorio europeo australe (M. Kornmesser/ESO via AP)
    Tra gli anni Settanta e Ottanta il dibattito sul paradosso di Fermi fu approfondito in particolare negli Stati Uniti dall’astrofisico Michael Hart e dal fisico e matematico Frank J. Tipler. La maggior parte dei tentativi di spiegare il paradosso, secondo Hart, rientra in tre grandi categorie: spiegazioni fisiche, temporali e sociologiche.
    Le spiegazioni fisiche suggeriscono che i viaggi interstellari siano impossibili, a causa delle distanze siderali e delle enormi quantità di energia eventualmente richiesta per raggiungere una velocità vicina a quella della luce (quasi 300mila km al secondo). Ma per quanto difficile sul piano ingegneristico, scrisse Hart, compiere viaggi spaziali di questo tipo per una civiltà tecnologicamente molto evoluta non sarebbe fisicamente impossibile. Come ipotizzato in seguito da Tipler, che su questo era d’accordo con Hart, non è nemmeno possibile escludere che alcune civiltà dispongano di speciali mezzi spaziali auto-replicanti, in grado di viaggiare nello Spazio e nel frattempo creare copie di sé stessi, spostandosi di pianeta in pianeta.
    Le spiegazioni temporali fanno invece riferimento all’età della Via Lattea, la galassia in cui si trova il nostro sistema solare: circa 13 miliardi di anni. Secondo i sostenitori di questa spiegazione, è un tempo così lungo da rendere molto basse le probabilità di una coesistenza di più forme di vita intelligenti nello stesso momento, a meno che non siano estremamente longeve o estremamente diffuse nell’Universo. Ma nemmeno questa è una spiegazione plausibile, secondo Hart: perché almeno una civiltà, tra quelle con sufficienti possibilità tecnologiche e con l’intenzione di farlo, avrebbe potuto visitare e potenzialmente colonizzare pianeti abitabili della Galassia in un lasso di tempo più breve rispetto all’età complessiva della Galassia.
    Pur non potendo sapere con certezza se forme di vita extraterrestre abbiano visitato oppure no la Terra milioni o miliardi di anni fa, scrisse Hart, il filo ininterrotto dell’evoluzione biologica sulla Terra permette di escludere che sia stata «colonizzata»: vedremmo altrimenti tracce di questo condizionamento nella nostra stessa evoluzione. E il fatto che non ci siano prove di un’interferenza di questo tipo in circa 4 miliardi di storia della Terra lascia supporre che eventuali interazioni con il nostro pianeta, ammesso che ci siano state, siano in ogni caso un evento rarissimo.
    Restano le spiegazioni sociologiche, cioè quelle molto speculative che fanno riferimento a ipotetici comportamenti delle forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute, soltanto immaginabili. Spiegazioni del genere comprendono l’ipotesi che le civiltà esauriscano le loro risorse energetiche prima di potersi fare vive nell’Universo, per esempio, o che non abbiano alcun desiderio di estendere la loro influenza oltre l’area in cui si sono sviluppate. Il problema fondamentale di queste spiegazioni è che possono risolvere il paradosso solo ammettendo che un determinato comportamento sia comune a tutte le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute nella storia della Galassia. Che è però una condizione la cui plausibilità, per ragioni di distribuzione di probabilità, diminuisce al crescere del numero di forme di vita di cui siamo disposti a ipotizzare l’esistenza.
    Le spiegazioni sociologiche del paradosso, in sostanza, funzionano soltanto se immaginiamo che le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute siano rare. Ma in quel caso non ci sarebbe alcun paradosso da spiegare, perché i «tutti quanti» della domanda attribuita a Fermi sarebbero, in definitiva, molto pochi.

    – Leggi anche: Se esistono, perché non si fanno vivi?

    L’idea condivisa da Hart e Tripler sulla base delle loro considerazioni, anche nota come congettura di Hart-Tripler, è che l’assenza di prove di un’interazione di qualsiasi tipo con una civiltà extraterrestre sia più facilmente spiegabile, rispetto a qualsiasi altra spiegazione, attraverso l’ipotesi che non esistano civiltà extraterrestri abbastanza evolute nella nostra galassia. In un celebre articolo pubblicato nel 1983 e intitolato The Solipsist Approach to Extraterrestrial Intelligence l’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan e il fisico William Newman suggerirono tuttavia un approccio più prudente e paziente alla questione del paradosso di Fermi, affermando che «l’assenza di prove non è prova dell’assenza».
    Esiste del resto un certo ottimismo crescente riguardo alla possibilità che altri mondi diversi dal nostro possano ospitare qualche forma di vita: mondi troppo distanti per pensare di poterli raggiungere, ma che possono comunque essere studiati per cercare eventuali “firme biologiche”, cioè sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. Diverso è il discorso per le “firme tecnologiche”, che per loro natura dovrebbero essere più facilmente rilevabili e meno ambigue di quelle biologiche, ma rispetto alle quali percepiamo nell’Universo solo un «grande silenzio», come lo definì nel 1983 l’astronomo statunitense e scrittore di fantascienza Glen Brin.
    Secondo Crawford e Schulze-Makuch, autori del recente articolo su Nature Astronomy, il grande silenzio può significare prima di tutto che l’ipotesi di Hart e Tipler sull’inesistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute fosse corretta. O tuttalpiù che quelle civiltà siano molto rare nell’Universo – e assenti, dal nostro punto di vista – a causa di limiti di qualche tipo che ne ostacolano lo sviluppo o la manifestazione. È una possibilità nota anche come teoria del “grande filtro”, definita negli anni Novanta dall’economista e ricercatore statunitense della University of Oxford Robin Hanson, ma in parte ammessa anche da Hart già nel 1975.
    Se nessuna di queste due ipotesi fosse corretta, secondo Crawford e Schulze-Makuch, l’assenza di prove dell’esistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute potrebbe a quel punto avere un’altra sola spiegazione, del tipo sociologico: l’ipotesi dello zoo. Eventuali civiltà si terrebbero cioè a distanza di proposito, per evitare di essere rilevate, sebbene non sia chiaro con quali motivazioni.

    – Leggi anche: Come reagirebbe la religione agli alieni?

    Già prima che Ball ne scrivesse su Icarus nel 1973, l’idea alla base dell’ipotesi dello zoo era stata citata dallo scrittore inglese Olaf Stapledon nel romanzo del 1937 Il costruttore di stelle. Era inoltre stata resa familiare fin dalla seconda metà degli anni Sessanta dalla serie televisiva Star Trek, nel cui universo immaginario la Prima direttiva vieta ai pianeti della Federazione di interferire nello sviluppo naturale di civiltà aliene, per evitare a quelle ancora impreparate i pericoli di un’eventuale introduzione esterna della tecnologia dei viaggi interstellari. In tempi più recenti una specie di ipotesi dello zoo è stata ripresa anche dallo scrittore cinese di fantascienza Liu Cixin, il cui romanzo La materia del cosmo immagina l’Universo come una «foresta oscura» abitata da feroci predatori che si nascondono per ragioni di sopravvivenza.
    Un modellino della USS Enterprise, un’astronave immaginaria dell’universo di Star Trek, a una mostra alla casa d’aste Christie’s a Londra, il 2 agosto 2006 (Bruno Vincent/Getty Images)
    Come ha recentemente detto Crawford al sito Universe Today, «esistono due sole possibilità: o le intelligenze extraterrestri esistono, o no». Entrambe le risposte sarebbero sorprendenti, ma soltanto una delle due può essere vera. Al momento l’unica certezza che abbiamo, ha detto, è l’assenza di prove di quel tipo di forme di vita, nonostante la quantità incalcolabile di pianeti e nonostante l’età dell’Universo: una discrepanza che è alla base del paradosso di Fermi, appunto.
    Per rafforzare il paradosso, Crawford e Schulze-Makuch hanno citato alcuni recenti modelli dei possibili processi di evoluzione della vita secondo cui l’abitabilità nella Galassia sarebbe sostanzialmente aumentata soltanto negli ultimi miliardi di anni. Anche in un caso del genere, secondo loro, i tempi necessari per l’evoluzione di una civiltà e quelli plausibilmente necessari per una colonizzazione interstellare sarebbero molto più brevi rispetto all’evoluzione della Galassia: così tanto più brevi che dovremmo comunque aspettarci che più civiltà tecnologiche siano sorte prima della nostra.
    «Ci sono voluti circa due miliardi di anni prima che la Terra sviluppasse un’atmosfera ricca di ossigeno che consentisse agli animali complessi di evolversi. Se ciò fosse successo solo l’1 per cento più velocemente su qualche altro pianeta, cosa possibile a causa di una moltitudine di processi biologici e geologici, un’intelligenza tecnologica sarebbe presumibilmente apparsa 20 milioni di anni prima di noi», hanno scritto Crawford e Schulze-Makuch. Se accettiamo quindi che esistano intelligenze extraterrestri e accettiamo che siano tecnologicamente in grado di raggiungere sistemi stellari diversi da quelli in cui si sono sviluppate, la totale mancanza di prove della loro esistenza si spiegherebbe secondo Crawford e Schulze-Makuch soltanto con una loro volontà di rimanere nascoste.
    Una delle critiche all’ipotesi dello zoo riguarda il principale limite di tutte le spiegazioni sociologiche: la scarsa probabilità che uno stesso comportamento sia condiviso per centinaia di milioni di anni da tutte le eventuali forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute. Come osservato dall’astrofisico scozzese Duncan Forgan, membro fondatore del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) nel Regno Unito, basterebbe un singolo gruppo di dissidenti in un’eventuale civiltà aliena, oppure l’esistenza di «cricche galattiche» indipendenti anziché un singolo gruppo conforme, per ottenere un comportamento divergente rispetto al presupposto dell’ipotesi dello zoo: che ogni civiltà tecnologicamente evoluta si stiano nascondendo.
    Altri scienziati affermano in generale che l’ipotesi dello zoo, benché potenzialmente corretta, sia inutile in un senso scientifico pratico e più vicina a un modo di pensare teologico. Per questo motivo sostengono che nel campo delle spiegazioni sociologiche del paradosso di Fermi siano più meritevoli di attenzione altre ipotesi, come quella dell’esaurimento delle risorse o quella dell’autodistruzione.

    – Leggi anche: La giusta atmosfera per cercare vita aliena

    Rispetto a queste obiezioni note Crawford e Schulze-Makuch sostengono che le ridotte probabilità che uno stesso comportamento sia unanimemente condiviso da più intelligenze extraterrestri non nega di per sé l’ipotesi dello zoo. Riduce piuttosto la probabilità che quelle intelligenze in grado di manifestarsi ma non intenzionate a farlo siano molte. Quanto alla critica riguardo all’approccio teologico, l’opinione di Crawford e Schulze-Makuch è che l’ipotesi dello zoo sia molto diversa da altre teorie puramente speculative, come l’ipotesi del planetario dello scrittore e matematico inglese Stephen Baxter, secondo cui le nostre osservazioni sarebbero un’illusione generata da una civiltà in grado di manipolare la materia e l’energia su scala galattica.
    La differenza fondamentale, ha spiegato Schulze-Makuch a Universe Today, è che «se viviamo in una sorta di simulazione, potremmo non scoprirlo mai», mentre possiamo invece scoprire se l’ipotesi dello zoo sia corretta oppure no. Man mano che le nostre capacità tecnologiche aumentano, potrebbero infatti raggiungere o superare quelle di eventuali altre civiltà che sarebbero a quel punto non più in grado di nascondere ogni loro traccia.
    Sebbene Schulze-Makuch sia un po’ più possibilista rispetto a Crawford, in generale l’ipotesi dello zoo è un argomento utilizzato da entrambi per sostenere soprattutto l’altra possibilità: che non esistano intelligenze extraterrestri tecnologicamente evolute, oppure che siano molto rare. Nell’articolo scrivono che «se non riusciamo a identificare soluzioni plausibili al paradosso di Fermi, con la possibile eccezione dell’ipotesi dello zoo, ne consegue che o la vita stessa è rara e/o esistono colli di bottiglia tra l’origine della vita e l’avvento della tecnologia». Dal momento che l’esistenza di pianeti potenzialmente abitabili sembra più probabile rispetto a qualche decennio fa, per spiegare «dove sono tutti quanti» dovremmo prendere in considerazione l’esistenza di una serie di “grandi filtri” evolutivi che complicano o ostacolano la transizione dall’origine della vita (abiogenesi) alla civiltà tecnologica.
    Ulteriori approfondimenti riguardo all’eventuale esistenza di intelligenze extraterrestri, concludono Crawford e Schulze-Makuch, potranno derivare soltanto da un’esplorazione sistematica dell’Universo. La ricerca di firme biologiche in esopianeti a noi vicini potrebbe entro i prossimi decenni limitare le probabilità sia della complessità biologica che delle intelligenze: perché se dovessimo scoprire che le biosfere extraterrestri sono rare, allora le intelligenze lo saranno presumibilmente ancora di più. E questo indebolirebbe progressivamente il paradosso di Fermi: non avremmo prove perché non esistono.
    Se invece dovessimo scoprire che le biosfere complesse sono comuni in almeno una parte dell’Universo da noi osservata, allora la vita tecnologica potrebbe comunque essere rara a causa di filtri evolutivi difficili da superare. In assenza di filtri, l’ipotesi dello zoo resterebbe l’ultima plausibile: ma a un certo punto anche questa potrebbe essere verificata. «Se si nascondono attivamente da noi, potrebbero trovare difficoltà sempre maggiori di fronte alle nostre stesse capacità in rapido aumento», osservano Crawford e Schulze-Makuch. E se anche quelle civiltà riuscissero a nascondere le prove della loro tecnologia, alla lunga sarebbe per noi difficile non osservare il gran numero di pianeti abitati, implicito in uno scenario del genere.
    Altre ragioni che indeboliscono l’ipotesi che civiltà tecnologiche possano a lungo rimanere nascoste è che quelle dotate di grandi riserve energetiche avrebbero comunque difficoltà a nascondere tutti i segni degli effetti termodinamici della produzione di calore di scarto: segni che sono infatti alla base di alcune attuali ricerche di firme tecnologiche. È inoltre molto probabile che civiltà in grado di viaggiare nello Spazio generino grandi quantità di detriti spaziali, e maggiore è il numero di civiltà di questo tipo esistite nella storia della Galassia, maggiori saranno la quantità di detriti che finiranno nel Sistema Solare e le probabilità di scoprirne le prove.
    La conclusione di Crawford e Schulze-Makuch è che «più a lungo non rileviamo alcun segno di vita intelligente avanzata intorno a noi, meno probabile diventa la spiegazione dell’ipotesi dello zoo, costringendoci a concludere che la vita intelligente tecnologica è rara nell’Universo». LEGGI TUTTO