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    Niente, un articolo sul vuoto

    Siete in un locale con un paio di amici che ordinano due birre, ma non avete molta voglia di bere e dite al cameriere che non prenderete niente. Ora dovete sapere che Werner H., il cameriere, lavora in quel bar da molto tempo ed è un tipo piuttosto zelante. Ne avete la conferma quando torna al tavolo e serve due boccali di birra ai vostri amici e lascia un bicchiere vuoto per voi. «Mi spiace, signore, ma non abbiamo esattamente niente, ho fatto comunque del mio meglio», vi dice con un lieve accento tedesco. Scrutate Werner H. e il vostro bicchiere che sembra effettivamente pieno di niente, ma è veramente vuoto?Non è un test per verificare quanto siate ottimisti o pessimisti, non è del resto una questione di bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma di fare i conti con un concetto spesso sfuggente e al tempo stesso dalle grandi implicazioni fisiche e filosofiche: il niente. Si può togliere qualcosa da una parte per ottenere l’assenza di tutto? E se lo facciamo, rimaniamo davvero con niente?Prendiamo il bicchiere che vi ha portato lo zelante cameriere, che come ormai avrete intuito non è tecnicamente vuoto. Certo, non c’è della birra al suo interno, ma è comunque ricolmo di aria, senza contare le minuscole particelle di polvere che contiene, insieme a qualche acaro che è certamente scivolato dalla manica di chi ve lo ha servito.Se consideriamo solo l’aria nella sua definizione più vaga e approssimativa – cioè una miscela in cui sono presenti soprattutto molecole di ossigeno e azoto – possiamo dire che in un bicchiere da 200 ml sono presenti circa 5 • 1021 molecole, o detto in altri termini 5mila miliardi di miliardi di molecole. Il calcolo è approssimativo, molto dipende dalla temperatura del locale e soprattutto dell’altitudine a cui si trova, ma l’ordine di grandezza rende l’idea di quante cose ci siano in un bicchiere che di solito definiamo vuoto.Per rimuovere le molecole di aria dal bicchiere e avere niente come avevate chiesto al cameriere occorre che nel contenitore la pressione sia molto inferiore rispetto a quella atmosferica. Quest’ultima non è altro che la pressione che esercita l’enorme quantità di aria che abbiamo sopra le nostre teste, pari in condizioni normali a circa 10 tonnellate per metro quadrato. In sostanza viviamo sul fondale di un gigantesco oceano di aria, ma non ce ne accorgiamo più di tanto perché la pressione all’interno del nostro organismo è pressoché identica a quella dell’ambiente esterno (che varia comunque a seconda della temperatura e soprattutto dell’altitudine).Quando facciamo le pulizie in casa, l’aspirapolvere usa una ventola per creare una depressione al proprio interno ed è la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno che fa sì che la polvere venga risucchiata nel contenitore. L’aspirapolvere ha quindi creato un vuoto parziale, che si riempie però di materia perché c’è un’estremità che consente all’aria e alla polvere di fluire nel contenitore. In laboratorio, si utilizzano sistemi molto più raffinati e potenti per estrarre quanta più materia possibile da un contenitore.Il vuoto che si ottiene è comunque parziale. I sistemi più affidabili consentono di rimanere con appena 10 miliardi di molecole per centimetro cubo (ovvero 2mila miliardi nel bicchiere che vi ha portato il cameriere). È ancora un sacco di materia, ma in termini relativi è comunque un bel passo avanti rispetto a una condizione standard in cui ci sono milioni di miliardi di miliardi di molecole.Sulla Terra i veri specialisti nel creare il vuoto parziale sono i gruppi di ricerca del CERN, vicino a Ginevra in Svizzera. Nel Large Hadron Collider (LHC), il gigantesco anello sotterraneo lungo 27 chilometri in cui fanno accelerare e scontrare le particelle, è fondamentale che ci sia il minor numero possibile di atomi per evitare collisioni incontrollate. L’acceleratore, in sostanza un lunghissimo tubo, è fatto di materiali particolari per ridurre il rischio che questi perdano alcune delle proprie molecole ed è rivestito con speciali sostanze per l’assorbimento di gas che non dovrebbero trovarsi nell’acceleratore. Ci sono poi sistemi per rimuovere l’umidità e una lunga serie di potenti estrattori che impiegano circa due settimane per produrre il vuoto parziale.Rappresentazione schematica del funzionamento degli acceleratori di particelle al CERNIl risultato finale è un vuoto migliore di quello che possiamo trovare nello Spazio interplanetario, cioè ciò che si trova tra un pianeta e un altro del nostro sistema solare. Come ricordano al CERN, il risultato è inoltre comparabile, se non migliore, rispetto al vuoto parziale che troviamo nello spazio tra una stella e l’altra: lo Spazio interstellare. Qui in media un centimetro cubo contiene un milione di molecole, poco, ma siamo ancora distanti dal vuoto ideale dove non c’è niente di niente. La scarsa densità ci ricorda comunque che dove la materia è più densa ci sono stelle, pianeti e in ultima istanza noi stessi con i nostri bicchieri al bar, e ci ricorda anche che dove non si è raccolta è molto più sparpagliata.Se lasciamo le singole stelle e ci spingiamo ancora oltre, raggiungiamo lo Spazio intergalattico, cioè lo spazio tra una galassia e l’altra. Non sappiamo moltissime cose sulle sue caratteristiche, ma calcoli e simulazioni al computer effettuate negli anni offrono comunque qualche spunto. In un solo centimetro cubo preso a caso difficilmente osserveremmo qualcosa, ma si stima che tra una galassia e un’altra ci siano fino a dieci particelle per metro cubo. È un ambiente in cui la densità della materia è bassissima per i nostri standard qui sulla Terra, ma se ne prendessimo un bicchiere potremmo trovarci dentro comunque qualcosa. Anche in un luogo così inaccessibile e remoto, non avremmo il vuoto propriamente detto.Ripercorriamo a ritroso le migliaia di anni luce che abbiamo percorso e torniamo sulla Terra. Immaginiamo che mentre eravamo via qualcuno abbia inventato il sistema per sbarazzarci anche degli ultimi rimasugli di materia ordinaria che troviamo nello Spazio intergalattico. Avremmo finalmente il bicchiere vuoto? Non proprio.Nel contenitore avverrebbero comunque fenomeni fisici dovuti all’affollarsi di particelle virtuali, che hanno origine e si annullano di continuo così velocemente da non darci il tempo di misurarle. È un effetto della teoria quantistica dei campi, ambito che mette insieme la meccanica quantistica, la relatività e la teoria dei campi classica. Semplificando enormemente, possiamo dire che i campi sono gli oggetti fondamentali dell’Universo: entità fisiche che assumono un valore in ogni punto nello spaziotempo. Questa teoria ci dice inoltre che le particelle sono il frutto di un passaggio a maggiore energia di un punto del campo.Werner Heisenberg nel 1947 (AP Photo/Gerhard Baatz)Il fisico tedesco Werner Heisenberg, considerato uno dei padri della teoria quantistica, espose quasi un secolo fa il proprio “principio di indeterminazione” che offrì importanti elementi per teorizzare che il vuoto non sia mai veramente vuoto. Heisenberg disse che i valori di alcune coppie di grandezze riferite a una particella, come la posizione e la velocità, non possono essere misurati contemporaneamente con un’infinita precisione. Se nel vuoto non ci fosse alcuna forma di energia, un’ipotetica particella avrebbe energia nulla per un tempo preciso: entrambe le grandezze sarebbero quindi misurabili con accuratezza infinita e in violazione del principio di indeterminazione. Nel vuoto devono quindi esserci fluttuazioni quantistiche, con particelle che si creano e si distruggono a vicenda (annichilazione) mantenendo una quantità minima di indeterminazione.In sostanza, e tagliando con l’accetta decenni di studi e teorie fisiche per spiegare come funziona praticamente tutto, possiamo dire che potremmo eliminare dal bicchiere la massa ordinaria, ma rimarremmo comunque con un brulicare di particelle virtuali. Sarebbe comunque il miglior vuoto ottenibile, almeno in questo universo.Simulazione al computer dell’attività delle particelle virtuali nel vuotoIpotizziamo che ci sia un universo in cui possiamo prenderci la libertà di escludere tutte le particelle e di rimuovere le leggi della fisica, quelle che governano il modo in cui le cose funzionano e la loro stessa esistenza. Rimarremmo con qualcosa che non possiamo nemmeno definire uno “spazio vuoto”, perché non esisterebbe nemmeno il concetto di spazio che a sua volta è strettamente legato al concetto di tempo (lo spaziotempo della relatività). Non ci sarebbe nemmeno l’energia, non ci sarebbe davvero nulla. Se potessimo applicare questa cosa al bicchiere, infine non avremmo davvero nulla al suo interno, ma avendo rinunciato a tutto non esisterebbe nemmeno il bicchiere.E qui la faccenda da fisica si farebbe alquanto filosofica. Del resto già i primi filosofi, come Leucippo e Democrito, vissuti verso la metà del V secolo a.C., si chiedevano se potesse esistere uno spazio completamente vuoto contrapposto a quello in cui si trovano gli atomi dell’Universo. Aristotele introdusse poi il concetto di horror vacui, concludendo che «la natura rifugge il vuoto» e che di conseguenza tende a riempirlo costantemente.Aristotele respingeva l’idea del vuoto assoluto e la sua teoria divenne dominante, al punto da essere mantenuta per i circa due millenni successivi da molti altri che affrontarono il problema, diventando anche uno degli assunti della Chiesa. Le cose cambiarono nel diciassettesimo secolo, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che consentirono di analizzare e comprendere i fenomeni legati alla pressione.L’italiano Galileo Galilei fu tra i primi a condurre esperimenti per misurare la forza necessaria per produrre il vuoto parziale in un cilindro. Nel 1644 Evangelista Torricelli introdusse il principio del barometro, grazie alla costruzione di un dispositivo – che oggi chiamiamo “tubo di Torricelli” – con il quale fece nuove dimostrazioni sul fatto che l’aria ha un peso, portando elementi scientifici nelle discussioni filosofiche che proseguivano da millenni sull’horror vacui.Evangelista Torricelli conduce uno dei suoi esperimenti sulla pressione (Wikimedia)Una delle tante unità di misura della pressione si chiama “torr” proprio in onore di Torricelli, ma è probabile che abbiate sentito parlare anche del pascal (Pa), l’unità di misura della pressione nel sistema internazionale. Si chiama così per ricordare Blaise Pascal, importante fisico e filosofo francese che più o meno nello stesso periodo di Torricelli con altri esperimenti portò nuove conferme alla teoria della pressione atmosferica.Nei tre secoli seguenti intorno alla pressione, al comportamento dei fluidi e al vuoto furono effettuate numerose altre scoperte, spesso grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che rendevano possibili esperimenti più complessi ed elaborati. La produzione di pompe per produrre il vuoto parziale ebbe un ruolo importante per esempio nella scoperta dell’elettrone, così come dei raggi X. Nei primi decenni del Novecento fu grazie al vuoto che scienziati e scienziate iniziarono a comprendere alcune caratteristiche della materia, ponendo le basi per lo studio delle particelle.Il vuoto parziale ebbe un ruolo molto importante anche in una tecnologia che abbiamo avuto per lungo tempo specialmente sopra le nostre teste: la lampadina a incandescenza. Questa produceva luce rendendo incandescente, in seguito al passaggio dell’energia elettrica, un filamento resistente alle alte temperature, ma fino dai primi esperimenti era diventato evidente che il filamento bruciava troppo rapidamente limitando molto la vita della lampadina. Fu anche in questo caso un italiano, Alessandro Cruto, a sviluppare un filamento di grafite che durava molto a lungo, risolvendo uno dei problemi con cui si era scontrato il più famoso Thomas Edison, che pochi mesi prima aveva presentato la propria lampada a incandescenza.Una lampadina di Cruto conservata al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano (Wikimedia)Per estendere ulteriormente la durata del filamento, nel bulbo delle lampadine a incandescenza veniva prodotto un vuoto parziale, in modo da ridurre la presenza di ossigeno che avrebbe favorito la combustione del filamento. In seguito le lampadine sarebbero state prodotte inserendo nel bulbo un gas nobile a bassa pressione, ottenendo un’ulteriore estensione della durata del filamento e riducendo l’effetto che portava il vetro della lampadina ad annerirsi.Forse anche per la storia delle lampadine molti associano il concetto di vuoto alla mancanza di ossigeno, ma come abbiamo visto nel nostro viaggio interstellare le cose sono più complicate di così. Da quella convinzione deriva comunque una domanda ricorrente: come fa il Sole a “bruciare” se non c’è ossigeno nello Spazio?Il Sole, come tutte le altre stelle, non brucia come farebbero dei ciocchi di legno in un caminetto. La sua luminosità è dovuta ai processi di fusione nucleare che avvengono nel suo nucleo, con una enorme produzione di energia che rende incandescente il resto del materiale della stella. A volte si dice che il Sole “brucia idrogeno”, ma è un modo di dire: tecnicamente con la fusione l’idrogeno fonde in elio, non trattandosi di un processo di combustione non è necessaria la presenza di ossigeno.I raggi solari impiegano circa otto minuti per attraversare i 150 milioni di chilometri che in media separano il Sole dalla Terra. Come abbiamo visto nello Spazio il vuoto è pressoché perfetto, di conseguenza la luce viaggia alla massima velocità possibile in quel mezzo, pari a circa 300mila chilometri al secondo (c). Per la teoria della relatività ristretta è un limite invalicabile: la velocità massima a cui può viaggiare qualsiasi informazione nell’Universo.Nell’aria, la luce va lievemente più piano a causa della rifrazione, che comporta una diminuzione della velocità di propagazione della radiazione elettromagnetica. A rallentarla è proprio ciò che non riusciamo a vedere, così impalpabile da farci pensare al vuoto, ma che rende possibile e condiziona la nostra esistenza da sempre. Un grande oceano di aria, che lascia sempre pieni i nostri bicchieri al bar. LEGGI TUTTO

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    La Colombia prova a trasferire gli ippopotami di Pablo Escobar

    Il boss colombiano del traffico di droga Pablo Escobar ottenne una notorietà mondiale per la quantità di cocaina che riuscì a contrabbandare fuori dalla Colombia. Meno noto è quello che ha contrabbandato all’interno del paese. Alla fine degli anni Settanta Escobar, capo del cartello di Medellìn, importò quattro ippopotami, a quanto si sa dall’Africa o dagli Stati Uniti, per inserirli nel suo zoo privato in Colombia insieme a elefanti, giraffe e antilopi.Quando Escobar si consegnò alle autorità nel 1991, il governo sequestrò la sua casa di Hacienda Nàpoles e lasciò gli animali in libertà. Scelta che si è rivelata un grande errore: nei successivi 30 anni, gli ippopotami originali – tre femmine e un maschio – si sono riprodotti fino ad arrivare a diventare 130. Gli ippopotami non sono nativi del Sudamerica. In assenza di predatori naturali, questi erbivori territoriali e aggressivi si sono stabiliti nel fiume Magdalena nella Colombia centrale. Ora stanno divorando la vegetazione, togliendo spazio agli animali locali, inquinando il terreno e l’acqua e mettendo in pericolo le persone. (Gli ippopotami sono tra gli animali più pericolosi al mondo, capaci di uccidere un uomo con un solo morso, responsabili di circa 500 morti all’anno).Lo scorso anno il ministro dell’Ambiente li ha definiti una “specie invasiva” e ne ha vietato la riproduzione e il commercio, ma è da anni che prosegue il dibattito se vadano risparmiati o uccisi. Per alcuni questi animali sono ormai diventati delle specie di eccentrici e simpatici eroi. Ma «aspetta e vedrai», dice David Echeverri dell’azienda regionale per l’ambiente Cornare. «Quando inizieranno ad attaccare e uccidere le persone, questa prospettiva cambierà». Se venissero lasciati riprodursi liberamente, entro il 2040 potrebbero raggiungere i 600 individui.– Leggi anche: Cosa c’è di vero in “Narcos”, la serieOra però le autorità dicono di avere una soluzione. L’amministrazione del dipartimento colombiano di Antioquia, di cui fanno parte sia Medellìn sia la tenuta di Escobar, progetta di catturare circa 70 ippopotami e di mandarli in riserve in India e in Messico. 60 di loro stanno per essere inviati a un centro per la riabilitazione e il soccorso zoologico a Gujarat in India. I rimanenti stanno per raggiungere la riserva di Ostok in Messico. L’Ecuador, le Filippine e il Botswana sono pronti ad accoglierne altri.(Escobar era tenuto in un carcere costruito apposta per lui dopo aver concluso un patto con il governo per evitare l’estradizione negli Stati Uniti. Quell’edificio, chiamato da tutti “la Cattedrale”, comprendeva un bar, un campo da calcio e un cannocchiale così che il trafficante potesse vedere sua figlia nella sua casa di Medellìn mentre parlavano al telefono. Evase nel 1992 e fu ucciso dalla polizia l’anno seguente).Il piano per la ricollocazione degli ippopotami è cominciato un anno e mezzo fa, quando Sara Jaramillo, un’imprenditrice che lavora con l’assistenza agli animali, ha chiesto alla riserva di Ostok in Messico, che ospitava già circa 400 animali tra cui cervi e giaguari, se fossero interessati a ospitarne alcuni. «Abbiamo cominciato a cercare risorse e prendere accordi», spiega Ernesto Zazueta, presidente della riserva di Ostok. «Non tutti sono disposti ad accoglierli e mantenerli». Zazueta dice che la sua riserva sta progettando una struttura che ospiti 10 ippopotami fuori dalla zona a cui il pubblico ha accesso. Non saranno abbandonati al proprio destino, ha detto, «altrimenti quello che è successo in Colombia accadrebbe anche in Messico».Altri metodi per risolvere il problema si sono rivelati tutti inefficaci. Nel 2009 il governo diede il via libera a una caccia controllata di un paio di animali. Il cacciatore professionista Federico Pfeil-Schenider scortato dai militari ne uccise uno, ma la foto della carcassa circondata da soldati orgogliosi generò grande indignazione. All’ippopotamo fu dato il nome di Pepe e la sua morte fu molto compianta. A quel punto, la popolazione di ippopotami ammontava a meno di quaranta. Ma i politici hanno indugiato sui provvedimenti possibili e il numero intanto è salito.Dieci anni fa Echeverri aveva lanciato un programma di sterilizzazione grazie al quale 13 ippopotami sono stati sterilizzati e 5 sono stati spostati in zoo locali. «Consideriamo questi dati un successo?» si chiede Echeverri. «Beh, catturarli e castrarli è un processo così complesso, così pericoloso e così lungo che la risposta dovrebbe essere sì. Ma non è una pratica che si rivela efficace». Gli ippopotami femmina possono partorire ogni due anni. La popolazione si riproduce più in fretta del tempo impiegato per la sterilizzazione degli individui.Negli ultimi due anni Cornare ha provato un altro approccio: il contraccettivo chimico GonaCon, fornito dal governo statunitense. Viene inserito sia nei maschi che nelle femmine tramite un fucile. L’ultimo anno è stato somministrato a 38 ippopotami ma non è possibile individuarli. «Tracciarli è un impegno titanico», dice Echeverri. Cornare ha provato a contrassegnare gli individui con della vernice, dei marcatori satellitari e dei collari, ma in qualche modo gli ippopotami sono sempre stati in grado di liberarsi dai contrassegni. Quest’anno l’azienda sta pensando di provare a segnarli caricando i fucili di inchiostro per tatuaggi.Spostare gli ippopotami all’estero sarà molto costoso. Zazueta, presidente delle riserve e degli zoo messicani, ha fatto da tramite tra la Colombia e la riserva indiana. Spiega che le autorità useranno aerei cargo della compagnia bielorussa Rada Airlines capaci di portare da 20 a 30 ippopotami. Un volo per il Messico potrebbe costare 400 mila dollari, uno per l’India ne costerà 900mila.Ogni ippopotamo verrà trasportato in una gabbia di legno che potrebbe costare fino a 10mila dollari. Mantenere un ippopotamo costa circa 2.500 dollari al mese. Le risorse per fare tutto questo vengono dal Messico e dall’India, dice ancora Zazueta, che aggiunge di essere preoccupato per la salute degli animali e che il fatto che discendano dagli animali di Escobar non sia da celebrare. Un produttore di documentari argentino filmerà l’intero processo. Lina de los Rìos, portavoce del governo regionale, ha definito questa «una strategia preziosa per proteggere gli animali, non crediamo lo sterminio sia la giusta soluzione».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Emilia Sogni) LEGGI TUTTO

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    La musica e i ricordi

    Quando Laura Nye Falsone ebbe il primo figlio, nel 1996, stava avendo un grande successo il disco dei Wallflowers “Bringing down the horse”: «Mi basta sentire le prime note di One Headlight e mi ritrovo a ballare con mio figlio appena nato in braccio», dice: «ogni volta mi riempie il cuore di gioia».Quando l’Alzheimer precoce di Carol Howard, una biologa marina morta nel 2019, peggiorò, spesso non riusciva neanche a riconoscere suo marito. Una volta le successe di presentarlo a qualcuno come suo padre. Lui ora racconta che però se solo sua moglie sentiva una canzone di Simon e Garfunkel degli anni Sessanta poteva cantarne ogni parola senza sforzo.La capacità della musica di evocare ricordi così vividi è un fenomeno già ben conosciuto dai ricercatori. Può innescare accesi ricordi degli anni passati – per molti più intensamente che ogni altro senso come il gusto o l’odorato – e quelle esperienze possono provocare emozioni profonde. «La musica può aprire porte dimenticate sulla memoria», dice Andrew Budson, primario di neurologia cognitiva e comportamentale, responsabile dello staff di formazione e direttore del Centro per le Neuroscienze Cognitive e Traslazionali all’Ospedale per gli Affari dei Veterani di Boston. «Può portarti indietro nel tempo, nello stesso modo in cui una scossa di elettricità può attivare il tuo cervello e farlo funzionare», continua: «abbiamo avuto tutti l’esperienza familiare di tornare nella nostra città, passare accanto al nostro liceo e sentire affiorare i ricordi. La musica può fare la stessa cosa. Fornisce una cornice auditiva ed emotiva che ci permette di rivivere quei ricordi».Gli scienziati che studiano i forti effetti che la musica ha sul cervello dicono che le nuove conoscenze possono migliorare le terapie per malattie come la demenza e altri disturbi della memoria, l’ansia, lo stress e la depressione, la difficoltà di apprendimento e anche molte patologie fisiche come il dolore cronico, il cancro e il Parkinson.Ci sono prove che la musica porti alla produzione di neurotrasmettitori del cervello, come la dopamina, un trasmettitore chimico che si occupa del sistema cerebrale di ricompensa. Altri studi hanno mostrato che la musica riduce il cortisolo, l’ormone che produce lo stress, e aumenta la secrezione di ossitocina, che ha un ruolo durante il travaglio e il parto, e nel legame, nella fiducia e nell’attaccamento romantico neonato-genitore.«La musica attiva diverse parti del cervello», e questo la rende uno strumento particolarmente versatile, spiega Amy Belfi, ricercatrice di scienze psicologiche all’Università della Scienza e della Tecnologia del Missouri e ricercatrice principale nel laboratorio di Cognizione ed Estetica della Musica. «Ne facciamo uso per migliorarci l’umore, per aiutarci a studiare, per legare con altre persone. Diventa parte della nostra identità, colonna sonora delle nostre vite, il che spiega perché è così efficace nello stimolare e far rivivere i ricordi».Alcuni esperti vedono anche la musica – che può alleviare l’agitazione nei soggetti affetti da demenza – come un’alternativa ai sedativi, per esempio, o come un mezzo che permette a queste persone di evitare i ricoveri. Frank Russo, professore di psicologia alla Metropolitan University di Toronto, pensa che sia un obiettivo raggiungibile. È direttore scientifico di un’azienda che sta sviluppando un lettore musicale che usa l’intelligenza artificiale per produrre una playlist ad hoc progettata per guidare il paziente da uno stato di ansia a uno di calma.«Uno degli aspetti più impegnativi per i “caregiver” è la gestione dell’ansia e dell’agitazione», dice Russo, le cui ricerche si concentrano sull’intersezione tra neuroscienza e musica. «Una grande quantità di persone finisce in case di cura che ricorrono a sedativi e antipsicotici. La musica è una grande opportunità in questi casi».Melissa Owen, terapista musicale alla Clinica universitaria del Commonwealth in Virginia, ha già avuto a che fare con casi come questi nel suo lavoro. «Rimango ancora a bocca aperta di fronte alla capacità della musica di cambiare in meglio i comportamenti, le emozioni e anche i rapporti tra gli operatori sanitari e i loro pazienti, anche solo per la durata di una specifica canzone», dice. Fornisce «un momento di normalità quando molto sembra già perduto».Per comprendere gli effetti che la musica ha sul cervello, si studiano i diversi tipi di memoria che vengono coinvolti. Gli scienziati dicono che per esempio quando suoniamo, a differenza di quando semplicemente ascoltiamo, usiamo la memoria “procedurale”, un tipo di memoria “implicita” a lungo termine, che fornisce la capacità inconscia di ricordarci delle abitudini o delle routine di tutti i giorni, come scrivere con le dita su una tastiera, andare in bicicletta o lavarci i denti, senza doverci pensare.Questo tipo di memoria si differenzia da quella “episodica”, un tipo di memoria a lungo termine ed “esplicita”, che fornisce ricordi coscienti ed è quella che usiamo per ricordarci, per esempio, cosa ci eravamo segnati di dover comprare al supermercato.(Sia la memoria implicita che quella esplicita sono tipi di memoria a lungo termine – la prima inconscia e senza necessità di sforzi, la seconda bisognosa dello sforzo conscio di volersi ricordare). La memoria episodica ha origine nell’ippocampo, la regione del cervello che è la prima a smettere di funzionare quando sopraggiunge la demenza, dice Budson. «L’Alzheimer attacca per primo e soprattutto l’ippocampo», aggiunge, spiegando perché invece la memoria procedurale continui a fornire ai pazienti la capacità di ricordare i testi ed eseguire i brani: «è un sistema di memoria completamente diverso».Nei soggetti con un cervello sano, «la memoria episodica dà la possibilità di sentirsi trasportati indietro nel tempo» a uno specifico evento o periodo «quando ascolti un brano musicale», dice Budson, mentre la capacità di cantare o suonare musica appartiene alla memoria procedurale, il che significa che non c’è bisogno di pensare intenzionalmente a quello che si sta facendo. Un esempio noto è quello del celebre cantante Tony Bennett, di 96 anni, che anche durante le sofferenze dell’Alzheimer poteva continuare a cantare le sue canzoni più famose.Budson dice che comunque i pazienti affetti da Alzheimer possono fare esperienza del fenomeno di “tornare indietro nel tempo” grazie alla musica tramite la memoria episodica, anche dopo che la malattia ha intaccato il loro ippocampo, quando questi ricordi episodici hanno più di due anni. «Questi ricordi sono stati ‘consolidati’, e una volta consolidati possono essere accessibili anche se l’ippocampo è stato distrutto».«Il processo di consolidamento inizia nella notte dopo la quale un ricordo viene formato, e può durare fino a due anni», spiega Budson. Quando si crea un ricordo, non viene archiviato subito nell’ippocampo. I diversi aspetti di un ricordo – le immagini, i suoni, gli odori, le emozioni e i pensieri – sono rappresentati da uno schema di attività neuronale in diverse parti della corteccia, la superficie esterna del cervello, dove avvengono la vista, l’udito, l’odorato, l’emozione e il pensiero».Per capire il concetto, suggerisce, pensate ai ricordi come piccoli palloncini che fluttuano in diverse aree del cervello. «Quando un nuovo ricordo si forma è come se l’ippocampo cercasse di legare insieme i fili dei palloncini, proprio come se stesse tenendo tutti i fili di diversi palloncini nella sua mano», continua. «Se l’ippocampo venisse distrutto, i palloncini si dividerebbero, volerebbero via e il ricordo sarebbe eliminato». Ma dopo che il ricordo viene consolidato, «i diversi palloncini si legano l’un l’altro autonomamente tramite spesse corde e non c’è più bisogno dell’ippocampo perché il ricordo rimanga intatto. È per questo che le persone con la malattia di Alzheimer continuano ad avere ricordi della propria infanzia ma non di cosa hanno mangiato a pranzo o di chi hanno incontrato il giorno prima».Tutti conoscono l’effetto “macchina del tempo” di quando si ascolta una canzone della propria gioventù. «Andavo al liceo negli anni Ottanta e oggi, quando sento una canzone di Blondie o dei Depeche Mode, ho quella sensazione di essere in giro con i miei amici, indipendente dai miei genitori, quando stavo cominciando a sentirmi un adulto; è davvero intensa», spiega Budson. «Non ascoltiamo le canzoni solo una volta. Abbiamo nel tempo diverse opportunità di registrare quel ricordo. La musica che è profondamente consolidata in noi può sbloccare dei ricordi fotografici. Riusciamo a ricordarci dettagli più vividi del passato quando sentiamo la musica». Le ricerche hanno dimostrato che questo effetto è più forte di quando vediamo dei volti familiari o di quando ci troviamo di fronte ad altri stimoli.Belfi ha condotto una ricerca specifica su questo aspetto. Durante uno studio, trenta partecipanti (di età tra i 15 e i 30 anni) ascoltavano quindici secondi estratti da canzoni che erano popolari quando erano più giovani. Dopo aver ascoltato questi spezzoni, guardavano alcune foto di volti di persone famose appartenenti allo stesso periodo, tra cui politici, atleti e attori: ma non musicisti, per evitare confusioni. Gli scienziati chiedevano quindi ai partecipanti di descrivere ogni ricordo “autobiografico” che era stato ispirato loro dall’esposizione a questi stimoli. «La musica provocava ricordi molto più dettagliati di quanto facessero i volti», dice Belfi. «Abbiamo concluso che la musica tende ad associarsi a ricordi personali della vita». In un altro breve studio ha detto di aver chiesto ai partecipanti – 39 giovani adulti dai 18 ai 34 anni e 39 adulti più anziani dai 60 ai 77 anni – di tenere un diario per un lasso di tempo di quattro giorni nel quale registrare le loro reazioni sia alle canzoni che sentivano sia al cibo che mangiavano, cucinavano e vedevano nei supermercati o nei programmi TV di cucina. «La musica evocava più frequentemente ricordi personali, una percentuale maggiore di ricordi involontari, e ricordi considerati più personali in confronto a quelli provocati dal cibo».Questo non sorprenderebbe Falsone, una responsabile di laboratorio del Centro per la ricerca ambientale Smithsonian. Il bambino che teneva in braccio mentre ballava ora ha ventisei anni, e lei ha avuto altri due figli e una figlia. Tutti loro conoscono il suo aneddoto sui “Wallflowers”.«Quando ne parlo, loro alzano gli occhi al cielo e dicono, ‘Sì, mamma, lo sappiamo. Ti piace questa canzone’», dice, «ma sorridono».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Emilia Sogni) LEGGI TUTTO

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    Meglio lavarsi i denti prima o dopo colazione?

    Caricamento playerLa maggior parte dei dentisti consiglia di lavarsi i denti almeno due volte al giorno, in modo da mantenere una buona igiene orale. Per questo molte persone scelgono di farlo poco prima di andare a letto la sera e al mattino quando si svegliano. Mentre sullo spazzolarsi i denti prima di dormire non ci sono dubbi, le cose si complicano su quale sia il momento più adatto per usare spazzolino e dentifricio al mattino: è meglio prima o dopo avere fatto colazione?Per alcuni non c’è nemmeno da chiederselo perché “i denti si lavano dopo mangiato e basta”, per altri è un dubbio esistenziale che si ripresenta ogni mattina, altri ancora probabilmente non si erano mai posti il problema, magari fino alla lettura del titolo di questo articolo. L’argomento è del resto dibattuto, ma nonostante ciò non si trovano molte informazioni nella letteratura scientifica su quale sia la migliore pratica da seguire. Entrambi gli approcci hanno vantaggi e svantaggi, che conviene conoscere per scegliere da che parte stare.Lavare i denti prima di colazioneNel corso della notte la salivazione si riduce sensibilmente e ciò contribuisce, insieme ad altri fattori, a un aumento dei batteri che popolano la nostra bocca. Il risultato più evidente di questa circostanza è la secchezza delle fauci appena svegli accompagnata da un alito non sempre piacevolissimo, dovuto anche a ciò che abbiamo mangiato la sera precedente.Le colonie di batteri che abbiamo in bocca si nutrono soprattutto di carboidrati, di conseguenza per loro una brioche, dei biscotti, dei cereali o ancora del pane e marmellata costituiscono un gran banchetto per avere nuove energie per continuare a replicarsi. Nel farlo, si producono acidi che possono intaccare lo smalto dentale rendendo più sensibili e deboli i denti, o causando infiammazioni a livello gengivale.Lavarsi i denti prima di colazione permette di ridurre la presenza dei batteri, evitando di accrescere il loro effetto sui denti. Spazzolino e dentifricio favoriscono inoltre la produzione di saliva, che contribuisce a ridurre gli effetti dei batteri e più in generale la corrosione dello smalto dentale.Dopo i pasti sarebbe opportuno attendere tra i 30 e i 60 minuti prima di lavarsi i denti perché gli alimenti acidi indeboliscono temporaneamente lo smalto, che potrebbe essere poi rimosso dalle setole dello spazzolino o da un dentifricio eccessivamente abrasivo. A colazione si consumano spesso sostanze acide, come succo d’arancia o caffè, di conseguenza ci sono rischi maggiori per la salute dello smalto. Il problema si pone meno alla sera perché di solito passa qualche ora tra la cena e il momento in cui ci si lava i denti prima di andare a dormire.Lavare i denti dopo colazioneIl vantaggio principale di lavarsi i denti dopo avere fatto colazione è piuttosto evidente: si rimuovono eventuali residui di cibo, che rimanendo in bocca potrebbero favorire l’aumento della carica batterica o rendere più acido il cavo orale. Considerato che dopo colazione passano molte ore prima del pasto successivo, si può avere la bocca “più pulita”.Per quanto riguarda i batteri, benché non ci siano molte ricerche scientifiche su cui basarsi, si ritiene che la colazione sia un pasto troppo breve per portare a un aumento significativo della loro presenza mentre si mangia, di conseguenza l’eventuale effetto negativo è alquanto limitato. Il fatto stesso di lavarsi i denti dopo la colazione permette di eliminare una parte consistente di quei batteri, prima che possano fare danni particolari.Anche sul potenziale danno dovuto a spazzolarsi i denti subito dopo avere consumato la colazione ci sono opinioni discordanti. È vero che si consumano sostanze acide, ma il tempo di esposizione e la rapidità del pasto probabilmente rendono marginale l’effetto sullo smalto. Un consiglio è di fare uno sciacquo con l’acqua per ridurre la presenza di residui, in attesa di spazzolarsi i denti più tardi.Quindi?Come avrete intuito non c’è una risposta chiara, soprattutto per la difficoltà di condurre studi che portino poi a risultati non solo significativi, ma anche affidabili. Le cause dei problemi dentali sono molte, derivano dalle abitudini di ogni individuo e in ultima istanza dal modo in cui è fatto, come avviene spesso con le cose che riguardano la salute.In mezzo a tanta incertezza, si può comunque aderire a un certo pragmatismo. Considerato che è importante lavarsi i denti almeno due volte al giorno, conviene scegliere la routine che rende più facile possibile questa condizione. Per esempio, chi al mattino è sempre in ritardo e scappa con la colazione ancora in gola, o decide di farla velocemente fuori casa, ha più possibilità di non scordarsi di lavarsi i denti se lo fa come prima cosa appena si sveglia, rispetto a chi riesce a dedicare più tempo a cereali, frollini e marmellate. LEGGI TUTTO

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    Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemia

    Negli ultimi tre anni, soprattutto nel 2020 e nel 2021, le condizioni eccezionali determinate dalla pandemia e dalle misure adottate per contrastarla hanno fornito a ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo l’opportunità di raccogliere e analizzare enormi quantità di dati e informazioni. Diverse ricerche di psicologia e neuroscienze hanno permesso di approfondire le conoscenze sui sogni, per esempio, o sulle reazioni agli eventi traumatici e alla sovraesposizione alle notizie.Una parte delle ricerche si è concentrata anche sulla percezione distorta del tempo durante la pandemia e su come il normale funzionamento della memoria sia stato condizionato da molti fattori relativi alle routine atipiche di quel periodo. Un’impressione comune e molto condivisa è che sia piuttosto faticoso rievocare e distinguere con chiarezza i ricordi delle cose successe durante le fasi di isolamento. E che sia difficile associare con precisione un determinato evento a un particolare momento della pandemia anziché un altro: dire se quell’evento sia avvenuto nell’autunno del 2020 o del 2021, per esempio.Questa sensazione largamente condivisa è stata interpretata e descritta dagli studiosi che se ne sono occupati come un fenomeno del tutto normale, molto utile a spiegare per contrasto come funziona la memoria in circostanze normali. Le nostre giornate sono solitamente scandite da eventi – spostamenti in macchina o appuntamenti a cena, per esempio – che forniscono «punti di riferimento temporali», scriveva già alla fine del 2020 un gruppo di ricercatori canadesi della Université Laval, a Québec, in uno studio sulla percezione del tempo durante la pandemia pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology.Quando quei punti di riferimento vengono meno, non solo la nostra percezione del tempo cambia ma cambia anche il modo in cui memorizziamo le informazioni. Non avere molti ricordi chiari e contestualizzati delle cose successe durante la pandemia non è quindi l’effetto di una successiva rimozione o perdita della memoria di quegli eventi, in questo caso, ma piuttosto del fatto che in quel periodo non abbiamo “immagazzinato” informazioni nel modo in cui lo facciamo abitualmente.Per codificare nuovi ricordi e recuperare quelli vecchi il nostro cervello utilizza i cambiamenti nel contesto e i confini degli eventi come una specie di sostegno: stimoli che attivano una diversa attenzione alle circostanze. E tanto più forti e fuori dall’ordinario sono gli stimoli, tanto è più probabile la formazione dei ricordi di quegli eventi. Dopo l’impatto iniziale con la straordinarietà della pandemia – e molti infatti ricordano bene cosa facevano e dove si trovavano nei primissimi giorni – la vita di moltissime persone nel mondo si è svolta invece in un contesto di eccezionale monotonia.– Leggi anche: La pandemia noiosaL’ambiente ripetitivo e privo di stimoli vari in cui le persone hanno trascorso grandissima parte del loro tempo in isolamento è un tipo di ambiente «cognitivamente scarso», ha detto alla rivista canadese The Walrus la neuropsicologa e scienziata cognitiva canadese Morgan Barense della University of Toronto. E questa condizione comporta inevitabilmente una serie di conseguenze.Il cosiddetto doomscrolling, la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie (perlopiù drammatiche e deprimenti) sugli smartphone, è stato per molte persone un tentativo del tutto spontaneo di arricchire la memoria a breve termine in momenti della giornata che prima della pandemia erano destinati ad altre attività. Ricevere meno stimoli nuovi significa anche stimolare di meno la memoria in generale: una carenza che si riflette sia in una ridotta formazione di nuovi ricordi, sia in una diminuzione degli stimoli necessari a rafforzare i ricordi di esperienze passate correlate a stimoli di quello stesso tipo.Percorrere ogni giorno in macchina una certa strada da casa all’ufficio, per esempio, è un’attività routinaria che in quanto tale generalmente non attiva un’attenzione diversa da quella di tutti i giorni lungo quello stesso tragitto. Il percorso fornisce però una serie di stimoli – passare da un certo negozio o da una scuola, o incrociare un amico – che possono in molti casi, anche in modo molto indiretto, funzionare come segnali di recupero di esperienze già vissute e rafforzarne il ricordo.Aver formato meno ricordi durante la pandemia è un fenomeno direttamente associato anche alle alterazioni nella normale percezione del tempo, e cioè la sensazione che scorra troppo lentamente o troppo velocemente, o l’incapacità di distinguere un giorno feriale da uno festivo: distorsioni conosciute nella letteratura psichiatrica come «disintegrazione temporale» e associate a vari disturbi della salute mentale.Per uno studio longitudinale, cioè che misura le variazioni nel tempo, pubblicato nel 2022 su una rivista della American Psychological Association (la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti), un gruppo di ricercatori della University of California Irvine condusse due sondaggi su 5.661 persone all’inizio e alla fine dei primi sei mesi della pandemia. Circa due terzi degli intervistati riferirono di aver avuto una percezione distorta del tempo. I ricercatori conclusero che le distorsioni nella percezione del tempo erano molto comuni e associate a diversi fattori tra cui la salute mentale e i livelli di stress prima della pandemia, e l’esposizione a eventi traumatici durante la pandemia.Nel caso delle esperienze traumatiche l’alterazione dei ricordi e della percezione del tempo ha ragioni diverse dalla povertà degli stimoli e dalla monotonia dell’ambiente, e riguarda piuttosto una difficoltà nella rielaborazione degli eventi.– Leggi anche: Vi capita di ricordare in terza persona?Come spiegava sul New York Times in un articolo del 2022 il neurologo statunitense Scott A. Small, noto per le sue ricerche sull’Alzheimer e sull’invecchiamento cognitivo, i neuroni contengono quelle che a volte sono definite «nanomacchine» dedicate alla formazione di nuovi ricordi, ma anche nanomacchine completamente diverse che servono allo scopo opposto: smantellare accuratamente – e quindi dimenticare – le parti dei nostri ricordi immagazzinati.In una certa misura, l’oblio determinato da questa attività neurologica – da non confondere con la rimozione nella psicoanalisi – è un fenomeno normale. E non dovrebbe essere considerato un malfunzionamento della memoria, secondo Small, ma una parte «sana e adattiva» del normale funzionamento del cervello. Memoria e oblio, in altre parole, sono parti di uno stesso processo e in un equilibrio fondamentale per la nostra salute mentale: dipendiamo dalla memoria per «registrare, imparare e ricordare» gli eventi, e dall’oblio per «compensare, scolpire e soffocare i nostri ricordi».La mancanza di questo equilibrio è particolarmente evidente, per esempio, nei casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In circostanze normali l’oblio agisce come una protezione dall’ansia debilitante, ha scritto Small, perché non cancella i ricordi ma ne riduce la potenza emotiva. Che è un meccanismo del cervello in funzione sempre, anche quando i ricordi sono associati a emozioni più ordinarie: dimenticare nel senso di mettere da parte dolore o risentimento, per esempio, è spesso una condizione necessaria a preservare relazioni sociali e amicizie. E non vuole dire che il ricordo in sé sia scomparso dalla memoria.Nei pazienti con disturbo post-traumatico da stress l’area del cervello che immagazzina ricordi che generano ansia e paura è molto attiva, e appare invece molto diminuita la capacità dell’individuo di ridurre la potenza emotiva di quei ricordi. Semplificando i termini ma con cautela, ha scritto Small, è possibile pensare al disturbo post-traumatico da stress come a un disturbo contraddistinto da un eccesso di memoria e un difetto di oblio nel senso di «dimenticare in modo sano» un’esperienza traumatica.Di disturbo post-traumatico da stress si è parlato anche in relazione a particolari reazioni alla pandemia, da alcuni associate per tipologia di sintomi a forme lievi di PTSD. Lo stress cronico e l’incertezza sulla propria sopravvivenza sperimentate da molte persone durante la pandemia, secondo Barense, ha provocato in loro un’ansia prolungata e condizionato negativamente la loro memoria e la salute mentale, anche in assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia.– Leggi anche: Cosa può insegnare un incidente aereo sulle nostre reazioni alla pandemiaIn alcuni casi, ha detto a The Walrus lo psicologo canadese della University of Toronto Scarborough Steve Joordens, persone che hanno temuto per la loro vita anche in funzione di particolari vulnerabilità – persone immunodepresse o in precarie condizioni di salute – hanno avuto attacchi di panico o altre reazioni emotive incontrollate al momento di tornare a uno stile di vita normale.Casi di questo tipo possono succedere per il modo in cui sono fatti i nostri cervelli, che si sono evoluti per prevedere minacce immediate – i predatori, per esempio – e riconoscere segnali già associati in precedenza a esperienze pericolose, ha ricordato Joordens. Quei segnali attivano a loro volta sensazioni di paura, ma in alcuni casi lo fanno anche in assenza di un pericolo concreto. Vivere l’esperienza di trovarsi in un bar poco prima di una sparatoria, per esempio, potrebbe portare una persona a sentirsi in pericolo in futuro anche solo ascoltando il rumore della macinatura del caffè, associato all’evento traumatico (che è il funzionamento classico del disturbo post-traumatico da stress).Nel caso delle persone che hanno avuto difficoltà a tornare alla normalità dopo i lunghi periodi di isolamento durante la pandemia, il cervello ha tracciato una serie di associazioni tra determinati stimoli – gli assembramenti, per esempio – e una profonda sensazione di paura. In alcuni casi particolarmente problematici le persone hanno avuto bisogno dell’aiuto di specialisti.Per la maggior parte delle persone il ritorno alla normalità invece non è stato difficile, e ha determinato anzi una scarica molto intensa di stimoli nuovi e per lungo tempo assenti. Questa condizione particolare, ha detto Barense, può in molti casi portare anche a diversi tipi di miglioramento improvviso della memoria negli adulti. È un fenomeno noto nella letteratura scientifica come «picco di reminiscenza», e si verifica – a volte a seguito di un cambiamento significativo nella vita – quando le persone sperimentano un miglioramento dei ricordi della prima infanzia o dell’adolescenza.– Leggi anche: A che età risalgono i nostri primi ricordi LEGGI TUTTO

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    C’è un nuovo trattato internazionale per la protezione degli oceani

    Dopo oltre dieci anni di negoziazioni, sabato sera gli stati membri dell’ONU hanno trovato un accordo internazionale per la protezione degli oceani. Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Il suo obiettivo è che il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto – quelle cioè in cui tutti i paesi hanno diritto a pescare, navigare e fare ricerche – diventino aree protette entro il 2030.L’accordo (qui c’è una bozza) punta a tutelare e favorire il risanamento delle specie marine a rischio attraverso una serie di politiche e iniziative. In particolare, prevede che nelle aree protette stabilite dal nuovo accordo vengano fissati limiti alla pesca, alle zone in cui possono transitare le navi e alle attività di esplorazione che vi si possono svolgere, come l’estrazione dei minerali dai fondali oceanici. Prevede anche l’istituzione di una conferenza (COP) che si riunirà periodicamente per discutere delle questioni pertinenti.Le negoziazioni per il nuovo trattato erano cominciate il 20 febbraio e sono durate due settimane, dopo che le ultime si erano concluse lo scorso agosto senza alcun risultato. L’accordo è stato raggiunto soprattutto grazie alla mediazione di Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Cina, che si sono impegnate per trovare compromessi con i paesi che nel tempo avevano sollevato dubbi sia per quanto riguardava i diritti di pesca che su come ottenere i fondi necessari per implementare le proposte.Uno dei principali punti di discussione riguardava lo sfruttamento del materiale genetico di piante e animali marini che vivono in mare aperto, che può essere utile per la produzione di farmaci e cibo, ma anche per alcuni processi industriali. Mentre i paesi più ricchi hanno le risorse per esplorare le acque oceaniche e i fondali marini anche per questi scopi, quelli con le economie più deboli no: alcuni chiedevano pertanto rassicurazioni sul fatto che tutti potessero beneficiare in maniera equa degli accordi.I paesi aderenti dovranno comunque riunirsi di nuovo per adottare formalmente il testo e decidere le modalità per implementarlo. Intanto, l’Unione europea si è impegnata a investire 40 milioni di euro affinché l’accordo venga ratificato e applicato dai paesi aderenti in tempi brevi.Il più recente accordo internazionale relativo alla protezione degli oceani e ad altri temi collegati era la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che risale al 1982, più di quarant’anni fa. Il nuovo trattato servirà anche per rispettare gli obiettivi dell’accordo raggiunto lo scorso dicembre alla COP15 sulla biodiversità, secondo cui entro il 2030 dovrà diventare protetto il 30 per cento di tutte le aree terrestri e marine (oggi sono il 17 per cento di quelle terrestri e il 10 per cento di quelle marine).– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 4 marzo 2023

    Se diciamo “petauro dello zucchero” è probabile che non vi venga in mente che animale sia, ma forse si ha più fortuna con “scoiattolo volante”, il nome con cui è impropriamente conosciuto: è un piccolo marsupiale in grado di fare lunghi salti, che si nutre principalmente di frutta, di cui trovate un esemplare tra le foto di animali della settimana. È in compagnia di una volpe nel centro di Londra, di un pangolino cinese e una garzetta nivea, rimanendo in tema di animali dai nomi insoliti. Poi rane su orchidee e un calabrone su un crocus, per finire con Larry, il gatto del numero 10 di Downing Street, accarezzato dall’ambasciatore ucraino nel Regno Unito Vadym Prystaiko e dalla moglie durante una foto di gruppo..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    La siccità nel Nord Italia sembra legata al cambiamento climatico

    Caricamento playerÈ ormai risaputo che il cambiamento climatico causa un aumento della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi, come alluvioni e siccità, ma per la comunità scientifica non è immediato ricondurre un singolo fenomeno di questo tipo all’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra. Per accertare eventuali rapporti di causa ed effetto servono studi appositi. Nel caso della siccità che da più di un anno sta colpendo il Nord Italia oltre che la Francia, la Svizzera e altre regioni europee, causando molti problemi sia al settore agricolo che a quello della produzione di energia, ne è stato pubblicato uno da poco: dice che il cambiamento climatico l’ha aggravata.Semplificando i risultati dello studio, è emerso che siccità analoghe a quella di questi mesi erano meno estese geograficamente e meno lunghe: il riscaldamento globale sembra aver ampliato le zone di alta pressione e causato una maggiore evaporazione dell’acqua dal suolo e dalle piante.Lo studio è stato pubblicato il 28 febbraio dalla rivista Environmental Research Letters ed è stato realizzato da due ricercatori del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) italiano, Davide Faranda e Burak Bulut, e uno dell’Università di Bologna, Salvatore Pascale, che fa parte del gruppo di ricerca di fisica atmosferica del dipartimento di fisica e astronomia “Augusto Righi”. Lo studio rientra nella cosiddetta “attribution science”, letteralmente “scienza dell’attribuzione”: è la branca della climatologia sviluppatasi a partire dal 2004 che indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, sviluppando metodi per trovare eventuali collegamenti.«Abbiamo deciso di analizzare questa siccità per due ragioni», spiega Faranda: «Prima di tutto per la sua grande estensione geografica, dato che in passato eravamo abituati a siccità che interessavano solo l’Italia, o parte d’Italia, oppure la Francia e l’Inghilterra, oppure la penisola iberica. Poi perché per l’IPCC [il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’ONU] c’è una mancanza di studi sulle cause delle siccità nell’Europa occidentale».La siccità in corso è una siccità idrologica, a cui cioè è associata una riduzione delle acque presenti nei corsi d’acqua, nei laghi e nelle falde sotterranee, e al tempo stesso una siccità agricola, che ha cioè ripercussioni sulle coltivazioni. Non è dovuta solo a una carenza di precipitazioni molto estesa nel tempo, ma anche a temperature più alte della norma che, in associazione al prolungato bel tempo, hanno portato a un aumento della quantità d’acqua che evapora dal terreno e traspira dalle piante (evapotraspirazione). Dunque per analizzarla non basta tener conto unicamente di un’analisi delle precipitazioni, ma anche della temperatura e della risposta del suolo alla mancanza di pioggia.«Ci sono eventi meteorologici che sono più facilmente attribuibili al cambiamento climatico», dice Pascale: «Ad esempio le ondate di calore: a causa del riscaldamento globale, è intuitivo e logico aspettarsi che aumentino le probabilità che si verifichino questi fenomeni. La componente delle precipitazioni è più complessa da studiare e nelle siccità, che dipendono da diverse variabili, il nesso non è diretto, bisogna dipanare la matassa con attenzione».Faranda, Pascale e Bulut hanno tenuto conto dei tre fattori coinvolti usando un indice che li contempla tutti e diventa negativo in condizioni di siccità. Poi hanno studiato la circolazione atmosferica, cioè l’alternarsi delle condizioni di alta pressione (associata al bel tempo) e bassa pressione (brutto tempo), dal dicembre del 2021 all’agosto del 2022 nelle aree in cui l’indice della siccità era negativo, e hanno trovato un’associazione tra le zone di alta pressione e le zone più colpite dalla siccità.Successivamente hanno utilizzato una serie di dati meteorologici che partono dal 1836 per cercare distribuzioni di alta pressione analoghe a quelle del periodo 2021-2022 preso in considerazione. Nel farlo hanno distinto i casi precedenti al 1915, cioè relativi a un periodo storico in cui non si vedevano ancora effetti sul clima dell’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera, e quelli successivi al 1942. «Abbiamo visto che le siccità simili c’erano anche prima, ma interessavano solo parte della Francia e dell’Inghilterra ed erano meno intense, sia in termini di carenza di precipitazioni che di evapotraspirazione», racconta Faranda.Tuttavia non basta verificare che un fenomeno sia stato diverso rispetto ad altri analoghi passati per dire che sia legato al cambiamento climatico.«Ciò che serve per poter attribuire la causa al cambiamento climatico è un meccanismo fisico che leghi i due fenomeni», continua Faranda: «In questo caso è quello che per semplificare abbiamo chiamato “effetto mongolfiera”: con le emissioni di gas serra facciamo aumentare la temperatura dell’atmosfera e, dato che nei gas la temperatura è legata alla pressione in maniera proporzionale, se aumentiamo la temperatura aumentiamo anche la pressione, proprio come succede nel pallone di una mongolfiera».In questa similitudine alla mongolfiera corrisponde la zona di alta pressione nell’atmosfera, l’anticiclone: «Arriva nella tropopausa [lo strato di atmosfera che separa la troposfera, in cui avvengono i fenomeni meteorologici, dalla stratosfera, più in alto], e si espande. Per questo questa siccità ha inglobato più aree geografiche e in particolare l’Italia del nord rispetto al passato».– Leggi anche: Al Sud non c’è la siccitàPascale precisa che queste considerazioni non valgono per tutti gli episodi di siccità che ci sono stati in Italia in anni recenti, come quello del 2017, ma solo per le caratteristiche di questa specifica siccità: per le altre bisognerebbe fare studi appositi. In quella che stiamo attraversando in particolare «è molto forte l’evapotraspirazione, cioè il grado con cui il terreno si secca: avviene molto più in fretta rispetto all’Ottocento per l’aumento delle temperature».Secondo il climatologo Maurizio Maugeri, professore dell’Università Statale di Milano e presidente del corso di laurea magistrale in “Environmental Change and Global Sustainability”, che non ha partecipato allo studio, è una ricerca «originale, sicuramente solida» che è stata pubblicata peraltro su «un’ottima rivista» per il settore: «I risultati più importanti di questo lavoro mettono in evidenza non tanto che queste condizioni si presentano in modo più frequente negli anni più recenti rispetto all’andamento storico ma che, quando si presentano, sanno essere “più estreme”, “più cattive”».Maugeri sottolinea l’importanza del dato sull’evapotraspirazione: «Anche qualora le precipitazioni non fossero cambiate in nessun modo da 200 anni fa a oggi, il fatto che faccia più caldo causa una maggiore evaporazione, quindi l’acqua che abbiamo a disposizione nelle nostre riserve è minore». L’aumento dell’evapotraspirazione è stato oggetto anche di altri studi, tra cui uno a cui ha lavorato lo stesso Maugeri e dedicato al bacino del fiume Adda, che scorre in Lombardia, dalle Alpi Retiche al Po: «Per i 170 anni di cui abbiamo dati, le piogge si sono ridotte grosso modo del 5 per cento, quindi pochissimo, mentre le portate dell’Adda si sono ridotte del 20 per cento».Anche per Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, lo studio di Faranda, Pascale e Bulut «è importante» e l’approccio su cui è basato è «promettente, può essere usato anche per altri eventi»: «L’Italia è sul fronte del cambiamento climatico più di altri paesi e quindi dovrebbe essere “in prima linea” nel produrre questo tipo di elaborazioni. Però non siamo produttivi come altri paesi».Ramona Magno, ricercatrice dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e coordinatrice scientifica dell’Osservatorio Siccità, ricorda che in generale, da varie ricerche, sappiamo che nella zona del Mediterraneo il cambiamento climatico sta esacerbando gli eventi estremi: è già stato osservato un aumento sia nella frequenza che nell’intensità delle ondate di calore e delle siccità, e secondo le proiezioni aumenteranno ancora. Le cose sono meno chiare invece per quanto riguarda l’influenza del riscaldamento globale sulle circolazioni atmosferiche che riguardano l’Europa, ma come mostra anche lo studio sulla siccità del 2022 si vede che ci sono dei cambiamenti in atto.Per quanto riguarda la situazione attuale e quella dei prossimi mesi, «le recenti perturbazioni e i recenti abbassamenti di temperatura sono importanti perché “fanno tirare il fiato”, limitano un po’ le condizioni di deficit di precipitazione», spiega Magno, soprattutto nel Piemonte occidentale, la zona che più ha sofferto finora per la siccità. Tuttavia «le precipitazioni hanno interessato soprattutto il centro Italia» e «se non saranno continue e distribuite anche su periodi successivi, non saranno sicuramente sufficienti a colmare del tutto il deficit che si è formato al nord Italia, soprattutto nel nord-ovest».Le previsioni stagionali fatte da vari centri meteorologici europei dicono che nei prossimi tre mesi «con buona probabilità, tra il 40 e il 60 per cento, le temperature medie saranno superiori a quelle del periodo 1991-2020», mentre i modelli sono discordanti per quanto riguarda le precipitazioni: «Nel complesso le precipitazioni potrebbero essere in media, quindi potrebbe piovere come al solito in questo periodo, però siccome il deficit accumulato in alcune zone d’Italia è notevole, potrebbero non essere sufficienti».Insomma la siccità potrebbe proseguire. E un’estate di siccità che segue un’estate di siccità è più grave, soprattutto per le colture che richiedono molta acqua, come il riso e il mais.«Magari arriva una perturbazione, ma se è un momento passeggero il suolo non riesce a rimettersi in sesto», riassume Faranda: «È come quando una persona è depressa: ogni tanto vive un momento di felicità, però rimane sostanzialmente nello stesso stato e nel tempo si aggrava. La vegetazione è un po’ come un essere umano: non vive i nostri stessi tipi di stress, vive lo stress idrologico, ma c’è una similitudine. Alla lunga, dopo anni di siccità, la vegetazione non riesce più ad adattarsi e muore. E bisogna pensare di cambiare le colture».– Leggi anche: Cosa è questo “piano laghetti” contro la siccità LEGGI TUTTO