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    Una cosa difficilissima che stiamo imparando a fare

    La Hringvegur è la strada più importante dell’Islanda: copre buona parte del perimetro dell’isola e non a caso il suo nome significa letteralmente “strada anello”, o “tangenziale” per i meno romantici. A est della capitale Reykjavík, la desolazione delle terre scure vulcaniche attraversate dalla Hringvegur è interrotta dagli sbuffi bianchi di vapore acqueo di una delle tante centrali geotermiche dell’isola. Parte dell’energia elettrica prodotta viene impiegata a poca distanza per alimentare Orca, il più grande impianto al mondo per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, per dimostrare la fattibilità di una delle tecnologie che dovremo usare contro il cambiamento climatico.Ridurre il più possibile le emissioni di gas serra derivanti dalle attività umane è essenziale per evitare che la temperatura media globale continui ad aumentare, ma non è sufficiente. Come ha segnalato l’ultimo rapporto di sintesi sul clima delle Nazioni Unite diffuso lunedì 20 marzo, dovremo rimuovere dall’atmosfera le enormi quantità di anidride carbonica (CO2) che abbiamo immesso dall’inizio dell’epoca industriale per mantenerci sotto una soglia in cui gli effetti del cambiamento climatico saranno più gestibili. La quasi totalità degli studi scientifici lo segnala da tempo, ma sia rimuovere l’anidride carbonica in eccesso nell’atmosfera sia ridurne la produzione è complicato, soprattutto per come sono organizzate le nostre società e i modi in cui produciamo energia.Secondo il documento dell’ONU – che riassume le migliaia di pagine del Sesto rapporto di valutazione 2021-2022 – la rimozione della CO2 non è solamente un’opzione, ma una necessità. Oltre a eliminare l’eccesso di anidride carbonica già immessa, servirà per controbilanciare le emissioni che non potremo fare a meno di produrre in settori come l’agricoltura, il trasporto aereo, alcuni processi industriali e altri ambiti in cui la decarbonizzazione è attualmente troppo onerosa.Stimare la quantità di anidride carbonica da rimuovere per evitare che si superino i 2 °C di aumento della temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale non è comunque semplice. Il limite deriva dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, che aveva fissato una soglia più ottimistica a 1,5 °C, entro la quale non riusciremo a rimanere con gli attuali andamenti.Un ampio studio realizzato dall’Università di Oxford sui processi di rimozione della CO2 su scala globale ha stimato che dovremmo togliere dall’atmosfera circa 2 miliardi di tonnellate di questo gas all’anno per contenere l’aumento della temperatura entro limiti accettabili nei prossimi decenni. La quantità equivale a circa il 5 per cento dei quasi 37 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessi in un anno derivanti solo dall’impiego dei combustibili fossili e del cemento.È una quantità enorme da rimuovere, se consideriamo che l’impianto di Orca in Islanda riesce a toglierne circa 3.700 tonnellate in un anno: meno dello 0,0002% dei due miliardi indicati dallo studio di Oxford. L’impianto ha soprattutto lo scopo di dimostrare la fattibilità di un sistema di cui si parla da molto tempo. In generale, del resto, le tecnologie per eliminare parte della CO2 dall’atmosfera esistono, ma non è sempre chiaro quanto siano praticabili su larga scala e quali rischi potrebbero comportare per l’ambiente.L’impianto Orca di Climeworks in Islanda (Climeworks)Orca è stato realizzato da Climeworks, un’azienda fondata nel 2009 a Zurigo che da tempo sperimenta soluzioni per la cattura atmosferica dell’anidride carbonica. Dopo averne sviluppate alcune in Svizzera, i suoi responsabili hanno pensato all’Islanda sia per la presenza degli impianti geotermici che consentono di produrre energia elettrica in modo sostenibile, sia per la possibilità di sfruttare le caratteristiche geologiche dell’isola per conservare l’anidride carbonica estratta dall’atmosfera.Dalla strada anello, Orca è a malapena visibile e non colpisce molto, sembra un comune impianto di aerazione, come quelli che si vedono spesso sopra gli stabilimenti industriali o i palazzi che ospitano uffici. La sua costruzione è costata poco meno di 10 milioni di euro, ma Climeworks pensa in grande e sta già costruendo a poca distanza un nuovo impianto che si chiama Mammoth e che rimuoverà nove volte l’anidride carbonica che riesce a filtrare Orca.Almeno concettualmente, il sistema di cattura della CO2 non è complicato ed è alquanto lineare. Alcune grandi ventole aspirano l’aria e la fanno passare attraverso un filtro altamente poroso al quale si legano le molecole di anidride carbonica. In un certo senso il filtro si comporta come una spugna quando viene in contatto con l’acqua: la intrappola e la trattiene.(Climeworks)Quando il filtro è saturo, cioè ha raccolto tutta la CO2 che poteva, lo scompartimento in cui si trova viene isolato dall’ambiente esterno e portato a una temperatura di 100 °C, in modo da potere estrarre l’anidride carbonica: nella sua forma gassosa viene convogliata in alcune tubature fino al vicino impianto di trattamento gestito da Carbfix, una collaborazione tra centri di ricerca e aziende per la conservazione della CO2 nel sottosuolo. Il gas viene combinato con l’acqua, producendo di fatto acqua gasata, che viene poi iniettata in profondità nelle rocce vulcaniche (basalti) islandesi. L’acqua gasata reagisce con il calcio e il magnesio presente nello strato roccioso e l’anidride carbonica rimane intrappolata nei basalti, senza che si producano sostanze secondarie pericolose.Campioni di rocce dopo il trattamento (Carbfix)Il sistema funziona, ma non tutti i luoghi della Terra presentano le stesse condizioni, come un sottosuolo che possa intrappolare facilmente l’anidride carbonica o impianti che producano energia elettrica senza emissioni. Inoltre, il livello stesso di efficienza di Orca e in generale dei sistemi per la cattura diretta della CO2 sono vincolati dalla bassa concentrazione di questo gas nell’aria. In media c’è una molecola di anidride carbonica ogni 2.500 molecole di aria che abbiamo intorno (per lo più ossigeno e azoto). L’impianto in Islanda deve filtrare circa due milioni di metri cubi di aria per ottenere una tonnellata di anidride carbonica: il processo è molto lento se non si dispone di una batteria potente di ventole.Gli stessi filtri sono difficili da sviluppare e Climeworks lavora continuamente alla ricerca di nuove fibre e materiali per migliorarne la resa. Fare ricerca è costoso e la società funziona come una startup, raccogliendo finanziamenti dagli investitori che scommettono sul suo futuro e sulla sostenibilità del modello economico che sta provando a costruire. Nel 2022, Climeworks ha ricevuto nuovi investimenti per circa 600 milioni di euro, rimanendo una delle startup meglio posizionate in un settore nato da poco e in cui iniziano a esserci i primi concorrenti.La cattura diretta non è comunque l’unico modo per rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, anche se rimane l’ambito in cui ci sono i maggiori investimenti visto il suo potenziale. Un altro sistema ritenuto promettente è quello del “biochar”, un materiale che si ottiene attraverso la pirolisi, cioè un processo di decomposizione termochimica realizzato fornendo calore in assenza di ossigeno.Gli esperimenti dimostrativi svolti finora, specialmente negli Stati Uniti, prevedono l’impiego del materiale vegetale che rimane al termine della raccolta nei campi agricoli, come per esempio le parti inutilizzate della pianta del mais. Solitamente questo viene incenerito o lasciato nei campi a decomporsi, un processo che fa sì che l’anidride carbonica raccolta naturalmente dalle piante durante la loro crescita venga nuovamente immessa nell’atmosfera. L’idea è di evitare che ciò accada, raccogliendo il materiale di scarto e sottoponendolo a pirolisi a una temperatura di alcune centinaia di °C. Superata la parte di avvio del processo in cui è necessaria una fonte di energia esterna, in seguito il sistema può sostenersi da solo sfruttando il calore che via via produce il materiale sottoposto a pirolisi.Produzione del biochar (TED Talk)A seconda delle metodologie applicate, si ottengono vari prodotti derivanti dalla pirolisi. Il principale è appunto il biochar, una sostanza granulare che assomiglia al comune carbone. I granuli sono prodotti anche grazie a reazioni che hanno coinvolto parte della CO2, presente nel materiale di scarto di partenza, che non finirà quindi nell’atmosfera. Il biochar ha la capacità di trattenere acqua, di conseguenza il suo impiego è considerato promettente proprio nei campi agricoli per migliorarne la resa. Gli studi sui potenziali benefici sono ancora in corso, ma anche in questo caso un numero crescente di startup sta valutando come sfruttare questo principio per ridurre la CO2 in circolazione.Gli altri prodotti derivanti dall’impiego della pirolisi in questo settore sono una sostanza oleosa, il bio-oil, e una gassosa. Mentre questa può essere impiegata come combustibile, a patto poi di raccogliere la CO2 derivante evitando che finisca nell’atmosfera, il bio-oil può essere conservato nei pozzi di petrolio e di gas ormai esausti. Charm, società statunitense che sta sperimentando molto nel settore, ha annunciato di avere raccolto in meno di un anno circa 5.500 tonnellate di anidride carbonica.Su larga scala soluzioni di questo tipo potrebbero contribuire sensibilmente alla rimozione di CO2 dall’atmosfera, ma ci sono ancora dubbi sull’efficienza, considerato che il materiale di scarto deve essere raccolto e trasportato agli impianti di pirolisi, con ulteriore produzione di emissioni visto che la maggior parte dei mezzi agricoli funziona ancora bruciando combustibili fossili.Tra le altre strade percorribili citate nel rapporto delle Nazioni Unite c’è la bioenergia con cattura e conservazione dell’anidride carbonica (BECCS). L’idea di partenza non è molto diversa da quella del biochar e parte dall’assunto che gli alberi sono un sistema formidabile per sottrarre la CO2 dall’atmosfera e conservarla. Ma piantare semplicemente nuovi alberi non sarebbe sufficiente e potrebbe anzi rivelarsi pericoloso in alcune circostanze: non tutti i luoghi della Terra sono adatti a ospitare foreste e alcune zone sono più soggette di altre agli incendi, che porterebbero a reintrodurre nell’atmosfera l’anidride carbonica che anno dopo anno gli alberi avevano conservato nel legno.(SDIS 33 via AP, La Presse)La BECCS prevede che gli alberi vengano bruciati per produrre calore per le reti di teleriscaldamento oppure per la produzione di energia elettrica, ma che al tempo stesso la CO2 che si produce venga da subito catturata a conservata nel sottosuolo, con una sorta di cattura diretta immediata (oppure con la pirolisi). In questo modo il bilancio dell’anidride carbonica è negativo, perché quella rimossa dalle piante non potrà più finire nuovamente nell’atmosfera. Non tutti sono convinti che possa funzionare su larga scala: la resa energetica dalla combustione del legno non è alta e molta energia dovrebbe essere impiegata per i sistemi di cattura della CO2 prodotta a valle del processo.Tra chi studia i sistemi di rimozione dell’anidride carbonica c’è chi fa progetti ancora più in grande, immaginando soluzioni che almeno sulla carta sembrano meno complicate, ma che richiederebbero un grande dispendio di risorse per essere realizzate. La più discussa e con qualche potenzialità deriva dall’accelerare un processo che avviene naturalmente e che riguarda le rocce vulcaniche. Sono presenti un po’ dappertutto sulla Terra e pian piano rimuovono CO2 dall’atmosfera attraverso la loro degradazione. È un processo che si verifica in migliaia di anni, ma che può essere accelerato polverizzando le rocce vulcaniche e spandendole sui campi, che avrebbero intanto a disposizione preziosi minerali per migliorare la loro resa.Parte di queste sostanze finirebbe poi nei fiumi e potrebbe contribuire a mitigare un altro grave effetto dell’aumento di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera: l’acidificazione degli oceani. In condizioni normali, più o meno un quarto della CO2 nell’atmosfera finisce negli oceani dove a contatto con l’acqua diventa acido carbonico. Se la concentrazione di anidride carbonica aumenta, diventa maggiore anche la sua presenza nell’acqua marina con conseguenze per gli ecosistemi marini.Un’ipotesi è che l’aggiunta su grande scala di sostanze che rendono meno acidi (alcalini) gli oceani, come i silicati delle rocce vulcaniche, potrebbe ridurre il problema in caso di alto assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani. Altri metodi proposti riguardano la fertilizzazione oceanica, in modo che le minuscole specie vegetali presenti al suo interno (il fitoplancton) aumentino e gli oceani abbiano una più alta capacità di assorbire anidride carbonica.Lo sbiancamento dei coralli è uno degli effetti del riscaldamento globale (C. Jones/GBRMPA via AP)Sempre secondo le analisi dell’Università di Oxford, l’alcalinizzazione degli oceani è una tecnica dall’alto potenziale di mitigazione in termini di sottrazione dell’anidride carbonica, ma interventi su così larga scala su ecosistemi delicati come quelli oceanici potrebbero portare a risultati inattesi e pericolosi. Una ricerca pubblicata lo scorso ottobre ha messo inoltre in dubbio l’efficacia di soluzioni di questo tipo, oltre ai rischi per le molte specie animali e vegetali che popolano gli oceani.Al di là degli eventuali effetti indesiderati, vari sistemi di sottrazione di anidride carbonica dall’atmosfera richiedono l’impiego di molta energia per funzionare, e al momento i principali metodi per produrla derivano dallo sfruttamento dei combustibili fossili che portano alla produzione di grandi quantità di anidride carbonica. Ci sono di conseguenza dubbi sulla possibilità di portare progetti come quello di Orca in Islanda su larga scala, se non potranno essere alimentati da fonti energetiche rinnovabili.I più ottimisti ritengono che queste difficoltà potranno essere superate man mano che le tecnologie di rimozione della CO2 diventeranno più disponibili e diffuse, con una riduzione dei loro costi. Segnalano come le obiezioni che si fanno oggi ad alcuni di quei metodi ricordino quelle che si facevano in passato quando veniva messo in dubbio il passaggio all’eolico e al solare, come fonti alternative per produrre energia elettrica in modo più sostenibile. I prezzi si sono sensibilmente ridotti negli ultimi anni e si sono aperte nuove opportunità di mercato, che potrebbero emergere anche per la rimozione dell’anidride carbonica.Come ripetono ormai da tempo gli studi e i rapporti sul clima, non c’è una soluzione per il riscaldamento globale: solo la combinazione di più approcci e sistemi potrà consentirci di ridurre gli effetti dell’aumento della temperatura media globale, ormai inevitabili e con i quali ci dovremo confrontare per generazioni. I sistemi per rimuovere la CO2 saranno davvero utili solo se nel frattempo ridurremo il più possibile le emissioni di questo e degli altri gas serra, cercando di arrivare il prima possibile a un bilancio negativo nel quale sarà più l’anidride carbonica a essere sottratta rispetto a quella che viene emessa. Mentre leggevate questo articolo, comunque, una minuscola parte è già finita nelle profondità dell’Islanda. LEGGI TUTTO

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    La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo

    Nel marzo del 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarò la pandemia da coronavirus, tra le critiche di chi riteneva che la dichiarazione dovesse essere effettuata prima considerati i numerosi casi di infezione riscontrati in molte aree del mondo. Nonostante siano passati tre anni e la situazione sia sensibilmente migliorata, non sappiamo ancora quali furono le origini del coronavirus e come iniziò a diffondersi tra gli esseri umani. Le teorie e le ipotesi non mancano, ma non ci sono prove chiare e secondo i più scettici non sapremo mai dove tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe però essere molto utile per ridurre il rischio che si verifichino in futuro nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze che abbiamo sperimentato in termini di morti e di cambiamenti di abitudini di vita in questi anni.Per provare a fare chiarezza, o per lo meno per rendere più trasparente il lavoro di ricerca intorno alle origini del SARS-CoV-2, lunedì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato una legge che richiede alle agenzie di intelligence statunitensi di rendere pubblico quanto più materiale possibile sulle indagini intorno alla pandemia. La documentazione riguarda in particolare le analisi sulle attività svolte presso l’Istituto di virologia di Wuhan, la città cinese da cui sarebbe poi iniziata la pandemia, e i sospetti circa un accidentale contagio tra le persone che ne frequentavano i laboratori, con una conseguente diffusione del coronavirus tra la popolazione.L’ipotesi di un errore di laboratorio è stata valutata da numerose agenzie di intelligence, non solo negli Stati Uniti, ma non ha portato a conclusioni certe. Alle difficoltà tecniche nella ricostruzione dei primi focolai si aggiungono le reticenze del governo della Cina, che non ha collaborato alle indagini e in alcuni casi le ha ostacolate non fornendo dati importanti su ciò che avvenne a Wuhan tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020.La scarsa collaborazione della Cina si è resa di nuovo evidente negli ultimi giorni, dopo la segnalazione da parte di un gruppo di ricerca di alcuni dati finora passati inosservati su un archivio online e in seguito rimossi dalle autorità cinesi. Secondo l’analisi dei ricercatori, anticipata all’OMS la scorsa settimana e pubblicata lunedì in una versione preliminare, i dati offrono nuovi elementi a sostegno dell’ipotesi su un primo focolaio di SARS-CoV-2 avvenuto in un mercato di Wuhan, dove si erano già concentrate le indagini all’inizio della pandemia.Florence Débarre del Centre nationale de la recherche scientifique (CNRS) in Francia, lo scorso 4 marzo aveva notato con alcuni colleghi la presenza di alcune informazioni genetiche, pubblicate da ricercatori cinesi su GISAID, uno dei principali archivi online per la virologia.I dati derivavano dalla raccolta di campioni effettuata presso il mercato del pesce Huanan, dove erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Oltre alle vendita del pescato, alcune bancarelle vendevano varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili dai clienti. Qualche giorno dopo la segnalazione della scoperta da parte di Débarre, i dati erano stati rimossi da GISAID su richiesta della fonte cinese che li aveva inizialmente pubblicati.Il mercato di Huanan durante un’ispezione del gruppo di indagine dell’OMS il 31 gennaio 2021, Wuhan, Cina (AP Photo/Ng Han Guan, File)Débarre e colleghi avevano comunque fatto in tempo a salvare una copia dei dati, potendoli quindi analizzare. La decisione di rimuoverli aveva però fatto sollevare qualche perplessità nei confronti dei ricercatori cinesi che li avevano pubblicati, a cominciare da George Gao, il responsabile del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie. Interpellato dal sito della rivista scientifica Science, Gao ha risposto che quei dati non erano «nulla di nuovo» e che si sapeva già da tempo che ci fosse una vendita illecita di alcuni tipi di animali al mercato, circostanza che aveva poi portato alla sua chiusura.I dati pubblicati e poi rimossi risalgono ai primi giorni del 2020, quando Gao e colleghi avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato. Secondo le loro analisi, alcuni campioni erano risultati positivi al SARS-CoV-2 e avevano materiale genetico riconducibile agli esseri umani, mentre non erano state trovate relazioni tra il DNA di alcuni animali e la presenza del coronavirus. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva concluso che i dati raccolti suggerissero «fortemente» l’ipotesi che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e non viceversa.Le conclusioni avevano suscitato perplessità, soprattutto in Occidente, perché sembravano voler sollevare la Cina da ogni responsabilità sull’origine del coronavirus, che sarebbe potuto arrivare dall’estero come sostengono da tempo alcuni funzionari del governo cinese. Lo studio offriva inoltre nuovi elementi a sostegno delle ipotesi, altrettanto difficili da dimostrare, circa l’origine in laboratorio del coronavirus e non al mercato di Wuhan.La nuova ricerca condotta da Débarre, e anticipata al gruppo di lavoro dell’OMS che si occupa di indagare le origini di nuovi patogeni (virus o batteri, per esempio), segnala che alcuni campioni risultati poi positivi al SARS-CoV-2 sono compatibili con materiale genetico riconducibile a cani procione, zibetti e altri animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio da coronavirus.Un esemplare di cane procione appartenente alla specie Nyctereutes procyonoides (Wikimedia)Anche se si chiamano così, i cani procione non sono imparentati con i procioni. Sono semmai imparentati con volpi e cani, ma vengono definiti in quel modo per la loro apparenza che ricorda in effetti quella dei procioni. Mangiano di tutto e ne esistono diverse specie, originarie per esempio di alcune zone della Cina, delle Coree e del Giappone. Se ne trovano anche in Europa, dove hanno iniziato a invadere alcuni ecosistemi a danno delle specie che li popolano.I cani procione vengono da tempo allevati in Cina per sfruttare la loro pelliccia, ma sono talvolta venduti anche nei mercati di animali vivi per il consumo delle loro carni. Ci sono testimonianze e prove sul fatto che fossero venduti al mercato Huanan alla fine del 2019, quindi a ridosso del periodo in cui iniziarono a emergere i primi casi di infezioni da SARS-CoV-2.Al momento non è comunque chiaro se i cani procione possano avere diffuso il coronavirus. Dai test di laboratorio sappiamo che questi animali sono esposti alle infezioni e sono in grado di trasmetterle, ma non significa che costituiscano la riserva naturale per il coronavirus. Una possibilità è che alcuni cani procione al mercato fossero stati contagiati da un altro mammifero infetto, come i pipistrelli (noti per fare da riserva ai coronavirus), e che in seguito avessero infettato alcuni frequentatori del mercato vista la stretta vicinanza tra esseri umani e animali in quel contesto.Per lungo tempo le autorità cinesi avevano negato che al mercato fossero venduti animali vivi. Solo nell’estate del 2021 una ricerca aveva confermato che la pratica era alquanto diffusa e risaliva ad almeno un paio di anni prima dell’inizio della pandemia. Questa circostanza, unita ai nuovi dati analizzati da Débarre, porta elementi per rivalutare l’ipotesi del mercato rispetto a quella di un errore di laboratorio.Sulla base delle anticipazioni dello studio preliminare pubblicato ieri, la scorsa settimana il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva criticato la scorsa collaborazione della Cina dicendo: «Quei dati potevano essere – e dovevano essere – condivisi tre anni fa», invitando inoltre le autorità cinesi a fornire i dati con la comunità internazionale «immediatamente». Il gruppo di ricerca spera che la pubblicazione dello studio preliminare induca la Cina a condividere più informazioni e le sequenze complete raccolte all’inizio del 2020, ma ci sono forti dubbi.È opinione sempre più diffusa che la possibilità di scoprire davvero come ebbe origine il coronavirus dipenda esclusivamente dal governo cinese, che dopo un’iniziale collaborazione nei primi mesi del 2020 ha via via limitato la circolazione di informazioni anche tra i gruppi di ricerca internazionali. Per scoprire l’origine della SARS, altra malattia causata da un coronavirus, furono necessari circa 14 anni con indagini che portarono infine a identificare una caverna nello Yunnan, sempre in Cina, dove vivevano alcuni pipistrelli infetti. Per altri virus, la vera origine non è stata mai ricostruita, come nel caso di Ebola, identificato per la prima volta negli esseri umani a metà degli anni Settanta.All’inizio del 2003, il governo della Cina aveva limitato fortemente la circolazione delle informazioni sui primi casi di SARS. Solo quando i contagi raggiunsero Hong Kong, all’epoca soggetto a un minore controllo da parte del governo centrale cinese, divenne sempre più difficile nascondere l’estensione del problema. Quella vicenda avrebbe portato la Cina a dotarsi di maggiori strumenti per tenere sotto controllo la diffusione di nuove malattie, ma non cambiò alcuni approcci, a cominciare da quelli per evitare circostanze che mettano in cattiva luce il governo cinese.Nel caso del SARS-CoV-2 la scarsa collaborazione da parte della Cina ha impedito di fare progressi significativi nei tre anni di pandemia, con il mancato accesso a dati importanti o la negazione di fatti, come l’effettivo commercio di animali vivi nel mercato Huanan. In mancanza di una maggiore apertura da parte del governo della Cina, o di informazioni riservate passate da qualche ricercatore in Cina con tutti i rischi cui sarebbe esposto, difficilmente si potranno avere nuovi elementi per ricostruire le circostanze che tre anni fa causarono la più grande e grave pandemia degli ultimi tempi. LEGGI TUTTO

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    L’ultimo rapporto dell’ONU sul clima

    Caricamento playerLunedì è stato pubblicato il nuovo rapporto di sintesi dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. Il documento non presenta novità rispetto alle analisi già diffuse, ma è molto importante perché riassume migliaia di pagine di ricerche in un formato più fruibile, fondamentale per i governi che devono concordare e adottare nuove politiche per mitigare gli effetti del riscaldamento globale.La nuova sintesi come per i precedenti rapporti è alquanto netta: senza iniziative rapide e molto costose, i danni causati al pianeta dalle attività umane saranno in gran parte irreversibili e avranno enormi conseguenze. Secondo gli autori del documento, agendo molto in fretta e con misure drastiche c’è ancora tempo per evitare gli esiti più catastrofici. «La finestra di opportunità per garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti si sta rapidamente chiudendo», ricorda comunque il rapporto. Il segretario generale dell’ONU, António Guterres, lo ha definito «una guida per disinnescare la bomba a orologeria del clima».Il rapporto di sintesi è il documento finale del Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC pubblicato tra il 2021 e il 2022. Le prime tre sezioni avevano trattato estesamente le basi fisico-scientifiche dietro il riscaldamento globale, l’impatto e le difficoltà nell’affrontarlo e infine le soluzioni per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Il rapporto di sintesi comprende altri documenti che erano già stati pubblicati negli ultimi quattro anni, dedicati soprattutto agli effetti del riscaldamento globale sui terreni, gli oceani e le masse di ghiaccio (criosfera).Il nuovo rapporto riassume e rende con termini più accessibili ai decisori politici gli anni di studi sulle cause e le conseguenze dell’aumento della temperatura media globale. Ricorda che con gli attuali andamenti non potrà essere raggiunto l’obiettivo più importante e ambizioso: evitare che entro la prima metà degli anni Trenta si verifichi un aumento medio di 1,5° C rispetto al periodo precedente all’epoca industriale. Da tempo, comunque, una quota crescente di esperti riteneva che il limite fosse ormai irrealistico e che fosse arrivato il momento di accettare il fallimento, senza rassegnarsi e pensando a cosa fare per evitare ulteriori peggioramenti. Si stima che fino a oggi le attività umane abbiano provocato un aumento medio di almeno 1,1° C.Nel nuovo rapporto sono indicati gli ambiti su cui agire con decisione per avere effetti immediati: uno di questi è la drastica riduzione dell’impiego di combustibili fossili – in particolare carbone, petrolio e metano – per limitare le emissioni di gas serra. In un comunicato Guterres ha chiesto che tutti i paesi sviluppati anticipino di 10 anni i propri obiettivi per raggiungere la neutralità carbonica, cioè che la ottengano nel 2040 invece che nel 2050, come era stato stabilito dall’accordo sul clima di Parigi del 2015.La stessa richiesta è stata fatta alle economie emergenti come la Cina e l’India, che hanno come obiettivo per la neutralità carbonica rispettivamente il 2060 e il 2070. Per neutralità carbonica si intende un bilancio pari a zero di anidride carbonica immessa in atmosfera.Secondo Guterres i paesi più ricchi hanno la responsabilità di agire più in fretta rispetto a quelli più poveri, che sono quelli che subiscono maggiormente gli effetti dei cambiamenti climatici proprio a causa delle attività dei paesi sviluppati nei decenni passati.Raggiungere la “neutralità carbonica” – o le “emissioni zero” spesso citate – non significa quindi smettere del tutto di produrre gas serra (e in particolare di anidride carbonica, o CO2), ma rimuoverne una quantità pari a quella che viene immessa nell’atmosfera. Da una parte quindi bisogna attuare misure per ridurre le emissioni (per esempio riducendo l’uso dei combustibili fossili), dall’altra bisogna aumentare i modi per rimuovere gas serra dall’atmosfera (per esempio piantando alberi o catturando direttamente CO2).– Leggi anche: Le “emissioni zero”, spiegate beneIl rapporto di sintesi fa anche un punto su alcuni danni concreti causati dai cambiamenti climatici: la diminuzione dei pesci nei mari, il calo della produttività delle aziende agricole (dovuto per esempio a periodi sempre più prolungati di siccità in alcune aree del mondo, mentre in altre piove troppo), la moltiplicazione di malattie infettive e una frequenza senza precedenti di eventi meteorologici estremi.Questi effetti sono risultati maggiori rispetto a ciò che gli scienziati si aspettavano nelle attuali condizioni del pianeta, cioè con un aumento medio della temperatura di 1,1° C rispetto al periodo pre-industriale: le infrastrutture costruite dagli esseri umani, i loro sistemi economici e i loro settori produttivi nell’attuale società, dice il rapporto, si sono mostrati molto più vulnerabili del previsto anche a piccoli cambiamenti climatici. 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    Stasera è primavera, di già

    Caricamento playerL’equinozio di primavera, cioè l’evento astronomico che segna l’inizio della primavera, nel 2023 avviene lunedì 20 marzo alle 22:24 in Italia (le 21:24 del tempo coordinato universale). Anche se convenzionalmente si dice che le stagioni comincino sempre il giorno 21 di marzo, giugno, settembre e dicembre, le date esatte di equinozi e solstizi dipendono dalla rivoluzione della Terra: fino al 2102 l’equinozio di primavera non sarà il 21 marzo, ma il 20 o, qualche volta, il 19.L’equinozio è il momento preciso in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Il giorno dell’equinozio di primavera ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno, l’altro è quello dell’equinozio d’autunno, in cui il dì ha la stessa durata della notte (anche se poi non è esattamente così, a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre).Il significato del termine “equinozio” è chiaro per chi sa qualcosa di latino o è bravo a tirare a indovinare: la parola italiana deriva dal latino aequinoctium, composto da aequus, cioè “uguale” e nox, “notte”. Dopo l’equinozio di primavera il dì – cioè quella parte del giorno in cui c’è luce – continua ad allungarsi ogni giorno nell’emisfero boreale fino al solstizio d’estate: a quel punto le ore di luce cominciano a diminuire, tornando pari a quelle di buio nell’equinozio d’autunno, e ricominciando ad aumentare solo con il solstizio d’inverno. Estate e inverno iniziano nei giorni di solstizio, in cui le ore di luce sono rispettivamente al loro massimo o al loro minimo. Per quanto riguarda l’emisfero australe, cioè la parte della superficie della Terra a sud dell’Equatore, è tutto l’opposto.Oltre alle stagioni astronomiche, ci sono anche le stagioni meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre 3 mesi (marmotta Phil permettendo). Indicano i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.Spiegazioni più estese sulle stagioni, il calendario, e le relazioni con il movimento della Terra si possono trovare nel nuovo numero della rivista del Post Cose spiegate bene che si chiama “La Terra è rotonda”.La primavera nelle copertine del New Yorker.single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Quelli che vedono i suoni

    Passeggiare di sera lungo il marciapiede di una strada trafficata è un’esperienza associata, con molta probabilità e per la maggior parte delle persone, alla percezione di stimoli comuni come il suono del clacson di una macchina o il colore della luce di un lampione. Ma per alcune persone la percezione è diversa, più dettagliata: osservano la luce blu del lampione, per esempio, e sentono un sapore di liquirizia in bocca. È un fenomeno psichico noto come “sinestesia”, che si verifica quando uno stimolo di un certo tipo – uditivo, visivo, olfattivo, tattile o gustativo – provoca un’esperienza percepita tramite un senso non correlato a quello stimolo.Le stime della prevalenza della sinestesia, a cui peraltro corrisponde l’omonima figura retorica che unisce parole riferite a sensi diversi (“verde tiepido”, per esempio), variano notevolmente. Secondo alcuni studi interessa una persona su 2.000, più le donne che gli uomini, e secondo altri è ancora più frequente: una persona su 200. Questa variabilità dipende in parte dalle differenze nei criteri di definizione del fenomeno e in parte dalla specificità di ciascuno studio: alcuni si concentrano su determinate sinestesie e non altre (ne esistono decine di varianti, a seconda della combinazione di sensi coinvolti).Ma un altro motivo per cui la sinestesia è un fenomeno difficile da definire con precisione è il fatto che i processi che lo inducono interessano, in una certa misura, qualsiasi persona. Gli studi degli ultimi decenni sul funzionamento delle percezioni sensoriali indicano che i diversi organi di senso, per quanto autonomi, producono un insieme di informazioni che si integrano, si combinano e si influenzano a vicenda in molti modi. La nostra percezione del sapore, per esempio, è il risultato di un processo che coinvolge i recettori olfattivi e le papille gustative, ma anche la vista, il tatto e l’udito: è la ragione per cui per molte persone il sapore di una certa pietanza può cambiare, per esempio, a seconda che sia servita su un piatto nero e squadrato o su un altro celeste e circolare.– Leggi anche: L’olfatto è un misteroSi parla di sinestesia in senso proprio, non come esperienza comune, quando uno stimolo induce sia una percezione associata al senso direttamente stimolato, sia un’altra che apparentemente c’entra poco o niente. È una condizione che può verificarsi a seguito di danni cerebrali, per esempio, o essere indotta tramite l’uso di sostanze o tramite ipnosi. Ma per alcune persone è un’esperienza del tutto abituale, non riconducibile ad altri eventi o azioni particolari.A chi sperimenta questa condizione può capitare, per esempio, di ascoltare un suono e – anche senza vederne la sorgente – percepire uno stimolo visivo chiaro e definito. Oppure – come in uno dei casi più conosciuti e studiati, la sinestesia grafema-colore – può capitare di percepire in un insieme di lettere o numeri sia il colore con cui sono effettivamente stampati, sia un altro diverso specificamente associato a ciascuna lettera o numero.L’associazione tra il lampione e la liquirizia è una delle molte sinestesie che capitano abitualmente alla storica statunitense ed esperta di storia dell’alimentazione Julia Skinner, che ne ha scritto sulla rivista Atlanta.Una delle prime attestazioni storiche di una condizione riconducibile alla sinestesia risale al Settecento. Nel suo Saggio sull’origine del linguaggio, del 1772, il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder scrisse che alcune persone associavano «immediatamente» un certo fenomeno a una sensazione con cui non aveva alcuna relazione, o un certo colore a un certo suono. Descrisse con altre parole quella che oggi è generalmente definita “cromestesia”, l’associazione tra colori e percezioni sensoriali di vario tipo (uditivo, olfattivo, gustativo).Il fisiologo francese Alfred Vulpian fu poi uno dei primi a utilizzare la parola “sinestesia” in ambito medico, nel 1860, riferendosi a casi di tosse e starnuti provocati da stimoli sensoriali apparentemente non correlati, come la luce. Dopo una ventina d’anni due studiosi svizzeri, Eugen Bleuler e Karl Bernhard Lehmann, documentarono sei diversi tipi di sinestesia, tra cui «sensazioni di luce, colore e forma suscitate tramite l’udito», «sensazioni sonore tramite la vista» e «sensazioni cromatiche tramite percezioni gustative».– Leggi anche: Quelli che non visualizzano le coseUno degli studi recenti più citati sulla sinestesia fu condotto nel 2001 da due neuroscienziati dell’Università della California, Vilayanur S. Ramachandran ed Edward Hubbard, secondo i quali l’origine della sinestesia potrebbe essere in parte genetica. Secondo la loro ipotesi, l’inclinazione di alcune persone – più diffusa tra artisti e poeti – a percepire collegamenti tra sensazioni apparentemente non correlate sarebbe determinata da una «iperconnettività» tra diverse aree del cervello.Come disse allo Smithsonian il neurologo statunitense della George Washington University Richard Cytowic, che ci siano molteplici connessioni incrociate tra le varie parti del cervello è una condizione che riguarda qualsiasi cervello: «Semplicemente, in quello di chi ha sinestesie, ce ne sono di più». Le ricerche sulla sinestesia sono spesso citate anche in relazione al cosiddetto effetto bouba/kiki, un esperimento psicologico condotto da Ramachandran e Hubbard, tra gli altri, e originariamente attribuito allo psicologo tedesco Wolfgang Köhler, che studiò questo effetto negli anni Venti.L’esperimento prevede di mostrare due figure geometriche affiancate, una tondeggiante e l’altra spigolosa, e chiedere ai partecipanti a quale delle due figure abbinerebbero la parola “bouba” e a quale la parola “kiki”, due parole che non significano niente. La grandissima maggioranza delle persone associa “bouba” alla figura tondeggiante e “kiki” a quella più spigolosa, come confermato anche da Ramachandran e Hubbard, che utilizzarono questo esperimento per il loro studio del 2001. Lo condussero sia su un gruppo di studenti americani che su un gruppo di studenti indiani di lingua tamil, provando che la lingua parlata non era un fattore rilevante.Sia negli studi che se ne occupano che nei documenti storici in cui è citata o descritta, la sinestesia è generalmente intesa come una condizione rara, spesso difficile da definire, ma non un disturbo. Il fatto che sia una sorta di variante estrema di un processo normale di «elaborazione multisensoriale» delle informazioni, come disse al sito LiveScience il neuroscienziato e psicologo statunitense David Brang, lo rende inoltre un fenomeno utile da studiare per comprendere meglio il funzionamento del cervello in generale e quello delle persone più creative in particolare. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 18 marzo 2023

    Nella medicina tradizionale cinese la bile degli orsi tibetani viene usata da migliaia di anni per i suoi presunti poteri curativi, in unguenti o altri preparati: è il motivo per cui, specialmente in Cina e Vietnam (dove è illegale dal 2005), gli orsi venivano tenuti in cattività in alcuni “allevamenti” dove la bile gli veniva estratta dalla cistifellea mentre erano ancora vivi. Nel parco nazionale di Tam Dao, in Vietnam, c’è un rifugio che ospita gli orsi sottratti a questa industria, come quello che vedete spaparanzato tra le foto di animali della settimana. Poi ci sono una scimmia cappuccina, uno scoiattolo volpe, due quokka e un takin..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Quelli che scoprono i paleotsunami

    Caricamento playerSi ritiene che alla fine dell’estate del 1420 un forte terremoto lungo la costa del Cile causò uno tsunami nell’oceano Pacifico che raggiunse le Hawaii e ancora più a ovest alcune aree del Giappone. Non esistono testimonianze scritte cilene su quell’evento, ma i sismologi stimano che la scossa ebbe una magnitudo compresa tra 8.8 e 9.4, quindi altamente energetica. Alcuni enormi massi smossi lungo la costa furono spinti nell’entroterra dalla forza dello tsunami, dove possono essere osservati ancora oggi.Se a distanza di sei secoli abbiamo informazioni su cosa accadde nella parte meridionale del deserto di Atacama in Cile è grazie al lavoro dei gruppi di ricerca che studiano i “paleotsunami”, le grandi ondate che anticamente si verificarono sul nostro pianeta e che in mancanza di testimonianze scritte richiedono approfondite ricerche geologiche per essere ricostruite. È un ambito di studio relativamente recente e sul quale c’è qualche dubbio, ma che potrebbe offrire nuove importanti prospettive per comprendere gli effetti di eventi catastrofici, come terremoti ed eruzioni vulcaniche, che nel corso delle ere geologiche hanno plasmato il nostro pianeta.La parola tsunami deriva dal giapponese, significa letteralmente “onda sul porto” e può essere considerata un sinonimo di maremoto, anche se in letteratura scientifica prevale quasi sempre l’impiego della sua versione giapponese debitamente traslitterata. Per motivi geografici e di rischio sismico, il Giappone è del resto uno dei paesi più esposti agli tsunami. Il paese ha inoltre una lunga storia ben documentata e di conseguenza registri e archivi che vanno molto indietro nel tempo, utili per ricostruire i grandi terremoti del passato. Alcune notazioni sull’evento sismico del 1420 sono state per esempio molto importanti per ipotizzare che cosa accadde all’epoca in Cile.Tendiamo a considerare uno tsunami come una versione su scala più grande e potente di una normale onda del mare, ma in realtà ci sono profonde differenze. Nel caso delle classiche onde, l’energia che le produce proviene per lo più dai venti e riguarda la parte più superficiale dell’acqua. Per questo motivo le onde hanno dimensioni e velocità relativamente limitate, se confrontate con quelle di un maremoto.Gli tsunami sono il prodotto di eventi altamente energetici che avvengono per lo più sott’acqua in prossimità del fondale marino: una potente eruzione vulcanica, una grande frana lungo un pendio su una dorsale oppure un forte terremoto. Lo strato d’acqua che si trova al di sopra si solleva rispetto al livello normale, poi torna ad abbassarsi per effetto della gravità, causando una dispersione dell’energia in orizzontale che produce l’onda vera e propria, che può raggiungere una velocità di svariate centinaia di chilometri orari.(TED-Ed)Lontano dalla costa uno tsunami può passare inosservato, perché si muove attraverso l’intera profondità dell’acqua, formando meno increspature rispetto a un normale moto ondoso. Quando però raggiunge acque meno profonde in prossimità della costa si verifica lo “shoaling”, il fenomeno che porta le onde ad aumentare in altezza relativamente al diminuire della loro velocità. In questa fase uno tsunami raggiunge il massimo della propria altezza, che in alcuni casi può superare i 30 metri. Spesso questa circostanza è anticipata dal ritirarsi temporaneo del mare lungo la costa, dovuto alla fase in cui si genera il grande sollevamento dell’acqua in prossimità del luogo in cui si è verificato il terremoto o la forte eruzione vulcanica.Dopo aver investito la costa l’onda inizia lentamente a ritirarsi, portandosi dietro ciò che ha travolto o seppellendolo sotto altri detriti. Alcune tracce del suo passaggio spariscono in breve tempo, altre possono permanere a lungo ed essere alquanto evidenti, come si suppone nel caso dei grandi massi in Cile. È proprio dallo studio di queste tracce che i gruppi di ricerca ricostruiscono i paleotsunami, riuscendo in alcuni casi a identificare eventi sismici di grande potenza avvenuti in luoghi dove non c’era nessuno per documentarli.Massi che si ritiene siano stati spinti dalla costa verso l’interno in seguito a uno tsunami (A. Scheffers – Tsunamiites)Il gruppo di esperti di paleotsunami è ristretto, ma comprende ricercatori che hanno dedicato buona parte della propria carriera al loro studio. Sanno che per scoprire maremoti avvenuti centinaia o migliaia di anni fa devono scavare tra rocce e sedimenti, alla ricerca delle tracce lasciate dal passaggio della grande onda. Ritirandosi, lo tsunami deposita sul suolo rocce, conchiglie e altri detriti che vengono poi coperti da altri sedimenti, preservando quelle tracce nel tempo al di sotto di altre stratificazioni.La presenza di uno strato con caratteristiche diverse da quelle che dovrebbe avere il terreno in una certa area è un buon indizio per andare alla ricerca di un paleotsunami. Il lavoro di indagine è più semplice nelle aree con suolo sabbioso e soffice, mentre è più complicato nelle zone rocciose dove le stratificazioni possono essere meno evidenti. Per questo oltre alle analisi del suolo i gruppi di ricerca cercano tracce di fossili o di minuscoli residui organici, come quelli delle diatomee (microalghe unicellulari), che possano offrire maggiori spunti per i loro studi.Nel caso del terremoto del 1420, un gruppo di ricerca cileno era partito da ciò che c’era sotto uno dei massi da 40 tonnellate, che per secoli aveva fatto da fermacarte lasciando inalterati i sedimenti sottostanti. Le analisi avevano permesso di datare alcuni ritrovamenti organici tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo. Confrontando le fonti, i ricercatori avevano notato la segnalazione di uno tsunami in Giappone nel 1420 con caratteristiche compatibili con la grande onda che aveva interessato la costa del Cile.La Valle de la Luna nel deserto di Atacama è considerata uno dei luoghi più secchi del mondo (John Moore/Getty Images)In altri casi le ricerche possono essere facilitate dalle tracce lasciate dalle nostre attività. Sempre in Cile, intorno a 3.800 anni fa antichi insediamenti lungo le coste furono abbandonati, con la costruzione di insediamenti di dimensioni paragonabili più nell’entroterra. Quelle osservazioni, insieme ad altri dati raccolti analizzando i sedimenti, risalgono a un periodo compatibile con un grande paleotsunami che si ipotizza interessò un’ampia area dell’oceano Pacifico meridionale. Non ci sono testimonianze nelle fonti scritte, ma si pensa che i maremoti interessarono oltre al Cile: le isole Cook, Tonga, Vanuatu e la Nuova Zelanda. Le ricerche sulle isole che si presume fossero state coinvolte devono essere ancora effettuate, quindi gli stessi gruppi di ricerca invitano a mantenere qualche cautela.Ricostruire eventi naturali avvenuti migliaia di anni fa non è semplice, ci sono molte variabili e non sempre sono disponibili archivi e cronache per confermare quanto sembrano suggerire i dati. Le ricerche sul campo richiedono talvolta spedizioni costose e non alla portata di molti centri di ricerca, specialmente nei paesi più poveri esposti a rischio tsunami. Dati parziali o frammentari possono portare a identificare correlazioni che non esistono, riconducendo erroneamente effetti simili a una stessa causa.Lo studio degli tsunami è comunque in espansione e negli ultimi 20 anni ha raccolto un crescente interesse, non solo da parte delle istituzioni scientifiche, ma anche dei governi. Una maggiore consapevolezza sui rischi che possono comportare i maremoti iniziò a maturare dopo lo tsunami nell’oceano Indiano a fine dicembre del 2004, che si stima causò la morte di circa 230mila persone. Un interesse che fu poi rinnovato nel 2011 dopo il terremoto di magnitudo 9.1 al largo della costa del Giappone, il cui tsunami causò quasi 20mila morti e un’emergenza nucleare.L’arrivo dello tsunami a Koh Raya, Thailandia, il 26 dicembre 2004 (JOHN RUSSELL/AFP/Getty Images)Prevedere uno tsunami con largo anticipo è impossibile con le attuali tecnologie e conoscenze. Le reti di rilevazione dei terremoti specialmente nell’oceano Pacifico consentono in alcuni casi di inviare un’allerta alla popolazione con decine di minuti di anticipo, talvolta ore. Sono avvertimenti basati su modelli e simulazioni, con livelli di accuratezza variabili e non sempre molto affidabili, ma che consentono comunque di attivare alcune procedure di evacuazione delle persone dalle coste. Il consiglio in questi casi è di raggiungere aree più rilevate all’interno, allontanandosi il più possibile dalla costa.Effetti dello tsunami in Giappone del 2011 (Kyodo via AP Images)Come per i terremoti, anche per gli tsunami si possono comunque ridurre eventuali effetti catastrofici con la prevenzione. Dopo il maremoto del 2011 in Giappone ci furono polemiche e molti si chiesero se non fosse stato sottovalutato il rischio, considerato che il paese è tradizionalmente esposto ai terremoti e agli tsunami. Parte dei piani di emergenza era basata su precedenti tsunami, che non avevano però avuto la portata di quello che aveva poi travolto le coste dodici anni fa. I sistemi per ridurre l’impatto dell’ondata, per esempio attraverso la costruzione di muri e ripari, non sono comunque sempre efficaci soprattutto nel caso di tsunami molto potenti.Non tutti i maremoti hanno comunque lasciato tracce per essere scoperti, a distanza di moltissimo tempo da quando si erano verificati. Chi si occupa dei più antichi ritiene che ce ne furono comunque di a dir poco devastanti. Si stima che 1,4 milioni di anni fa circa un terzo del vulcano Molokai orientale nelle Hawaii collassò nell’oceano Pacifico, producendo uno tsunami che superò i 600 metri di altezza, con grandi conseguenze sulle coste dalla California e del Messico. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts di sabato 11 marzo 2023

    Ogni anno a Birmingham, in Inghilterra, si tiene il Crufts, una delle più grandi e importanti mostre di cani al mondo, a cui partecipano migliaia di esemplari di razze diverse – compreso questo pastore del Bernese – che competono per il titolo del miglior cane dell’edizione. Molto più bizzarro è un concorso che si è tenuto a Bangkok, in Thailandia, che premia invece il gatto che somiglia più a una mucca usando come metro di paragone il pelo a macchie. Tra gli altri animali impegnati in occupazioni più naturali ci sono due cicogne bagnate dalla pioggia, un cavallo sotto la neve, un orango tra gli alberi e bisonti al pascolo..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO