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    Non si può ancora dire se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo nelle alluvioni in Romagna

    Caricamento playerUn gruppo di ricerca internazionale ha realizzato un primo studio per verificare se – ed eventualmente in quale misura – il cambiamento climatico dovuto alle attività umane abbia contribuito alle alluvioni di maggio in Romagna, e non ha trovato prove del fatto che abbia reso più probabili o intense le precipitazioni che le hanno causate. Tuttavia saranno necessarie altre ricerche, più approfondite, per dare risposte più chiare e definite sul tema e capire bene le eccezionali dinamiche atmosferiche che hanno portato alle alluvioni. Per questo gli scienziati che hanno partecipato allo studio non escludono ancora che il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo.Le uniche analisi scientifiche che si possono fare molto a ridosso di un evento meteorologico estremo sono statistiche. In questo caso la quantità di pioggia responsabile delle alluvioni è stata confrontata con i dati sulle precipitazioni in Emilia-Romagna che partono dagli anni Sessanta. Poi sono state usate 19 diverse simulazioni climatiche computazionali per vedere se la probabilità che cadesse quella stessa quantità di pioggia nell’arco di 21 giorni di primavera sarebbe stata diversa in assenza del cambiamento climatico: nessuna simulazione ha indicato che quelle precipitazioni sarebbero state meno probabili o meno intense. Il limite di questa analisi, e la ragione per cui lo studio non è definitivo, è che non dice nulla sulle ragioni fisiche per cui tre cicloni si sono sono susseguiti in breve tempo e sono stati tanto persistenti, e non spiega se l’aumento della temperatura media globale abbia avuto un ruolo nel loro sviluppo.Lo studio è stato condotto dalla World Weather Attribution (WWA), una collaborazione tra scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo, tra cui l’Imperial College di Londra, l’Istituto meteorologico reale dei Paesi Bassi e il Laboratorio delle scienze del clima e dell’ambiente (LSCE) dell’Istituto Pierre Simon Laplace, un importante centro scientifico francese. Fu creata nel 2015 da due climatologi, la tedesca Friederike Otto e l’olandese Geert Jan van Oldenborgh, affinché la comunità scientifica potesse rispondere il più velocemente possibile e nel dettaglio alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?” ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso.Allo studio sulle alluvioni in Romagna hanno partecipato 13 scienziati. Hanno preso in considerazione i tre eventi di pioggia abbondante e concentrata nel tempo che sono avvenuti intorno al 2, al 10 e al 16 maggio e che sono stati causati tra tre diversi cicloni formatisi sul mar Tirreno. Il primo ha provocato l’esondazione di alcuni corsi d’acqua e un numero limitato di allagamenti; il secondo non ha causato inondazioni, ma ha contribuito a saturare di acqua il suolo, rendendo così più disastrosi gli effetti del terzo ciclone: a quel punto il terreno non poteva più assorbire le precipitazioni. Questo terzo evento ha causato l’esondazione di 23 corsi d’acqua, l’allagamento di numerosi centri abitati e campi coltivati, più di 400 frane e tutti i gravi danni che ne sono conseguiti.Complessivamente la quantità di pioggia caduta nei primi 21 giorni di maggio è stata la maggiore mai registrata in Emilia-Romagna in tre settimane consecutive tra aprile e giugno. È stato stimato che un evento del genere abbia un tempo di ritorno di 200 anni, un’espressione scientifica che significa che la probabilità che si verifichi in un dato anno è circa dello 0,5 per cento. Da quando abbiamo cominciato a registrare dati sulle precipitazioni questa probabilità non è aumentata, stando al confronto dei dati storici.«Si può dire che quello che è successo apre un campo di ricerca perché la successione degli eventi, i tre cicloni che hanno seguito la siccità, è stata straordinaria», commenta Davide Faranda, fisico del clima e ricercatore dell’LSCE e tra i membri del gruppo di ricerca che ha condotto lo studio del WWA. «È un evento senza precedenti e quindi è anche molto difficile trovare cose che gli somigliano nei dati storici, ma anche nelle simulazioni future o presenti. I metodi per studiare le catene di eventi li stiamo ancora sviluppando». Faranda sottolinea che il confronto sulla precipitazione cumulata, cioè sulla quantità d’acqua piovuta complessivamente nell’intervallo di tempo considerato, è solo un pezzo della storia, perché non dice nulla su come è piovuta.Gli scienziati della WWA hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè dei programmi simili a quelli che si usano per fare le previsioni del tempo che mostrano che tipi di eventi meteorologici si potrebbero verificare in diversi scenari climatici in parti differenti del mondo. Ne esistono tanti diversi e nel caso dello studio sulle alluvioni in Romagna hanno dato lo stesso risultato: con o senza cambiamento climatico la bassissima probabilità che cada così tanta pioggia come successo a maggio non cambia.Tuttavia bisogna considerare che anche questa conclusione ha un limite. Sono state usate simulazioni che hanno una risoluzione spaziale di 12 chilometri, che cioè mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici in una superficie di 144 chilometri quadrati, spiega Erika Coppola, fisica del clima e ricercatrice del Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam (ICTP) di Trieste, che ha a sua volta partecipato alla studio: «Non è detto che su questa scala si riescano a vedere gli effetti di un clima più caldo sul territorio». La complessa geografia dell’Emilia-Romagna, stretta tra gli Appennini e il mare Adriatico, dovrebbe essere presa in considerazione su una scala minore per valutare meglio l’effetto della forma del territorio sui venti, ad esempio.All’ICTP possono fare anche simulazioni più sofisticate, con risoluzione di 3 chilometri, ma richiedono molta più potenza di calcolo, più tempo e una maggiore quantità di dati, e per questo hanno costi elevati: finora è stato possibile realizzarne prendendo solo alcuni intervalli di tempo definiti, non ci sono serie continue di dati che invece servirebbero per studiare eventi rari come la sequenza di cicloni che ha interessato la Romagna. «Una ragione in più per dire che bisognerebbe dare finanziamenti più sostanziosi alla ricerca», aggiunge Faranda.Parlando invece del modo in cui il risultato di questo primo studio potrebbe essere interpretato dall’opinione pubblica Faranda dice: «Frequento i social e so che il messaggio dello studio potrebbe essere riportato in modo impreciso. Io voglio dare il messaggio più veritiero possibile, non sono un attivista ambientalista ma uno scienziato, mi interessa dare il messaggio corretto, però non voglio che questo messaggio venga usato dagli scettici del cambiamento climatico per dire cavolate».La climatologia ha mostrato che in generale il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. Può anche succedere che in certe parti del mondo sia prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.E potrebbero anche sembrare in controtendenza le une con le altre. «Il Mediterraneo per il ciclo dell’acqua è una zona veramente particolare del globo», spiega Federico Grazzini, meteorologo dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna (Arpae) e ricercatore all’Università di Monaco di Baviera, che ha a sua volta collaborato con la WWA: «In generale c’è una forte diminuzione delle piogge sulla quantità totale annuale, però questa tendenza si manifesta in tutte le stagioni tranne l’autunno: in autunno invece c’è una tendenza all’aumento. In media le piogge diminuiscono, ma quando piove sono più intense, e questo sul suolo ha effetti molto diversi». Grazzini sta lavorando a uno studio sulle precipitazioni sull’Italia centro-settentrionale che mostra che gli eventi di pioggia estremi stanno diminuendo in frequenza, ma aumentando in intensità.Gli scienziati della WWA ricordano sempre che i disastri legati a eventi meteorologici estremi vanno oltre gli eventi meteorologici presi singolarmente: sono sempre dovuti anche alla vulnerabilità della società ai loro effetti. Per questo nel caso delle alluvioni in Romagna hanno sottolineato che l’urbanizzazione e lo sfruttamento del territorio, molto elevato nella regione, aumentano i rischi legati alle piogge intense.La WWA pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, cioè prima che il ciclo delle notizie sposti l’attenzione delle persone su altri argomenti d’attualità, gli studi della WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione dei risultati da parte di altri scienziati competenti (peer-review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dalla WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer-review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.Gli scienziati che collaborano alla WWA lo fanno gratuitamente. LEGGI TUTTO

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    Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    Caricamento playerDa circa due anni è in corso una grande epidemia di influenza aviaria, che ha causato la morte di milioni di uccelli e in misura minore alcuni contagi tra mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e negli ultimi mesi sono state pubblicate analisi per valutare i fattori di rischio, importanti per comprendere quanto preoccuparsi per l’epidemia. Dopo tre anni di pandemia da coronavirus l’attenzione è piuttosto alta, ma al momento la situazione sembra essere relativamente sotto controllo almeno per quanto riguarda la salute degli esseri umani.Bassa e altaEsistono numerosi tipi e varianti di virus che causano l’influenza aviaria. Circolano di continuo tra gli uccelli selvatici e solitamente non causano particolari malattie, al punto che gli esemplari infetti non manifestano sintomi e la loro infezione passa inosservata. Questi virus poco aggressivi sono legati a una particolare forma di influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI, dalla sigla inglese che la identifica).Altri virus aviari sono invece più aggressivi e comportano una forma di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per gli animali che li contraggono e una diffusione ampia della malattia. È il caso del principale virus responsabile dell’attuale epidemia, che ha decimato intere popolazioni di uccelli selvatici e del pollame in molti allevamenti in giro per il mondo, in particolare in Europa e in seguito negli Stati Uniti.H5N1Oltre alla catalogazione in base alle forme di influenza che possono causare, i virus aviari sono classificati in base al tipo e alle loro varianti di appartenenza. Quello che da circa due anni suscita il maggiore interesse è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso. Le segnalazioni alle autorità sanitarie all’epoca furono spesso tardive, in un contesto di allevamenti industriali molto grandi, una circostanza che aveva reso più difficile il tracciamento del virus.– Ascolta anche: L’influenza aviaria, senza allarmismiAlcune versioni di H5N1 iniziarono a essere rilevate con crescente frequenza negli uccelli selvatici e in particolare in varie specie di uccelli acquatici migratori, che sviluppavano sintomi lievi, tali da non compromettere i loro spostamenti di migliaia di chilometri effettuati stagionalmente. Le loro migrazioni furono, e sono ancora oggi, una delle cause della periodica diffusione di virus aviari che avrebbero poi raggiunto gli allevamenti.La variante di H5N1 responsabile della maggior parte dei contagi in questa fase dell’epidemia era emersa tra il 2020 e il 2021, con focolai importanti in Asia e in Europa. Inizialmente gli Stati Uniti sembravano essere stato risparmiati, ma i primi casi nel Nord America erano poi emersi alla fine del 2021, con nuovi contagi sia negli allevamenti sia tra gli uccelli selvatici. Alla fine dello scorso anno furono poi rilevati i primi casi in Sudamerica, con grandi epidemie tra gli uccelli selvatici e alcuni casi di passaggio del virus verso i mammiferi, poi riscontrati anche in altre aree del mondo.Diffusione di H5N1 nel mondo fino ad aprile 2023: in rosso i paesi con uccelli selvatici e pollame interessati dall’epidemia, in rosso scuro i paesi anche con casi di contagio verso gli esseri umani (Wikimedia)SaltiCiò che rende particolare questa epidemia di influenza aviaria rispetto alle precedenti è che sta proseguendo ormai da un paio di anni, senza seguire una stagionalità come avveniva di solito in passato. Le misure di controllo, che comprendono l’abbattimento degli stormi infetti di uccelli selvatici e il loro successivo ripopolamento si stanno rivelando meno efficaci, proprio perché il virus continua a circolare e a causare nuovi contagi.In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.L’eventualità dei salti di specie spiega perché l’attuale epidemia sia tenuta sotto stretto controllo da parte delle autorità sanitarie. In questi due anni sono emersi passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno dello scorso anno era poi emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.(David Silverman/Getty Images)ControlloUn virus che riesce a passare da una specie a un’altra suscita sempre attenzione da parte delle autorità sanitarie, perché attraverso le sue mutazioni casuali potrebbe diventare pericoloso per gli esseri umani, come si ipotizza sia del resto avvenuto con SARS-CoV-2, il coronavirus con cui facciamo i conti da tre anni. Al momento i rari passaggi rilevati sembrano essere avvenuti per lo più da uccelli a esseri umani, mentre non sono stati identificati con certezza casi di successivi contagi da umano a umano, condizione che potrebbe rivelarsi molto più pericolosa.Le persone entrate in contatto con uccelli e altri animali contagiati, per esempio il personale degli allevamenti, vengono tenute sotto controllo non solo per rilevare la comparsa di eventuali sintomi, ma anche per ridurre il rischio che contagino altri individui. Le attuali varianti di H5N1 non sembrano costituire un particolare rischio per la nostra salute, ma i virus mutano di continuo e potrebbe emergere una versione più pericolosa. In Cambogia, a inizio anno una bambina di 12 anni è morta a causa della malattia, anche se il virus che l’aveva causata è diverso da quello più diffuso e che suscita le maggiori preoccupazioni.Nel suo ultimo rapporto, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che: «Il rischio di infezione con gli attuali virus aviari H5 in circolazione e appartenenti al gruppo 2.3.4.4b in Europa rimane basso per la popolazione in generale e basso/moderato per le persone che sono più a diretto contatto per ragioni lavorative o altro» con uccelli selvatici e pollame. Anche per le autorità sanitarie degli Stati Uniti il rischio continua a essere relativamente basso, seppure in un contesto di alta diffusione del virus tra i volatili.Martedì 23 maggio il Brasile ha dichiarato una emergenza sanitaria per gli animali che durerà almeno 180 giorni, dopo avere riscontrato i primi casi di influenza aviaria in alcuni uccelli selvatici. Il Brasile è il più grande esportatore di pollame: solo nel 2022 ha prodotto esportazioni per quasi 10 miliardi di euro. Una rapida e ampia diffusione del virus potrebbe avere conseguenze molto gravi sul settore economico. Le infezioni da H5N1 non determinano sospensioni delle attività commerciali, ma un focolaio in un allevamento può comunque causare l’abbattimento di grandi quantità di esemplari e potrebbe inoltre spingere i paesi importatori a sospendere gli ordini.Oltre agli aspetti sanitari, la protratta epidemia di influenza aviaria sta avendo importanti ripercussioni sulle attività commerciali in molti paesi. Negli Stati Uniti l’abbattimento di milioni di esemplari negli allevamenti di pollame ha avuto ripercussioni specialmente sul prezzo delle uova e sulla disponibilità di altre materie prime.Quindi?A oggi le principali autorità sanitarie non segnalano rischi immediati per gli esseri umani, ma invitano comunque a tenere sotto controllo la situazione e a ridurre il più possibile la diffusione del virus, per esempio negli allevamenti. È normale che ci sia una certa preoccupazione, nel senso di concentrare l’attenzione sul problema senza ansie per fare prevenzione ed evitare che diventi più grave e difficile da gestire. LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea e Pfizer-BioNTech si sono accordate per ridurre la fornitura di vaccini contro il coronavirus

    La Commissione Europea si è accordata con l’azienda farmaceutica Pfizer-BioNTech per rinegoziare il contratto di fornitura di vaccini contro il coronavirus (SARS-CoV-2): l’accordo prevede che vengano inviate ai paesi dell’Unione Europea meno dosi di quelle che erano originariamente previste dal contratto, in virtù del miglioramento della situazione epidemiologica e della minore necessità di vaccini per la popolazione europea.Il contratto in questione era stato stipulato nel maggio del 2021 e prevedeva la consegna di 900 milioni di dosi di vaccino all’Unione Europea fino al 2023 e altre 900 milioni di dosi opzionali, per un costo massimo stimato in 35 miliardi di euro, a carico dei singoli stati.Con la diminuzione generale dei contagi e la fine dell’emergenza dovuta alla pandemia, negli ultimi mesi diversi paesi, soprattutto dell’Europa centrale e orientale, avevano chiesto che si rinegoziasse il contratto, giudicato ormai eccessivo nei costi e nelle dosi da fornire.Il nuovo accordo riguarda 450 milioni di dosi che devono essere ancora consegnate all’Unione Europea entro la fine dell’anno. La Commissione Europea non ha comunicato quanto saranno diminuite le forniture, né i termini economici dell’accordo: ha detto però che le dosi originariamente previste dal contratto saranno convertite in ordini facoltativi «dietro pagamento di una compensazione», di cui non ha specificato l’entità. (AP Photo/Rogelio V. Solis, File) LEGGI TUTTO

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    Vedremo aurore boreali in posti in cui normalmente non si vedono

    Nel prossimo paio di anni le aurore polari saranno visibili con maggiore frequenza in cielo e spesso a latitudini più basse del solito, a causa di una maggiore attività del Sole. Negli ultimi mesi gli avvistamenti sono già stati segnalati in numerose aree del Regno Unito e in alcune parti della Germania e della Polonia, quindi molto più a sud dei paesi scandinavi dove solitamente vengono avvistate le aurore in Europa. Lo scorso 23 aprile la caratteristica colorazione del cielo notturno, con colori dal verde al viola, era stata segnalata anche nella parte meridionale degli Stati Uniti con avvistamenti in California e in Arizona.Le aurore boreali (quelle che si verificano nell’emisfero sud si chiamo invece aurore australi) sono dovute alla grande quantità di particelle che emette il Sole e che in parte raggiungono il nostro pianeta. I protoni e gli elettroni iniziano il loro viaggio dalla corona, la parte più esterna dell’atmosfera del Sole nonché una delle sue aree più calde. Si generano in un processo altamente energetico che consente loro di sfuggire alla forte gravità esercitata dal Sole e di confluire nel plasma, un particolare tipo di gas ionizzato.Il flusso di particelle dal Sole è continuo e viene chiamato “vento solare”. Quando arriva in prossimità della Terra, incontra il campo magnetico terrestre che impedisce a queste particelle di arrivare direttamente sul nostro pianeta, dove potrebbero causare non pochi problemi alle piante e agli animali, ma non solo.Questo scudo magnetico planetario si chiama magnetosfera e consente di deviare le particelle e in condizioni normale di tenerle alla larga. Le cose si complicano però quando il Sole entra ciclicamente in fasi in cui è più attivo del solito e produce colossali eventi come una “espulsione di massa coronale”, una grande emissione di particelle che alle osservazioni appare come una sorta di fiammata filamentosa che supera per dimensioni quelle della Terra.La conseguenza è che il vento solare si rinforza, un po’ come una improvvisa e forte folata di vento, con una quantità molto più grande del solito di particelle che raggiungono la magnetosfera producendo una tempesta magnetica. Il vento solare deforma sensibilmente il campo magnetico e ciò fa sì che le particelle riescano a superare lo scudo, raggiungendo i due poli magnetici della Terra. È per questo motivo che le aurore sono visibili soprattutto avvicinandosi ai poli del pianeta.Quando si trovano in una zona compresa tra i 300 e 30 chilometri di altitudine, le particelle che hanno viaggiato dal Sole fino a noi incontrano gli atomi di ossigeno e azoto che si trovano nell’atmosfera. L’incontro con le particelle solari altamente energetiche fa sì che gli atomi di ossigeno e azoto emettano fotoni, che possiamo considerare come piccole unità di energia sotto forma di luce.La luce è colorata a seconda degli elementi coinvolti. Gli atomi di ossigeno sono responsabili delle tinte verdi e rosse che si osservano in cielo durante un’aurora, mentre l’azoto dei colori come il blu che virano verso il violetto. C’è una certa variabilità nella colorazione di un’aurora a seconda della concentrazione dei due elementi e di altre variabili, come per esempio l’osservazione nel cuore della notte quando è buio o intorno al tramonto e all’alba, quando ci sono altri effetti ottici legati alla rifrazione dei raggi solari.(Getty Images)Il fenomeno nell’atmosfera si riduce via via e nel corso di qualche ora scompare, mentre intanto la magnetosfera recupera lentamente la propria solita configurazione. L’area in cui un’aurora è osservabile dipende quindi molto dalla latitudine a cui ci si trova e dall’attività solare. Viste dallo Spazio, le aurore appaiono come due grandi ciambelle luminose intorno ai poli.(NOAA)Poiché il fenomeno è strettamente legato all’attività solare, è possibile fare previsioni piuttosto accurate nel breve periodo sulla presenza o meno delle aurore e sulla loro estensione. La National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che tra le varie cose si occupa dei fenomeni atmosferici, offre un servizio di previsione sulle aurore, ma ci sono diversi altri siti che offrono informazioni e mantengono un archivio degli eventi passati.Le previsioni si basano in parte sulle conoscenze dei fenomeni solari e sulla ciclicità nell’attività della nostra stella. Il campo magnetico del Sole si inverte ogni undici anni in corrispondenza del massimo del ciclo solare, quando è appunto maggiore l’attività solare. Nell’attuale ciclo iniziato nel 2019 questa circostanza si dovrebbe verificare tra quest’anno e il 2026, secondo le analisi e le previsioni più condivise dai gruppi di ricerca.Come avvenuto già in passato, una maggiore attività solare si traduce in un’aumentata possibilità di avvistare le aurore, anche se molto difficilmente alla latitudine cui si trova il nostro paese. Nella notte tra il 17 e il 18 novembre 1848 ne fu osservata una a Napoli, con cronache di avvistamenti anche a Roma, come testimoniato dalla rivista dell’epoca L’Album: «Un non piccolo numero di persone anche ancor si trovava per le vie rallegrate in quella sera da una imponente festosa dimostrazione, rimaneva estatico a contemplare quel brillantissimo chiarore che rallegrava l’invidiato cielo di Roma».In generale, le stagioni migliori per osservare le aurore nel nostro emisfero sono la primavera e l’autunno, soprattutto in prossimità degli equinozi. Il prossimo autunno potrebbero quindi essere visibili a latitudini più basse del solito, anche se i luoghi dove osservarle con maggiore certezza rimangono i paesi scandinavi per l’Europa, l’Alaska e il Canada settentrionale per il Nord America. LEGGI TUTTO

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    Perché ci sono orche che attaccano le barche vicino alle coste iberiche?

    Caricamento playerLa notte del 4 maggio, al largo di Gibilterra, la barca a vela “Champagne” che era in viaggio tra le isole Canarie e le Baleari è stata attaccata da tre orche che hanno colpito il timone. L’equipaggio, soccorso dalla Guardia costiera spagnola, è riuscito a mettersi in salvo abbandonando l’imbarcazione, che a causa dei danni provocati alla fine è affondata.È stato un evento straordinario, ma non così raro nella parte di oceano Atlantico più vicina alle coste di Spagna e Portogallo. Dal maggio del 2020 è successo più di 500 volte che vicino allo Stretto di Gibilterra o al largo della Galizia, nel nord della Spagna, le orche si mettessero a colpire delle imbarcazioni, nella maggior parte dei casi barche a vela monoscafo (in altre due occasioni ne avevano affondata una). È un comportamento che non è ancora stato del tutto spiegato, ma gli scienziati hanno fatto un’ipotesi: una singola orca ferita avrebbe cominciato ad attaccare le barche per difendersi e le altre avrebbero cominciato a colpire le barche a loro volta imparando da lei.Ci sono orche (Orcinus orca) in tutti gli oceani del mondo, ma i comportamenti delle diverse popolazioni possono variare parecchio da zona a zona, tanto che i biologi hanno ipotizzato che in realtà ne esistano diverse sottospecie o specie, e non solo una come dice l’attuale classificazione scientifica dei mammiferi marini. Alcuni gruppi di orche vivono per tutto l’anno nelle stesse acque e per questo sono dette “residenti”. Altri si spostano molto, sempre restando lungo le coste: per questo sono dette “transienti”. Ci sono poi orche che vivono in mare aperto e per questo vengono chiamate “offshore”.Da un tipo di gruppo all’altro variano anche le abitudini alimentari (ci sono orche che mangiano solo salmoni, altre non interessate al pesce ma solo alle foche), i suoni con cui comunicano e altri comportamenti.Al largo delle coste iberiche vivono sei comunità di orche, alcune molto numerose altre ristrette, che in parte interagiscono tra loro e i cui territori possono essere più o meno ampi (alcune si trovano solo nello Stretto di Gibilterra, altre da lì al Golfo di Biscaglia, tra Spagna e Francia) e più o meno sovrapposti. In totale le orche che abitano questa parte di oceano sono una cinquantina. Quelle che attaccano le barche però sono solo 15, secondo le stime del Grupo de Trabajo Orca Atlántica, il gruppo di scienziati spagnoli e portoghesi che le studiano.Il gruppo sta cercando di capire esattamente perché le orche attacchino le barche e come evitare che questo comportamento metta in pericolo delle persone. Ma lavora anche per impedire che le interazioni dannose con le barche portino le persone a odiare le orche, comprese quelle che non mostrano interesse per le barche. «Pensiamo che in una data zona le orche interagiscano solo con una barca su cento», ha detto al sito di notizie scientifiche Live Science Alfredo López Fernandez, biologo dell’Università di Aveiro, in Portogallo, e membro del gruppo di ricerca, per dare una dimensione del fenomeno. Inoltre nella maggior parte dei casi le orche sembrano perdere interesse per le barche una volta che queste si sono fermate.Il Grupo de Trabajo Orca Atlántica gestisce un sito in cui sono registrati tutti gli episodi di interazioni tra orche e barche e che dà alcune raccomandazioni a chi naviga per evitare problemi.Dato che è solo dal 2020 che le orche iberiche hanno cominciato ad attaccare le barche e che inizialmente erano solo tre animali a colpirle, gli scienziati hanno ipotizzato che il comportamento sia cominciato dopo un evento traumatico accaduto a un’orca specifica. Le altre avrebbero gradualmente imparato da lei a colpire le barche. Le orche infatti sono animali sociali che oltre ai comportamenti innati ne possono imparare di nuovi dai propri simili: per questo nelle diverse popolazioni e comunità di orche si trovano vocalizzi (i suoni che producono) e comportamenti diversi, che possono essere trasmessi di generazione in generazione come una forma di cultura animale.L’orca da cui sarebbe iniziato tutto è stata chiamata Gladis Negra dal gruppo di ricerca e ha una grossa ferita sul dorso, dietro la pinna dorsale. Il trauma che ha subito sarebbe all’origine del comportamento aggressivo verso le barche, secondo l’ipotesi degli scienziati.La ferita dietro la pinna dorsale dell’orca Gladis Negra, che peraltro permette di identificarla facilmente (Grupo de Trabajo Orca Atlántica)López Fernandez ha spiegato che lui e i suoi colleghi non pensano che le orche che attaccano le barche «insegnino» a farlo alle altre: «Il comportamento si è diffuso dalle più anziane alle più giovani semplicemente per imitazione, e poi in modo orizzontale, tra giovani, perché per loro è qualcosa di importante». Per qualche ragione insomma per le orche le interazioni con le barche devono essere “vantaggiose”, nonostante i rischi che corrono ad avvicinarsi.È anche possibile che nonostante dal punto di vista umano le interazioni siano definibili come “attacchi”, cioè come un comportamento aggressivo, per la maggior parte delle orche che li compiono siano una forma di gioco.A prescindere da cosa l’ha causato però questo modo di fare delle orche è rischioso sia per chi naviga che per le orche stesse, che sono a rischio d’estinzione in questa parte dell’Atlantico. LEGGI TUTTO

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    In Irlanda le etichette degli alcolici dovranno indicare i rischi per la salute

    Il ministro della Salute dell’Irlanda, Stephen Donnelly, ha firmato oggi una discussa legge che renderà obbligatoria l’indicazione sulle etichette degli alcolici di varie informazioni sulla salute, dalle calorie per ogni porzione al rischio di sviluppare tumori e altre malattie. I produttori di alcolici avranno tre anni per mettersi in regola, modificando le etichette dei loro prodotti. La firma della legge era attesa da tempo, considerato che il governo irlandese aveva annunciato le nuove regole mesi fa, ricevendo critiche soprattuto dai grandi produttori di vino, birra e altre bevande alcoliche.La nuova legge è la prima di questo genere a richiedere indicazioni così dettagliate e avvisi sulla salute, come avviene già da tempo per le sigarette. Per questo motivo l’Irlanda aveva prima chiesto un parere alla Commissione Europea e all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), in modo da non rischiare sanzioni o di dover correggere alcune parti del nuovo provvedimento una volta entrato in vigore.In un comunicato, Donnelly ha detto che l’Irlanda «è il primo paese al mondo a introdurre indicazioni sulle etichette legate alla salute sui prodotti alcolici» e che confida ci possano essere «altri paesi che seguiranno il nostro esempio». Al momento nessun altro paese europeo ha comunque annunciato iniziative simili, anche perché alcuni paesi come Italia e Spagna avevano protestato per la scelta dell’Irlanda rivolgendosi alla Commissione Europea. Diversi esponenti del governo italiano avevano criticato duramente l’Irlanda e sostenuto che una legge di questo tipo avrebbe penalizzato le esportazioni di vino.Entro il 22 maggio 2026, tutti i produttori di alcolici dovranno indicare sulle etichette di ogni bottiglia e lattina l’apporto calorico dei loro prodotti, accompagnato da avvisi sul rischio di cancro derivante dal consumo di alcol e di altre malattie, come per esempio quelle legate al fegato. Le indicazioni dovranno essere riportate anche ai banconi dei bar e dei pub che somministrano birra alla spina e altre bevande alcoliche.Drinks Ireland, uno dei più grandi gruppi d’interesse in Irlanda legato alla produzione e alla vendita delle bibite alcoliche, ha criticato la legge dicendo che potrebbe indurre alcuni produttori di vino a non esportare più i loro prodotti in Irlanda, per evitare di dover utilizzare etichette diverse da quelle impiegate nel resto del mondo. Secondo l’organizzazione la scelta per i consumatori si potrebbe quindi ridurre, ma è ancora presto per capire come si regoleranno i produttori europei in un mercato comunque molto importante come quello irlandese.Altri gruppi di interesse nei mesi scorsi avevano detto di essere contrari alla nuova legge perché non ci sono elementi per sostenere che il consumo di vino e altri alcolici faccia aumentare il rischio di ammalarsi di cancro. In realtà la questione è stata studiata per decenni e – sulla base delle numerose ricerche scientifiche svolte – l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) delle Nazioni Unite ha inserito da tempo le bevande alcoliche nel “Gruppo 1” delle sostanze cancerogene. In questo gruppo sono comprese le sostanze per le quali ci sono dati sufficienti e solidi per dimostrare che fanno aumentare inequivocabilmente il rischio dell’insorgenza di un tumore. Nel medesimo gruppo ci sono anche l’amianto, il fumo e gli insaccati, per esempio.– Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” su vino e rischio tumoriLe sostanze negli altri gruppi non sono necessariamente meno rischiose per la nostra salute, ma semplicemente si trovano in classi più basse di rischio perché non ci sono ancora studi convincenti come per quelli del Gruppo 1 (e potrebbero non esserci mai). Una sostanza è cancerogena oppure non lo è: la parola stessa “cancerogeno” indica qualcosa che fa aumentare il rischio di insorgenza di un certo tipo di tumore. Ogni cancerogeno agisce in modo diverso su un rischio che varia a seconda del tipo di tumore e che dipende da come si è fatti e dal proprio stile di vita.Nell’Unione Europea si parla da tempo della possibilità di introdurre etichette che mettano meglio in evidenza i rischi per la salute legati al consumo di determinate sostanze, un po’ come si fa già con il fumo. Per questo nei mesi scorsi alcuni paesi avevano chiesto all’Irlanda di attendere che fossero introdotte regole comuni, che potrebbero però escludere alcune indicazioni come i rischi legati ai tumori. Si è per esempio parlato della possibilità di inserire nelle etichette rimandi ai siti web dei produttori, con indicazioni più dettagliate, ma che secondo i detrattori sarebbero meno efficaci nel segnalare la presenza dei rischi. LEGGI TUTTO

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    Il dilemma della bella addormentata

    Caricamento playerOltre che protagonista di una delle favole più conosciute di sempre, la bella addormentata è il soggetto immaginario di un esperimento mentale conosciuto da oltre due decenni e molto popolare tra studiosi e appassionati di matematica e filosofia, perché riguarda il modo in cui le informazioni e le convinzioni possono influenzare le scelte razionali. Ideato e proposto tra gli anni Novanta e il Duemila dai filosofi statunitensi Arnold Zuboff e Adam Elga, e discusso negli stessi anni anche dagli economisti Michele Piccione e Ariel Rubinstein, l’esperimento pone una questione ancora oggi irrisolta perché le due soluzioni proposte sono entrambe sostenute da argomenti formalmente validi.Secondo la formulazione classica del dilemma, su cui esistono oltre cento pubblicazioni scientifiche, la bella addormentata accetta di sottoporsi a un esperimento. Il gruppo di ricerca la addormenterà domenica utilizzando un particolare sonnifero che provoca anche una parziale amnesia, e a quel punto lancerà una moneta per decidere come proseguire. Se esce testa, la bella addormentata verrà svegliata e intervistata una sola volta, lunedì. Se esce croce, verrà risvegliata e intervistata due volte: una volta lunedì e un’altra volta martedì, dopo essere stata addormenta di nuovo lunedì, dopo l’intervista.Per effetto della particolare amnesia provocata dal sonnifero, ogni volta che viene svegliata la bella addormentata non sa che giorno sia, se lunedì o martedì, e non sa se sia stata svegliata altre volte in precedenza. Ricorda soltanto le regole dell’esperimento, cioè il criterio del lancio della moneta – il cui risultato lei ignora – per decidere quante volte svegliarla e intervistarla. Nell’intervista le viene posta ogni volta una sola domanda: «Quanta probabilità assegni all’ipotesi che sia uscito testa al lancio della moneta?».Sia gli ideatori del dilemma che le persone che si sono appassionate alla questione nel corso degli anni hanno proposto due possibili risposte. Un gruppo, quello dei cosiddetti “mezzisti” (halfters), sostiene che la bella addormentata dovrebbe rispondere: «una possibilità su due». E lo sostiene sulla base del fatto che la probabilità che la moneta dia testa (o dia croce) è del 50 per cento, indipendentemente dal resto dell’esperimento.Come sostenuto dal filosofo statunitense David Lewis e da altri, si potrebbe anche lanciare la moneta prima anziché dopo aver addormentato la bella addormentata, e – proprio per come è costruito l’esperimento – non cambierebbe molto. Lei comunque non avrebbe informazioni aggiuntive per concludere che, a meno che la moneta non sia truccata, la probabilità che esca testa sia diversa dal 50 per cento. E ogni volta che viene svegliata, secondo i mezzisti, la bella addormentata si trova in questa condizione: non sa se è il suo primo e unico risveglio, o se si tratta del secondo risveglio, né ha modo di scoprirlo. La sua stima sarà quindi inevitabilmente uguale a quella che avrebbe fornito a priori, prima di essere addormentata.– Leggi anche: Costruire nuove strade è un problema matematico non da pocoUn altro gruppo di persone, i “terzisti” (thirders), di cui fa parte anche l’ideatore del dilemma Elga, ritiene invece che la risposta corretta della bella addormentata dovrebbe essere: «una possibilità su tre». Dal punto di vista della bella addormentata possono infatti verificarsi tre diversi eventi: un risveglio di lunedì, dopo che il lancio ha dato testa; un risveglio di lunedì, dopo che il lancio ha dato croce; e un risveglio di martedì, dopo che il lancio ha dato croce. In media, un terzo dei risvegli seguirà un lancio della moneta in cui è uscito testa, e due terzi dei risvegli seguiranno un lancio della moneta in cui è uscito croce.Per metterla nei termini matematici utilizzati dalla divulgatrice e fisica tedesca Manon Bischoff, se la bella addormentata sapesse al suo risveglio che è lunedì (L), allora la probabilità (P) dell’evento “lunedì/testa” (T|L) e quella dell’evento “lunedì/croce” (C|L) sarebbero certamente uguali: e cioè P(T|L) = P(C|L) = ½. E se la bella addormentata sapesse al suo risveglio che è uscito croce (C), sarebbero uguali la probabilità (P) che sia lunedì (L) e quella che sia martedì (M): e cioè P(C|L) = P(C|M) = ½.La conseguenza logica di queste premesse, in base al calcolo della probabilità condizionata, è che nel caso generale – e cioè in assenza di informazioni date alla bella addormentata – tutti e tre gli eventi hanno la stessa probabilità: e cioè P(T|L) = P(C|L) = P(C|M). Secondo Elga, poiché la bella addormentata si sveglia due volte più spesso nel caso in cui esce croce rispetto al caso in cui esce testa, dovrebbe rispondere che la probabilità che sia uscito testa al lancio della moneta è una su tre.Questo punto di vista è spesso rafforzato dall’idea che l’esperimento sia ripetuto un certo numero di volte e non una volta soltanto (sebbene la valutazione delle probabilità dei tre eventi, secondo i terzisti, non sia diversa nemmeno nel caso in cui sia effettuato una sola volta). Se l’esperimento venisse ripetuto 1.000 volte, in media si verificherebbero 500 risvegli singoli e 500 doppi risvegli, per un totale di 1.500 interviste: 1.000 di queste interviste seguirebbero un lancio in cui è uscito croce, e questo renderebbe poco sensata la risposta dei mezzisti.– Leggi anche: Per valutare il successo bisogna considerare il “pregiudizio di sopravvivenza”In altri casi sono state analizzate versioni modificate dell’esperimento mentale, più estreme. In una versione suggerita nel 2006 dal filosofo svedese Nick Bostrom, la bella addormentata viene svegliata e intervistata non soltanto una seconda volta il giorno successivo al primo risveglio, nel caso in cui esca croce, ma un milione di altre volte. Anche in questo caso, la risposta della bella addormentata secondo cui c’è una possibilità su due che sia uscito testa non sembra la più sensata.Portare all’estremo alcune caratteristiche dell’esperimento è una tecnica utilizzata anche per venire a capo di altri dilemmi relativi al calcolo delle probabilità, tra cui il problema di Monty Hall. In quel caso, un ipotetico gioco a premi, il giocatore può scegliere fra tre porte: dietro una c’è un’automobile e dietro le altre due una capra. Il giocatore sceglie una porta, ma riceve la possibilità di cambiare la sua scelta dopo che il conduttore apre una delle due porte dietro cui si trova una capra. L’idea che al giocatore convenga a quel punto cambiare la sua scelta iniziale appare controintuitiva a molte persone, ma diventa più ragionevole nel caso in cui le porte siano molte di più, un milione, e il conduttore ne apra 999.998 con dietro una capra, dando al giocatore la possibilità di cambiare a quel punto la sua scelta iniziale.Versioni modificate dell’esperimento della bella addormentata sono però state utilizzate anche per indebolire l’opinione dei terzisti, ricorda Bischoff, ponendo come esempio il caso in cui l’esito del lancio della moneta venisse sostituito dall’esito di una scommessa sportiva su un evento facilmente prevedibile: una corsa podistica tra la cantante Taylor Swift e l’ex corridore Usain Bolt. Se vince Bolt, come molte persone considererebbero più probabile, la bella addormentata viene svegliata e intervistata soltanto lunedì. Se vince Swift, la bella addormentata viene svegliata e intervistata ogni giorno per un mese.La probabilità che Bolt perda contro Swift è molto bassa, ma applicando la logica “a posteriori” utilizzata dai terzisti, secondo Bischoff, la bella addormentata dovrebbe comunque considerare più probabile un suo risveglio avvenuto dopo una vittoria di Swift: perché in questo caso, per quanto improbabile, lei però verrebbe svegliata 30 volte. Le obiezioni a questo tipo di versione modificata dell’esperimento mentale si basano sul fatto che alterano in modo troppo significativo l’esperimento stesso e il tipo di informazioni a disposizione della bella addormentata.In termini generali, a prescindere dalla soluzione proposta, il dilemma è considerato un esempio utile di enigma relativo alla teoria delle decisione, lo studio matematico e statistico del modo in cui compiamo scelte tra varie alternative possibili. E mostra come le convinzioni e le informazioni delle persone, in questo caso quelle della bella addormentata, possano portare a più conclusioni razionali. LEGGI TUTTO

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    Perché mezzo mondo è intollerante al lattosio

    Caricamento playerIl latte è una delle bevande più consumate al mondo, eppure la maggior parte della popolazione mondiale ha diversi gradi di intolleranza al lattosio, il principale zucchero presente nel latte. La distribuzione delle persone che non riescono a digerirlo non è però omogenea: ci sono posti del mondo in cui quasi tutte le persone riescono a bere il latte senza problemi, come l’Irlanda e buona parte del nord Europa, e altre dove l’intolleranza è molto diffusa, come in alcuni paesi asiatici. Le ragioni di queste marcate differenze sono ancora oggi un mistero, ma le molte ipotesi formulate in questi anni sulla base di test, esperimenti e grandi quantità di dati suggeriscono qualche spiegazione e soprattutto dicono qualcosa su come siamo fatti e su come ci siamo evoluti.Nei primi anni di vita quasi tutti i mammiferi riescono a digerire normalmente il latte, l’unico alimento per i piccoli di molte specie compresa la nostra. Questa digestione è resa possibile dalla lattasi, un enzima che si occupa di scindere il lattosio in glucosio e galattosio, rendendo il latte più facilmente digeribile dall’organismo. Dopo lo svezzamento, l’attività dell’enzima si riduce in quasi tutti i mammiferi, determinando una intolleranza al lattosio. In alcune popolazioni umane, però, la lattasi si mantiene attiva e rende possibile la normale digestione del latte anche in età adulta, una condizione che viene definita: “persistenza di lattasi”.L’assenza o la minore attività della lattasi dopo i primi anni di vita fa sì che il lattosio non venga scomposto efficacemente, comportando problemi soprattutto a livello intestinale dove il lattosio fermenta. I meno esposti al problema hanno disturbi lievi, mentre chi ha maggiori difficoltà digestive fa spesso i conti con mal di pancia, accumulo di gas intestinale ed episodi di diarrea, che possono essere ricorrenti e nei casi più gravi debilitanti. A queste persone viene consigliato di solito di astenersi dal consumo di latte e di molti dei suoi derivati, oppure di assumere farmaci che aiutano l’organismo a digerire il lattosio.La persistenza di lattasi varia molto tra le popolazioni di esseri umani. Si stima che in Grecia ce l’abbiano solo due persone su dieci, mentre nei paesi nordici europei si arriva a 8-9 su dieci. Tra i più tolleranti al lattosio ci sono gli irlandesi, dove si stima che la persistenza di lattasi riguardi la quasi totalità della popolazione. In Cina si stima che più dell’85 per cento della popolazione sia intollerante al latte e le percentuali sono molto alte in numerose zone dell’Africa, per quanto con qualche eccezione. Spiegare questa grande varietà nella distribuzione geografica non è semplice, ma aiuterebbe a comprendere meglio non solo il problema dell’intolleranza al lattosio, ma anche a capire come mai talvolta l’evoluzione si muove molto rapidamente.Percentuale della popolazione in grado di digerire il lattosio (Wikimedia)La capacità di digerire o meno il lattosio ha infatti una componente genetica molto importante, mentre sembra avere meno a che fare con l’abitudine di continuare a bere il latte dopo lo svezzamento (come invece si sente dire spesso). Di solito è sufficiente che uno dei due genitori abbia la persistenza di lattasi per trasmetterla alla prole, perché basta una variante del gene che regola l’enzima per digerire efficacemente buona parte del lattosio in una porzione di latte. Ma come mai ci sono posti del mondo in cui sono praticamente tutti tolleranti al latte e altri dove regna il mal di pancia?L’ipotesi più condivisa, per quanto ancora discussa, è che la persistenza di lattasi iniziò ad affermarsi in alcune popolazioni umane dopo la domesticazione e l’allevamento di alcune specie animali che producevano latte, circa 10mila anni fa. Prima di quel periodo le popolazioni di cacciatori-raccoglitori erano intolleranti al lattosio, secondo gli studi paleogenetici, basati quindi sulle caratteristiche genetiche degli umani più antichi.L’allevamento aveva reso disponibile in breve tempo il latte come nuovo alimento nella dieta di molte persone: era nutriente e permetteva di sfruttare molto più velocemente gli animali per nutrirsi rispetto alla macellazione delle loro carni, che era più laboriosa e richiedeva tempi più lunghi. La maggiore disponibilità di latte fu quindi probabilmente uno dei fattori che favorirono una rapida evoluzione della nostra specie verso la capacità di produrre la lattasi. Come avviene spesso con l’evoluzione, il processo non fu però omogeneo e fu condizionato da numerosi fattori, come mostra il caso europeo.Ancora 5mila anni fa pochissimi esseri umani riuscivano a digerire il latte, nonostante fosse ormai alquanto diffuso. Le cose cambiarono però drasticamente in poche migliaia di anni, quando nelle popolazioni del nord Europa si presentò una mutazione genetica che cambiò tutto, rendendo possibile l’attuale tasso del 95 per cento circa di tolleranza al lattosio tra chi vive nei paesi nordici europei.Per capire che cosa determinò questa accelerazione, un gruppo internazionale di ricerca ha provato a tenere traccia del consumo di latte da parte delle antiche popolazioni europee a partire da 9mila anni fa. Ha analizzato più di 13mila frammenti di vasellame rinvenuto in vari siti archeologici ed è andato alla ricerca delle tracce lasciate dalle sostanze grasse del latte penetrate all’interno dei recipienti utilizzati dai nostri antenati. L’analisi ha permesso di confermare che già 9mila anni fa il latte veniva consumato dalle popolazioni europee.Una successiva analisi basata sull’esame del materiale genetico di oltre 1.700 resti di esseri umani ha poi permesso di riscontrare l’emergere della variante del gene responsabile della persistenza di lattasi intorno a 5mila anni fa, a conferma del fatto che per molto tempo il latte era bevuto in assenza o con attività ridotta della lattasi. Dalle analisi dei dati raccolti non era emersa una differenza particolare nel consumo di latte prima e dopo l’avvento della persistenza di lattasi: a quanto pare la possibilità o meno di digerire il latte non fu così determinante nella sua diffusione e in quella dei suoi derivati (che hanno una concentrazione variabile di lattosio, spesso più bassa). Quelle popolazioni non lasciavano che gli effetti spiacevoli condizionassero il consumo di latte.A ben vedere, qualcosa di analogo avviene ancora oggi. Una ricerca condotta nel Regno Unito su circa 500mila individui non ha trovato differenze significative nel consumo di latte tra chi ha la persistenza di lattasi e chi non ce l’ha. Gli intolleranti al lattosio non sembrano avere problemi di salute nel lungo periodo se consumano ugualmente latte, né in termini di longevità né di capacità di riprodursi. L’ipotesi è che nell’antichità il latte fosse quindi consumato pur con qualche inconveniente perché i benefici erano superiori agli aspetti negativi.Questa osservazione non aiuta però a spiegare come mai a un certo punto molte popolazioni europee svilupparono ugualmente la persistenza di lattasi e così velocemente. Se potevano bere lo stesso il latte, che beneficio avrebbe portato svilupparla?Non c’è ancora una risposta condivisa e convincente fino in fondo, ma gruppi di ricerca hanno sviluppato alcune teorie. Una è che probabilmente lunghi e difficili periodi di carestia accelerarono la diffusione della variante del gene che rende tolleranti al lattosio. In condizioni normali è probabile che nessuno morisse per un’intolleranza al lattosio, visto che gli effetti sono dolori addominali e nel peggiore dei casi qualche episodio di diarrea. Ma avere questi disturbi quando si è malnutriti a causa della mancanza di cibo cambia le cose: episodi ricorrenti di diarrea debilitano ulteriormente l’organismo, favoriscono la disidratazione e nei casi più gravi possono causare la morte.In mancanza di altro cibo è probabile che ci fosse un maggior ricorso al latte, peggiorando ulteriormente la situazione per chi era intollerante. Dobbiamo immaginare che ciò avvenisse in un mondo molto diverso dal nostro, dove infezioni e malattie ora curabili con facilità potevano rivelarsi letali. In un contesto simile, gli individui con persistenza di lattasi avevano più probabilità di sopravvivenza rispetto agli intolleranti al lattosio. Ci fu di conseguenza una rapida selezione che insieme ad altre mutazioni del tutto casuali a livello genetico favorì l’emergere di popolazioni via via più in grado di digerire il lattosio. Il fenomeno si verificò in modo disomogeneo in varie aree dell’Europa favorendo la diversità che riscontriamo ancora oggi.Un’altra teoria simile vede come causa le epidemie al posto delle carestie. Le prime popolazioni vivevano al chiuso in ambienti poco spaziosi e a stretto contatto con gli animali, in condizioni che potevano favorire la circolazione di virus e batteri. Se si ammalavano in molti c’erano minori possibilità di gestire il raccolto, la disponibilità di cibo diminuiva e si faceva un maggior ricorso al latte. Le persone già debilitate dalla malattia e intolleranti al lattosio avevano minori possibilità di sopravvivenza rispetto a chi aveva la persistenza di lattasi e l’avrebbe poi trasmessa alla prole.Le simulazioni basate su queste teorie fanno riscontrare una corrispondenza tra l’aumento della persistenza di lattasi tra le popolazioni europee e i periodi in cui ci furono carestie ed epidemie. Lo stesso approccio fatica però a trovare spiegazioni convincenti per altre aree del mondo. Nelle steppe tra Europa e Asia ci sono popolazioni che tradizionalmente consumano molto latte, ma tra i cui individui c’è una bassa percentuale di persone in grado di digerire il lattosio.Oltre al vasellame e alle analisi del materiale genetico, informazioni sul consumo di latte in tempi relativamente più recenti possono essere derivate dalle testimonianze scritte. Alcuni autori dell’antica Roma, per esempio, segnalavano nei loro testi con una certa sorpresa un importante consumo di latte da parte dei popoli nordici. Le condizioni climatiche probabilmente influivano sulla minore disponibilità e varietà di cibo nel nord dell’Europa, rendendo più significativo il ricorso al latte come alimento.Uno studio realizzato sulle isole britanniche ha rilevato che la persistenza di lattasi si diffuse agli inizi dell’età del ferro, circa un millennio prima della sua forte presenza in alcune aree dell’Europa continentale. Anche in questo caso la tempistica sembra indicare che il latte divenne in quel periodo un’importante fonte alimentare. L’alta percentuale di persone che digeriscono il latte avrebbe influito molti secoli dopo sulla diffusione della bevanda anche in luoghi dove non viene digerita, almeno secondo alcune recenti analisi sulla storia dell’intolleranza al lattosio.Nel suo libro Spoiled, parola che in inglese significa “avariato”, la storica culinaria statunitense Anne Mendelson scrive che quando il Regno Unito divenne una potenza mondiale estendendo il proprio dominio in numerose colonie, esportò nei territori conquistati tradizioni e usanze compresa quella di bere il latte. Era considerato un alimento nutriente, completo, relativamente economico e facile da digerire, almeno così ritenevano i britannici dall’alto della loro persistenza di lattasi.Popolazioni che non bevevano latte non processato, o che comunque lo bevevano in rare occasioni, si ritrovarono a cambiare le loro abitudini con le difficoltà del caso. Lo stesso avvenne in seguito anche quando gli Stati Uniti iniziarono a essere una potenza mondiale e ad avere una grande influenza su altri paesi. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ricorda sempre Mendelson, alcuni medici iniziarono a comprendere il latte nelle loro indicazioni per la dieta dei pazienti e nei loro trattati, sostenendo che tutti gli esseri umani potessero digerirlo senza problemi. Dopo la Seconda guerra mondiale l’approccio rimase il medesimo, con campagne volte a incentivare il consumo di latte in molti paesi, spesso dovuto alla necessità di sostenere economicamente il settore.Al crescente numero di persone che consumavano latte non corrispose un aumento considerevole di casi segnalati, soprattutto per i motivi che abbiamo già visto: gli effetti dell’intolleranza variano moltissimo da persona a persona, al punto che molti trascorrono la loro intera esistenza senza scoprire di essere intolleranti al lattosio. In alcuni casi è stata riscontrata la capacità del microbiota – che viene chiamato spesso genericamente “flora intestinale” – di favorire la digestione del lattosio, rendendo quindi possibile un migliore assorbimento senza gli inconvenienti che provano altre persone. I disturbi intestinali possono essere inoltre molto lievi, specialmente se il consumo di latte o prodotti che contengono lattosio è saltuario e le quantità ingerite non sono grandi. Altre persone ancora sviluppano invece disturbi importanti anche dopo l’assunzione di poco lattosio.A chi sospetta di avere un’intolleranza al lattosio di solito viene prescritto un “breath test” (test del respiro), che viene effettuato a intervalli regolari per un paio di ore dopo aver fatto assumere al paziente del lattosio sciolto in acqua. Se nell’aria espirata viene rilevato un alto tasso di idrogeno, significa che il lattosio non è stato scisso dalla lattasi e ha iniziato a fermentare nell’intestino. I gas che si producono a causa della fermentazione vengono assorbiti dalla mucosa del colon, finiscono nel circolo sanguigno e raggiungono i polmoni, che li eliminano attraverso la respirazione. Vengono poi utilizzati specifici parametri per stabilire se la concentrazione sia tale da essere riconducibile alla mancanza di attività della lattasi.La diagnosi di più casi e la maggiore accessibilità dei test genetici dovrebbe favorire nuove ricerche e studi su come siamo diventati più o meno tolleranti al lattosio a seconda dei casi. Quantità maggiori di dati dovrebbero inoltre facilitare un allargamento degli studi ad altre aree del mondo oltre l’Europa, dove finora si è concentrata la maggior parte delle ricerche, proprio per la presenza di popolazioni in cui l’intolleranza al lattosio è marginale se non quasi del tutto inesistente. Secondo i più critici la grande attenzione al contesto europeo ha portato a trascurare fenomeni che si verificarono migliaia di anni fa in Africa e in Asia, che potrebbero aiutarci a capire meglio il nostro rapporto travagliato, a volte letteralmente, col latte. LEGGI TUTTO