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    L’India ha ricevuto dal Sudafrica 12 ghepardi per il suo progetto di reintroduzione della specie

    Sabato 12 ghepardi provenienti dal Sudafrica sono arrivati alla base dell’aeronautica indiana di Gwalior, nell’India settentrionale, e prossimamente saranno portati nel vicino Parco nazionale di Kuno-Palpur: fanno parte dell’ambizioso piano per la reintroduzione della specie nel paese e saranno aggiunti agli otto ghepardi che l’India aveva ricevuto dalla Namibia a settembre.In passato i ghepardi erano presenti in gran numero non solo in Africa, ma anche in alcune zone dell’Asia, dalla penisola arabica all’Afghanistan: oggi la popolazione asiatica di ghepardi è praticamente scomparsa a causa della riduzione del suo habitat per via delle attività umane, della scarsità di cibo legata a una più generale riduzione delle popolazioni di animali selvatici, e della caccia. Durante la dominazione britannica dell’India, i ghepardi venivano uccisi per evitare che sbranassero il bestiame e nel paese non ce ne sono più almeno dal 1952: da allora si era provato più volte a reintrodurli, finora senza successo. Nel 2020 la Corte Suprema indiana aveva stabilito che la specie potesse essere reintrodotta, a patto che il tentativo venisse condotto in un «territorio scelto accuratamente». Sono stati chiesti alla Namibia e poi al Sudafrica perché sono i paesi in cui vivono le più grandi popolazioni selvatiche di ghepardi; in Sudafrica in particolare si stima che ce ne siano troppi per le risorse a loro disposizione e per questo anche in passato ne sono stati donati alcuni ad altri paesi. A gennaio l’India ha detto che progetta di accogliere 12 ghepardi all’anno dai due paesi africani per i prossimi 8-10 anni.Quelli arrivati in India sabato saranno portati in elicottero al parco di Kuno-Palpur e inizialmente saranno liberati in una zona recintata per un periodo di quarantena.I ghepardi sono una specie considerata «vulnerabile» all’estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione. Dovrebbero essercene circa settemila in natura in tutto il mondo.– Leggi anche: Anche i ghepardi fanno le fusa Due ghepardi all’interno di un’area recintata in una riserva vicino a Bella Bella, in Sudafrica, il 4 settembre 2022: erano in quarantena in attesa di essere portati all’estero (AP Photo/Denis Farrell, LaPresse) LEGGI TUTTO

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    La seconda vita della Tenda Rossa

    La Sala del Consiglio del Castello Sforzesco di Milano si riempì velocemente: in molti volevano vedere dal vivo la “Tenda Rossa”, che per quasi cinquanta giorni era diventata l’unico rifugio possibile per i nove superstiti del dirigibile Italia nell’Artico. Ne avevano letto per settimane sui giornali, e ora in quella calda giornata di fine agosto del 1928 potevano vederla dal vero, dopo averla immaginata per settimane come un piccolo punto rosso su una grande piattaforma di ghiaccio alla deriva. Quando infine la videro, dietro ai cordoni che impedivano di avvicinarsi troppo, alcuni rimasero sorpresi: la Tenda Rossa di cui tanto avevano letto e sentito parlare non era poi così grande e soprattutto non era rossa.A quasi un secolo di distanza, ora la Tenda Rossa è nuovamente visibile al pubblico, dopo un lungo e difficile lavoro di restauro condotto dal Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. In una grande teca, questa sì rossa, uno dei più importanti cimeli delle esplorazioni polari italiane del Novecento può essere osservato nei sotterranei del museo a nove metri di profondità: in futuro sarà collocato in una nuova area espositiva, dove sarà raccontata l’impresa del dirigibile Italia e il ruolo centrale che ebbe quella tenda. Quasi un secolo fa, la tenda era arrivata a Milano insieme a Umberto Nobile, l’ingegnere e generale della Regia Aeronautica che aveva provato a trasformare un grande e tragico fallimento in un’impresa eroica, raccontata e sfruttata dalla propaganda del regime fascista. Erano gli anni dei nuovi progressi nelle esplorazioni polari, in cui molti paesi concorrevano per dimostrare la propria superiorità scientifica e tecnologica. Dopo innumerevoli tentativi di avvicinamento, negli anni Venti il Polo Nord sembrava essere una meta più semplice da raggiungere, anche grazie ai dirigibili.E proprio Nobile era stato insieme all’esploratore norvegese Roald Amundsen il protagonista di un primo importante successo nell’Artico. A bordo del dirigibile Norge di costruzione italiana, il 12 maggio del 1926 i due avevano compiuto il primo sorvolo del Polo Nord, dimostrando come i dirigibili avessero grandi potenziali per le esplorazioni geografiche. La spedizione non aveva però consentito di raccogliere molte informazioni scientifiche e cartografiche nell’Artico.Il Norge nel 1926 (Kirby/Getty Images)Tornato in Italia, Nobile si era quindi dato da fare per organizzare una nuova spedizione, incontrando non poche resistenze da parte di vari esponenti dell’aeronautica militare italiana, convinti che le spese militari dovessero concentrarsi nello sviluppo e nella costruzione degli aeroplani, che avevano reso secondari i dirigibili militari. Nonostante le resistenze, Nobile si era comunque ricavato una certa notorietà grazie all’impresa del Norge e riuscì a raggiungere qualche compromesso per avviare la nuova missione, che sarebbe stata in parte sostenuta da un comitato finanziatore organizzato con una sottoscrizione a Milano.L’Italia era un dirigibile semirigido, come il Norge: era lungo 105 metri e aveva un diametro massimo di 19,4 metri. Nella parte inferiore aveva una navicella di comando, cioè la parte dove rimaneva l’equipaggio, e utilizzava tre motori a elica per spostarsi, con la possibilità di raggiungere una velocità massima di poco superiore ai 100 chilometri orari.Nobile aveva fatto approntare un verricello, che sarebbe dovuto servire per calare due esploratori in corrispondenza del polo. Avrebbero portato con sé strumenti per condurre rilevazioni ed esperimenti, sulle caratteristiche dell’atmosfera e sul magnetismo terrestre, insieme a una tenda – quella tenda – che avrebbe consentito loro di rimanere al riparo per qualche ora su parte della banchisa, il “pack”, prima di tornare a bordo del dirigibile.La Tenda Rossa esposta al Castello Sforzesco di Milano (Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)La tenda era stata prodotta dall’azienda milanese Ettore Moretti su progetto dell’ingegnere Felice Trojani, collaboratore di lunga data di Nobile. Era a pianta quadrata di 2,7 metri per lato e con una fascia perimetrale alla base di circa 30 centimetri. La parte inferiore aveva la forma di un parallelepipedo sormontato da una struttura piramidale, il cui vertice era a 2,5 metri dal suolo. La caratteristica più evidente era il piccolo tunnel di ingresso “a manica a vento”, pensato per chiudersi su se stesso in modo da ridurre la dispersione di calore verso l’esterno. Su un dirigibile ogni chilogrammo in più conta, per questo la tenda era stata progettata senza una struttura interna vera e propria: c’era un’asta centrale, cui venivano poi assicurati i cavi, cuciti direttamente all’interno del tessuto e posti in tensione assicurandoli ad alcuni picchetti da piantare nel ghiaccio.La scelta del materiale non fu semplice perché all’epoca le uniche fibre tessili utilizzabili erano quelle naturali, meno resistenti di quelle sintetiche di cui disponiamo oggi. Si decise di utilizzare la seta per via delle sue fibre molto lunghe, che consentivano di produrre un tessuto resistente, ma al tempo stesso flessibile. La seta ha inoltre buone capacità isolanti ed è leggera, particolare non trascurabile per una tenda che sarebbe stata probabilmente spostata varie volte.La tenda per il Polo Nord erano in realtà due tende, una dentro l’altra. Quella esterna era in tessuto di seta grezza non tinto, mentre quella interna era realizzata in taffetà di seta blu-petrolio. Il doppio strato aumentava la capacità isolante e la colorazione interna era stata pensata per ridurre i rischi di oftalmia delle nevi, un disturbo visivo che si può verificare dopo una lunga esposizione al riflesso dei raggi ultravioletti dalla superficie della neve e del ghiaccio.La Tenda Rossa nel corso del restauro nei laboratori del museo (Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)Il tessuto fu sottoposto a un processo di impermeabilizzazione e fu dedicata particolare attenzione al fondo della tenda, su consiglio del norvegese Helmer Julius Hanssen, altro grande esploratore polare che nelle proprie spedizioni aveva notato come sotto le tende si formassero spesso pozze d’acqua dovute al parziale scioglimento del ghiaccio su cui venivano montate. Era sufficiente il calore prodotto dal corpo degli occupanti o di una piccola stufa per far sciogliere uno strato d’acqua che impregnava poi il fondo della tenda rendendo molto difficile la permanenza al suo interno.Dopo avere caricato la tenda, viveri e altre attrezzature, Nobile insieme a un equipaggio di diciassette persone partì con l’Italia da Baggio, vicino a Milano, nella notte del 15 aprile 1928. Il viaggio fu lungo e comprese numerosi scali fino all’arrivo il 6 maggio alla Baia del Re, un lungo fiordo di Spitsbergen, la più grande delle Isole Svalbard e la stessa da dove era partita la spedizione del Norge un paio di anni prima. Nella zona era stata inviata anche la Città di Milano, una nave posacavi modificata per fornire appoggio e gestire parte delle comunicazioni radio con il dirigibile.Tra l’11 e il 18 maggio, il dirigibile Italia condusse due primi voli artici sia per verificare il comportamento del veicolo esposto alle rigide temperature polari, sia per esplorare zone ancora poco conosciute e fare rilievi cartografici e di profondità del mar Glaciale artico. Considerato il buon risultato ottenuto con il secondo volo, che aveva permesso di coprire circa 4mila chilometri in tre giorni, Nobile confermò l’obiettivo della terza esplorazione: il Polo Nord.Il dirigibile Italia a Baia del Re, nelle Svalbard, prima dell’ultima escursione al Polo Nord (Topical Press Agency/Getty Images)Era da poco passata la mezzanotte del 24 maggio, in meno di 20 ore il dirigibile Italia aveva raggiunto l’obiettivo, ma i forti venti non resero possibile il trasferimento di parte dell’equipaggio sulla calotta polare. Furono gettati dall’alto alcuni oggetti per lasciare traccia del passaggio dell’Italia, compresi una bandiera italiana e il simbolo della città di Milano, i cui privati avevano finanziato una parte importante della spedizione. La mancata discesa non aveva turbato più di tanto il morale delle 16 persone a bordo: c’erano stati festeggiamenti, la canzone “Giovinezza” fu riprodotta con un grammofono e furono inviati messaggi radio a Benito Mussolini, al re Vittorio Emanuele III e a papa Pio XI.Due ore dopo fu avviata la fase di rientro, ma i forti venti impedirono al dirigibile di allontanarsi dalla zona facendo rotta verso Baia del Re. Ventiquattro ore dopo, non era stato ancora compiuto metà del percorso di rientro, con i motori che non riuscivano a far prendere velocità al dirigibile. La mattina del 25 maggio, complice la stanchezza, Nobile aveva calcolato male la posizione dell’Italia, ritenendo di essere centinaia di chilometri più a ovest di dove in realtà si trovasse. Furono effettuate altre verifiche, ma intanto il dirigibile faticava a mantenere un assetto corretto e perdeva ciclicamente quota.Alle 10:30 l’Italia si era inclinato verso il suolo dal lato della coda, senza grandi possibilità di manovra dei motori per recuperare l’assetto. La discesa continuò e in meno di tre minuti la coda e la navicella si scontrarono contro una piattaforma di ghiaccio sottostante. L’involucro del dirigibile non subì molti danni, mentre la parte destra della navicella si sfasciò sbalzando verso l’esterno Nobile e altre nove persone dell’equipaggio. Una di loro morì poco dopo a causa di una emorragia interna dovuta all’impatto, i restanti sei membri dell’equipaggio ancora a bordo rimasero intrappolati mentre il dirigibile, ormai più leggero, iniziava a riprendere quota trasportato alla deriva dai venti. Non fu mai ritrovato, così come le sei persone che si era portato via.I superstiti notarono che sulla banchisa si era sparso del materiale caduto insieme a loro dalla navicella del dirigibile: una radio, strumenti per misurare le coordinate, rifornimenti e la tenda progettata per chi si sarebbe dovuto fermare brevemente al polo nei piani originali della missione. In poco tempo, Nobile e gli altri realizzarono di essere su una grande lastra di ghiaccio alla deriva a nord ovest delle Svalbard. Montarono la tenda stipandosi al suo interno come potevano, considerato che non era stata progettata per nove persone e che due di loro erano ferite. Il marconista Giuseppe Biagi iniziò a trasmettere un messaggio con una richiesta di aiuto, sperando che venisse intercettato dalla nave appoggio Città di Milano, ma senza ricevere per giorni risposta:SOS Italia. Nobile. Sui ghiacci presso l’isola di Foyn, Nord-Est Spitzbergen, latitudine 80° 37’, longitudine 26° 50’ est di Greenwich. Impossibile muoversi mancando di slitte e avendo due feriti. Dirigibile perduto in altra località.Il 6 giugno Biagi stava trascrivendo i messaggi che riusciva a captare con la radio, alzò la testa e si voltò verso i propri compagni nella tenda: «Ci hanno intesi!». Dopo 12 giorni trascorsi sulla piattaforma di ghiaccio c’era infine la conferma che la richiesta di aiuto fosse stata ricevuta da qualcuno. Nella tenda si era diffusa una certa euforia, benché fosse evidente a tutti che sarebbe stato necessario molto tempo prima dell’arrivo dei soccorsi.Il dirigibile Italia in una cartolina d’epoca (Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)Sperduti su una piattaforma di ghiaccio nell’Artico, protetti da una tenda di seta color avorio, i superstiti temevano di non essere avvistati dalle squadre di soccorso che avrebbero sorvolato la zona. Il 9 giugno decisero di tingerne parzialmente il tessuto con l’anilina, un liquido oleoso contenuto in fiale di vetro che venivano lanciate dal dirigibile per stimarne la quota e per creare punti di riferimento sul ghiaccio sottostante. L’anilina è incolore, ma a contatto con l’ossigeno si ossida e assume un colore rosso-bruno. Fu in quel giorno che una semplice tenda era diventata la “Tenda Rossa”, un piccolo avamposto tra i ghiacci per nove italiani sopravvissuti alla fine del loro dirigibile che li aveva lasciati lì.In pochi giorni l’anilina era già scolorita a causa del costante irraggiamento solare dell’estate artica, ma complici le numerose cronache di giornale, nell’immaginario di tutti la tenda sarebbe rimasta per sempre rossa. Era intanto partita una mobilitazione internazionale con varie iniziative per andare in soccorso della spedizione italiana, seppure poco coordinate tra loro. A recuperare i superstiti del dirigibile Italia ci provò anche Amundsen con il suo idrovolante Latham 47, ma scomparve in mare. Amundsen fu una delle nove persone che morirono nel tentativo di raggiungere i superstiti nella Tenda Rossa.Umberto Nobile fu il primo a essere portato in salvo il 23 giugno, mentre le operazioni di salvataggio per il resto dell’equipaggio terminarono una ventina di giorni dopo. A fasi alterne e ospitando anche alcuni soccorritori rimasti bloccati, la Tenda Rossa fu un riparo sicuro per 48 giorni. Malconcia dopo essere rimasta così tanto tempo esposta agli elementi nell’Artico, fu smontata e portata in salvo insieme al resto dei superstiti. Poco più di un mese dopo era 4mila chilometri più a sud, nella Sala del Consiglio del Castello Sforzesco donata da Nobile a Milano, la città dove era stata costruita.Negli anni seguenti ci furono polemiche e critiche soprattutto nei confronti di Nobile, per come aveva gestito la spedizione e per essere stato tratto in salvo molti giorni prima del resto dei superstiti. Le cause stesse della fine disastrosa del dirigibile Italia non furono chiarite, al punto che ancora oggi le circostanze di quell’incidente continuano a essere discusse. Tra diatribe e incertezze, la Tenda Rossa rimase l’emblema di quella missione polare italiana. Nella memoria collettiva l’idea che fosse effettivamente una tenda dal colore rosso vivo fu rafforzata dal film La Tenda Rossa del 1969. Mikheil Kalatozishvili, il regista georgiano che l’aveva girato, si era preso alcune licenze, volendo del resto raccontare una vicenda ispirata solo in parte a quella di Nobile.La locandina del film “La Tenda Rossa”La Tenda Rossa fu compresa nelle collezioni del Civico Museo Navale Didattico e nei primi anni Cinquanta fu trasferita nel Museo della Scienza e della Tecnica (ora della Tecnologia) all’epoca in fase di costituzione sempre a Milano. Non era sempre visibile al pubblico, passò molto tempo ripiegata nei magazzini e fu esposta un’ultima volta nel 1998 in occasione della mostra per il settantesimo anniversario della spedizione del dirigibile Italia. Negli anni seguenti divenne evidente quanto fosse necessaria una difficile opera di recupero: la seta si era profondamente degradata e c’era il rischio concreto di perdere la Tenda Rossa.Il restauro fu avviato nel 2008 e affidato a Cinzia Oliva, restauratrice ed esperta nella conservazione e nel recupero dei tessuti. Dai primi esami emerse che la tenda non poteva essere più conservata ripiegata su se stessa in deposito, altrimenti il filato avrebbe continuato a tagliarsi e sgretolarsi. Fu avviata un’analisi coinvolgendo il Laboratorio di Diagnostica dei Musei Vaticani, in modo da pianificare tutti i passaggi e ridurre i rischi. «Abbiamo dovuto pensare prima a tutto il peggio che ci potesse capitare», ha spiegato Oliva raccontando il lungo lavoro di restauro durato anni: «Molte parti erano state rifatte per alcune mostre e allestimenti, abbiamo disfatto e rifatto alcune cuciture originali, senza rimuovere comunque gli interventi precedenti che fanno parte della storia della tenda».I 48 giorni di costante esposizione al sole nell’Artico, al ghiaccio e al vento avevano accelerato l’invecchiamento del tessuto della tenda, così come alcuni interventi impermeabilizzanti che erano stati effettuati nella sua fase di produzione. La Tenda Rossa era stata inoltre conservata con minori accortezze rispetto a quanto si faccia oggi con cimeli di questo tipo, portando a un ulteriore deterioramento. La parte esterna color avorio e quella interna blu petrolio «avevano perduto la loro tenuta meccanica e non erano più in grado di sostenere il proprio peso» dice Oliva, di conseguenza non si sarebbero potuti utilizzare l’asta centrale e i cavi per tenderla e mantenerla montata.La restauratrice Cinzia Oliva al lavoro su alcuni frammenti della Tenda Rossa (Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci)La tenda si presenta comunque come doveva apparire sulla banchisa quasi 95 anni fa grazie a una scheletro in alluminio modulare, che è stato realizzato per evitare che il tessuto sia messo in tensione e subisca ulteriori sollecitazioni. Al termine del lungo restauro, durato più di dieci anni, è stata collocata all’interno di una grande teca – ovviamente rossa – per tenerla al riparo dalla luce quando non viene esposta. È una via di mezzo tra una vetrina e un container, come quelli che vengono utilizzati ai poli per i moduli abitativi o per conservare del materiale.(Valentina Lovato | il Post)Tutto ciò che poteva essere lasciato per mostrare gli effetti di quei 48 giorni nell’Artico è stato mantenuto. Il tunnel d’ingresso è annerito, per esempio, e ci sono macchie di grasso lubrificante in vari punti, che probabilmente si trasferì sul tessuto quando fu portata a bordo del Krassin, il rompighiaccio che soccorse alcuni dei sopravvissuti dell’Italia.Una lieve traccia del colorante rosso (Valentina Lovato | il Post)«La tenda è restaurata ed è “condannata” a essere visibile al pubblico, nel senso che per la sua conservazione è necessario che sia installata e montata come la vedete oggi» ha detto Marco Iezzi, curatore dell’area Trasporto del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.Il restauro ha dato una seconda vita alla Tenda Rossa e la “condanna” permetterà nei prossimi anni a chi visiterà il museo di osservare da vicino un pezzo della storia delle esplorazioni polari italiane. Come in quell’estate di quasi un secolo fa al Castello Sforzesco, probabilmente qualcuno si stupirà nello scoprire che quella Tenda Rossa di cui ancora oggi si parla non è affatto rossa. Eppure, osservando con attenzione e un poco di pazienza, potrà intravedere qualche lievissima traccia del colorante usato dai nove superstiti dell’Italia per farsi trovare sul pack. LEGGI TUTTO

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    Intorno all’Antartide c’è meno ghiaccio del solito

    Il 13 febbraio la superficie dell’oceano Antartico coperta da ghiacci ha raggiunto l’estensione minima dal 1979, ovvero da quando la misuriamo utilizzando i satelliti. È normale che in questo periodo intorno all’Antartide ci sia meno ghiaccio, dato che siamo alla fine dell’estate australe, ma quest’anno è meno del solito. Secondo le rilevazioni della NASA e le successive analisi del National Snow and Ice Data Center (NSIDC), un centro studi di ricerca americano, all’inizio di questa settimana solo 1,91 milioni di chilometri quadrati di mare attorno all’Antartide erano coperti dalla banchisa: per un confronto, la media degli ultimi quarant’anni dell’estensione minima è superiore ai 2,5 milioni di chilometri quadrati.Già nel 2022 era stato registrato un record negativo (1,92 milioni di chilometri quadrati) ed è probabile che il minimo per il 2023 sarà ancora inferiore, dato che generalmente l’estensione dei ghiacci nell’oceano Antartico arriva al suo minimo tra il 18 febbraio e il 3 marzo – l’anno scorso ci si era arrivati il 25 febbraio. Il precedente record negativo risaliva invece al 2017. Tuttavia, diversamente da quanto si potrebbe pensare, non si può ricondurre la riduzione dell’estensione dei ghiacci antartici estivi degli ultimi anni automaticamente al cambiamento climatico. I fenomeni che influenzano l’estensione dei ghiacci intorno all’Antartide sono molti e complessi. Finora non se ne è vista una pronunciata diminuzione come è successo invece nel mare Artico. Le due regioni polari del pianeta sono tuttavia molto diverse: in corrispondenza del Polo Nord e attorno a esso c’è quasi solo mare circondato da terre, il nord del Canada, della Groenlandia, della Scandinavia e della Russia, mentre l’Antartide è un continente circondato da un oceano. Per via delle sue caratteristiche geografiche il mare Artico è una delle regioni della Terra più influenzate dal riscaldamento globale e lì la diminuzione del ghiaccio marino – superiore al 12 per cento nell’ultimo decennio – è sicuramente legata ai cambiamenti climatici causati dalle attività umane.Mappa dell’Antartide che mostra l’estensione dei ghiacci marini attorno al continente il 13 febbraio 2023 secondo le rilevazioni con sensori a microonde dei satelliti della NASA: la presenza di ghiaccio è indicata con una scala di colori che va dal bianco al blu e che indica la percentuale di superficie marina ghiacciata. Si considera “coperta da ghiacci” la superficie marina se la percentuale è superiore al 15 per cento. La linea arancione indica l’estensione mediana dei ghiacci relativamente al periodo 1981-2010 (National Snow and Ice Data Center)Per quanto riguarda l’Antartide, negli ultimi decenni l’area minima coperta dai ghiacci intorno all’Antartide è aumentata e diminuita in modo molto variabile. Solo negli ultimissimi anni si è vista una tendenza discendente, ma non è detto che sia dovuta all’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera. Sappiamo peraltro che all’inizio del Novecento l’estensione dei ghiacci marini antartici era generalmente minore di quella che poi è stata nel corso del secolo successivo.È probabile che il record di quest’anno sia stato influenzato dalle temperature particolarmente alte che sono state registrate nella Penisola Antartica, la parte del continente che si allunga verso il Sud America: nel corso del 2022 in media sono state superiori di 1,5 °C rispetto al periodo 1991-2022. Potrebbe avere un ruolo anche l’Oscillazione antartica (AAO), quell’insieme di fenomeni atmosferici che avvengono intorno all’Antartide e che ne influenzano il clima, in modo simile a come fa il più famoso El Niño nell’oceano Pacifico. In questo periodo l’AAO è in una fase che rafforza i venti intensi che soffiano intorno al continente più meridionale e che spezzano e allontanano verso nord i banchi di ghiaccio: è dunque probabile che contribuisca a ridurre l’estensione dei ghiacci attorno all’Antartide.La scarsa estensione del ghiaccio marino attorno all’Antartide di quest’anno è ciò che ha permesso alla nave oceanografica italiana Laura Bassi di toccare il punto più a sud mai raggiunto da una nave alla fine di gennaio, secondo quanto dichiarato dal Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA): la latitudine di 78° 44′ 16,8” S nel mare di Ross, più precisamente nella Baia delle balene.La Laura Bassi partecipa alla missione scientifica del PNRA, che è finanziato dal ministero dell’Università e della Ricerca ed è coordinato dal CNR per le attività scientifiche e dall’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) per l’attuazione logistica delle spedizioni, e si trovava nella Baia delle balene per delle attività di pesca scientifica, mirate in particolare a studiare le larve di numerose specie di pesci. Presto, con l’avvicinarsi dell’inverno australe, la nave concluderà la sua missione: dovrebbe raggiungere la Nuova Zelanda il 6 marzo e da lì tornare in Italia entro la seconda metà di aprile.– Leggi anche: Il quinto oceano LEGGI TUTTO

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    Un pezzo del ghiacciaio del Breithorn Occidentale sembra poco stabile

    La scorsa estate il crollo di un pezzo del ghiacciaio della Marmolada che causò la morte di 11 persone fece aumentare le attenzioni dedicate allo stato dei ghiacciai alpini, la cui esistenza futura è minacciata o del tutto compromessa, a seconda dell’altitudine, dal riscaldamento globale. Tra le altre cose, i glaciologi avevano notato l’allargamento di un grande crepaccio nel ghiacciaio del Breithorn Occidentale, una delle vette del massiccio del monte Rosa, al confine tra Italia e Svizzera, che di recente è stato ben fotografato da Marco Soggetto, un appassionato di alpinismo e fotografia. Il Breithorn Occidentale è alto 4.165 metri ed è una delle vette che sovrastano il Grande Ghiacciaio di Verra, peraltro noto per una scena del romanzo di Paolo Cognetti Le otto montagne e del film omonimo che ne è stato tratto. Il crepaccio che si è allargato si trova però nella calotta di ghiaccio sommitale, cioè in cima alla montagna. Si può anche osservare da una webcam sul vicino Piccolo Cervino, ma si vede molto più chiaramente nelle fotografie di Soggetto, che mostrano il Breithorn Occidentale da nord e nello specifico dalla valle Mattertal, in Svizzera: il crepaccio è molto profondo, quasi fino al fondo della calotta, in un punto in cui la pendenza della roccia è elevata.Il glaciologo Giovanni Baccolo ha commentato le immagini con Lo Scarpone, la rivista online del Club alpino italiano (CAI): «Sono impressionanti. La spaccatura ha isolato una grande porzione del ghiacciaio dal corpo principale, trasformandolo in un enorme seracco», ovvero in un blocco di ghiaccio molto separato dal corpo principale del ghiacciaio.Baccolo ha spiegato che per il momento non si può dire se la comparsa del crepaccio sia una conseguenza delle normali evoluzioni di questo specifico ghiacciaio, oppure sia stata influenzata dall’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico. I ghiacciai infatti non sono masse di ghiaccio immobili, e possono cambiare forma per varie ragioni: ad esempio, se grazie all’accumulo di nuova neve aumentano di dimensioni, può succedere che una loro parte collocata su un letto di roccia molto pendente crolli per l’eccesso di peso.Questo potrebbe essere il caso del seracco che si sta formando sul Breithorn Occidentale, dove per via dell’elevata altitudine – molto maggiore rispetto a quella del ghiacciaio della Marmolada, che si trova a meno di 3.400 metri – nonostante l’aumento delle temperature medie la neve continua ad accumularsi. «La presenza di una ripida scarpata di ghiaccio indica che in quel punto il ghiacciaio è normalmente soggetto a crolli», ha detto Baccolo: «Per capire se l’apertura di quel crepaccio così vistoso sia un’anomalia sarebbe opportuno ricostruire il comportamento del ghiacciaio negli scorsi decenni e verificare con quale frequenza quel settore è stato soggetto a crolli e con quali volumi coinvolti».Si stima che il progressivo aumento della temperatura media globale porterà alla scomparsa della maggior parte dei ghiacciai alpini che si trovano al di sotto dei 3.600 metri di altitudine, i “ghiacciai temperati” nel gergo della glaciologia, entro la fine del secolo. Per i ghiacciai più in quota il discorso è un po’ diverso perché hanno caratteristiche differenti.Sopra i 4.000 metri storicamente si parlava di “ghiacciai freddi”, dato che la temperatura al loro interno era molto inferiore agli 0 °C, il punto di fusione del ghiaccio in acqua liquida. In questi ghiacciai, a differenza di quelli temperati, non è dunque quasi presente acqua liquida, e per questa ragione le basi, cioè gli strati di ghiaccio più profondi, sono attaccate alla roccia sottostante: l’intero ghiacciaio è dunque più stabile, mentre nel caso dei ghiacciai temperati c’è un maggiore movimento dovuto allo scorrimento del ghiaccio sull’acqua liquida alla base della massa glaciale. Il problema è che a causa del riscaldamento globale alcuni ghiacciai freddi, quelli che si trovano a quote più basse, si stanno trasformando in ghiacciai temperati.«La velocità con cui si è aperto il crepaccio/seracco sul Breithorn potrebbe dipendere da questa transizione invisibile», ha aggiunto Baccolo, «che richiederebbe accurati sondaggi termici per essere compresa a fondo».L’eventuale crollo di questo specifico seracco tuttavia non è particolarmente allarmante perché quella massa di ghiaccio si trova al di sopra di un’area in cui non ci sono infrastrutture o sentieri percorsi dagli escursionisti. Ci sono solo vie alpinistiche di alta difficoltà sul versante sovrastato dal seracco, ma dato che la sua presenza è nota da tempo è probabile che gli alpinisti che frequentano la zona ne siano bene informati. Non dovrebbero esserci problemi, secondo Baccolo, per quelli intenzionati a salire sul Breihorn Occidentale dalla via normale, che invece si sviluppa su un altro versante.– Leggi anche: Come stiamo studiando il più vasto ghiacciaio alpino italiano LEGGI TUTTO

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    Tornare diciottenni a 45 anni

    Bryan Johnson quest’anno spenderà circa 2 milioni di dollari per la propria salute. Non ha una malattia che richiede costosi trattamenti né patologie sconosciute: semplicemente, vuole fare di tutto per evitare di invecchiare e mira addirittura a ringiovanire. È una fissazione che Johnson ha da qualche anno e di cui si è discusso molto nelle ultime settimane tra appassionati di fitness, “superfood” e integratori dopo che Businessweek l’aveva raccontata in un lungo articolo.Johnson ha 45 anni e si può permettere il trattamento di giovinezza milionario grazie al denaro ricavato dalla vendita della sua società per i pagamenti elettronici Braintree a PayPal, avvenuta una decina di anni fa per 800 milioni di dollari. Non è l’unico tra i milionari della Silicon Valley ad avere sviluppato il pallino per la ricerca di sistemi che invertano i processi di invecchiamento. Proprio intorno al periodo in cui Johnson stava per ricavare centinaia di milioni di dollari, Larry Page, uno dei cofondatori di Google, aveva investito molto denaro in Calico, una società che avrebbe dovuto sviluppare soluzioni per la salute e il benessere, comprese quelle per invecchiare più lentamente. La società esiste tuttora e fa parte di Alphabet, la grande holding che controlla Google, ma non ha portato a particolari risultati nel settore. A differenza di Page e di altri suoi colleghi milionari, Johnson ha preso molto personalmente la questione al punto da sperimentare su se stesso tecniche e soluzioni contro l’invecchiamento. Si fa assistere da una trentina di medici, segue le loro indicazioni e ha in pochi anni cambiato buona parte delle proprie abitudini, da quelle alimentari a quelle legate all’attività fisica. La dedizione non sembra mancargli, ma per i detrattori il grande impegno dimostra più che altro che Johnson è soprattutto interessato a fermare il proprio, di invecchiamento, e non quello del prossimo.Il gruppo di medici è guidato da Oliver Zolman, un medico britannico di 29 anni specializzato in medicina rigenerativa. Per decidere quali strategie mettere in pratica, Johnson e Zolman sono diventati avidi lettori di ricerche scientifiche che si occupano di invecchiamento: ne consultano una grande quantità e decidono poi insieme quali sperimentare. Il punto di partenza è scientifico, ma l’approccio in generale sembra essere meno sistematico e strutturato rispetto a come si organizzano sperimentazioni cliniche e ricerche. Le varie pratiche riguardano del resto una sola cavia: Johnson stesso.(Bryan Johnson)L’obiettivo finale è estremamente ambizioso e prevede che il suo corpo da uomo di mezza età ringiovanisca di quasi trent’anni, arrivando ad avere la forma fisica di un diciottenne. Da più di un anno, le iniziative e gli sforzi per provare a raggiungere questo risultato sono raccolti all’interno di “Blueprint”, un progetto a metà tra un diario sui progressi raggiunti da Johnson e un sito per consigliare ad altre persone le migliori strategie per raggiungere i medesimi obiettivi, possibilmente senza spendere milioni di dollari. Le informazioni scientifiche sono tutto sommato poche, mentre molto spazio è dedicato agli stili di vita da adottare, sulla falsa riga di quelli seguiti rigidamente dal milionario che vuole tornare giovane.Johnson assume ogni giorno poco meno di 2mila calorie seguendo una dieta vegana, dedica un’ora al giorno all’esercizio fisico e va sempre a dormire alla stessa ora, dopo avere indossato per un paio di ore speciali occhiali che filtrano la “luce blu” come quella degli schermi, che può interferire con i cicli sonno-veglia. Utilizzando dispositivi di vario tipo tiene costantemente sotto controllo la propria attività fisica e si sottopone una volta al mese a una lunga serie di test medici: dalle risonanze magnetiche per valutare lo stato degli organi interni alla colonscopia, passando per esami del sangue e visite di vario genere.Uno dei passati che consuma quotidianamente Bryan Johnson (Bryan Johnson)Su Blueprint sono riportati alcuni dati raccolti dai medici che seguono Johnson e che dovrebbero dimostrare i progressi raggiunti finora. Secondo le loro analisi, il quarantacinquenne avrebbe un cuore da trentasettenne, la pelle di un ventottenne e la capacità polmonare di un diciottenne. Le stime sono effettuate confrontando vari parametri per ogni organo con le statistiche raccolte tra popolazioni di varie età, ma non è molto chiaro come siano calcolate. Zolman ha detto comunque a Businessweek di non fare troppo affidamento su quei dati: «Non abbiamo ancora ottenuto particolari risultati. Con Bryan abbiamo raggiungo piccoli e ragionevoli risultati come ci aspettavamo».Johnson è sicuramente tra i clienti più importanti di Zolman, che nel 2021 ha fondato 20one Consulting, una società che offre consulenze legate all’inversione dei processi di invecchiamento. Zolman dice di utilizzare particolari “biostatistiche” per valutare l’efficacia dei trattamenti e si è posto l’obiettivo di raggiungere «una riduzione dell’invecchiamento del 25 per cento nei 78 organi entro il 2030». Riconosce che al momento non ci sono persone di 45 anni che ne dimostrino 35 in tutti gli organi, ma ritiene che Johnson potrebbe essere il primo a raggiungere il risultato, diventando una sorta di esempio e di modello da studiare.Anche in questo caso l’approccio non sembra essere molto scientifico, considerato che i risultati – se mai raggiungibili – riguarderebbero un solo individuo con caratteristiche specifiche. La ricerca scientifica si basa in buona parte sulla possibilità di riprodurre gli esperimenti svolti da altri ottenendo risultati comparabili, cosa che difficilmente avverrà nel caso di un eventuale ringiovanimento di Johnson.Gli “esperimenti” condotti dal milionario a ben guardare non sono molto diversi da ciò cui si sottopongono alcuni atleti per dare il meglio nella loro attività sportiva, seguendo per esempio particolari regimi alimentari e allenamenti. Johnson in un certo senso è un atleta che sta provando a eccellere in una disciplina in cui si cimenta buona parte del genere umano: vivere il più a lungo possibile. Da qui derivano le costanti misurazioni del peso, della massa grassa, della temperatura corporea, dei livelli di glucosio, del battito cardiaco e di molti altri parametri che tiene d’occhio anche un atleta professionista nel corso della propria preparazione.Una sessione di fototerapia (Bryan Johnson)Trattandosi di una disciplina non sottoposta all’antidoping, Johnson assume inoltre una grande quantità di integratori e farmaci. Prende pillole contenenti licopene per la circolazione; curcuma, pepe nero e zenzero per il fegato e per ridurre le infiammazioni; zinco per completare la dieta vegana; fa ricorso al microdosing di litio, cioè all’assunzione di piccole quantità di questa sostanza che dice aiuti la sua salute mentale. L’assunzione di integratori va molto di moda da qualche anno, ma come ricordano medici e nutrizionisti se si ha una dieta bilanciata e non si hanno particolari disturbi gli integratori sono spesso inutili, perché il nostro organismo dispone già delle sostanze di cui ha bisogno, producendole da sé o ricavandole dall’alimentazione.Altri trattamenti cui si sottopone Johnson sembrano essere più orientati all’estetica che all’effettivo ringiovanimento. Ha da tempo deciso di esporsi il meno possibile al Sole, per ridurre l’invecchiamento causato dai raggi ultravioletti, e impiega sette creme diverse da applicare ogni giorno sulla pelle. Si sottopone inoltre a trattamenti come peeling, per rimuovere gli strati più superficiali della pelle, e a trapianti di grasso al viso per rinnovare lo strato di cellule che tengono in tensione la pelle riducendo la formazione di rughe.In più occasioni, Johnson ha raccontato di avere deciso di cambiare vita dopo un periodo di depressione durato una decina di anni, parzialmente coinciso con la fase in cui seguiva la propria startup. Si era sposato, aveva avuto tre figli e infine aveva divorziato. Era sovrappeso e non faceva molto per mantenersi in forma, fino a quando iniziò a interessarsi alle iniziative (spesso più commerciali che scientifiche) nella Silicon Valley per mantenersi in forma, avere dispositivi che analizzino facilmente la propria attività e con i quali programmare dieta, esercizio fisico e più in generale abitudini di vita.Il settore del fitness legato al digitale nell’ultimo decennio è diventato tra i più fecondi e ricchi per le principali aziende tecnologiche, che dedicano grandi risorse alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti come tracker, orologi e altri dispositivi per mantenersi in forma. Queste soluzioni sono alla base di prodotti di successo come gli Apple Watch di Apple o di società nate espressamente allo scopo come Fitbit, acquisita da Alphabet nel 2021. Ci sono stati grandi successi, alcuni fallimenti e storie finite malissimo come nel caso di Theranos, che prometteva esami completi dello stato di salute tramite l’analisi di una goccia del proprio sangue con un dispositivo che non ha mai funzionato.Naturalmente anche nella Silicon Valley ci sono società che studiano l’invecchiamento e i modi per rallentarlo o invertirlo con un approccio più scientifico, coinvolgendo gruppi di ricerca e finanziano le attività nei laboratori di alcune delle università più importanti degli Stai Uniti e non solo. E proprio ad Harvard, tra gli atenei statunitensi più prestigiosi, lavora il biologo australiano David Sinclair diventato famoso grazie ad alcune dichiarazioni altisonanti sui risultati raggiunti dai suoi studi in laboratorio, complice una buona capacità divulgativa e di promozione di se stesso.Bryan Johnson (Dustin Giallanza)A inizio anno, Sinclair ha pubblicato sulla rivista scientifica Cell uno studio sulla “teoria dell’informazione dell’invecchiamento”, secondo cui i nostri corpi invecchiano per la confusione che si accumula col passare del tempo nel materiale genetico. Secondo Sinclair, ogni volta che il DNA subisce un danno e le nostre cellule cercano di ripararlo accumulano nuove modifiche e inevitabili errori, simili a quelli che si ritrovano nei programmi per il computer e che possono poi causare malfunzionamenti. Nello studio, il gruppo di ricerca ha illustrato come sia riuscito a creare una sorta di interruttore biologico per intervenire in quei processi e mettere ordine, invertendo alcuni dei cambiamenti dovuti all’invecchiamento.– Ascolta anche: “Ci vuole una scienza” sul lavoro di SinclairIl lavoro di Sinclair, ricercatore che gode di grande visibilità, è stato accolto con interesse da chi si occupa di invecchiamento, ma per stessa ammissione di chi lo ha realizzato contiene ancora molti aspetti da chiarire e funziona solamente in laboratorio su alcune cavie. È però la dimostrazione di come il settore sia ampiamente esplorato e con approcci più elaborati, e dalle grandi implicazioni, rispetto a interventi di portata diversa come cambiare radicalmente la propria dieta e fare molto esercizio fisico.Johnson non esclude di ricorrere in futuro a trattamenti sperimentali legati alla genetica, anche se i suoi piani in questo senso non sono ancora molto chiari. E proprio la difficoltà a vedere una certa coerenza negli esperimenti su se stesso ha contribuito ad attirargli negli anni le critiche. C’è chi lo ha accusato di avere un disordine dell’alimentazione e problemi psicologici, manifestati dalla sua ossessione sull’invecchiamento, un processo che del resto riguarda qualsiasi essere vivente e che alle attuali conoscenze non può essere evitato. Johnson si considera però un pioniere in un settore che riceverà sempre più attenzioni e non sembra essere molto interessato alle critiche. Anche se vuole tornare diciottenne, ha vissuto abbastanza a lungo per imparare a ignorarle. LEGGI TUTTO

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    I preoccupanti casi di influenza aviaria nei visoni

    Caricamento playerNegli ultimi mesi in Europa e in altre parti del mondo sono stati segnalati numerosi casi di influenza aviaria, non solo tra uccelli selvatici e pollame, ma anche tra alcune specie di mammiferi. I contagi sono dovuti alla diffusione di una variante del virus influenzale H5N1/HPAI ad alta patogenicità, cioè con un’alta capacità di causare la malattia. I contagi hanno reso necessari abbattimenti di animali negli allevamenti e hanno spinto le autorità sanitarie a intensificare i controlli. Per ora non si ritiene che ci sia un immediato pericolo per gli esseri umani, ma il rischio che il virus sviluppi nel tempo nuove capacità per trasmettersi più facilmente rimane.Per buona parte del Novecento, in Europa, Africa e Asia erano stati segnalati di frequente focolai di virus dell’influenza aviaria ad alta patogenicità. Questi erano per lo più limitati agli allevamenti di pollame e potevano essere tenuti sotto controllo abbattendo gli animali contagiati, evitando che il virus si diffondesse tra gli uccelli selvatici con maggiori rischi di contagio. A partire dai primi anni del Duemila le cose sono però cambiate, con un aumento significativo di uccelli selvatici portatori di influenza aviaria, con sporadici casi di contagio da volatili a mammiferi. La presenza di virus appartenenti al sottotipo H5N1 ha reso necessario negli ultimi anni l’abbattimento di milioni di polli e altri animali. L’uccisione di massa è inevitabile perché nella maggior parte dei casi gli allevamenti sono di tipo intensivo, tesi cioè a massimizzare la densità di animali negli spazi loro riservati. Stando costantemente a stretto contatto, polli o tacchini si contagiano con grande facilità, portando in pochi giorni a focolai che comprendono centinaia di migliaia di esemplari.(David Silverman/Getty Images)Negli ultimi anni la situazione è ulteriormente peggiorata, con un aumento dei contagi da H5N1 riscontrati anche nel Nordamerica, dove fino a poco tempo fa il virus veniva raramente rilevato. Non è chiaro che cosa abbia determinato la maggiore incidenza, ma vari gruppi di ricerca ipotizzano che alcune mutazioni casuali abbiano fatto sì che il virus acquisisse la capacità di replicarsi nelle cellule, favorendo quindi una sua più rapida diffusione.Un’altra ipotesi è che le mutazioni abbiano reso il virus più versatile, cioè in grado di contagiare con maggiore facilità specie molto diverse di uccelli, rispetto a cosa fosse in grado di fare prima. Entrambe le teorie sono ancora discusse, ma la loro eventuale conferma potrebbe aggiungere qualche elemento importante per affrontare la situazione.In generale, del resto, i virus influenzali tendono a mutare velocemente e ad avere più possibilità di eludere le difese immunitarie dell’organismo che infettano. Per molto tempo le epidemie di influenza aviaria erano state tutto sommato limitate, anche grazie alla possibilità di effettuare più efficacemente attività di contenimento in allevamenti con una minore concentrazione di animali rispetto a oggi. Nella seconda metà degli anni Novanta le cose iniziarono a cambiare, quando in Cina furono rilevate le prime versioni di virus H5N1. In alcuni casi la comunicazione dei casi alle autorità sanitarie fu tardiva, in un contesto con allevamenti industriali molto grandi.Il virus iniziò a essere rilevato con maggiore frequenza negli uccelli selvatici e in particolare in varie specie di uccelli acquatici migratori, che sviluppavano sintomi lievi, tali da non compromettere i loro spostamenti stagionali di migliaia di chilometri. E proprio le loro migrazioni furono, e sono ancora oggi, una delle cause della ciclica diffusione di virus aviari che raggiungono poi gli allevamenti.La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, almeno a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi svolti negli ultimi mesi. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, volpi e altri animali che probabilmente cacciano e si nutrono di uccelli infetti. Ma è stato soprattutto uno sviluppo dello scorso ottobre ad attirare l’attenzione degli esperti.(Ole Jensen/Getty Images)Come racconta un gruppo internazionale di ricerca sulla rivista scientifica Eurosurveillance, nella prima settimana di ottobre del 2022 in un allevamento di visoni a Carral in Galizia (Spagna) fu notato un tasso di mortalità più alto del solito. La moria era iniziata in uno dei settori dell’allevamento, che comprendeva complessivamente circa 50mila visoni, ma nelle settimane successive si era via via diffusa anche negli altri settori. Furono eseguiti test per verificare la causa della malattia ed emerse un focolaio di H5N1, che rese quindi necessario l’abbattimento di tutti i visoni presenti nell’allevamento, per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.Il gruppo di ricerca non ha riscontrato elementi a sufficienza per risalire alle cause del contagio. Inizialmente si era ipotizzato che i visoni avessero consumato carne di pollo infetta, ma le verifiche sullo stabilimento che forniva il pollame all’allevamento dei visoni non avevano portato a identificare focolai di influenza aviaria. È quindi probabile che il virus fosse stato trasmesso ad alcuni visoni da uno o più uccelli selvatici, considerato che ne erano stati identificati di infetti nella zona nelle settimane prima del focolaio e che l’allevamento non era completamente isolato dall’esterno.Accade di frequente che gli allevamenti intensivi come quelli di visone siano parzialmente aperti, per esempio con gabbie che non sono chiuse nella loro parte superiore, in modo da favorire un migliore ricircolo dell’aria. Ciò rende però più probabile che alcuni animali selvatici riescano a intrufolarsi tra i settori degli allevamenti, facendo aumentare il rischio di nuovi contagi. Alcune specie non sono tanto attirate dai visoni, quanto dalla poltiglia di carne macinata che viene utilizzata come mangime.Come era diventato evidente negli scorsi anni con i casi di coronavirus tra animali, negli allevamenti i visoni vivono a strettissimo contatto tra loro, sono altamente imparentati e hanno di conseguenza una bassa varietà genetica, tutti fattori che possono favorire non solo la diffusione di un virus, ma anche le sue mutazioni. I campioni prelevati a Carral, per esempio, hanno evidenziato la presenza di numerosi cambiamenti nelle caratteristiche genetiche del virus rispetto a quello isolato dagli uccelli.Un tipo di mutazione era già stato osservato in precedenza e si ritiene favorisca la capacità del virus di replicarsi nelle cellule dei mammiferi. È comunque difficile stabilire con certezza quali mutazioni fossero già presenti nella sottovariante isolata nell’allevamento e quali si siano potenzialmente aggiunte in un secondo momento.(AP Photo/Sergei Grits, File)Da quando si è iniziato a riscontrare un aumento di casi di influenza aviaria nel 2021, sono stati identificati pochi casi di contagio che abbiano riguardato esseri umani, entrati in contatto con animali infetti. I casi di contagio tra esseri umani sono pochi e difficili da confermare, il virus finora non ha inoltre sviluppato mutazioni tali da adattarsi al nostro organismo, di conseguenza non costituisce al momento un particolare pericolo. La sua presenza nell’allevamento di visoni mostra comunque la capacità di adattarsi ai mammiferi e aggiunge qualche preoccupazione per gli esperti, considerato che potrebbe acquisire mutazioni tali da diffondersi più facilmente tra gli esseri umani.Dopo la scoperta dell’epidemia di visoni a Carral, undici operatori che erano entrati in contatto con gli animali infetti erano stati sottoposti ai test per verificare l’eventuale presenza del virus, risultando negativi. Il mancato contagio è stato definito rassicurante dagli esperti, ma non deve comunque essere sottovalutato il problema di un virus che sta circolando molto e che in più occasioni riesce a passare da una specie a un’altra.Come era successo nelle prime fasi della pandemia da coronavirus, gli allevamenti intensivi come quelli di visoni sono considerati tra i luoghi più a rischio per la diffusione di varianti. Oltre ad avere deciso l’abbattimento di tutti i visoni dove erano stati riscontrati focolai da coronavirus, alcuni paesi hanno scelto di vietare gli allevamenti di visoni o di regolamentarli molto più rigidamente per provare a ridurre i rischi.Secondo gli esperti, la maggiore diffusione del virus H5N1 riscontrata negli ultimi anni dovrebbe indurre a intensificare la sorveglianza e non solo negli allevamenti di visoni. Il rischio di una nuova pandemia influenzale non può essere completamente eliminato, ma con i giusti accorgimenti e con adeguate politiche sanitarie può essere tenuto basso. LEGGI TUTTO

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    Perché non sappiamo prevedere i terremoti

    Caricamento playerLe case sono crollate e palazzi sono andati in polvere in pochi secondi, dopo che un terremoto di magnitudo 7.8 ha colpito Turchia e Siria lunedì mattina, lasciando i soccorritori nell’affannosa ricerca di qualcuno ancora in vita, tra i tanti morti. Una distruzione così improvvisa e così orribile da chiedersi: com’è possibile che nessuno sapesse che era in arrivo un terremoto?La risposta non è semplice. Fino a oggi gli scienziati non sono stati in grado di prevedere con esattezza dove e come si verificherà un terremoto, sebbene la posta in gioco sia molto alta. Stime dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) attribuiscono ai terremoti all’incirca la metà delle morti causate da disastri naturali negli ultimi due decenni. Molti geologi ritengono pressoché impossibile prevedere un evento sismico con precisione, a causa dell’estrema complessità che l’analisi dell’intera crosta terrestre richiede. Altri credono che saranno piuttosto alcune nuove tecnologie – tra cui l’intelligenza artificiale, che può contribuire a una maggior precisione e rapidità nelle capacità predittive, e gli smartphone, che possono inviare notifiche istantanee alle persone in pericolo – che potranno aiutare a salvare molte vite, in futuro.Tuttavia, anche il migliore degli sforzi tecnologici offre un preavviso di solo pochi secondi – minuti, in rari casi – in ogni caso troppo poco per dare il tempo di evacuare. Gli esperti ammettono che un futuro in cui la tecnologia in nostro possesso diventi in grado di prevedere con esattezza il luogo, l’attimo e l’intensità di un evento sismico sia lontano da venire. E si corre il rischio che previsioni errate possano provocare più danni che vantaggi. «I terremoti si verificano in maniera molto, molto rapida», spiega Christine Goulet, direttrice dell’U.S. Geological Survey Earthquake Science Center (USGS). «È corretto dire che, allo stato attuale, non abbiamo alcuna capacità di prevedere un evento sismico».Il movimento delle placche tettoniche all’origine dei terremoti avviene con estrema lentezza, mentre le rotture si generano in modo istantaneo, dando origine a terremoti che, senza alcun preavviso, provocano caos e distruzione. Anche le scosse più forti registrate di recente – per esempio il terremoto di Haiti del 2010 – si sono presentate del tutto inattese. Per evitare previsioni errate, i geologi hanno iniziato a dare maggior rilievo al calcolo delle probabilità che un evento sismico si verifichi, piuttosto che cercare di prevedere le singole scosse. Gli scienziati utilizzano misurazioni geologiche, dati dei sismometri e rilevazioni storiche per individuare aree ad alto rischio. Tramite modelli statistici, sono quindi in grado di stimare la possibilità che un terremoto si verifichi in futuro.– Leggi anche: Il terremoto che arriveràMa a differenza delle previsioni meteorologiche – divenute più precise grazie al miglioramento dei sistemi di calcolo, dei modelli matematici e dell’avvento di droni e satelliti – la capacità di prevedere i terremoti non è stata in grado di fare simili progressi. Nel corso degli ultimi cinquant’anni, gli scienziati hanno cercato di prevedere i sismi con diversi metodi, ma sempre senza successo. Negli anni Settanta e Ottanta, la ricerca si concentrò su quali siano i segnali che precedono un evento sismico, attingendo a un vario miscuglio di indizi che comprendeva il comportamento degli animali, le emissioni di radon e le possibili alterazioni dei campi elettromagnetici. Capitava, a volte, di arrivare a qualche risultato, ma nulla che potesse ottenere il vaglio della comunità scientifica, racconta John Rundle, professore di fisica e geologia all’Università della California di Davis.Negli anni Ottanta, gli scienziati si convinsero che un segmento della faglia di Sant’Andrea nei pressi di Parkfield, in California, avesse superato la “data di scadenza per un terremoto”. Analizzarono cumuli di dati storici per cercare di individuare una data precisa. Decisero dunque che l’anno della scossa successiva sarebbe stato il 1993, ma il sisma non si verificò fino al 2004, e travolse la California centrale senza alcun preavviso. Fu un errore che Rundle descrive come una “sorta di campana a morto” per la previsione dei terremoti. Da quel momento, molti scienziati si indirizzarono piuttosto verso modelli statistici e calcoli di probabilità, allontanandosi da un’idea di previsione più simile a quella del meteo.Con l’avanzamento della tecnologia, tuttavia, ci sono stati degli sviluppi nei sistemi di preallarme. Ovvero reti che utilizzano i sismografi per individuare e valutare i primi tremiti, e che inviano un segnale di allarme direttamente alle persone, con qualche secondo di anticipo sull’emergere del terremoto. ShakeAlert, un sistema creato dall’USGS, riesce a inviare un messaggio sul cellulare di un utente con un preavviso che va dai venti secondi a un minuto prima dell’arrivo del sisma.I dati provengono dai sensori delle stazioni sismografiche dell’USGS, che misurano l’intensità delle vibrazioni del terreno. Quando questi percepiscono l’arrivo di un terremoto, i computer sono in grado di calcolare la direzione della scossa sismica nell’arco di cinque secondi. Le compagnie telefoniche possono a quel punto diffondere la notifica di allarme tra gli utenti presenti nell’area. È un sistema che funziona perché sia il segnale internet sia la rete cellulare si muovono alla velocità della luce, molto più rapidamente di quanto una scossa sismica possa farsi strada nel suolo.Riuscire a fornire un preavviso che non sia solo di una manciata di secondi è però questione ben più ardua, a detta di molti. Prevedere un terremoto con precisione richiede una mappatura e un’analisi dettagliata della crosta terrestre che indichino in quali punti la probabilità di rottura è maggiore. Gli esperti ribadiscono inoltre un elemento di assoluta casualità nei tempi con cui un terremoto si verifica, terremoto che può talvolta presentarsi senza alcun preavviso. Sebbene la tecnologia ci induca a sperare in un miglioramento, sono in molti a temere che, senza il necessario rigore scientifico, un fallimento di questi nuovi sistemi possa generare un senso di sfiducia nei confronti della tecnologia stessa. «I falsi allarmi hanno conseguenze quasi peggiori delle previsioni corrette», spiega Rundle. «Perché è così che la gente perde fiducia nel sistema».I ricercatori si stanno inoltre interessando all’intelligenza artificiale e ai software di machine learning, in grado di gestire enormi quantità di dati ed individuare andamenti e modelli. La speranza è che una capacità di analisi più rapida rispetto a quella umana aiuti gli scienziati a capire cosa accade prima di un evento sismico, in modo da poter individuare eventuali segnali di allarme. Per esempio, aggiunge Rundle, c’è chi sta sviluppando modelli di “nowcasting”, ovvero di previsione a brevissimo termine, ispirati al modo in cui la Federal Reserve effettua pronostici sullo stato di salute dell’economia americana. Gli scienziati inseriscono nei software di machine learning grandi quantità di dati, dalle misurazioni sismografiche alle indicazioni dei radar relative alle deformazioni della superficie terrestre, così da migliorare la capacità di ipotizzare il luogo e il momento in cui il terremoto successivo si verificherà.Anche a fronte di un miglioramento della tecnologia, è però improbabile che si raggiungerà mai un livello eccezionale di precisione. Nel migliore dei casi tra qualche anno gli scienziati potranno prevedere il luogo in cui si verificherà un terremoto in un area di mille chilometri per mille circa, e per giunta nel giro di alcuni anni. Aspettarsi un livello di dettaglio maggiore è al momento inverosimile perché non abbiamo una quantità di dati soddisfacente sui terremoti passati, spiega Rundle. «Abbiamo dati sismici in formato digitale solo per gli ultimi 25-30 anni. Tutto ciò che è successo prima, o ci manca o è fortemente incompleto».Di recente sono emerse teorie predittive alternative, a cui gli scienziati però guardano con scetticismo. Un metodo alquanto contestato si affida allo studio dell’allineamento dei pianeti. Un ricercatore olandese è diventato virale su Twitter lunedì scorso per aver apparentemente utilizzato questo metodo per prevedere con precisione i dettagli del terremoto in Turchia, con parecchi giorni di anticipo. Christine Goulet spiega che di metodi di previsione di eventi sismici senza alcuna base scientifica ne esistono in quantità, e che se i risultati fossero analizzati su un periodo di tempo più esteso, perderebbero all’istante qualsiasi elemento di credibilità. «Non conosco nessuno che abbia mai azzeccato una previsione per più di una volta», aggiunge: «se fosse davvero così facile, lo faremmo anche noi».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Laura Mangano) LEGGI TUTTO

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    Sulle Alpi austriache si discute di genetica delle api

    Nella Carinzia, una regione nel sud dell’Austria, è in corso uno scontro tra apicoltori che riguarda la genetica delle api carniche, un tipo di api produttrici di miele tipiche della zona. Dal 2007, l’ape carnica è l’unica sottospecie di api che la legge austriaca consente di allevare in Carinzia: chi non la rispetta deve pagare una multa e sostituire le api regine. Alcuni apicoltori si lamentano però del fatto che la legge non venga rispettata da tutti e che sia dunque in corso un processo di ibridazione tra sottospecie diverse che sta facendo perdere a quella carnica le sue specificità. Altri apicoltori pensano invece che gli incroci possano avere effetti positivi, ad esempio un miglioramento della produttività, e accusano chi non la pensa come loro di fanatismo e addirittura di nostalgie naziste.Da tempo nel mondo si osserva una diminuzione delle popolazioni di varie specie di insetti, e quella delle api è particolarmente preoccupante per il ruolo importante di questi animali nell’equilibrio degli ecosistemi per la loro attività di impollinatrici. In particolare sono messe in pericolo da malattie come la peste americana, da alcuni pesticidi usati in agricoltura e da altre attività umane. La discussione che si sta svolgendo in Carinzia non riguarda però la salute delle api, ma la loro “purezza genetica”. L’ape carnica è una delle sottospecie dell’Apis mellifera, cioè l’ape europea, che viene allevata su larga scala per la produzione di miele e per l’impollinazione. Deve il suo nome alla Carniola, una regione della Slovenia che per secoli ha fatto parte dell’impero austriaco. È molto diffusa nell’Europa centrale e generalmente si distingue dal colore dell’addome, che non è marrone come nel caso dell’ape europea, ma ha un colore castano-grigio, con i primi segmenti addominali più chiari.Queste api hanno una serie di qualità: sono mansuete e poco aggressive, cosa che permette di tenere le arnie vicino a luoghi abitati, sono molto prolifiche, hanno una buona resistenza alle malattie, si sanno difendere con successo dagli insetti parassiti, sono particolarmente abili nell’adattare la loro popolazione alla disponibilità di nettare, e sono resistenti alle estati calde e agli inverni rigidi e freddi di alta montagna. Si adattano dunque meglio di altre specie al clima alpino e agli inverni nevosi della Carinzia.Per tutti questi motivi molti apicoltori sostengono la legge in vigore, secondo cui in Carinzia si può allevare solo quest’unica sottospecie. Alcuni ritengono però che non sia di fatto rispettata e che ci siano allevatori che hanno importato illegalmente altre sottospecie con cui le api carniche si stanno mescolando: a sostegno della loro tesi, citano una serie di studi che affermano come oggi, in Carinzia, più di un quarto delle api siano o troppo scure o troppo gialle per essere identificate come api carniche.Se l’ibridazione potrebbe far aumentare la produttività, potrebbe anche rendere meno frequenti tra le api altre caratteristiche specifiche e considerate utili per gli allevatori della sottospecie carnica, e per contro portare a un aumento di aggressività. «L’ape carnica si è perfettamente adattata a questa regione, nel corso di migliaia di anni», ha raccontato al New York Times l’apicoltore Kurt Strmljan: «È qualcosa che merita di essere protetto». È in particolare la mansuetudine delle api carniche a interessare agli apicoltori contrari agli incroci di sottospecie di api.Chi si oppone alla legge sostiene invece che l’ibridazione avrebbe effetti positivi anche sulla resistenza delle api alle malattie. E sostiene che la legge stessa e tutta la discussione intorno alla genetica delle api sia da fanatici e che ricordi il passato nazista della regione. «È una dittatura, proprio come sotto i nazisti», ha detto in proposito l’apicoltore Gerhard Klinger.Negli anni del nazismo, durante i quali l’Austria passò sotto il controllo tedesco, gli studiosi delle api dell’Università di Bonn, che ha una lunga tradizione in Germania, cercarono dei metodi per controllare la riproduzione delle api e riuscire così a evitare incroci tra sottospecie. Gottfried Götze, uno dei più importanti esperti di api dell’Università, si dedicò in modo particolare alle carniche e secondo il racconto del New York Times era convinto che dovessero essere le uniche a poter produrre miele per l’esercito tedesco.Le accuse tra sostenitori e contrari alla legge sono molto aggressive: ci sono apicoltori che fanno foto agli alveari e alle api del vicino da usare come prova perché vengano avviate delle indagini, e sono in corso anche delle cause legali contro alcuni apicoltori accusati di avere arnie “impure”.Il governo locale della Carinzia sembra comunque stare dalla parte degli apicoltori che difendono la legge e sta anzi discutendo una serie di emendamenti per modificarla e renderla più severa: prevedono di inasprire le sanzioni contro chi alleva specie ibride (la multa massima passerebbe da 5 mila a 7.500 euro) e, in caso di illeciti accertati, prevedono l’eradicazione non solo delle api regine, ma anche dell’intero alveare. LEGGI TUTTO