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    Il giudice concede a Chico Forti il permesso di rivedere la madre

    A breve – probabilmente già in settimana – Chico Forti si recherà a Trento per riabbracciare la madre 96enne, che non vede da 16 anni. Chico Forti potrà incontrare la madre – Nanopress.itA renderlo noto è stato il parlamentare di Fratelli d’Italia, Andrea Di Giuseppe, che ha seguito la vicenda e l’iter del trasferimento in Italia, avvenuto dopo 24 anni di detenzione in carcere a Miami.Chico Forti potrà rivedere la madreChico Forti, l’imprenditore 65enne condannato all’ergastolo, ha ottenuto il permesso dal giudice per visitare a breve la sua famiglia a Trento. In particolare, potrà rivedere sua madre, Maria Loner Forti, 96enne, e lo zio. L’ultimo incontro con sua madre risale a sedici anni fa, e in quell’occasione Chico Forti le disse che, probabilmente, sarebbe stato l’ultimo. Al contrario delle previsioni, ora avrà l’opportunità di riabbracciarla. La madre, nonostante i suoi 96 anni e le difficoltà di salute, ha resistito fino ad oggi soltanto per poter rivedere il figlio. Il permesso è stato concesso dalla Sorveglianza. A renderlo noto è stato il parlamentare di Fratelli d’Italia, Andrea Di Giuseppe, che ha seguito la vicenda e l’iter del trasferimento in Italia. Prima del trasferimento in Italia, avvenuto il 17 maggio scorso, Chico Forti aveva parlato al telefono con sua madre dal carcere di Verona, rassicurandola sulle sue condizioni di salute. Nel frattempo, ha anche condiviso con suo fratello Stefano frammenti della sua nuova vita nel penitenziario di Verona, raccontando di trovarsi bene con i suoi compagni di cella. Con il fratello ha scherzato anche sul timore di ingrassare a causa del cibo italiano preparato da un cuoco professionista, un piacere che gli mancava da tanto tempo.L’omicidio di Dale Pike Il 15 febbraio 1998 Dale Pike, figlio di Anthony Pike, con il quale Chico Forti stava trattando l’acquisizione del Pikes Hotel, a Ibiza, venne trovato morto su una spiaggia di Miami, Florida. Il giovane era stato colpito con due proiettili alla testa ed era nudo. Il giorno prima di essere ucciso, Dale Pike era arrivato negli Stati Uniti, dove aveva incontrato l’imprenditore italiano, che riferirà di averlo lasciato nel parcheggio di un ristorante alle 19 di quello stesso pomeriggio. L’omicidio di cui è accusato Chico Forti – Nanopress.itInterrogato come persona informata sui fatti, Chico Forti riferì di non aver incontrato la vittima, salvo poi ritrattare la sua prima dichiarazione. La falsa testimonianza fu dovuta al timore dell’imprenditore che anche il padre Anthony fosse stato ucciso (informazione falsa che la polizia gli aveva fornito per capire, dalla sua reazione, un eventuale coinvolgimento nei fatti). Il 20 febbraio, dopo 14 ore di interrogatorio – senza un legale – Chico Forti fu arrestato.Nel 2000 è stato condannato all’ergastolo per omicidio. LEGGI TUTTO

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    Investita da un furgone mentre entra a scuola, morta la maestra Ninfa Indelicato

    L’incidente è avvenuto mentre la donna stava entrando nell’edificio scolastico. Le sue condizioni sono apparse subito molto gravi e nonostante il trasporto d’urgenza all’ospedale di Castelvetrano, la maestra è purtroppo deceduta. Maestra investita e uccisa da un furgone – Nanopress.itAlla guida del furgone c’era un anziano, che è stato immediatamente fermato. Investita da un furgone mentre entra a scuola, morta la maestra Ninfa IndelicatoUna maestra di scuola elementare, Ninfa Indelicato, 64 anni, è stata investita da un furgone condotto da un anziano mentre stava entrando a scuola, nell’Istituto per geometri ‘V. Accardi’ di Campobello di Mazara (Trapani), dove ci sono le scuole elementari. Le condizioni della donna sono subito apparse gravissime e, nonostante il ricovero d’urgenza all’ospedale di Castelvetrano, la maestra è morta.Sul posto sono intervenuti i carabinieri, per ricostruire la dinamica dell’incidente. Sotto choc la comunità di Castelvetrano, dove la maestra viveva ed era molto conosciuta. LEGGI TUTTO

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    Alessia Pifferi inizia lo sciopero della fame in carcere: “Non ho più voglia di vivere”

    Alessia Pifferi, la 39enne condannata all’ergastolo per omicidio pluriaggravato, ha iniziato lo sciopero della fame in carcere a Milano.Alessia Pifferi inizia lo sciopero della fame – Nanopress.it“Non ho più voglia di vivere” ha dichiarato la donna. All’indomani della condanna, Alessia Pifferi ha accusato un malore, che ha reso necessario l’intervento dei medici.Alessia Pifferi inizia lo sciopero della fame in carcereAlessia Pifferi, la donna condannata all’ergastolo per aver lasciato morire di stenti la figlia di 18 mesi, lasciandola sola in casa per sei giorni, ha iniziato lo sciopero della fame in carcere, dove è attualmente detenuta. “Non ho più voglia di vivere”, ha dichiarato. Da almeno 24 ore Alessia Pifferi ha smesso di alimentarsi. Il 13 maggio scorso, la Corte d’Assise di Milano ha condannato la 38enne – detenuta nel carcere di San Vittore – alla pena dell’ergastolo, con l’accusa di omicidio pluriaggravato. La perizia psichiatrica, eseguita nel corso del processo, ha stabilito che Alessia Pifferi era capace di intendere e di volere al momento dei fatti, mentre la sua avvocata – Alessia Pontenani – ha sempre sostenuto che la sua assistita fosse affetta da un grave deficit cognitivo. La difesa aveva chiesto l’assoluzione per la 38enne, segnata da una “vita difficile”. All’indomani della sentenza di condanna, Alessia Pifferi ha accusato un malore, che ha reso necessario l’intervento dei medici. In quell’occasione l’ha raggiunta anche la sua legale.L’omicidio della piccola DianaAveva soltanto 18 mesi la piccola Diana Pifferi, la figlia di Alessia Pifferi, morta di fame e sete. Nel luglio del 2022 la bambina è rimasta sola in casa per sei giorni, mentre la mamma trascorreva qualche giorno di vacanza con l’allora compagno, nella casa di lui a Leffe. All’uomo aveva detto che la figlia era con la sorella Viviana, che invece non sapeva nulla di quanto stesse succedendo alla nipotina. Quando la 38enne è rientrata a casa, dopo sei giorni, ha trovato il corpicino della piccola, ormai senza vita.Dalle indagini è emerso che la bambina era stata lasciata sola, con accanto un biberon di acqua e uno di latte. Secondo i giudici, la madre era consapevole che, lasciando la figlia per così tanto tempo da sola, con appena due biberon, l’epilogo sarebbe stato drammatico, come infatti è accaduto. LEGGI TUTTO

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    Giostra precipita durante la festa patronale a San Severo, dodici feriti

    L’incidente si è registrato lunedì sera, 20 maggio, a San Severo, in provincia di Foggia. Dodici le persone ferite, delle quali due in condizioni più serie. Giostra precipita a San Severo – Nanopress.itAlcuni cavi dell’attrazione, alta oltre 10 metri, avrebbero ceduto. La giostra è stata posta sotto sequestro, perché le forze dell’ordine dovranno appurare se siano state rispettate tutte le misure di sicurezza. Giostra precipita durante la festa patronale a San SeveroÈ stata sequestrata la giostra, allestita per la festa patronale di San Severo, che nella serata di lunedì – 20 maggio – è precipitata al suolo. Almeno dodici le persone ferite, di cui due in condizioni più gravi, che sono state trasportate all’ospedale Casa Sollievo di San Giovanni Rotondo. Nessuno dei feriti è in pericolo di vita. Stando a quanto ricostruito finora, l’attrazione – alta una decina di metri – è precipitata per il cedimento di alcuni cavi.Sul posto, oltre ai soccorritori, anche il sindaco di San Severo, Francesco Miglio, che si è recato al luna park di via Fortore, dove erano state allestite le giostre in occasione della festa patronale. La procura di Foggia ha aperto un’inchiesta per accertare le cause ed eventuali responsabilità LEGGI TUTTO

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    Dove finisce la chimica?

    Caricamento playerAlla fine del 2015 l’Unione internazionale di chimica pura e applicata (IUPAC) introdusse un importante aggiornamento della tavola periodica degli elementi, lo schema che mostra gli elementi chimici in base alle loro principali caratteristiche. I responsabili della IUPAC aggiunsero nihonio, moscovio, tennesso e oganesson, completando per la prima volta la settima riga (“periodo”) della tavola. Erano quattro nuovi elementi “superpesanti” scoperti e sintetizzati negli anni precedenti da laboratori alla ricerca della risposta a una delle domande più affascinanti e sfuggenti di sempre, con grandi implicazioni sulla nostra capacità di comprendere come funziona praticamente tutto: dove finisce la chimica?
    Negli anni se lo sono chiesto in molti, ma già oltre un secolo e mezzo fa la questione aveva probabilmente incuriosito Dmitrij Ivanovič Mendeleev, il chimico russo che trovò il modo di ordinare ossigeno, carbonio, ferro e tutti gli altri elementi scoperti – e ancora da scoprire – in una tabella per poterli classificare. Una prima versione del suo schema fu presentata nei primi mesi del 1869, mettendo le basi per lo studio e la ricerca di elementi all’epoca ancora ignoti che avrebbero permesso di riempire le caselle mancanti. In alcuni casi fu necessario più di un secolo per riuscirci, mentre già si ipotizzava che ci potessero essere ancora altri elementi che avrebbero resa necessaria l’aggiunta di nuove caselle nella tavola di Mendeleev.
    Nella tavola periodica, quella che studiano ogni anno milioni di studenti delle scuole superiori, le righe si chiamano periodi e ciascuno ospita gli elementi in una sequenza basata sul loro numero atomico, che indica la quantità di protoni contenuti nel nucleo (la parte centrale e densa di un atomo, formata da protoni che possiedono carica positiva e neutroni, invece privi di carica).
    Ogni nuovo periodo inizia dopo un gas nobile e il primo elemento è sempre un metallo alcalino, con un numero atomico più grande di un’unità rispetto all’elemento con cui si era conclusa la riga precedente. Nei sette periodi della tavola, i metalli sono sulla sinistra e gli altri tipi di elementi sulla destra. Ne consegue che man mano che ci si sposta lungo una riga verso destra si trovano elementi via via più pesanti, con caratteristiche differenti da metallo a gas.
    (Wikimedia)
    Se si legge la tavola in verticale, le colonne (gruppi o famiglie) contengono elementi con caratteristiche chimiche simili. Hanno per esempio una stessa configurazione elettronica esterna, cioè elettroni che si comportano allo stesso modo attorno ai nuclei dei loro atomi. Esistono 18 gruppi e si va da quello dei metalli alcalini fino a quello dei gas nobili.
    Gli elementi con numero atomico da 1 a 118 occupano i sette periodi della tavola periodica, ma come abbiamo visto non è sempre stato così. Per lungo tempo la tavola ebbe alcuni buchi, dovuti alla difficoltà di trovare in natura gli elementi che ci si attendeva di avere tra una casella e un’altra, o alla difficoltà di sintetizzarli nel caso in cui fosse impossibile reperirli nell’ambiente. Per questo si dice spesso che i primi 94 elementi sono tutti “naturali”, mentre quelli da 95 a 118 vengono definiti talvolta “artificiali” o “sintetici”, anche se la distinzione e la definizione sono dibattute.
    In questa ultima categoria ricadono anche gli elementi superpesanti, a partire dal rutherfordio che ha numero atomico 104. La loro caratteristica principale è quella di essere piuttosto schivi, al punto da preferire quasi sempre di non esistere o di farlo per pochissimo tempo. I nuclei dei loro atomi tendono a perdere pezzi, o per meglio dire a decadere, in alcuni casi pochi istanti dopo la loro creazione. Per questo è così difficile crearli, studiarli e immaginare applicazioni in cui potrebbero essere utili, per lo meno allo stato attuale delle conoscenze.
    Le fabbriche degli elementi superpesanti sono relativamente poche perché richiedono particolari acceleratori di particelle: sofisticati strumenti che vengono utilizzati per far scontrare tra loro gli atomi in modo che si uniscano producendo un elemento più pesante. Tra i vari centri, il Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL) in California è probabilmente il più conosciuto, per lo meno per una delle tante dispute che hanno riguardato la storia della chimica. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il laboratorio confermò di avere sintetizzato per la prima volta il rutherfordio, anche se un altro laboratorio nell’Unione Sovietica, l’Istituto unito per la ricerca nucleare di Dubna (JINR), anni prima aveva segnalato la prima rivelazione del nuovo elemento.
    Parte dell’Electron Cyclotron Resonance presso il Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab)
    La disputa nacque intorno al nome da dare, visto che i ricercatori sovietici proponevano di chiamarlo dubnio come la città in cui era avvenuta la scoperta o kurchatovio in onore di Igor Kurchatov, tra i principali fautori del programma di ricerca nucleare sovietico. La controversia fu risolta solamente nel 1997, quando la IUPAC decise di adottare il nome rutherfordio, in onore di Ernest Rutherford, il fisico neozelandese considerato il padre della fisica nucleare.
    Ancora oggi l’LBNL negli Stati Uniti e il JINR in Russia sono i centri di riferimento per la ricerca dei nuovi elementi, insieme alla Società per la ricerca sugli ioni pesanti a Darmstadt in Germania. Dagli anni Ottanta in particolare, i tre centri si sarebbero fatti una serrata concorrenza nella ricerca e nella produzione di nuovi elementi. Nel corso del tempo alla competizione si sarebbero aggiunti altri laboratori, che ancora oggi studiano il mondo sfuggente degli elementi superpesanti con un obiettivo molto ambizioso: trovare nuovi elementi che siano stabili, al punto da durare anni se non secoli prima di decadere in modo significativo.
    Per produrre uno di questi elementi si parte da un fascio di ioni pesanti (solitamente nuclei di atomi privati dei loro elettroni) che viene orientato verso un bersaglio, cercando di vincere la forza di repulsione tra i nuclei (sono entrambi positivi) e di farli unire. A seconda dei laboratori e dei risultati che si vogliono ottenere si seguono vari approcci con strumentazioni ed elementi diversi. Si usano microonde e campi magnetici molto intensi per rimuovere gli elettroni dall’elemento di partenza (spesso si usa il calcio) e gli ioni ottenuti vengono poi fatti passare attraverso un acceleratore, in modo che raggiungano velocità pari al 5-20 per cento di quella della luce, che è di circa 300 milioni di metri al secondo.
    Raggiunta la velocità desiderata, il fascio di ioni viene indirizzato verso il bersaglio, costituito da un elemento diverso a seconda del numero atomico finale che si sta provando a ottenere. Per ottenerne uno pari a 114 si parte dal calcio che ha numero atomico 20 e si usa come bersaglio il plutonio che ha invece numero atomico 94. Fare centro è però molto difficile e per questo si utilizzano enormi quantità di ioni in modo da rendere più probabile una collisione. Quando si riesce a ottenere un nucleo superpesante, questo viene rallentato e guidato in altri strumenti per essere misurato: è il momento in cui si ha la conferma di avere ottenuto un risultato.

    La misurazione finale non è semplice, così come la possibilità di poter fare qualcosa prima del decadimento dell’elemento appena ottenuto. In breve tempo infatti questi nuclei atomici instabili si trasformano (o per meglio dire “trasmutano”) in nuclei di energia inferiore; il riferimento è il tempo di dimezzamento, cioè quanto ci mette la metà degli atomi di un campione radioattivo a decadere. Nel caso di diversi superelementi, per riuscire a sperimentare e studiare reazioni chimiche con altri elementi è necessario almeno un tempo di dimezzamento di mezzo secondo.
    La difficoltà nel produrli e in molti casi il poco tempo per fare esperimenti spiega come mai sappiamo ancora poche cose su molti elementi superpesanti, al punto da non essere certi della loro classificazione nella tavola periodica, o per meglio dire della possibilità di continuare a utilizzare la tabella come prima. L’oganesson (118) è nella posizione dei gas nobili, l’ultima colonna a destra, ma secondo alcuni gruppi di ricerca probabilmente non è un gas. Ipotizzano che sia un solido in condizioni standard e che diventi un liquido quando viene portato a 52 °C.
    Il particolare comportamento di questi metalli è dovuto al modo in cui si distribuiscono gli elettroni nei loro atomi e al modo in cui interagiscono, raggiungendo altissime velocità quasi prossime a quelle della luce. In queste condizioni si verificano effetti relativistici che hanno conseguenze più importanti rispetto a quelli che si verificano negli elementi più leggeri. Studiandoli i gruppi di ricerca hanno l’opportunità di capire meglio il funzionamento di alcuni fenomeni nella fisica dell’infinitamente piccolo, che potrebbero poi essere applicati in altri ambiti della ricerca sulla materia, le sue caratteristiche e il suo funzionamento.
    I più ottimisti pensano inoltre che procedendo con questi esperimenti si possa approdare un giorno all’”isola della stabilità“, un modo per definire il luogo dove idealmente si trovano versioni (isotopi) di elementi transuranici particolarmente stabili e che quindi decadono molto lentamente rispetto ai tempi finora osservati. In questo modo potrebbero diventare utilizzabili non solo per ricerche più approfondite, ma anche per lo sviluppo di qualcosa che oggi non riusciamo a immaginare come materiali con insolite proprietà.
    La ricerca di base funziona del resto in questo modo, come ha ammesso di recente a Scientific American Jacklyn Gates, responsabile del gruppo di ricerca sugli elementi pesanti a Berkeley: «Tutto ciò che facciamo ora… non ha applicazioni pratiche. Ma se pensi ai nostri telefoni cellulari e a tutte le tecnologie che ci sono finite dentro, beh quelle tecnologie risalgono fino all’età del bronzo. Le persone all’epoca non avevano certo idea che la loro scoperta sarebbe finita in questi dispositivi cui siamo sempre incollati e dai quali siamo fortemente dipendenti. Quindi gli elementi superpesanti possono essere utili? Forse non in questa generazione, ma magari tra una o due potremo disporre di migliori tecnologie che ci rendano le cose e la vita un poco più semplici». LEGGI TUTTO

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    Che fine hanno fatto i collari cervicali

    Caricamento playerDopo essere stati molto utilizzati nei decenni passati, da qualche tempo è più raro vedere in giro i collari cervicali indossati da persone con qualche problema al collo. La progressiva sparizione riguarda soprattutto i collari morbidi e in misura minore quelli rigidi, utilizzati per lo più per immobilizzare in condizioni di emergenza le persone che hanno subìto gravi traumi, per esempio in seguito a un incidente stradale. Con il declino dei collari ortopedici c’entrano i progressi nei sistemi di sicurezza delle automobili, ma ancora di più un sensibile cambiamento negli approcci medici e nelle terapie per chi ha problemi cervicali.
    I collari cervicali per come li intendiamo oggi furono perfezionati e adottati dagli ortopedici a partire dalla seconda metà del secolo scorso, in seguito alla progressiva diffusione delle automobili e di conseguenza all’aumento degli incidenti stradali. Molte persone coinvolte nei tamponamenti segnalavano per esempio di avere dolore al collo, che spesso durava per settimane ed era accompagnato da altri problemi come mal di testa e capogiri. I sintomi variavano molto da persona a persona e non erano sempre diagnosticabili facilmente, quindi il problema assunse un nome alquanto generico e distante da una precisa definizione medica: “colpo di frusta”.
    Il colpo di frusta si verifica quando in seguito a una rapida decelerazione, dovuta per esempio a un tamponamento, il corpo viene spinto in avanti dall’urto, mentre il cranio rimane indietro per inerzia causando uno stiramento del collo, salvo poi essere proiettato violentemente in avanti poco dopo. Più è violenta la decelerazione, più è probabile che subiscano forti sollecitazioni le strutture che fanno parte del collo e che sorreggono la testa come le vertebre, i muscoli e i legamenti. Nella maggior parte dei casi, il contraccolpo causa qualche contrattura muscolare non molto diversa da quella che si può rimediare agli arti con un movimento scorretto, mentre nei casi più gravi si può anche verificare una frattura delle vertebre cervicali che richiede maggiori attenzioni e cautele.

    In linea di massima, un colpo di frusta è quasi sempre reversibile in pochi giorni e sono rari i casi di danni permanenti, con forme croniche che devono essere affrontate con terapie del dolore. Naturalmente il colpo di frusta esisteva ben prima dell’avvento delle automobili, un problema simile era stato riscontrato nel caso degli incidenti ferroviari ai primi tempi della diffusione del treno, ma è diventato un evento traumatico molto noto in seguito alla motorizzazione delle società. Così noto da essere sfruttato da alcuni per millantare qualche problema di salute e rimediare rimborsi dalle assicurazioni o indennità dai servizi di assistenza sociale.
    L’esagerazione degli effetti di un colpo di frusta era sfruttata soprattutto in passato quando era difficile diagnosticare in modo oggettivo gli eventuali danni causati dal trauma, semplicemente perché non c’erano strumenti diagnostici adeguati. Una radiografia poteva mostrare la lesione di una vertebra, certo, ma non c’erano molte possibilità di osservare altri tipi di lesioni per esempio ai muscoli e alle altre strutture del corpo. Le cose sarebbero cambiate almeno in parte con l’avvento della risonanza magnetica negli anni Ottanta, che permette di osservare più nel dettaglio i tessuti interni, ma per diverso tempo i medici si basarono soprattutto sui sintomi che riferivano i loro pazienti, prescrivendo loro l’utilizzo di un collare morbido per qualche tempo, ritenendo che limitando i movimenti del collo si potesse avere un migliore recupero.
    C’erano più incidenti stradali rispetto a oggi e minori dotazioni per ridurre i rischi – come cinture di sicurezza, poggiatesta, airbag e sistemi di assorbimento degli urti – di conseguenza non era raro notare per strada qualcuno con un collare. In paesi come gli Stati Uniti, dove erano frequenti le cause legali e le richieste di rimborsi alle assicurazioni, il collare era diventato per alcuni uno stigma: la prova visibile del tentativo di ottenere qualche soldo esagerando le conseguenze di un temporaneo problema di salute, ammesso esistesse davvero.
    Il sistema sanitario basato sulle assicurazioni aveva favorito il fenomeno, ma questo non era esclusivo degli Stati Uniti e ancora oggi ha una certa importanza in alcuni paesi compreso il nostro. Secondo uno studio pubblicato nel 2008, in Italia gli infortuni di piccola entità alla cervicale segnalati sono il 66 per cento del totale degli infortuni, il dato più alto dopo il Regno Unito (76 per cento) e prima della Norvegia (53 per cento). L’incidenza di danni derivanti dal colpo di frusta indicati come permanenti, ma spesso difficili da verificare, è molto alta in Italia e secondo diverse analisi fuori scala, rispetto ai dati scientifici dal punto di vista epidemiologico. Fare analisi e confronti accurati tra paesi diversi non è però semplice, perché cambiano le modalità di diagnosi e di segnalazione degli infortuni e questo potrebbe giustificare almeno in parte le marcate differenze segnalate nelle ricerche.
    Al di là degli aspetti assicurativi, negli ultimi anni c’è stato un progressivo abbandono del collare cervicale da parte di ortopedici e altri specialisti. Salvo casi particolari, l’orientamento è di non farlo più indossare ai pazienti perché può ritardare il recupero da un colpo di frusta invece di favorirlo. Inizialmente si pensava che il collare potesse offrire un sostegno alla testa, riducendo il carico per vertebre e muscoli della zona cervicale, mentre oggi si ritiene che siano soprattutto utili fisioterapia, ginnastica dolce, massaggi e all’occorrenza l’impiego di farmaci antinfiammatori.
    Una scena di Erin Brockovich – Forte come la verità con Julia Roberts (Universal)
    Una revisione sistematica e una meta-analisi, cioè una ricerca che ha analizzato la letteratura scientifica a disposizione, pubblicata nel 2021 ha rilevato una prevalenza nella pratica medica di un approccio attivo nella riabilitazione, rispetto alla sola immobilizzazione, segnalando comunque la necessità di condurre ulteriori studi e approfondimenti. Una ricerca condotta una decina di anni prima aveva concluso che l’impiego del collare morbido è «nella migliore delle ipotesi inefficace» nel trattare il colpo di frusta, specificando che nello scenario peggiore i pazienti avessero un maggior rischio di non dedicarsi alle attività di recupero che prevedono di fare esercizi con il collo.
    Il cambio di approccio rifletteva quello più generale sull’importanza di ridurre la permanenza a letto dei pazienti, una pratica molto in uso negli ospedali, per favorire il loro recupero e ridurre il rischio di sviluppare altri problemi di salute dovuti al restare fermi a lungo. Era per esempio diventato evidente che i pazienti con mal di schiena traevano maggiori benefici dal muoversi, con tempi di recupero minori, rispetto a chi trascorreva più di due giorni a letto come veniva spesso consigliato in precedenza.
    Il collare cervicale nella versione rigida continua invece a essere utilizzato nella medicina di urgenza, per esempio per immobilizzare le persone sopravvissute a un incidente stradale quando c’è il dubbio di un eventuale danno alla spina dorsale. È un uso con scopi diversi rispetto al collare morbido e negli ultimi anni si è iniziato a discutere una revisione del suo impiego, anche in questo caso in seguito a studi e analisi sull’efficacia del sistema.
    Applicazione di un collare rigido in seguito a un trauma nel corso di una partita di football a Perth, Australia, nel 2012 (Getty Images)
    Il neurochirurgo norvegese Terje Sundstrøm è tra i più convinti sostenitori della necessità di rivedere protocolli e pratiche di utilizzo del collarino rigido. Una decina di anni fa pubblicò insieme ad altri colleghi un’analisi nella quale segnalava come in media venga immobilizzato il collo di 50 pazienti per ogni paziente che ha effettivamente una lesione spinale. Secondo lo studio, il collare rigido rende più difficoltosa la respirazione dei pazienti e contribuisce a creare maggiore agitazione, perché il suo impiego induce a pensare di avere subìto un danno grave, anche se magari non è quello il caso. In alcuni casi il collare rigido può rivelarsi scomodo o non essere applicato nel migliore dei modi, cosa che porta i pazienti a fare proprio i movimenti che il collare dovrebbe prevenire.
    In alcuni paesi le linee guida per l’uso dei collari rigidi negli scenari di emergenza sono state riviste, ma il loro impiego è comunque ancora diffuso. Gli incidenti che portano a lesioni spinali cervicali sono relativamente rari, di conseguenza è difficile condurre studi approfonditi e disporre di dati a sufficienza per trarre qualche conclusione. La tendenza è quindi quella di applicare maggiori cautele, proseguendo con un approccio conservativo che prevede l’impiego dei collari rigidi, più di quanto avvenga per quelli morbidi usati sempre meno spesso e per meno tempo, al punto da non farsi notare più in giro come una volta. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Quella appena trascorsa è stata una settimana piena di cani, complice la storica mostra cinofila statunitense del Westminster Kennel Club Dog Show: più di duemila cani sono stati valutati da una giuria che ha espresso giudizi sulla loro bellezza in relazione agli standard delle razze cui appartengono e alle prestazioni nelle varie categorie in cui hanno gareggiato, e i fotografi hanno coperto estesamente l’evento con decine e decine di foto. A contribuire nella raccolta di chi valesse fotografare c’è anche Messi, il cane che compare nel film Anatomia di una caduta, al festival di Cannes, e per bilanciare un po’ la rappresentazione della specie si finisce con cani “normali” che sonnecchiano con un gatto. Poi una femmina di tordo che imbocca i suoi pulcini, una mamma cinghiale che guida in acqua i suoi cuccioli, e una foto che mostra quanto è lunga la lingua di una giraffa. LEGGI TUTTO

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    Tokyo ha un problema di procioni

    Caricamento playerNell’ultimo decennio il numero di procioni catturati a Tokyo è aumentato di quattro volte. Nel 2012, secondo i dati dell’amministrazione della città, ne erano stati catturati 259: nel 2022 invece 1.282. È un problema perché questi animali sono una specie aliena invasiva che può fare grossi danni, e si pensa che i dati sulle catture indichino che il numero totale di procioni in circolazione sia cresciuto a sua volta – e non che le operazioni di cattura siano semplicemente diventate più efficaci.
    È stato stimato che nelle campagne giapponesi nel 2022 i procioni abbiano fatto danni alle coltivazioni per 450 milioni di yen, l’equivalente di 2,7 milioni di euro. Secondo alcune segnalazioni sembra anche che abbiano cacciato e ucciso salamandre a rischio di estinzione.
    I procioni sono originari del Nord America, ma negli ultimi decenni si sono diffusi anche in aree urbane di altri paesi del mondo dove erano stati portati come animali da compagnia o come attrazioni all’interno di zoo privati. Sono animali con grandi capacità di adattamento agli ambienti nuovi e sono rapidi a riprodursi per cui si trovano bene nelle città, dove mangiano dalle ciotole degli animali domestici e dai bidoni della spazzatura e fanno vari danni. In alcuni casi diventano aggressivi con le persone e possono diffondere malattie.
    Anche in Giappone i procioni si sono diffusi non intenzionalmente dopo che molte persone se ne procurarono come animali da compagnia, forse influenzate dalla popolare serie televisiva animata del 1977 Rascal, il mio amico orsetto. Il ministero dell’Ambiente giapponese ritiene che le attuali popolazioni di procioni presenti nel paese derivino da procioni da compagnia fuggiti o abbandonati. A Tokyo sono presenti soprattutto nelle zone collinari della parte occidentale dell’area metropolitana – che complessivamente ha quasi 14 milioni di abitanti umani. I procioni sono stati inseriti da tempo nella lista delle 156 specie aliene invasive presenti in Giappone.

    In molte zone del Giappone esistono piani per la cattura e l’uccisione dei procioni, a Tokyo in particolare dal 2013. Nel comune di Ome, una città che fa parte dell’area urbana di Tokyo, i residenti possono usare delle trappole per catturarli; a Fuchu invece chi subisce danni alle coltivazioni è invitato a segnalarli alle autorità. Finora tuttavia queste iniziative non hanno fermato lo sviluppo delle popolazioni di procioni, di cui non si conosce l’esatta estensione.

    Dal 2016 i procioni sono anche nell’elenco delle specie esotiche invasive di cui i paesi membri dell’Unione Europea devono cercare di evitare la diffusione per ragioni ecologiche, oltre che sanitarie. In Europa ci sono popolazioni di procioni in almeno 16 paesi e il gruppo più grande si trova in Germania. L’Italia è uno dei paesi dove sono presenti: c’è una popolazione tra Emilia-Romagna e Toscana. Dal 1996 sono considerati una specie che può «costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica» nel nostro paese e da allora ne è proibita la detenzione a meno che non si abbia una specifica autorizzazione. LEGGI TUTTO