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    La ricerca scientifica ha bisogno dei gemelli italiani

    Caricamento playerDal 2001 esiste in Italia il Registro Nazionale Gemelli: raccoglie i dati di oltre trentamila gemelli, di età compresa fra 0 e 92 anni. È un progetto dell’Istituto Superiore di Sanità con finalità di ricerca scientifica, che ha molti corrispettivi in Europa e nel mondo. Le coppie di gemelli si iscrivono al registro e poi partecipano alle varie ricerche su base volontaria: sono strumento di studio, più che oggetto di studio.Il Registro si basa infatti sul cosiddetto “metodo gemellare”, che confrontando correlazioni e differenze in diversi tipi di gemelli permette di capire quanto una determinata caratteristica sia influenzata da una componente genetica e quanto da una ambientale, cioè quanto sia presente già alla nascita e quanto sia invece causata dall’ambiente in cui viviamo o dal nostro stile di vita. Il Registro ha permesso di portare a termine studi sugli effetti psicologici del lockdown, sull’arteriosclerosi, sul dolore cronico, sull’autostima e sull’altezza, solo per citarne alcuni. Torneremo sul come funziona, ma prima bisogna introdurre la distinzione più importante in ambito gemellare, quella fra gemelli monozigoti e dizigoti.In Italia in media ogni cento parti uno è gemellare. I gemelli sono quindi, a grandi linee, il due per cento della popolazione. I gemelli si distinguono fra monozigoti e dizigoti (a volte vengono impropriamente usati i termini omozigoti ed eterozigoti, che invece sono definizioni usate in genetica di tutt’altro significato): i gemelli monozigoti nascono da una singola cellula uovo fecondata da uno spermatozoo e hanno un identico patrimonio genetico. Sono sempre dello stesso sesso, fisicamente molto somiglianti, e rari. I gemelli dizigoti sono di più, nascono da diverse cellule uovo fecondate da diversi spermatozoi nello stesso periodo: nascono insieme, possono essere di sesso diverso e possono assomigliarsi poco, come due fratelli. Come i fratelli, hanno in comune circa il 50 per cento del patrimonio genetico.Se i gemelli identici esercitano da sempre un grande fascino nella cultura popolare, è nella seconda metà dell’Ottocento che se ne intuirono le potenzialità per lo studio scientifico. Il primo a elaborare un metodo fu l’eclettico studioso inglese Francis Galton (fra le altre cose considerato anche il padre della meteorologia), interessato a valutare il peso dell’ereditarietà (nature) e dell’ambiente (nurture), nella definizione dei caratteri fisici e mentali degli individui.Il metodo gemellare attuale è un’evoluzione delle sue intuizioni e si basa sul confronto fra gemelli monozigoti e dizigoti riguardo a una determinata caratteristica. Consideriamo, a puro termine di esempio, che si voglia stabilire quanto la celiachia sia ereditaria e quanto indotta da componenti ambientali. Semplificando molto, si valuterà nel campione di gemelli monozigoti quando la caratteristica è presente in entrambi, e la medesima operazione verrà fatta sul campione di gemelli dizigoti. Se la correlazione è maggiore nei primi, la componente genetica è prevalente.Un flashmob al Campidoglio nel 2015 organizzato dal Registro Nazionale Gemelli (ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI)Il confronto fra i due tipi di gemelli permette di partire da fattori ambientali simili: sia i monozigoti che i dizigoti hanno equiparabili influenze ambientali, condivise e non condivise. Nelle prime rientrano l’alimentazione dei primi anni, i fattori educativi, le influenze della famiglia e del luogo di residenza, nelle seconde le scelte personali (fuma, non fuma, fa attività sportiva, ha un/una fidanzato/a?). Le influenze non condivise tendono ad aumentare con l’età, per entrambe le categorie di gemelli.Per usare questo metodo, consolidato negli anni e approfondito con specifiche che permettono di considerare diverse variabili, verificare l’influsso di determinati fattori e distinguere fra varie cause ambientali, è necessario avere una base di dati di gemelli sufficientemente ampia, eterogenea e distribuita sul territorio nazionale.Il Registro è nato per questo, ormai più di vent’anni fa, cercando adesioni volontarie. Si è partiti dalla collaborazione con le anagrafi, attraverso le quali venivano selezionati cittadini nati lo stesso giorno, nello stesso luogo, dalla stessa madre e dallo stesso padre: tranne qualche caso di omonimia, erano identificabili come gemelli. A questi, o ai loro genitori, venivano spedite le domande di iscrizione al Registro, creando una prima base.È un processo a campione, non tutti i gemelli presenti in Italia sono stati contattati, col passare degli anni gli arruolamenti sono stati più intensi nella città in cui il Registro ha collaborazioni per fini di ricerca con certi ospedali (Roma, Milano, Torino, Palermo, Padova, Pisa, Perugia, Napoli fra le città più rappresentate), mentre molti gemelli hanno contattato spontaneamente il Registro dopo averlo conosciuto da amici, articoli sui giornali o attraverso le pagine social.Le oltre quindicimila coppie sono ben distribuite sul territorio (Nord, Centro, Sud) e come fascia d’età. Chi aderisce risponde a un questionario iniziale e viene inserito nel database (da cui può sempre chiedere di essere cancellato), ma sarà interpellato e potrà dare o negare il consenso per ogni singolo studio.Il Registro naturalmente deve distinguere i gemelli fra monozigoti e dizigoti. Emanuela Medda, direttrice del progetto, spiega: «A tutti somministriamo un questionario per determinare la zigosità: si basa su una sequenza di domande predefinite sulla somiglianza fisica, adottate internazionalmente . Chiediamo cose come “I vostri genitori vi confondevano? Gli amici vi confondono?”: i risultati hanno un’attendibilità del 95 per cento. Effettuando un test del DNA, con campioni di sangue o saliva, la monozigosità o dizigosità è determinata in modo esatto al 99 per cento, ma serve la presenza fisica dei gemelli. E costa di più».Come visto, la definizione del tipo di coppia di gemelli è fondamentale per tutti gli ulteriori studi, che possono essere svolti in collaborazione con università o ospedali e che devono essere approvati dal comitato etico dell’Istituto Superiore di Sanità. In base alle necessità e al budget disponibile vengono definite le dimensioni del campione e i metodi per ottenere le informazioni: possono essere questionari, o possono prevedere analisi di laboratorio. In questo caso i gemelli vengono convocati presso strutture specifiche dove fanno esami gratuiti (per lo più con prelievi di sangue).I gemelli sono circa il 2 per cento della popolazione (GLUHIN / ANSA)Nel corso degli anni si è anche istituita una banca biologica del Registro: dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni si conserva per vent’anni materiale biologico dei gemelli (sangue e saliva). Attualmente i campioni sono poco più di duemila. Quando un nuovo studio richiede un’analisi, basterà ottenere il permesso di utilizzarli da parte della coppia. La collaborazione con alcuni ospedali italiani ha poi permesso di inserire alcune coppie di gemelli nel database e nella banca sin dalla nascita, con prelievo di materiale biologico dei bambini e dei genitori (360 famiglie). Dice la dottoressa Medda: «Seguirli nel tempo permette di capire l’evoluzione di determinati fattori nella fase della crescita, ma anche di stabilire quelli pre-nascita e di avere un quadro completo delle influenze ambientali».Gli studi, come detto, possono coprire campi diversi, dall’ansia (si stima che la predisposizione sia per il 60 per cento genetica) all’autostima (73 per cento genetica) all’elasticità delle arterie (influenzata da fattori ambientali fra il 69 e l’81 per cento). Il gruppo di lavoro del Registro comprende ricercatori, statistici, medici, biologi, matematici e psicologi: in tutto una decina di persone fra ricercatori e tecnici, non tutte impegnate a tempo pieno sul Registro. Nel complesso è una squadra di dimensioni minori rispetto a progetti simili in altri paesi europei.Attualmente è in corso uno studio per valutare quanto il benessere psicologico possa rallentare i processi degenerativi fisici dell’età, cioè quanto possa influire sull’invecchiamento: per questo si lavora con questionari per la definizione di personalità e livello di stress e con esami di laboratorio per valutare i marker (gli indicatori) dell’invecchiamento. Nello specifico sono la lunghezza dei telomeri, piccole porzioni di DNA che si trovano alla fine di ogni cromosoma e che impediscono all’elica di sfibrarsi, e la funzionalità del DNA mitocondriale. La ricerca si basa su 200 coppie di gemelli maggiorenni e si svolge a Roma: il campione non è ancora completo ed è possibile candidarsi, per questa e altre ricerche, usando la mail del Registro (registro.nazionale.gemelli@iss.it).Un’altra caratteristica importante delle ricerche condotte sui gemelli è che i risultati ottenuti sono generalizzabili all’intera popolazione. Spiega Medda: «Studi in diversi ambiti hanno confermato che i gemelli non differiscono dai singoli: non vanno incontro a più patologie, né a più problemi, non hanno particolari caratteristiche psicologiche. L’unica cosa che li differenzia è che nascono mediamente un po’ più piccoli, ma poi la loro vita e il loro sviluppo sono uguali. Per questo possono essere usati come “popolazione sentinella”». Avere a disposizione un registro di gemelli ampio e facilmente contattabile diventa così uno strumento per effettuare ricerche in tempi più rapidi su questioni particolarmente pressanti. Ad esempio è stato possibile già nel giugno 2020 realizzare il primo studio che valutava gli effetti del lockdown sui livelli di ansia, stress e depressione nella popolazione: erano i primi dati post-pandemia. I risultati quindi non riguardano solo il 2 per cento della popolazione italiana dei gemelli, ma la sua interezza.Un volantino del Registro Nazionale GemelliIl Registro non ha finanziamenti privati e ha varie collaborazioni con progetti scientifici simili all’estero: lo studio dei gemelli ha vissuto in epoca recente un momento di grande notorietà internazionale con la ricerca della NASA sui gemelli monozigoti Scott e Mark Kelly, che hanno reso possibile valutare con più precisione gli effetti di un prolungato soggiorno nello Spazio.L’obiettivo dei prossimi anni è ampliare la base dei gemelli nel Registro, anche con eventi organizzati ad hoc, collaborazioni con associazioni e campagne social. «Incontriamo vari tipi di resistenza», dice Medda. «Qualcuno non vuole essere schedato, altri non credono alla ricerca pubblica, a volte c’è diffidenza sul metodo o si ha paura che la nostra diventi una presenza invadente, ma in generale la collaborazione dei gemelli è alta: quando sanno quanto possono essere preziosi per noi, si sentono giustamente un po’ speciali». 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    Come sette ponti portarono a una nuova matematica

    Nell’antica città prussiana di Königsberg, oggi l’exclave russa Kaliningrad, c’erano sette ponti che collegavano la terraferma e due grandi isole, circondate dal fiume Pregel. Si racconta che circa tre secoli fa gli abitanti della zona avessero tra i loro passatempi quello di provare ad attraversarli tutti e sette uno di fila all’altro, senza però percorrere lo stesso per due volte, ma che nessuno ci riuscisse mai veramente. Erano i primi sperimentatori inconsapevoli di un problema che avrebbe portato allo sviluppo di una nuova forma di matematica, e che avrebbe coinvolto uno dei più grandi matematici di tutti i tempi: Eulero.A dirla tutta non ci sono molti elementi storici per confermare che l’impresa fosse una fissazione degli abitanti della città. Di sicuro la faccenda dei ponti di Königsberg aveva appassionato Carl Gottlieb Ehler, un matematico che sarebbe poi diventato sindaco di una città vicina. Dopo essersi a lungo scervellato sul problema entrò in contatto tramite un amico con Eulero, e gli scrisse per porgli il problema dei sette ponti. Voleva capire se davvero non ci fosse soluzione e quale fosse la spiegazione matematica, tale da poter essere applicata anche in altri contesti.Inizialmente Eulero pensò che la richiesta non avesse nulla a che fare con la matematica e non le diede molto seguito. I problemi irrisolti o irrisolvibili esercitano però una certa fascinazione tra i matematici, di conseguenza Eulero non lasciò completamente perdere la storia di Königsberg, finendo infine per appassionarsi al problema. Osservò una mappa della città con i ponti che mettevano in comunicazione le due isole con la terraferma e un ponte che consentiva di passare anche da un’isola all’altra, chiedendosi quale fosse l’approccio migliore da seguire per venirne a capo. Sapeva che doveva semplificare il più possibile il problema, eliminando le distrazioni.(Zanichelli)Come prima cosa notò che il percorso seguito su ogni pezzo di terra era sostanzialmente irrilevante, perché ciò che contava era semplicemente la sequenza con cui venivano attraversati i sette ponti. Semplificò quindi il problema rendendolo in termini più astratti, usando i punti per i pezzi di terra e linee a simboleggiare ciò che li univa.(Zanichelli)Con quella semplificazione, Eulero aveva posto le basi per quella che oggi chiamiamo teoria dei grafi, fondamentale in numerosi ambiti – dalla matematica all’informatica – per schematizzare i processi e le soluzioni e dare loro un “senso” matematico. In termini più attuali, possiamo dire che Eulero identificò nei pezzi di terra quelli che nella teoria dei grafi si chiamano “nodi” (o “vertici”) e nei ponti quelli che nella stessa teoria sono detti “archi”.La nuova rappresentazione di Eulero poteva essere valida per molti altri ambiti, non solo per le vie e i ponti di Königsberg. Lo schema mostrava infatti che solamente le informazioni legate al modo in cui erano collegati i nodi era importante, mentre la forma complessiva del grafo e il modo in cui era rappresentato erano secondari. In altre parole, dipendeva tutto dai nodi e dagli archi che li mettevano in comunicazione.Ottenuto un nuovo modo di rappresentare il problema, Eulero provò a capire la questione dell’unico attraversamento di tutti e sette i ponti partendo da alcune considerazioni generali. Notò che fatta eccezione per i punti di partenza e arrivo, quando si raggiunge un nodo tramite un ponte lo si può poi abbandonare solo attraversando nuovamente un ponte. Detta più semplicemente, se raggiungi un’isola in mezzo a un fiume tramite un ponte, puoi abbandonare l’isola solo ripercorrendo lo stesso ponte (quindi lo percorri due volte). Se le regole del gioco sono di usare una sola volta un ponte, avrai bisogno di un altro ponte per lasciare l’isola (in questo caso percorri due ponti).Ne consegue che il numero di volte in cui si raggiunge un nodo (che non sia all’inizio o alla fine del percorso) è uguale al numero di volte in cui lo si lascia: ponte – isola – ponte.Se ogni ponte può essere attraversato una sola volta, allora il numero di ponti che collega ogni nodo eccetto quelli di partenza e di arrivo deve essere pari: metà consentono di raggiungerlo e metà di lasciarlo. Per intenderci, se un nodo fosse collegato da tre ponti, potrei arrivarci con il ponte 1, lo potrei poi abbandonare con il ponte 2 e tornarvi nuovamente col ponte 3, ma a quel punto per lasciare il nodo dovrei ripassare su un ponte già utilizzato non disponendo di un quarto ponte. Pessime notizie per Carl Gottlieb Ehler.I quattro nodi della città erano infatti toccati da un numero dispari di ponti: uno era toccato da cinque ponti, mentre gli altri tre da tre ponti. Considerato che al massimo due nodi possono fare rispettivamente da punto di partenza e di arrivo, non c’è modo di fare una passeggiata attraversando una sola volta tutti e sette i ponti.Il numero nella freccia indica l’ordine dei vari attraversamenti dei pontiUsando i termini della teoria dei grafi, possiamo dire che la possibilità di attraversare una sola volta ogni arco in un grafo dipende dai “gradi” dei nodi. Il grado di un nodo indica semplicemente il numero di archi che lo toccano. Per esempio, il nodo “A” nell’immagine qui sopra è di grado 5.Dai propri studi Eulero derivò una teoria, che oggi non a caso chiamiamo “cammino euleriano”, e che può essere applicata a tutti i grafi con almeno due nodi. Un cammino che tocchi tutti gli archi una sola volta è possibile solamente a una di queste due condizioni. La prima è che ci siano esattamente due nodi di grado dispari e i restanti di grado pari. In questo caso i punti di partenza e di arrivo sono i due nodi di grado dispari.Cammino euleriano, il numero nel cerchio indica il gradoLa seconda si verifica quando tutti i nodi sono di grado pari, cosa che consente di far coincidere il nodo di partenza con quello di arrivo, a prescindere da quello che viene scelto per primo. In questo caso il grafo viene definito un circuito euleriano.Circuito euleriano, il numero nel cerchio indica il gradoTornando a Königsberg, l’unico modo per creare un cammino euleriano è fare a meno di uno qualsiasi dei sette ponti della città. E in effetti nel corso della Seconda guerra mondiale il problema fu risolto in modo piuttosto drastico, quando i bombardamenti sovietici distrussero ben due ponti cittadini. Durante la guerra andò distrutta buona parte della città, che fu poi ricostruita quando passò sotto il controllo dell’Unione Sovietica e in seguito della Russia con il nome di Kaliningrad.Nonostante i traumatici sviluppi degli ultimi 80 anni, il precedente nome della città continua a essere ancora utilizzato ai giorni nostri, in parte grazie al proverbiale problema dei suoi ponti. Dimostrando l’impossibilità di attraversarli tutti una volta sola, Eulero mise le basi per la teoria dei grafi e per il successivo sviluppo della topologia, la parte della geometria che si occupa dello studio delle proprietà degli oggetti matematici, che non cambiano quando vengono deformati (a patto di non creare strappi, sovrapposizioni e incollature). LEGGI TUTTO

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    L’influenza aviaria sta uccidendo i gabbiani del lago di Garda

    Nelle ultime settimane soprattutto sulle spiagge del lago di Garda è stata segnalata una presenza piuttosto insolita di gabbiani morti. Il primo caso è stato riscontrato il 18 febbraio, ma nelle ultime settimane le carcasse degli uccelli ritrovate nella zona hanno raggiunto e probabilmente superato il centinaio. Le analisi degli istituti zooprofilattici delle zone interessate hanno confermato che la causa dei numerosi decessi dei gabbiani è l’influenza aviaria, che negli ultimi mesi ha creato problemi in Europa e nel mondo a vari allevamenti intensivi di pollame e anche alla fauna selvatica.La situazione al momento sembra riguardare solo i gabbiani: i contagi sono dovuti alla diffusione di una variante del virus influenzale H5N1/HPAI ad alta patogenicità, cioè con un’alta capacità di causare la malattia: casi di gabbiani morti sono stati registrati in Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna, ma i maggiori focolai sono concentrati nei paesi del basso lago di Garda: il primo caso confermato di morte per aviaria è di Toscolano Maderno, ma le carcasse sono state ritrovate anche a Desenzano, Sirmione, Peschiera, Manerba, Padenghe e San Felice del Benaco.L’opera di contenimento dell’epidemia al momento si concentra sulla rimozione immediata delle carcasse dei gabbiani morti, per evitare che possano diventare cibo per altri animali selvatici o possano essere morsi da animali domestici. Il contagio avviene infatti attraverso il contatto diretto con un animale malato o attraverso le sue feci. In alcuni casi le carcasse ritrovate presentavano segni di morsi, probabilmente di topi, o erano state beccate da corvi.#Garda, confermata purtroppo la causa dei numerosi decessi registrati nel Garda #Bresciano tra i ##gabbiani: a #Desenzano come a #Toscolano si tratta di #aviaria. Ora si teme che il #virus raggiunga gli uccelli anche della sponda trentina. Allarme soprattutto per gli allevamenti. pic.twitter.com/wveHaP7oLb— Davide Pivetti (@pivettiladige) February 25, 2023L’istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie dice che al momento non si segnalano contagi in altre specie di uccelli o di mammiferi: sono stati monitorati gli uccelli acquatici che convivono coi gabbiani, nonché volpi, faine e gatti selvatici. Nell’ottobre del 2022 in Spagna era stato riscontrato il passaggio del virus H5N1 dagli uccelli ai mammiferi, e in particolare ai visoni di un allevamento a Carral in Galizia.Nessun caso del genere è stato riscontrato in Italia e nella zona del Garda: in Spagna era stato probabilmente favorito dal carattere intensivo dell’allevamento. L’Agenzia di Tutela della Salute (ATS) di Brescia, ribadendo che il rischio per la popolazione è da considerarsi basso, ha scritto ai 22 comuni del lago di Garda, raccomandando «di evitare il contatto diretto con animali selvatici, in particolare nel caso appaiano malati, moribondi o deceduti, e di non provvedere autonomamente alla raccolta». Sono state inoltre suggerite particolari precauzioni agli allevatori di volatili della zona, che dovranno evitare ogni possibile contatto con la fauna selvatica.Da quando si è iniziato a riscontrare un aumento di casi di influenza aviaria nel 2021, sono stati identificati pochi casi di contagio che abbiano riguardato esseri umani, entrati in contatto con animali infetti. I casi di contagio tra esseri umani sono rari e difficili da confermare, il virus finora non ha inoltre sviluppato mutazioni tali da adattarsi al nostro organismo, al momento non costituisce un particolare pericolo. Le istituzioni sanitarie osservano comunque con attenzione i nuovi casi, perché una maggiore circolazione del virus fa aumentare il rischio di mutazioni.Secondo i pareri degli esperti l’epidemia che sta uccidendo i gabbiani potrebbe essere in questa fase al suo picco e già nelle prossime settimane potrebbe finire, almeno per quel che riguarda la zona del Garda, con la migrazione stagionale degli uccelli. LEGGI TUTTO

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    La fioritura dei ciliegi in Giappone è anticipata dal cambiamento climatico

    A Kawazu, una città giapponese a sud-ovest di Tokyo, stanno fiorendo certi tipi di ciliegi. Il vero e proprio hanami, l’usanza di ammirare la fioritura di questi alberi che ogni anno attraggono anche molti turisti stranieri in Giappone, si svolgerà tra qualche settimana ma in molte parti del paese comincerà prima del 20 marzo, cioè prima dell’inizio della primavera astronomica. Le date di fioritura cambiano di anno in anno, e variano nelle diverse parti del paese a seconda del clima locale, ma negli ultimi decenni in media sono state precoci rispetto al passato, e come per tante altre specie vegetali c’entra l’aumento delle temperature globali causato dalle attività umane.Abbiamo il primo Sakura dell’anno!Proprio nel tempio davanti casa今年初#ultragiappone #sakura #桜 pic.twitter.com/3adPbElnQz— フラ -pesceriso- (@pesceriso) February 28, 2023Secondo le previsioni dell’Associazione meteorologica giapponese (JWA) a Kyoto, l’antica capitale del Giappone e una delle principali mete turistiche del paese, la fioritura dei ciliegi quest’anno inizierà il 22 marzo. La piena fioritura, il momento migliore per ammirare gli alberi, è invece attesa per il 30 marzo. Non sarà estremamente anticipata rispetto alla media come quella del 2021, quanto avvenne il 26 marzo e fu la più precoce nei circa 1.200 anni da cui si registrano dati sui ciliegi di Kyoto (che erano tenuti in grande considerazione dalle corti imperiali giapponesi già più di un millennio fa), ma comunque ci andrà vicino.Le previsioni su quando avverrà la piena fioritura dei ciliegi nelle diverse parti del Giappone nel 2023 aggiornata al 2 marzo (JWA)Proprio a seguito del record del 2021, l’Università di Osaka aveva collaborato con il Met Office, l’agenzia meteorologica nazionale del Regno Unito e una delle più autorevoli istituzioni del mondo nel suo ambito, per stabilire se il cambiamento climatico avesse un’influenza sui tempi della fioritura dei ciliegi. In uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Environmental Research Letters, avevano dimostrato come dagli anni Trenta del Novecento in poi le conseguenze delle attività umane hanno determinato un’anticipazione delle fioriture di 11 giorni a Kyoto e avevano stimato che entro il 2100 potrà aumentare di altri 6.A influire non è solo l’aumento generale delle temperature causato dalle emissioni di gas serra, che riguarda tutto il mondo: c’entrano anche le maggiori temperature che si registrano a Kyoto come nelle altre città del mondo rispetto alle aree di campagna, e che sono dovute principalmente all’alta percentuale di superfici scure che assorbono molta più radiazione solare rispetto al terreno non edificato o asfaltato. Secondo lo studio dell’Università di Osaka e del Met Office, senza la particolare situazione urbana l’effetto del riscaldamento globale sulla fioritura dei ciliegi di Kyoto si sarebbe cominciato a vedere solo alla fine del Novecento invece che già settant’anni prima.Questi risultati sono stati ottenuti grazie ai numerosi dati sulle fioriture dei ciliegi e a quelli sulle temperature di Kyoto, registrati a partire dalla fine dell’Ottocento. Per appurare le differenze tra gli alberi di città e quelli di campagna sono stati usati dati relativi a Kameoka, una località rurale vicina a Kyoto. In passato i due luoghi avevano temperature simili, che però cominciarono a differenziarsi dagli anni Quaranta.La variazione rispetto alla media storica delle date di piena fioritura dei ciliegi nel corso del tempo: in azzurro sono indicati i dati relativi a Kameoka, in rosa quelli che riguardano Kyoto (Met Office)I ciliegi del Giappone (lì chiamati sakura) non sono gli stessi di cui si mangiano le ciliegie, ma appartengono a una specie da cui non si ricavano frutti commestibili (Prunus serrulata). Sono tuttavia noti in tutto il mondo per la bellezza dei loro fiori, che sono uno dei simboli del Giappone all’estero. Negli anni le autorità giapponesi ne hanno più volte regalati ad altri paesi: è il caso dei ciliegi del parco dell’EUR, a Roma, e di quelli del National Mall di Washington, negli Stati Uniti, l’area in cui si trovano la sede del Congresso americano e vari monumenti. LEGGI TUTTO

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    La ricerca di un rimedio contro il singhiozzo

    Caricamento playerA Charles Osborne venne il singhiozzo poco dopo avere fatto uno sforzo per sollevare un maiale da macellare. Era il 1922, aveva trent’anni e pensava che il disturbo se ne sarebbe andato dopo qualche minuto, come succede di solito. Dovette invece convivere con il singhiozzo per 68 anni: nessuno fu in grado di trovare rimedio al problema, a dimostrazione di quanto sia oscura una condizione che prima o poi interessa tutti.Nei primi decenni dopo la comparsa del singhiozzo, Osborne aveva circa 40 spasmi (singulti) al minuto, col tempo la frequenza diminuì arrivando a una ventina nei suoi ultimi anni di vita. Il singhiozzo scomparve da solo nel 1990, lasciando a Osborne qualche mese di tregua prima della sua morte nel febbraio del 1991. Secondo il Guinness World Records, fu la persona ad avere vissuto più a lungo col singhiozzo, con un totale stimato di 430 milioni di singulti.La storia di Osborne è naturalmente un caso estremo, molto citato dagli articoli sul tema, ma è vero che ancora oggi sappiamo tutto sommato poche cose sul singhiozzo e soprattutto sui rimedi per farlo passare. Da far prendere un grande spavento a chi ne soffre a trattenere il respiro in un certo modo passando per i famigerati sette sorsi d’acqua, i consigli per farsi passare il singhiozzo non mancano nelle tradizioni popolari, mentre latitano abbastanza nella letteratura scientifica. I gruppi di ricerca che se ne sono occupati non mancano, ma con risultati alterni, anche se ogni tanto affiorano presunte “soluzioni definitive al problema”. Due in particolare sono ritenute promettenti, ma prima facciamo un ripasso nel caso vi foste persi le puntate precedenti.SinghiozzoIn generale, il singhiozzo è causato da una contrazione rapida e involontaria del diaframma, lo strato di muscoli e tendini che separa la parte superiore del busto da quella inferiore, e che ci consente di respirare. Lo spasmo comporta una rapida inspirazione d’aria e una immediata chiusura della glottide, che ha tra i suoi scopi quello di isolare l’esofago dalla trachea, cioè l’apparato digerente dalle vie aeree.È la combinazione dell’inspirazione e del rapido scatto della glottide a portare il classico hic del singhiozzo. Come accade spesso per le cose di salute, a seconda di come si è fatti si possono avere un singhiozzo con un’alta frequenza di singulti, spasmi di intensità variabile e di conseguenza sobbalzi e hic più o meno forti.(Wikimedia)Non è ancora completamente chiaro a che cosa serva di per sé il singhiozzo. Un’ipotesi piuttosto condivisa è che gli spasmi servano a sviluppare la capacità di respirare del feto in preparazione dell’abbandono dell’utero materno, quindi del passaggio da una condizione in cui è sostanzialmente sommerso a quella in cui deve fare entrare per la prima volta aria nei propri polmoni. Altri ipotizzano invece che il singhiozzo sia un ricordino lasciato dall’evoluzione, legato ai nostri lontanissimi antenati anfibi che dovevano regolare la respirazione a seconda che si trovassero in acqua o sulle terre emerse.Cosa causa il singhiozzoLe analisi su come si soffre di singhiozzo hanno evidenziato che lo spasmo coinvolge un arco riflesso, cioè una reazione nervosa che non riguarda i centri nervosi superiori e sulla quale non abbiamo quindi un diretto controllo. Uno dei principali indiziati è il nervo vago insieme a quello frenico. Il vago (ne esistono due, uno destro e uno sinistro) parte dal midollo allungato – la parte più in basso del tronco cerebrale – e raggiunge il basso torace e l’addome. Il frenico (anche in questo caso ce n’è uno per lato), invece, parte dai nervi spinali cervicali e innerva buona parte del diaframma.Le due coppie di nervo frenico e vago, evidenziate in azzurro (Wikimedia)Se una parte di questi lunghi nervi si irrita, si può verificare un attacco di singhiozzo. Vago e frenico possono essere disturbati da varie cause. Al termine di un pasto, per esempio, la maggiore dilatazione dello stomaco può interferire con i due nervi, portando a una loro reazione che turba i normali segnali nervosi ricevuti dal diaframma, facendolo contrarre in modo anomalo. Il singhiozzo può comunque venire anche a stomaco vuoto, per esempio se si sta ingerendo una bevanda gassata, che porta a una repentina e temporanea dilatazione delle pareti dello stomaco. Un attacco di singhiozzo può anche verificarsi dopo un accesso di tosse particolarmente intenso, per esempio dovuto a qualcosa andato per traverso (a volte è sufficiente la saliva), o a uno sforzo come si racconta accadde a Osborne.Solitamente i casi di singhiozzo durano pochi minuti e non lasciano conseguenze, ma come abbiamo visto molto può dipendere dalle loro cause e da come è fatto ciascuno di noi. Particolari stati di ansia, forte stress, mancanza di sonno, carenza di vitamine o di sali minerali, problemi all’apparato digerente, possono a loro volta causare il singhiozzo. Nel caso di condizioni croniche, gli episodi possono essere ricorrenti. In rare circostanze, gli spasmi possono essere causati da malattie come tumori al cervello, allo stomaco, ai polmoni o allo stesso diaframma. Anche le malattie neurologiche degenerative, come il Parkinson e alcune forme di sclerosi multipla, possono comportare una maggiore frequenza di episodi di singhiozzo.RimediI casi di singhiozzo riconducibili ad alcune di queste cause possono essere trattati facilmente, per esempio correggendo comportamenti o rimuovendo le cause più probabili degli attacchi. Viene consigliato di ridurre il consumo di bevande gassate o cibi piccanti, di mangiare più lentamente e di meno, eventualmente aumentando la frequenza dei pasti. Nei casi di singhiozzo persistente sono invece necessari esami e accertamenti per identificare problemi di salute che potrebbero essere più seri.La lista dei rimedi casalinghi per occasionali episodi di singhiozzo è piuttosto lunga e comprende spesso soluzioni alquanto creative, che per alcune persone funzionano e per altre no. Un rumore forte e repentino per spaventare chi ha il singhiozzo sembra funzionare perché porta a una reazione nervosa che interrompe i singulti. Altre attività, come trattenere il respiro o bere lentamente alcuni sorsi d’acqua senza respirare, sembrano aiutare perché concentrano l’attenzione su qualcos’altro: ci si tranquillizza e di conseguenza si rilassa il diaframma, con una riduzione degli spasmi. Non tutti gli esperti concordano comunque su queste spiegazioni e non si può escludere che talvolta il singhiozzo passi da solo, casualmente proprio nel momento in cui si sta sperimentando qualche soluzione per farselo passare.Ali Seifi è un neurologo dell’Università del Texas di San Antonio (Stati Uniti), è esperto di danni cerebrali ed è considerato un punto di riferimento quando si parla di singhiozzo. Ritiene che in fin dei conti nei rimedi casalinghi ci sia un po’ di scienza, come ha raccontato di recente all’Atlantic: «Si sono diffusi grazie a prove ed errori». Seifi ritiene che i rimedi validi abbiano un elemento in comune: una piccola variazione della pressione interna che influisce sul comportamento del diaframma. Il problema è che non sempre consentono di raggiungere la giusta pressione, di conseguenza non funzionano tutte le volte.Partendo da queste considerazioni, nel 2015 Seifi iniziò a lavorare a un nuovo dispositivo che permettesse di ottenere la pressione desiderata sul diaframma. Dopo vari prototipi, arrivò a sviluppare una sorta di cannuccia che genera mentre si beve una pressione in grado di fare abbassare il diaframma e far muovere l’epiglottide. La cannuccia si chiama HiccAway ed è in vendita da un paio di anni a poco meno di 14 dollari. Non funziona sempre, anche perché come abbiamo visto le cause del singhiozzo possono essere molteplici, ma la maggior parte di chi l’ha sperimentata ha detto di avere ottenuto migliori rispetto ad altri rimedi casalinghi.(HiccAway)C’è però un altro sistema che sembra offrire buoni risultati e che non comporta l’acquisto di una cannuccia. Lo segnalò una ventina di anni fa Luc Morris, un chirurgo specializzato nei tumori della testa e del collo oggi presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Quando ancora era uno studente universitario, aveva scritto una lettera sulla rivista scientifica Anesthesia & Analgesia segnalando una tecnica che aveva definito “inspirazione sovra-sovramassimale” (SSMI).La SSMI prevede di espirare completamente, poi di fare un grande respiro e di trattenere il fiato per dieci secondi. Al termine del breve intervallo non si deve subito esalare, ma occorre inalare ancora un po’ di aria e attendere altri cinque secondi, inalando poi ancora un po’ di aria. Alla fine, si esala e si torna a respirare normalmente. A quel punto il singhiozzo dovrebbe essersene andato, almeno secondo l’esperienza di Morris.In un esperimento condotto su 19 volontari (12 uomini e sette donne) con singhiozzo che durava da 20 minuti a 8 ore a seconda dei casi, Morris riscontrò una «fine immediata» dei singulti in 16 casi su 19, pari all’84 per cento. Gli altri tre volontari non erano riusciti a completare l’intera operazione di respiri successivi da trattenere, rendendo quindi difficile la valutazione di casi in cui il sistema non funziona e basta.Morris non ha mai condotto uno studio clinico più ampio e approfondito, sia per motivi di tempo sia per la mancanza di finanziamenti. Non c’è un grande interesse da parte di potenziali finanziatori, sia pubblici sia privati, anche perché uno studio di questo tipo potrebbe portare alla conclusione che basta respirare in un certo modo per farsi passare il singhiozzo, nulla di particolarmente redditizio. LEGGI TUTTO

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    Le farine di insetti, spiegate

    A un centinaio di chilometri a nord di Ho Chi Minh, la città più popolosa del Vietnam, c’è un grande capannone in cui vivono centinaia di migliaia di grilli. È gestito da Cricket One, una società vietnamita che produce “farine” a base di insetti, altamente proteiche e considerate una valida alternativa ad altri alimenti ricchi di proteine come la carne bovina, la cui produzione ha un alto impatto ambientale. I grilli vengono triturati e macinati, per ottenere una polvere che viene poi sgrassata con un trattamento simile a quello che si applica alla polvere di cacao, in modo da offrire una base alimentare più bilanciata.Lontana quasi diecimila chilometri dall’Europa, fino all’inizio di quest’anno erano in pochi a sapere dell’esistenza di Cricket One dalle nostre parti. Le cose sono cambiate circa un mese fa, dopo l’autorizzazione da parte della Commissione europea a vendere quella specifica polvere di grillo dell’azienda. Soprattutto in Italia la notizia è stata ampiamente commentata, con dichiarazioni di vari esponenti politici che hanno insistito sulla necessità di tutelare i prodotti alimentari «della tradizione», impedendo che si diffondano cibi a base di insetti.L’autorizzazione della polvere di grillo di Cricket One ha suscitato grande interesse, ma in realtà non costituisce una particolare novità per l’Unione Europea. Per come è stata raccontata la notizia, con alcune approssimazioni sui giornali, è passato il messaggio che la Commissione europea avesse autorizzato in generale tutti gli alimenti a base di insetti, mentre il provvedimento ha riguardato un solo produttore, come era del resto avvenuto già in passato con altre aziende del settore alimentare che lavorano con gli insetti.– Ascolta anche: Un’invasione di cavallette a tavola – Ci vuole una scienzaL’aggiunta degli insetti agli alimenti che possiamo consumare è discussa da decine di anni, ma è soprattutto nell’ultimo decennio che ha portato a qualche maggior progresso. A differenza dei classici allevamenti, in particolare quelli dei bovini, gli allevamenti di insetti richiedono meno energia e producono minori quantità di gas serra, i principali responsabili del riscaldamento globale. Secondo varie analisi potrebbero quindi costituire una valida alternativa per ottenere alimenti proteici a basso impatto ambientale, se confrontati con altri tipi di prodotti per il consumo alimentare. Ma il settore è ancora relativamente piccolo, di conseguenza è difficile stimarne con precisione l’impatto ambientale nel momento in cui assumesse maggiori dimensioni, con tutte le implicazioni del caso per la sua filiera produttiva e di logistica.Non essendoci regolamenti specifici sugli alimenti a base di insetti, al momento i regolatori applicano le regole già utilizzate per il resto del settore alimentare. Nel caso dell’Unione Europea il testo di riferimento è il Regolamento CE 258 del 1997, che comprende la categoria del cosiddetto “novel food”, cioè alimenti o ingredienti mai consumati all’interno dell’Unione Europea (in quantità significative e tali da essere definibili “cibo”) prima dell’entrata in vigore del regolamento stesso.Ogni volta che si vuole introdurre un “novel food”, questo deve ricevere un’autorizzazione specifica da parte dell’Unione Europea. Prima che ciò avvenga, è previsto che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) faccia analisi e valutazioni del rischio sui nuovi alimenti. Questo processo, è bene ricordarlo, viene applicato a uno specifico prodotto, non all’intera categoria di cui fa parte. Nel caso delle farine di insetti, quindi, non è stato approvato l’impiego di tutte, ma solamente di quella specifica polvere di grillo prodotta dall’azienda vietnamita. Lo stesso era accaduto in passato con altri alimenti a base di insetti, da quelli contenenti cavallette o larve di vario genere.La società che richiede l’autorizzazione deve produrre una documentazione molto dettagliata, con informazioni sui metodi di allevamento e di produzione, sulle caratteristiche sanitarie e nutrizionali del prodotto. Con le differenze del caso, il processo non è molto diverso da quello per la richiesta di autorizzazione di un nuovo farmaco.L’allevamento di Cricket One in Vietnam (Cricket One)Nonostante se ne sia parlato molto solo nell’ultimo mese, Cricket One aveva fatto la propria richiesta di autorizzazione quasi quattro anni fa. Era trascorso un po’ di tempo e poi nell’estate del 2020 la Commissione europea aveva incaricato l’EFSA di fare tutte le valutazioni del caso. Il processo di revisione è lungo e articolato, inoltre le richieste sono molte e ci vuole quindi tempo per smaltirle.L’EFSA aveva dato il proprio parere tecnico positivo un anno e mezzo dopo, nella primavera del 2022, indicando comunque la necessità di includere nell’etichetta informazioni sul rischio di eventuali reazioni allergiche, come già avviene per alimenti che possono contenere tracce di frutta secca o soia. Sulla base delle indicazioni dell’EFSA, la Commissione europea ha infine dato il proprio parere positivo a inizio anno, dando la possibilità a Cricket One di vendere la polvere di grillo a partire dal 24 gennaio.La polvere di grillo potrà essere impiegata nella produzione di altri alimenti, ma la sua presenza dovrà essere indicata chiaramente nell’elenco degli ingredienti, con l’aggiunta di un avviso per le persone allergiche. Lo stesso vale per prodotti già autorizzati in precedenza, sempre di specifici produttori, a base di camola della farina o cavallette.La scelta di utilizzarli dipenderà dai produttori del settore alimentare, che valuteranno se sia o meno opportuno modificare gli ingredienti dei loro prodotti o introdurne di nuovi. Al momento nessun grande produttore nel nostro paese ha segnalato di voler introdurre la polvere di grillo vietnamita, forse anche in seguito alla confusione che si è sviluppata sull’argomento e ai numerosi allarmismi.(Sean Gallup/Getty Images)Il processo di verifica, controllo e autorizzazione previsto dalle norme europee offre comunque ampie garanzie su ciò che finisce nei negozi di alimentari e nei supermercati. Secondo gli esperti i controlli cui sono sottoposti gli alimenti normali sono più che sufficienti anche per il “novel food”. Parte delle preoccupazioni è derivata probabilmente da un certo pregiudizio e dall’idea di dover partire dagli insetti come materia prima per l’alimentazione.Seppure in quantità molto contenute, mangiamo insetti per buona parte della nostra esistenza. Il grano macinato per produrre la farina ha spesso al proprio interno piccoli parassiti che vengono polverizzati con tutto il resto, lo stesso vale per i pomodori lavorati per produrre le conserve o più semplicemente per qualche larva che inconsapevolmente mangiamo insieme alla frutta e alla verdura fresca. È previsto che ci siano tracce di questo tipo, che non compromettono comunque la sicurezza degli alimenti che vengono consumati.Mentre per quanto riguarda il settore dell’alimentazione umana gli insetti sono ancora visti come una scelta esotica, qualcosa da provare per togliersi la curiosità più che da integrare nella propria dieta, nel settore dell’alimentazione animale si stanno facendo importanti investimenti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha stimato che le farine a base di insetti potrebbero sostituire senza particolari problemi dal 25 al 100 per cento della farina di soia o di pesce impiegata per i mangimi animali. Queste farine potrebbero essere prodotte con un minore impatto sull’ambiente rispetto alle coltivazioni di soia, per esempio, perché gli insetti possono essere allevati con materiale di scarto e sono più energetici da un punto di vista alimentare.Più in generale e tornando agli esseri umani, un’autorizzazione al consumo di un “novel food” non implica che poi quell’alimento sia effettivamente consumato in grandi quantità o che ottenga un particolare successo. Il modo in cui scegliamo e consumiamo il cibo non ha solo a che fare con la sua capacità di essere più o meno energetico o proteico, ma riguarda aspetti soggettivi e culturali che variano molto a seconda delle aree geografiche. Persone diverse sono abituate a diverse tipologie di aspetto, sapore, profumo e consistenza di ciò che hanno nel piatto, con preferenze e abitudini difficili da cambiare.C’è poi un fattore economico da non trascurare, e che spesso prevale sulla semplice autorizzazione nel determinare o meno il successo di un nuovo alimento. I prodotti a base di insetti sono attualmente molto costosi, sia perché la loro disponibilità è limitata, sia perché per essere resi più appetibili vengono lavorati e trasformati in salatini, patatine e altre tipologie di alimenti poco impegnativi da assaggiare e che possono suscitare qualche curiosità. Le farine di insetti potrebbero in parte cambiare questa circostanza, se impiegate come un ingrediente insieme ad altri più “tradizionali”, ma è ancora presto per fare previsioni. Quando la patata fu introdotta in Europa dalle Americhe era a tutti gli effetti un “novel food” per gli europei, che impiegarono moltissimo tempo prima di capire che farsene e renderla uno degli alimenti più consumati nel continente. LEGGI TUTTO

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    Come sente le voci chi “sente le voci”?

    È probabile che almeno per un istante sentirete leggere questo articolo dalla vostra voce interiore: forse è successo proprio in questo momento dopo che ve lo abbiamo fatto notare. Saltuariamente, “sentire” i propri pensieri è normale e rientra nel modo in cui la nostra mente organizza e gestisce le informazioni. In alcuni casi, però, questo processo prende percorsi inattesi e causa una allucinazione uditiva (“paracusia”), che porta a percepire come reali suoni e voci di altre persone senza che in realtà ci sia un vero stimolo uditivo o qualcuno stia parlando. Questa condizione, studiata da tempo da psichiatri e neurologi, può essere invalidante e può causare col tempo altri disturbi mentali.Nella storia gli esempi di persone che “sentivano le voci” non sono certo mancati. Tra i casi più famosi c’è probabilmente quello di Giovanna d’Arco, protagonista di importanti gesta militari nella Francia del quindicesimo secolo che all’età di 13 anni aveva iniziato a sentire alcune voci, attribuite a santi della tradizione cattolica. Riteneva che quei messaggi esprimessero la volontà di Dio e che dovessero essere quindi seguiti alla lettera. Come Giovanna d’Arco, spesso le persone con paracusia dicono di sentire una voce che esprime opinioni che non riconoscono come proprie, oppure voci di più persone che discutono tra loro, o ancora una voce interiore – diversa dalla propria – che racconta ciò che si sta facendo, come una sorta di narratore in terza persona. Le cause non sono ancora completamente note e sono frutto di studi e analisi psichiatriche, ma secondo alcuni gruppi di ricerca comprendere come il nostro cervello distingue tra la propria voce e quella delle altre persone potrebbe offrire importanti elementi per studiare meglio le allucinazioni uditive.Ci ha provato di recente un gruppo di ricerca della Scuola politecnica federale di Losanna, in Svizzera, partendo da una condizione in cui prima o poi ci troviamo tutti: sentire la registrazione della propria voce e stentare a riconoscerla, perché suona diversamente da come siamo solitamente abituati a sentirla quando parliamo. Quella strana sensazione deriva dal fatto che non sentiamo la nostra voce solamente con l’udito come percepiamo quella delle altre persone, ma anche attraverso le vibrazioni nel nostro cranio che derivano dai movimenti e dalle onde sonore che si producono quando emettiamo le parole. Sentiamo parte della nostra voce di riflesso, considerato che le nostre orecchie sono poste dietro alla bocca. Inoltre le ossa del cranio trasmettono le basse frequenze meglio dell’aria, di conseguenza tendiamo a sentire la nostra voce più bassa e intensa di quanto facciano le persone che ci ascoltano.Il gruppo di ricerca di Losanna si è chiesto se utilizzando auricolari a conduzione ossea l’esperienza di sentire la registrazione della propria voce diventasse più simile a quella di sentirsi normalmente parlare, in modo da offrire una nuova base da cui partire per studiare come il nostro cervello riconosce e interpreta le voci. Come suggerisce il nome, gli auricolari a conduzione ossea non stimolano direttamente l’apparato uditivo, ma diffondono il suono attraverso le ossa del cranio, dopo essere state collocate tra la tempia e la guancia. Questi auricolari producono piccole vibrazioni meccaniche che raggiungono poi l’orecchio interno attraverso il cranio.Auricolari a conduzione ossea (AP Photo/Michael Sohn)A un gruppo di volontari è stato richiesto di pronunciare per alcuni secondi la parola “ah” mentre la loro voce veniva registrata. In un secondo momento, la registrazione è stata mischiata con la registrazione di un numero variabile di altre voci, in modo da rendere più o meno distinguibile la voce di partenza. Ad alcuni volontari è stato poi richiesto di ascoltare le registrazioni con gli auricolari a conduzione ossea, ad altri utilizzando cuffie normali e ad altri ancora di ascoltare attraverso le casse di un comune computer portatile. A ogni partecipante è stato poi chiesto di indicare se tra le registrazioni ascoltate ci fosse effettivamente anche quella della loro voce.I volontari che avevano utilizzato gli auricolari a conduzione ossea hanno riconosciuto la propria voce più di frequente rispetto agli altri. Il gruppo di ricerca ha allora provato a sottoporre loro ulteriori registrazioni, contenenti un mix della voce di ogni singolo volontario con quella di alcuni loro amici. In questo caso non è stata rilevata una particolare differenza nell’identificazione delle voci: alcuni volontari hanno mostrato di riconoscere più facilmente la propria, forse perché abituati a distinguere più facilmente le voci che conoscono da tempo.Il gruppo di ricerca di Losanna ritiene che da esperimenti di questo tipo si potrebbero ricostruire i meccanismi che utilizza il nostro cervello per riconoscere la nostra voce e, su livelli più elaborati, parte del sé, inteso come il nucleo della personalità di ogni singolo soggetto. Studi di questo tipo riguardano per esempio l’analisi delle aree del cervello che si attivano quando riconosciamo noi stessi attraverso i sensi. Queste conoscenze potrebbero aiutare a comprendere meglio le condizioni che portano alcune persone a percepire voci interne diverse dalla propria, al punto da avere la sensazione di sentirle parlare. LEGGI TUTTO

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    La storia delle sei donne che lavorarono a uno dei primi computer

    Nel febbraio del 1946 gli Stati Uniti presentarono al mondo il loro electronic numerical integrator and computer (ENIAC), uno dei primi computer elettronici digitali della storia e il primo computer “general purpose”, cioè per uso generale, perché poteva essere riprogrammato per eseguire diversi tipi di calcoli. L’invenzione della macchina fu subito attribuita ai due uomini che la progettarono all’Università della Pennsylvania di Philadelphia, il fisico John William Mauchly e l’ingegnere elettrico John Presper Eckert: per decenni però nessuno seppe che nel suo sviluppo avevano avuto un ruolo essenziale sei donne, coloro che la programmarono per farla funzionare.Perché i nomi e il lavoro di Frances “Betty” Holberton, Kathleen “Kay” Antonelli McNulty, Marlyn Wescoff Meltzer, Ruth Lichterman Teitelbaum, Frances Bilas Spence e Jean Jennings Bartik fossero riconosciuti dovettero passare oltre quarant’anni. L’ENIAC fu sviluppato durante la Seconda guerra mondiale nell’ambito di un programma dell’esercito degli Stati Uniti che doveva servire a calcolare più facilmente le traiettorie balistiche, cioè il percorso compiuto da un razzo per raggiungere un obiettivo a chilometri di distanza. I lavori cominciarono nel 1943 e la macchina fu completata alla fine del 1945. La storia delle donne che ne resero possibile il funzionamento emerse solo a metà anni Ottanta grazie alle ricerche di Kathy Kleiman, avvocata e appassionata di informatica, che ne ha parlato anche in un libro e in un documentario presentato al festival del cinema internazionale di Seattle nel 2014.Tutto cominciò quando Kleiman decise di saperne un po’ di più del ruolo delle donne nel settore informatico, dopo essersi resa conto di essere una delle poche a frequentare corsi di programmazione e informatica durante l’università ad Harvard. Durante alcune ricerche trovò una foto d’archivio dell’ENIAC in cui comparivano sia uomini che donne, ma nella didascalia c’erano solo i nomi e i cognomi dei primi. Proseguendo, racconta, trovò altre foto di donne accanto al computer, ma sempre senza indicazioni di chi fossero.Quando chiese spiegazioni alla direzione del museo di Storia dei computer a Boston, le fu risposto che le donne erano modelle, messe in posa per far sembrare più interessante la macchina, come accadeva nelle pubblicità degli elettrodomestici. Capì invece che erano state direttamente coinvolte nello sviluppo del computer nel 1986, quando incontrò quattro di loro a un evento per il 40esimo anniversario dell’invenzione.Marlyn Wescoff Meltzer e Betty Jean Jennings lavorano sull’ENIAC (Wikimedia Commons)Durante l’evento Holberton, McNulty, Meltzer e Bartik raccontarono a Kleiman di essere state scelte tra le circa 80-100 donne che erano state reclutate dall’esercito per svolgere i complessi calcoli delle traiettorie balistiche. Le donne erano chiamate “computer”, letteralmente “calcolatrici”, proprio come siamo abituati a chiamare queste macchine oggi. Per risolvere a mano le equazioni differenziali necessarie per calcolare le traiettorie servivano ottime conoscenze matematiche e 30 o 40 ore, capacità e tempo che nella gran parte dei casi i soldati americani al fronte non avevano. Il compito delle “calcolatrici umane” quindi era quello di trovare il modo per integrare questi calcoli nella macchina, in modo che potessero essere svolti in pochi secondi.Naturalmente allora non esistevano i linguaggi di programmazione conosciuti oggi, né manuali o sistemi operativi, quindi le sei donne dovettero un po’ inventarsi come farlo. Intervistate da Kleiman, che nel frattempo ottenne una borsa di studio proprio per scoprire la loro storia, raccontarono di aver dovuto studiare come era fatto l’ENIAC e capire cosa fare per fargli fare i calcoli al posto loro. «Ovviamente non avevamo idea di cosa stessimo facendo», disse una di loro a Kleiman.Jean Jennings Bartik e Frances Bilas Spence con l’ENIAC (Wikimedia Commons)L’ENIAC era una macchina gigante, alta 2,5 metri, lunga 24 e pesante 30 tonnellate, ma permise di fare in poco tempo calcoli che prima avrebbero potuto richiedere anche settimane. La sua invenzione e i successivi sviluppi diedero una certa notorietà a Mauchly ed Eckert, che per esempio in un articolo pubblicato il 14 febbraio del 1946 sul New York Times furono lodati come i «suoi inventori» assieme ai «molti altri» che collaborarono al progetto. Né allora né dopo però Bartik, Holberton, McNulty, Meltzer, Spence e Teitelbaum furono citate in relazione allo sviluppo del computer, con il risultato che per oltre quarant’anni nessuno seppe del loro lavoro, né fra gli addetti del settore, né sulla stampa, né a livello pubblico.Alcune delle sei programmatrici contribuirono all’avanzamento del settore informatico anche dopo l’invenzione dell’ENIAC. Holberton tra le altre cose scrisse il primo codice usato per leggere e scrivere dati, contribuì allo sviluppo di uno dei primi linguaggi standard informatici (COBOL) e sviluppò un set di istruzioni che è considerato il prototipo per i linguaggi di programmazione odierni. Bartik invece continuò a lavorare con Mauchly ed Eckert per sviluppare altri computer, tra cui l’UNIVAC I, il primo computer commerciale al mondo. Entrambe ricevettero vari riconoscimenti.Grazie all’attenzione ricevuta dalle ricerche di Kleiman, nel 1997 tutte e sei furono inserite nella Hall of Fame della Women in Technology International, un’organizzazione che promuove l’attività e i successi delle donne nel settore tecnologico.– Leggi anche: Le cose vere e quelle finte di Il diritto di contare LEGGI TUTTO