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    Cosa rende l’area tra Turchia e Siria così esposta ai terremoti

    Il forte terremoto di magnitudo 7.8 di lunedì 6 febbraio tra Turchia e Siria, che ha causato oltre duemila morti, si è verificato in una zona con una forte pericolosità sismica, dovuta ai movimenti che interessano la placca anatolica, che comprende il territorio turco, la placca araba, dove si trova buona parte della Siria, e la placca africana. Al forte terremoto delle 2:17 (ora italiana) sono seguiti numerosi altri eventi sismici (“repliche”), compresa una nuova forte scossa alle 11:24 di magnitudo 7.5; altre repliche hanno avuto magnitudo superiore a 6, complicando ulteriormente il già difficile lavoro dei soccorritori in un’area molto ampia.I terremoti sono la manifestazione più evidente delle caratteristiche interne del nostro pianeta, che lo rendono molto più turbolento di quanto immaginiamo. La crosta terrestre – l’involucro su cui viviamo – unita alla parte più esterna del mantello superiore (che si trova subito sotto) costituisce la litosfera. Questa, secondo la teoria più affermata e condivisa, è divisa in placche che si muovono allontanandosi e avvicinandosi l’una all’altra, con punti di scorrimento lungo i loro margini. E proprio in prossimità di queste aree si formano le faglie, fratture che vanno in profondità nel terreno dovute allo spostamento relativo fra i due blocchi contrapposti. Possiamo immaginare le faglie come piani che indicano dove la crosta è più debole, e di conseguenza più esposta alla possibilità che rilasci l’energia che si è accumulata con il movimento di due o più placche. Chi studia i terremoti, cioè i sismologi, può fare affidamento sulle grandi quantità di dati e informazioni raccolte negli anni sulle faglie in giro per il mondo, che possono essere studiate per comprendere quali aree siano più o meno esposte ai terremoti (prevedere esattamente quando avverrà un terremoto, a oggi, è impossibile). Si dice che una faglia si è attivata quando si verificano eventi sismici lungo una faglia già nota, altrimenti si parla di nuova faglia.(Zanichelli)Il terremoto in Turchia è avvenuto in corrispondenza di quella che viene definita una “tripla giunzione”, cioè un punto dove si incontrano i margini di tre placche tettoniche. Da milioni di anni, la placca araba si sta spostando verso nord, spingendo contro la placca euroasiatica, che come suggerisce il nome comprende l’Europa e buona parte dell’Asia. Questo e altri movimenti fanno sì che la placca anatolica, dove si trova la Turchia, tenda a spostarsi verso sud-ovest (sostanzialmente in senso antiorario guardando la mappa qui sotto).Questi e altri processi hanno determinato nel tempo la formazione della faglia anatolica orientale, che possiamo immaginare come una lunga linea che periodicamente rilascia l’energia accumulata dalle forti tensioni derivanti soprattutto dallo spostamento della placca araba verso nord. Un’altra faglia coinvolta nel processo è la faglia del Mar Morto, più a sud.(Wikimedia)Sulla base dei dati raccolti finora, a partire dalla magnitudo del terremoto, secondo l’Istituto di geofisica e vulcanologia italiano la rottura che ha portato al rilascio di energia (e quindi alla scossa) ha interessato un segmento della faglia lungo quasi 200 chilometri, una stima in linea con l’attivazione in aree di svariate centinaia di chilometri quadrati tipica di eventi sismici di questo tipo. La presenza di città di dimensioni medio-grandi e con edifici non sempre costruiti con criteri antisismici ha determinato la grande quantità di danni e di morti segnalati dalle autorità locali e dai soccorritori.L’area del terremoto è sismicamente attiva e negli ultimi 50 anni aveva fatto registrare tre terremoti con magnitudo uguale o superiore a 6, entro un raggio di 250 chilometri dalla zona in cui si è verificata la scossa più forte di oggi. Tre anni fa, il 24 gennaio, si era verificato un terremoto di magnitudo 6.7 sempre riconducibile alla faglia anatolica orientale.Proprio per le caratteristiche geologiche, Siria settentrionale e Turchia meridionale sono state interessate in passato da terremoti piuttosto forti, come ricostruito sulla base delle cronache d’epoca. Nel 1513 ce ne fu uno particolarmente distruttivo con una magnitudo, secondo le ricostruzioni, valutabile intorno a 7.4, e nel 1114 uno di magnitudo 6.9. Nel 1822, il terremoto di Aleppo in Siria fu di magnitudo 7.4 e con una successiva epidemia di colera e di peste fu tra le cause del forte declino della città nel diciannovesimo secolo. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 4 febbraio 2023

    Nei giorni scorsi è probabile che abbiate sentito parlare di Phil, la marmotta che ogni anno viene usata per la cerimonia del Giorno della Marmotta a Punxsutawney, in Pennsylvania. Secondo la tradizione locale (ma famosa in tutto il mondo grazie al film del 1993 Ricomincio da capo), la mattina del 2 febbraio la marmotta viene fatta uscire dalla sua tana: se vede la sua ombra e rientra nella tana, perché la giornata è soleggiata, l’inverno durerà altre sei settimane. Se invece rimane fuori, perché non vede l’ombra, l’inverno finirà prima. Non c’è nessuna logica scientifica, ovviamente, ma se siete di quelli che si divertono a seguire questo tipo di cose potrebbe interessarvi sapere che le previsioni di Phil dicono che l’inverno durerà ancora un po’.Tra gli altri animali da fotografare c’erano anche il cane del primo ministro greco che ispeziona le guardie d’onore, una volpe davanti al 10 di Downing Street e animali presi in coppia: due poiane, due piccolini istrici, due macachi e due ara..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} #gallery-5{margin:auto}#gallery-5 .gallery-item{float:left;margin-top:10px;text-align:center;width:12%}#gallery-5
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    Il centro della Terra è più bizzarro del previsto

    Al centro della Terra, a circa cinquemila chilometri sotto i nostri piedi, c’è una sfera grande più o meno quanto Plutone, il pianeta nano in orbita in una remota area del sistema solare. È il nucleo interno terrestre, una grande palla di circa 2.400 chilometri di diametro che si pensa sia costituita principalmente di ferro, a una temperatura di oltre 5.400 °C e ad altissima pressione. È lo strato più sfuggente e misterioso della struttura interna del nostro pianeta e secondo una nuova ricerca, da poco pubblicata e molto discussa, si starebbe comportando in modo ancora più bizzarro del previsto.Secondo le ipotesi più condivise, il nucleo interno gira più velocemente del resto della Terra e ciò è uno dei fattori che contribuiscono alla formazione del campo magnetico che avvolge il nostro pianeta, e che lo protegge dalle radiazioni dannose del Sole. Il nuovo studio, pubblicato da poco sulla rivista scientifica Nature Geoscience, mette in dubbio parte di questo assunto segnalando come qualche anno fa il nucleo interno abbia smesso di girare a una velocità maggiore rispetto al resto del pianeta. Non è molto chiaro perché né quali potrebbero essere le conseguenze, e anche per questo motivo diversi altri esperti hanno messo in dubbio i risultati della nuova ricerca, a dimostrazione di quanto siano ancora dibattute e misteriose le caratteristiche degli strati terrestri più profondi.Conduciamo l’intera nostra esistenza sulla crosta, lo strato più esterno della Terra, con uno spessore variabile tra i 4 e gli 80 chilometri, pochissimo se consideriamo che l’intero pianeta ha un diametro medio di oltre 12.740 chilometri (non è una sfera perfetta). Superato questo involucro roccioso, incontriamo il mantello, lo strato più spesso di tutti che raggiunge una profondità di quasi 3mila chilometri. È costituito da rocce magmatiche (ultrafemiche), è per lo più solido e nella sua parte più profonda è a contatto con il nucleo terrestre. La parte esterna del nucleo è formata per lo più da ferro fuso, mentre quella interna da materiale ferroso solido e malleabile.(Zanichelli)Nonostante le immaginifiche pagine scritte da Jules Verne, non potendo viaggiare direttamente al centro della Terra ci dobbiamo accontentare di segnali indiretti per provare a ricostruire le caratteristiche interne del pianeta. L’analisi delle onde sismiche e di come queste si propagano da una parte all’altra della Terra si sono rivelate tra gli indicatori ideali per farlo, già dall’inizio del Novecento.Fu proprio studiando il comportamento di alcuni tipi di onde sismiche che nel 1936 fu scoperto il nucleo interno. Invece di propagarsi come atteso in una sfera con densità omogenea, le onde seguono percorsi vari a indicazione della presenza di strati a grande profondità fatti molto diversamente tra loro. Il cambiamento della velocità di propagazione delle onde fornì elementi importanti per ipotizzare e valutare la presenza del nucleo terrestre. Negli anni, analisi e modelli matematici portarono a ipotizzare che al centro della Terra ci sia una sfera fatta per lo più di ferro, il nucleo interno appunto, racchiusa da un involucro di ferro liquido e altri metalli, cioè il nucleo esterno.A differenza di altri tipi di onde sismiche, le onde P riescono ad attraversare il nucleo interno, se analizzate possono offrire dettagli sulle sue caratteristiche (Zanichelli)L’ipotesi è che il materiale fuso abbia densità diverse a seconda delle profondità in cui si trova, dove variano temperatura e pressione, facendo sì che si sviluppino correnti che lo fanno muovere (moti convettivi). Il modello della “geodinamo” ipotizza che sia questo movimento alla base del campo geomagnetico.Intorno alla metà degli anni Novanta, questa possibilità interessò molto il geofisico Xiadong Song, all’epoca alla Columbia University (New York). Song studiò oltre trent’anni di dati sui terremoti che si erano verificati in specifiche aree del pianeta, analizzando il modo in cui le loro onde sismiche si erano propagate attraverso i vari strati terrestri. Insieme a un collega, pubblicò uno studio nel 1996 nel quale offriva nuovi elementi a conferma delle ipotesi sulla velocità di rotazione del nucleo interno. Trovandosi immerso in uno strato liquido, si ritiene infatti che il nucleo interno sia in un certo senso scollegato dal resto del pianeta e possa quindi girare a una velocità di poco maggiore.Con l’affinarsi delle tecniche di rilevazione delle onde sismiche e la produzione di modelli più accurati, vari gruppi di ricerca misero in dubbio almeno parzialmente il lavoro di Song. Alcuni negarono completamente l’eventualità, altri stimarono una velocità di rotazione del nucleo inferiore a quanto prospettato a metà anni Novanta, mentre altri ancora ipotizzarono che la differenza di velocità fosse presente solo in particolari periodi e non continuativamente.Nel 2022 un gruppo di ricerca pubblicò uno studio basato sulle rilevazioni sismiche effettuate dopo alcuni test nucleari condotti dagli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Sulla base di quei dati, gli autori conclusero che all’epoca il nucleo interno stesse girando su se stesso a una velocità inferiore rispetto a quella del mantello, e che sarebbe tornato a girare a velocità maggiori solo qualche anno dopo. Lo studio sembrava confermare le ipotesi sull’instabilità dei movimenti del nucleo interno sollevate da altre ricerche.Nel nuovo studio, da poco pubblicato, Song e il suo collega Yi Yang dicono che il nucleo interno ha smesso di girare a una velocità diversa da quella del mantello. Le conclusioni sono basate sui dati raccolti tra la seconda metà degli anni Novanta e il 2021, con vari indicatori che suggeriscono che la rotazione a una velocità maggiore si sia interrotta intorno al 2009. Non è chiaro che cosa abbia determinato questo rallentamento, anche se Song e Yang ipotizzano che sia dovuto all’inizio di una nuova fase che porterà il nucleo interno a ruotare più lentamente del mantello, come era già avvenuto tra gli anni Sessanta e Settanta, secondo le ipotesi dello stesso Song nella ricerca precedente.Non tutti sono però convinti dalle conclusioni della nuova ricerca, che riconosce comunque la necessità di raccogliere ulteriori dati osservando la propagazione delle onde sismiche con i prossimi terremoti. Una conferma di un andamento discontinuo nella velocità del nucleo interno potrebbe aiutare i gruppi di ricerca a comprendere meglio alcuni fenomeni legati al nostro pianeta, a partire dalle oscillazioni nel campo magnetico terrestre e nella diversa durata di una rotazione completa, che fa sì che i giorni non siano esattamente della lunghezza di 24 ore. LEGGI TUTTO

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    In Namibia è un brutto momento per i rinoceronti

    Nel 2022 il numero dei rinoceronti uccisi illegalmente in Namibia è quasi raddoppiato rispetto al 2021: sono stati 87, mentre l’anno precedente 45. Non era mai successo che così tanti rinoceronti morissero a causa del bracconaggio in un solo anno, stando ai dati del ministero dell’Ambiente, delle Foreste e del Turismo namibiano, che ha diffuso un aggiornamento lunedì.La Namibia, che si trova nel sud dell’Africa e si affaccia sull’oceano Atlantico, ospita la seconda più grande popolazione di rinoceronti bianchi (Ceratotherium simum) dopo il Sudafrica e un terzo dei rinoceronti neri (Diceros bicornis), che sono meno numerosi e a rischio di estinzione. Negli ultimi decenni entrambe le specie sono state decimate dalla caccia illegale, praticata da bracconieri interessati ai corni dei rinoceronti: sono molto richiesti come trofei ma soprattutto come ingredienti nella farmacologia tradizionale asiatica, richiesti in Cina e in Vietnam. Tra il 2011 e il 2021 furono quasi 10mila i rinoceronti uccisi illegalmente in Africa (più o meno un terzo della popolazione complessiva mondiale).Romeo Muyunda, portavoce del ministero dell’Ambiente namibiano, ha detto che sul totale di 87 rinoceronti uccisi 61 erano neri e 26 bianchi. Più della metà delle uccisioni sono avvenute nell’Etosha, il più turistico dei parchi nazionali della Namibia, che si trova nel nord del paese e ha un’estensione di 22mila chilometri quadrati: «Abbiamo notato con grande preoccupazione che il nostro parco nazionale più conosciuto, l’Etosha, è un’attrazione per il bracconaggio».Sia in Namibia che nei paesi vicini dove vivono molti rinoceronti, principalmente il Sudafrica e il Botswana, esistono da anni dei programmi di contrasto al bracconaggio, che tra le altre cose prevedono di tagliare i corni agli animali. I corni sono fatti di cheratina, la stessa sostanza di cui sono fatti i capelli e le unghie umane: a differenza delle zanne degli elefanti, che sono denti particolari, non contengono quindi terminazioni nervose, né hanno radici sensibili, per questo i rinoceronti non provano dolore se gli vengono segati. E come succede alle unghie, i corni ricrescono: servono circa due anni perché raggiungano le stesse dimensioni che avevano prima del taglio.Quando invece sono i bracconieri a tagliare i corni, lo fanno ferendo a morte i rinoceronti, che poi abbandonano a dissanguarsi.Servono molte risorse per tagliare i corni in maniera preventiva a un gran numero di rinoceronti, anche perché gli animali devono essere sedati per procedere con l’operazione. Per questo nonostante varie iniziative del genere la protezione dei rinoceronti continua a essere difficile.Secondo i dati dell’organizzazione Save The Rhino, in Africa vivono circa 22mila rinoceronti, di cui poco più di 6mila rinoceronti neri.– Leggi anche: Una delle strategie per proteggere i rinoceronti è tagliargli i corni LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 28 gennaio 2023

    Tra le foto degli animali della settimana c’è un cane dal nome difficile da pronunciare: lo xoloitzcuintle, conosciuto anche come cane nudo messicano. Privo di pelo a causa di una mutazione genetica, è una razza molto antica un tempo venerata dagli aztechi, a cui deve il suo nome: deriva da due parole della lingua nahuatl, itzcuintli (cane) e xolotl (il dio dei lampi). Qualcuno, in particolare chi ha a che fare con bambini o appassionati dei film d’animazione Disney, potrà ricordarlo come il cane del film Coco, mentre qualcun altro potrebbe riconoscerlo in alcune foto e opere di Frida Kahlo, che nel corso della sua vita ne ebbe alcuni esemplari.Passando agli altri animali che valeva la pena fotografare in settimana, ci sono un drago a rete centrale, due mufloni, un canguro arboricolo e una vipera del Gabon..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} #gallery-5{margin:auto}#gallery-5 .gallery-item{float:left;margin-top:10px;text-align:center;width:12%}#gallery-5
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    Cosa succede al corpo di una persona che fa lo sciopero della fame

    Lo sciopero della fame è una forma di protesta non violenta spesso adottata da chi non ha altri strumenti e possibilità per protestare, come nel caso delle persone detenute. È una pratica che comporta gravi conseguenze per la salute, come dimostra il caso dell’anarchico Alfredo Cospito, che ha iniziato il proprio sciopero della fame il 19 ottobre 2022 nel carcere di Sassari. In oltre tre mesi Cospito, che protesta contro le modalità della propria detenzione con il regime del 41-bis (il cosiddetto “carcere duro”) e per il rischio che la sua condanna a 20 anni di reclusione sia trasformata in ergastolo ostativo, ha perso più di 40 chilogrammi e negli ultimi giorni ha avuto un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni.Angelica Milia, la medica di fiducia di Cospito, nella sua ultima visita ha trovato il proprio assistito indebolito e incapace di rimanere in piedi, con la necessità di ricorrere a una sedia a rotelle. «L’ho trovato con una debolezza muscolare estrema dovuta alla sindrome da assenza di nutrizione, che lo porta a mantenere male la posizione eretta», spiega Milia. Nella sera di mercoledì 25 gennaio, Cospito ha perso conoscenza mentre stava facendo una doccia per provare a scaldarsi, è caduto a terra e ha battuto il viso contro il piatto della doccia rompendosi il naso. Milia ha detto che l’episodio potrebbe portare a ulteriori complicazioni, in una persona con uno stato di salute compromesso.Come per tutte le cose che interessano le condizioni fisiche, gli effetti dello sciopero della fame sono altamente soggettivi e riguardano le caratteristiche dei singoli e il contesto in cui mantengono questa forma di protesta. Per quanto possa essere organizzato e dotato di un’infermeria, il carcere non è tra i luoghi più sicuri per condurre uno sciopero della fame: a causa del lungo periodo di astinenza dal cibo, le condizioni di salute della persona interessata possono cambiare in brevissimo tempo, e potrebbero non essere presenti risorse e personale idonei a gestire un’emergenza sanitaria. Anche per questo motivo Flavio Rossi Albertini, l’avvocato di Cospito, ha chiesto che il proprio assistito sia spostato in un carcere che abbia una struttura ospedaliera adeguata, in modo da intervenire nel caso di peggioramenti repentini.Concretamente lo sciopero della fame consiste in un rifiuto totale dell’assunzione di cibo, che duri più giorni. Solo in alcuni e rari casi – e non è quello di Cospito – avviene contemporaneamente anche il rifiuto dell’acqua, astinenza che rende le prospettive di sopravvivenza assai più brevi. Talvolta le persone che fanno lo sciopero della fame assumono almeno per certi periodi degli integratori di vitamine e sali minerali, da sciogliere nell’acqua.Cospito ha da poco superato il centesimo giorno di sciopero della fame, un periodo molto lungo e ampiamente superiore ai due mesi indicati solitamente come il tempo massimo oltre il quale gli effetti per la salute sono maggiori e spesso irreversibili. Per le ragioni di soggettività cui accennavamo prima, non c’è un tempo di resistenza uguale per tutti e ci sono molte variabili da considerare. In linea di massima le persone in salute sviluppano più tardi complicazioni, così come le persone sovrappeso che hanno maggiori risorse cui l’organismo può attingere per mantenere le proprie attività, con minori danni per gli organi.Milia dice che la lunga resistenza di Cospito è in parte spiegata dalle condizioni di salute generalmente buone del suo assistito prima di ottobre, accompagnate dal sovrappeso: «all’inizio del digiuno, Cospito aveva un indice di massa corporea prossimo all’obesità, essendo alto 194 centimetri e avendo un peso di 114 chilogrammi. Ora però pesa meno di 75 chilogrammi e inizia a essere sottopeso. In letteratura scientifica ci sono indicazioni sui rischi che si corrono quando si perde circa il 50 per cento del peso corporeo, con danni che possono essere permanenti».Entro certi limiti, il nostro organismo è attrezzato per affrontare periodi di digiuno, mentre lo è molto meno per resistere a lungo senza acqua, necessaria per le funzioni del metabolismo e per i sali minerali. Facendo affidamento sulla caccia e la raccolta di vegetali che crescevano spontaneamente, per i primi esseri umani l’alimentazione era quasi sempre discontinua con periodi in cui l’accesso al cibo era molto limitato. Questa circostanza favorì probabilmente quegli individui che del tutto casualmente erano geneticamente meglio attrezzati per sopravvivere a prolungate fasi di digiuno, o comunque a periodi con apporti calorici estremamente ridotti.Tra i primi a studiare sistematicamente gli effetti del digiuno sul metabolismo ci fu il medico statunitense Geoerge F. Cahill, che negli anni Sessanta condusse esperimenti con alcuni volontari, che sospesero la propria alimentazione fino a 40 giorni. Cahill e il proprio gruppo di ricerca ebbero modo di verificare che cosa accade al nostro organismo durante un digiuno prolungato, e soprattutto di studiare da dove riesca a trarre le energie per sopravvivere.Per mantenere le proprie attività, il nostro organismo ha bisogno di molta energia: il cervello da solo ne consuma circa un quinto. La principale fonte di questa energia è il glucosio, tra i composti organici più diffusi in natura e importantissimo per la vita degli organismi. Viene ottenuto tramite l’alimentazione e consumato molto velocemente, tanto da non averne mai scorte significative cui attingere quando si smette di mangiare. Nei periodi di digiuno, o anche più semplicemente mentre dormiamo, l’organismo ottiene in parte le proprie energie dalla proteine che costituiscono la massa muscolare, con un processo che gli consente di disporre di altro glucosio nel breve termine. È un processo limitato, che evita che si consumino troppo i muscoli, essenziali per rimanere attivi e andare alla ricerca di nuovo cibo.Il minore apporto di energia, o la sua totale mancanza, viene compensato dalla trasformazione delle riserve di grasso, che è per propria natura altamente energetico. Mentre le proteine sotto forma di muscolo sono molto importanti per il mantenimento di varie funzioni, il grasso può essere sacrificato per produrre energia senza particolari conseguenze. Il grasso viene trasformato (chetogenesi) in “corpi chetonici”, composti che vengono sintetizzati dalle cellule del fegato e che permettono di ridurre il consumo di proteine per la produzione di glucosio, fornendo comunque una fonte di energia.In generale, i livelli di corpi chetonici nel sangue aumentano ad alcune ore di distanza dall’avvio del digiuno. La loro concentrazione diventa ancora più grande nel caso in cui il digiuno diventi prolungato e duri per svariati giorni. Anche il sistema nervoso centrale, che comprende il cervello, utilizza i corpi chetonici come forma di energia e per diverso tempo riesce a compensare e a funzionare senza particolari difficoltà.La chetogenesi è uno dei processi fondamentali per garantire la nostra sopravvivenza nei periodi prolungati di digiuno, o più semplicemente quando seguiamo particolari tipi di diete per perdere peso. Basandosi sulla trasformazione dei grassi, ne deriva che una persona molto sovrappeso od obesa possa digiunare più a lungo rispetto a una persona normopeso, come nel caso di Cospito.La perdita di grasso avviene più rapidamente rispetto a quella della massa muscolare, che comunque in minima parte continua a verificarsi e a rendere più difficile il lavoro di alcuni organi. Ma le risorse di grasso non sono comunque infinite. Quando terminano, il ricorso alla massa muscolare per la produzione di energia aumenta, spiega Milia: «Terminate le scorte di tessuto adiposo, si avvia quella che in sostanza è un’“autodigestione” che interessa in maniera crescente non solo i muscoli, ma vari organi come l’intestino e il fegato».Riuscire a sopravvivere a lungo senza nutrirsi non implica che nel frattempo non avvengano altri processi dannosi per la salute. Dopo un paio di settimane dall’inizio del digiuno si possono accusare fasi in cui si avvertono debolezza e un certo stordimento, accompagnato dalla difficoltà a rimanere in piedi e a compiere attività fisiche non necessariamente impegnative, come camminare.A un mese dall’inizio del digiuno, o nel momento in cui si perde circa un quinto della propria massa corporea, i problemi neurologici aumentano a causa della mancanza di alcune vitamine che deriviamo dall’alimentazione. Si manifestano le prime difficoltà motorie perché il sistema nervoso non riesce a gestire correttamente i segnali, si possono avere problemi di vista e di udito. Il fegato è sottoposto a un forte stress, legato al processo di trasformazione dei grassi, e i reni faticano a ripulire il sangue.Dopo due mesi o una perdita ancora consistente di peso, possono subentrare numerose altre complicazioni, come mostra anche il caso di Alfredo Cospito che ha ormai raggiunto il terzo mese di sciopero della fame. Il normale metabolismo viene compromesso e risultano meno efficienti i processi di termoregolazione, cioè la capacità di regolare la temperatura corporea. Semplificando, la fonte principale del calore prodotto dal corpo umano è il lavoro svolto dalle cellule, la cui attività rallenta in una fase di lunga e prolungata astinenza dal cibo.Il risultato è una sensazione costante di freddo, accompagnata da brividi e tremori. Milia ha detto che Cospito riferisce di non riuscire a placare la sensazione di freddo nemmeno utilizzando più strati di abiti. Non è chiaro se ci siano possibilità di aumentare la temperatura nella cella per ridurre il problema. Per questo motivo il 25 gennaio Cospito aveva provato a farsi una doccia provando a scaldarsi. Dopo avere perso i sensi ed essere caduto fratturandosi il naso, era stato temporaneamente portato in pronto soccorso per ricevere le prime cure di emergenza e bloccare la perdita di sangue.Molte settimane di digiuno causano inoltre problemi nella produzione delle proteine del sangue, che hanno un ruolo molto importante per numerose funzioni legate al sistema immunitario, ma anche alla stessa capacità del sangue di coagularsi. La minore produzione non è dovuta solamente alla mancanza delle sostanze necessarie per produrle, ma anche all’attività di recupero di glucosio partendo dalle proteine. Milia dice che Cospito ha da diversi giorni problemi di questo tipo, con una forte riduzione delle cellule del sistema immunitario, che non ha le risorse necessarie per il proprio funzionamento.Dall’alimentazione otteniamo inoltre importanti minerali come il sodio, tra i più abbondanti nel nostro organismo: in una persona adulta sono presenti nel sangue, nel tessuto osseo, in quello cartilagineo e nei tessuti connettivi circa 90 grammi di questa sostanza. Una parte consistente è diffusa soprattutto nei liquidi extracellulari e ha un ruolo molto importante per regolare il passaggio dei nutrienti all’interno e all’esterno delle cellule.Insieme ad altre sostanze, il sodio contribuisce inoltre alla trasmissione degli impulsi nervosi. Una forte carenza, derivante da un lungo digiuno, compromette queste funzionalità e può portare a rischi di vario tipo, compresi quelli di sviluppare edemi cerebrali, cioè un accumulo di liquidi in parte del cervello che ostacola il flusso sanguigno e di conseguenza l’ossigenazione dei neuroni, con danni potenzialmente molto gravi. Nelle visite effettuate negli ultimi giorni, Milia ha riscontrato una sensibile riduzione dei livelli di sodio di Cospito.Ci sono vari altri minerali che deriviamo dall’alimentazione e che sono essenziali per il buon funzionamento dell’organismo, come il potassio presente in frutta, verdura e legumi. Contribuisce al funzionamento dei muscoli, compreso il cuore, e ha un importante ruolo nel regolare la pressione sanguigna, contrastando gli effetti del sodio. Bassi livelli di potassio fanno aumentare il rischio di soffrire di malattie cardiovascolari, oltre che comportare debolezza muscolare e una generale sensazione di malessere.La somma di tutte queste circostanze ha effetti sulle capacità cognitive, con amnesie a breve termine e più in generale conseguenze sulle condizioni psicologiche di chi sta facendo lo sciopero della fame. Compatibilmente con la situazione, Milia segnala che per ora Cospito mantiene comunque buona parte delle proprie capacità mentali: «Fondamentalmente parla in maniera spedita, non si riscontrano deficit, anche se riferisce di avere ogni tanto qualche amnesia a breve termine». Ha però smesso di assumere alcuni integratori di minerali che gli erano stati consigliati, con l’aggiunta di ulteriori rischi per la sua salute ormai precaria.Oggi la Corte di Cassazione ha anticipato al 7 marzo l’udienza sul ricorso di Cospito, richiesta per non essere più sottoposto al regime del 41-bis, rispetto alla data prevista in precedenza del 20 aprile. Milia aveva ipotizzato che per quel giorno Cospito non sarebbe più stato in vita. La nuova data dell’udienza è stata comunque ritenuta troppo avanti nel tempo, considerate le attuali condizioni di Cospito. Fare previsioni sull’evoluzione dello stato di salute di una persona che si è sottoposta a un digiuno di mesi è pressoché impossibile, perché può essere sufficiente un’infezione imprevista, un evento traumatico o l’ulteriore sbilanciamento di alcuni valori per determinare un peggioramento improvviso.Il processo di recupero di energie dagli organi stessi di Cospito è ciò che viene osservato con più attenzione da Milia: «È pericoloso perché può via via intaccare i muscoli respiratori, che sono responsabili del riempimento e dello svuotamento dei polmoni. Il loro indebolimento può portare a una insufficienza respiratoria grave e alla morte». LEGGI TUTTO

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    Forse ce la siamo presa troppo coi ratti per la peste

    Un nuovo studio ipotizza che i ratti e le loro pulci non ebbero un grande ruolo nel diffondere la “peste nera” nel quattordicesimo secolo, a differenza di quanto teorizzato finora. Secondo il gruppo internazionale di ricerca che se ne è occupato, le condizioni ambientali in buona parte dell’Europa avrebbero reso molto difficile la permanenza della peste per lunghi periodi in quegli animali. L’ipotesi è che quindi la peste fu reintrodotta più volte da Oriente e che i ratti fecero solo temporaneamente da riserva in Europa.La “peste nera” causò la morte di decine di milioni di persone in tutto il mondo, e in particolare nel continente europeo, secondo le stime più condivise. Si ritiene che la pandemia fu causata dal batterio Yersinia pestis, che può venire in contatto con gli esseri umani per via diretta attraverso la puntura delle pulci dei ratti, o per via indiretta se si viene morsi da un ratto o da un altro roditore infetto. Anche se in forma minore, le pulci e i pidocchi degli umani possono a loro volta portare al contagio tra individui.I sintomi della malattia dipendono dalle aree in cui si concentrano le colonie di batteri nell’organismo. A seconda dei casi, la peste può essere polmonare, bubbonica e setticemica: quest’ultima causa una grave infezione delle cellule del sangue, portando a necrosi dei tessuti, che diventano quindi neri e non più vitali. Oggi la peste può essere trattata facilmente con gli antibiotici, ma un tempo in assenza di medicinali adeguati era spesso fatale.La peste nera in Eurasia, che raggiunse il picco in Europa nella prima metà del Trecento, ebbe effetti catastrofici: causò a seconda delle stime la morte di 75 – 200 milioni di persone. Gli storici stimano che comportò la morte del 30 – 60 per cento di tutti gli europei, riducendo la popolazione mondiale da 450 milioni di persone a 360 circa nel Quattordicesimo secolo (furono necessari quasi tre secoli perché la popolazione mondiale tornasse ai livelli pre-peste).Ricostruire le vie del contagio a secoli di distanza non è semplice, ma è molto importante per comprendere come si diffondono le malattie, argomento con cui facciamo i conti da tre anni a causa della pandemia da coronavirus. Per questo il gruppo di ricerca guidato da Nils Stenseth dell’Università di Oslo (Norvegia) ha realizzato uno studio per comprendere meglio il ruolo che ebbero i roditori durante la peste nera.Solitamente la peste inizia nei roditori e poi passa agli esseri umani a causa di qualche casuale contatto con quegli animali o i loro parassiti. La malattia mantiene una propria presenza nel lungo periodo nei roditori, utilizzandoli come riserva.Come raccontano sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), Stenseth e il suo gruppo di ricerca hanno esaminato le caratteristiche del suolo, le condizioni climatiche e le varie specie di roditori che all’epoca della peste nera vivevano in Europa. Secondo le loro analisi, tutti questi fattori possono influire sulla permanenza della peste nelle riserve. L’alta concentrazione di alcuni elementi nel suolo, come rame e ferro, così come temperature più basse del solito in un certo periodo e poche piogge possono favorire la maggiore durata delle riserve, anche se non sono ancora molto chiare le cause.Sulla base di questi dati e della loro analisi, lo studio ritiene che non ci fossero le condizioni per avere molti roditori che facessero da riserva per la peste tra la metà del Trecento e gli inizi del diciannovesimo secolo in Europa. C’erano invece le condizioni perché ciò avvenisse in Cina e più in generale nell’Asia centrale, dove analisi del DNA e documenti molto antichi offrono indizi sulla presenza della peste per millenni. Quando arrivò per la prima volta in Europa, la peste trovò nei roditori selvatici la riserva ideale, ma solo nel breve-medio termine. Le condizioni ambientali non erano invece ideali per la sua persistenza, di conseguenza il gruppo di ricerca ritiene che ci furono più casi di importazione della peste dall’Asia nel corso del tempo.Lo studio ha poi analizzato le varie epidemie causate dalla peste, per valutare l’effettivo ruolo dei ratti nel diffondere la malattia. La peste interessò l’Europa una prima volta tra l’inizio del sesto secolo e la fine dell’ottavo. La seconda si presentò nei primi decenni del quattordicesimo secolo e durò, a fasi alterne, per 500 anni. Infine, la terza avvenne alla fine dell’Ottocento e perdura ancora oggi, seppure con una quantità di casi relativamente limitata.Il tipo di peste più diffusa fu comunque quella bubbonica. La peste iniziata intorno al 1330 ebbe un alto tasso di letalità e si diffuse molto rapidamente, se confrontata con altri periodi in cui la malattia era comunque molto diffusa. Le differenze derivavano certamente dall’aumento degli scambi commerciali tra Occidente e Oriente, che portavano di conseguenza a maggiori contatti, ma la peste fu comunque tra le malattie a più rapida diffusione mai osservate fino ad allora e per vari secoli successivi.Il gruppo di ricerca ha ricostruito la velocità di diffusione della malattia su base giornaliera e ha concluso che si propagò molto più velocemente rispetto alla capacità dei roditori di spostarsi da una parte all’altra dell’Europa. Le stagioni in cui si diffuse la malattia non sono inoltre pienamente compatibili con le fasi di sviluppo e crescita delle pulci dei ratti, considerate uno dei principali vettori della malattia.Lo studio elenca varie altre discrepanze tali da mettere in dubbio il ruolo dei roditori nel diffondere la malattia, in particolare nel caso della peste bubbonica. Gli esiti della ricerca si avvicinano alle teorie di altri esperti, che ipotizzano che la malattia si diffondesse molto più facilmente e rapidamente da persona a persona, con un basso coinvolgimento dei ratti, una volta che era iniziata l’epidemia. Il nuovo studio non è comunque definitivo e saranno necessari ulteriori approfondimenti, con collaborazioni tra scienziati e storici per ricostruire l’andamento di una delle malattie che più incisero nella storia e nello sviluppo del continente europeo. LEGGI TUTTO

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    L’inquinamento luminoso è in rapido aumento

    Una nuova ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Science ha segnalato come il fenomeno dell’inquinamento luminoso sia in rapido aumento, a un ritmo superiore rispetto a quanto stimato finora. Secondo il gruppo di ricerca, se il bagliore notturno continuerà ad aumentare a questi ritmi, in una ventina di anni potrebbero più che dimezzarsi le stelle visibili a occhio nudo in varie parti del mondo. La grande quantità di luce artificiale non è solo un problema per le osservazioni astronomiche, ma anche per i cicli sonno-veglia della popolazione e di numerose specie di animali.Insieme ai propri colleghi, Christopher Kyba, un fisico presso il Centro tedesco di ricerca per le geoscienze, ha analizzato i datti raccolti tra il 2011 e il 2022 da Globe at Night, una iniziativa avviata dal National Optical-Infrared Astronomy Research Laboratory (NOIRLab) negli Stati Uniti per raccogliere le segnalazioni di astrofili sulle stelle e gli altri corpi celesti osservabili a occhio nudo in determinati periodi dell’anno. Raccolte in grande quantità, queste segnalazioni consentono di farsi un’idea piuttosto accurata dell’inquinamento luminoso in varie aree del pianeta.Il gruppo di ricerca ha analizzato 51.351 osservazioni fornite tra il 2011 e il 2022 dai volontari di Globe at Night e le ha incrociate con altri dati, come le osservazioni effettuate da alcuni satelliti puntati verso la Terra proprio con lo scopo di rilevare l’intensità del bagliore notturno. I risultati ottenuti hanno permesso di stimare molto più accuratamente il livello di inquinamento luminoso, che per varie ragioni non può essere misurato molto facilmente dall’orbita terrestre con gli attuali strumenti.Nel 2017, le sole misurazioni satellitari avevano portato a calcolare un aumento del bagliore notturno medio globale del 2 per cento all’anno, ma la mancanza di sensori adeguati per rilevare la luce molto fredda (“luce blu”) emessa da molti tipi di lampade fluorescenti e a LED rendeva poco credibile il dato. All’epoca vari gruppi di ricerca avevano segnalato di essere molto scettici sul dato del 2 per cento.La nuova ricerca segnala che in Europa il bagliore notturno aumenta del 6,5 per cento ogni anno e che quello nel Nord America del 10,4 per cento. Nei paesi in via di sviluppo sono attivi meno volontari di Globe at Night, di conseguenza è più difficile fare stime accurate. Sulla base delle rilevazioni satellitari, per quanto carenti, il gruppo di ricerca ritiene che l’aumento del bagliore notturno stia avvenendo più velocemente su base annua, fatte le dovute proporzioni.Ci sono vari modi per calcolare il bagliore notturno, che semplificando può essere definito come il rapporto tra la luminosità che viene misurata in un certo momento e quella che avrebbe normalmente il cielo, se non ci fossero sorgenti artificiali. A causa dei fenomeni di rifrazione nell’atmosfera, un bagliore diffuso derivante dalla luce solare è sempre presente, per esempio.Kyba ha spiegato che: «Se questo andamento proseguirà, i bambini nati oggi in un’area in cui a causa dell’inquinamento luminoso possono vedere 250 stelle assisteranno a un quadruplicarsi del bagliore notturno entro il loro diciottesimo compleanno, di conseguenza vedranno solamente 100 stelle». I numeri sono naturalmente riferiti a un’ipotetica porzione di cielo, ma rendono l’idea sulla drastica diminuzione di corpi celesti che potranno essere osservati a occhio nudo.Il nuovo studio sta facendo discutere soprattutto perché i suoi risultati sembrano mettere in dubbio le politiche adottate da vari paesi, proprio per ridurre l’inquinamento luminoso. I provvedimenti assunti, come l’impiego di nuovi lampioni che dirigano la luce solamente verso il basso, non sembrano essere sufficientemente efficaci od osservati a dovere. È bene comunque ricordare che la ricerca è un progresso importante rispetto alle stime precedenti, ma che solo con migliori strumenti di misurazione dall’orbita terrestre si potranno trarre informazioni più accurate per valutare il problema. Satelliti di nuova generazione potranno offrire ulteriori elementi, anche sulle aree del mondo dove è minore la presenza degli esseri umani.L’esistenza dell’inquinamento luminoso non è comunque messa in discussione ed è sufficiente osservare il cielo di notte in buona parte delle città dei paesi sviluppati per accorgersene. Oltre alle segnalazioni di astronomi e astrofili, negli ultimi anni sono state prodotte numerose ricerche per segnalare i danni dell’eccessiva luminosità notturna sulla fauna, e più in generale sugli ecosistemi. Anche a grande distanza dalle città, gli animali possono patire i forti bagliori di luce, modificando le proprie abitudini e sovvertendo i ritmi di sonno e veglia di prede e predatori, oppure i tempi e i percorsi scelti da alcune specie di animali migratori. LEGGI TUTTO