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    Come l’ambiente influenza le culture

    Le differenze culturali sono uno dei fattori comunemente utilizzati per spiegare la variabilità dei comportamenti delle persone a seconda del luogo in cui vivono o sono cresciute. In alcune regioni del mondo è normale mangiare carne di animali che in altri posti è vietato mangiare. In alcuni paesi il sesso prematrimoniale è una pratica comune, mentre in altri è rarissimo. In Romania le persone estranee tra loro mantengono solitamente una distanza di oltre un metro e 20 centimetri l’una dall’altra, mentre in Bulgaria, che pure confina con la Romania per un lunghissimo tratto, la distanza interpersonale mediamente mantenuta tra sconosciuti è meno della metà.In uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B un gruppo di ricerca del dipartimento di psicologia della Arizona State University ha in parte associato le variazioni culturali nel mondo a differenze ambientali, riprendendo alcune teorie e ricerche in psicologia ed ecologia condotte in anni recenti. I fattori ambientali presi in considerazione sono per esempio la geografia fisica e la densità di popolazione, ma anche l’aspettativa di vita e il rischio di malattie infettive. E dall’analisi di questi fattori e della loro evoluzione nel tempo è emerso che popolazioni che vivono in ambienti simili, non necessariamente vicini, sviluppano in una percentuale significativa gli stessi modelli culturali.Il gruppo di ricerca ha raccolto un vasto insieme di dati che misurano variabili ambientali e culturali in 220 paesi del mondo, lo ha chiamato The Ecology-Culture Dataset e lo ha reso pubblico su Scientific Data, la rivista del gruppo Nature dedicata alla pubblicazione di set di dati rilevanti per le scienze naturali, la medicina, l’ingegneria e le scienze sociali. Tra le variabili ambientali, nove in tutto, ci sono il livello medio annuo delle precipitazioni e della temperatura, il tasso di mortalità per cause esterne, la percentuale di disoccupazione e la diseguaglianza economica (coefficiente di Gini).Le variabili culturali sono 72 in tutto – ma nello studio ne sono state utilizzate 66 – e comprendono la rigidità delle norme sociali, l’indice di corruzione, il benessere soggettivo, l’innovazione, il conformismo, l’individualismo, le caratteristiche istituzionali e la disuguaglianza di genere. Sulla base dell’analisi delle relazioni tra i due diversi gruppi di dati gli psicologi della Arizona State University hanno stimato che quasi il 20 per cento della variazione culturale umana può essere spiegata da quella ambientale.– Leggi anche: Perché alcuni cibi ci disgustano?Come spiegato dalla ricercatrice Alexandra Wormley, una delle coautrici dello studio, le stime tengono conto dei problemi noti in questo tipo di ricerche interculturali. Uno di questi è che le società vicine nello spazio o con radici storiche condivise tendono a essere simili anche per aspetti e sfumature che sfuggono alle misurazioni degli studi. Le somiglianze culturali tra la Germania meridionale e l’Austria, per esempio, possono essere spiegate dal loro patrimonio culturale e linguistico condiviso, oltre che da climi e livelli di ricchezza simili.Ma l’analisi dei dati ha permesso di scoprire anche somiglianze sorprendenti e meno facili da interpretare, come quelle tra Polonia e Perù, per esempio. Entrambi i paesi hanno aspettative di vita simili (rispettivamente 73,5 e 75,2 anni) e livelli relativamente bassi di rischio di malattie infettive, e condividono diversi valori culturali tra cui l’indipendenza e la coesione sociale. L’analisi dei dati, secondo Wormley, potrebbe anche servire a prevedere future somiglianze culturali altrimenti insospettabili, tra aree del mondo distanti fisicamente e storicamente ma accomunate per esempio da caratteristiche come la piovosità.Le correlazioni tra variabili ambientali e modelli culturali sono da diversi anni oggetto di un numero crescente di studi che si concentrano su fattori come i rischi per la sicurezza, la temperatura dell’aria e la disponibilità di risorse idriche. La psicologa statunitense Michele Gelfand si è a lungo occupata dell’opposizione tra rigidità ed elasticità delle norme sociali, definendo «culture rigide» quelle con norme sociali forti e scarsa tolleranza per le devianze, e «culture elastiche» quelle molte permissive e con norme sociali deboli.In un ampio studio pubblicato nel 2011 su Science e condotto insieme ad altri 44 ricercatori e ricercatrici di diversi paesi del mondo, Gelfand ha scoperto che la rigidità delle norme sociali in una data cultura è tendenzialmente legata alla quantità di minacce alla sicurezza che la società deve affrontare, dalle guerre ai disastri ambientali. Norme sociali più rigide possono aiutare i membri della comunità a restare uniti e cooperare di fronte a tali pericoli.– Leggi anche: Perché collaboriamoUno studio recente pubblicato sulla rivista Psychological Science e condotto in Iran dai due ricercatori Thomas Talhelm e Hamidreza Harati ha scoperto che alcune comunità con minore accesso alle risorse idriche adottano modelli culturali più orientati all’investimento a lungo termine. L’ipotesi suggerita nello studio è che la scarsità di acqua dolce renda più stringente per le popolazioni il bisogno di pianificare le azioni future in modo da non esaurirla precocemente.Anche la temperatura è considerata una variabile potenzialmente influente nelle differenze culturali tra i paesi. In uno studio del 2017 sulle distanze interpersonali, condotto su circa 9 mila persone provenienti da 42 paesi, i ricercatori e le ricercatrici hanno messo in relazione le distanze abituali con un insieme di caratteristiche individuali dei partecipanti, attributi delle diverse culture e caratteristiche ambientali. E hanno scoperto che anche queste ultime possono spiegare variazioni nei risultati: in luoghi con temperature mediamente più basse le persone sentono meno necessità di spazio personale in pubblico.Una delle ipotesi suggerite nello studio è che nei paesi più caldi e umidi la presenza di microrganismi patogeni e la maggiore diffusione di malattie infettive abbiano influenzato l’evoluzione delle distanze interpersonali. L’ipotesi si basa sul fatto che l’aumento di quelle distanze e la riduzione dei contatti fisici sono stati per secoli parte dell’adattamento comportamentale contro le epidemie. E nelle regioni storicamente più colpite da malattie infettive, come osservato in alcuni studi, le persone tendono effettivamente a essere meno estroverse. Mantenere distanze interpersonali maggiori, secondo questa ipotesi, sarebbe quindi il risultato evolutivo di un comportamento utile a ridurre il rischio di infezioni.In precedenti studi la presenza di microrganismi patogeni nell’ambiente è stata associata anche ad altre differenze culturali. In particolare è stato ipotizzato che nelle regioni con una maggiore diffusione storica di malattie infettive l’inclinazione al conformismo anziché all’individualismo e la “chiusura” verso ciò che sta fuori dalla comunità siano parte di un modello culturale influenzato dalla necessità di inibire la trasmissione degli agenti patogeni. Da questo punto di vista anche l’attenzione e l’enfasi sui modi tradizionali di fare le cose, dalla cucina alla cura della prole alle pratiche di sepoltura, potrebbero servire a disincentivare comportamenti non sicuri.È un’ipotesi evolutivamente sensata, disse nel 2016 lo psicologo statunitense Michael Varnum, principale autore del recente studio della Arizona State University: «Gli agenti patogeni evocano un’intera gamma di risposte che probabilmente sono o erano adattative in qualche modo, che inducono le persone a ridurre le possibilità di infezione». Le prospettive invece cambiano, secondo questa ipotesi, negli ambienti in cui la minaccia delle malattie infettive viene progressivamente meno, privando di senso comportamenti come rimandare l’istruzione, l’esplorazione o l’impegno politico per mettere su famiglia e garantire la trasmissione dei geni prima di morire per una malattia.– Leggi anche: Il complicato rapporto tra i progressisti e la geneticaUn’altra correlazione molto forte confermata dallo studio più recente di Varnum e Wormley, già emersa in uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Nature Human Behaviour, è quella tra l’evoluzione delle malattie infettive e l’uguaglianza di genere. La diminuzione della prevalenza delle maggiori malattie infettive è correlata a una crescita dell’uguaglianza di genere, in una relazione statistica descritta da Varnum come una delle più strette da lui mai osservate e da lui paragonata a quella tra il fumo e il cancro ai polmoni. La spiegazione ipotizzata è che il rischio inferiore di contrarre malattie infettive favorisca una generica maggiore disponibilità al cambiamento sociale, e di conseguenza apra più spazio all’intraprendenza personale e riduca la spinta a mantenere tradizioni che nella maggior parte dei casi sono patriarcali.Secondo diversi scienziati uno dei principali limiti delle ricerche come quelle sull’influenza dei tassi di malattie infettive sui modelli culturali è l’alto rischio di stabilire correlazioni spurie. Due fenomeni potrebbero cioè essere statisticamente correlati, ma senza che uno dei due influenzi necessariamente l’altro: entrambi potrebbero per esempio dipendere da una terza variabile non presa in considerazione.In uno studio pubblicato nel 2013 sulla rivista Evolution and Human Behavior da due sociologi della stessa università di Varnum e Wormley, Joseph Hackman e Daniel Hruschka, l’analisi di un insieme di dati relativi agli Stati Uniti mostrò una correlazione tra comportamenti violenti e malattie sessualmente trasmissibili, ma non altre malattie infettive. Lo studio descrisse inoltre l’età in cui le persone si sposano e hanno figli come una variabile molto più influente di qualsiasi altra legata ai tassi di malattie infettive.Il rischio di stabilire correlazioni casuali tra variabili ambientali e culturali è chiarito anche nelle conclusioni del recente studio della Arizona State University, in cui si suggerisce che i confronti siano sempre fatti con estrema cautela. Gli autori e le autrici definiscono tuttavia lo studio e l’ampio insieme di dati da loro reso pubblico come un punto di partenza per future ricerche e come strumenti utili a favorire un approccio trasversale alle basi più ampie possibili di dati statistici, necessarie per trarre relazioni plausibili e conclusioni significative. LEGGI TUTTO

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    Non sappiamo quali saranno gli effetti del nuovo El Niño sull’Europa

    L’8 giugno la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia, ha annunciato che è infine tornato il cosiddetto “El Niño”, quell’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e influenza il clima di gran parte del pianeta, portando tra le altre cose a un aumento della temperatura media globale. Per i prossimi anni dunque si prevedono nuovi record di alte temperature perché gli effetti del riscaldamento dovuto alle emissioni di gas serra saranno ulteriormente accentuati da quelli di El Niño.Ci saranno poi altre conseguenze del fenomeno atmosferico, che riguarderanno le precipitazioni: a causa di El Niño in alcune regioni pioverà di più e in altre di meno. Per la sua lontananza dal Pacifico, l’Europa non subirà gli effetti più forti di El Niño, ma un’influenza ci sarà comunque, specialmente se quello di quest’anno – ed eventualmente dei prossimi, se la situazione dovesse durare a lungo – sarà particolarmente intenso.Con l’espressione “El Niño” si fa riferimento a una delle tre fasi di quello che i climatologi chiamano ENSO, acronimo inglese di “El Niño-Oscillazione Meridionale”: una variazione dei venti e della temperatura della superficie della parte tropicale orientale del Pacifico che avviene periodicamente a intervalli irregolari. C’è una fase neutra in cui l’acqua superficiale del Pacifico è più fredda nella parte orientale dell’oceano rispetto a quella occidentale e i venti tendono a soffiare da est a ovest complessivamente.“El Niño” è invece la fase detta di riscaldamento, in cui i venti si indeboliscono o cambiano direzione, spingendo le acque più calde verso est invece che verso ovest: si scaldano così le acque superficiali del Pacifico orientale, sempre nella fascia tropicale. Il suo nome significa “il bambino” in spagnolo: deriva dal fatto che nel Diciassettesimo secolo i pescatori del Perù notarono che a intervalli di qualche anno le acque dell’oceano diventavano più calde nel periodo di Natale, cioè della festa di Gesù bambino.Convenzionalmente si dice che El Niño è iniziato quando la temperatura negli strati d’acqua superficiali nella fascia tropicale del Pacifico orientale aumenta di almeno mezzo grado Celsius rispetto alla media di lungo periodo, situazione che si è verificata tra fine maggio e inizio giugno.Come è cambiata la temperatura degli strati superficiali dell’acqua del Pacifico rispetto alla media tra il 30 gennaio e il 4 giugno 2023 rispetto alla media di lungo periodo (NOAA)Tra le altre cose El Niño potrebbe portare molte precipitazioni nel sud degli Stati Uniti e nel Golfo del Messico, e ridurle fino a condizioni di siccità nel sud-est asiatico, in Australia e nell’Africa centrale; al tempo stesso El Niño aumenta la frequenza di tempeste tropicali nel Pacifico e diminuisce quella di uragani nell’Atlantico.Un El Niño molto forte potrebbe avere effetti considerevoli, con alluvioni in alcune aree e siccità in altre, con danni per l’agricoltura e la pesca soprattutto per i paesi sulle coste del Pacifico. Si stima che tra il 1997 e il 1998 El Niño causò danni in giro per il mondo pari a quasi 35 miliardi di dollari, con 23mila morti riconducibili al fenomeno atmosferico. L’ultima volta in cui si è verificato fu nel 2016: l’anno con la temperatura media globale più alta mai registrata.Da zona a zona comunque gli effetti possono variare, anche a seconda dell’intensità dell’El Niño in questione, e sarebbe complicato elencarli tutti: alcune regioni del mondo potrebbero essere più fredde o più calde del solito in diversi momenti dell’anno.Per quanto riguarda l’Europa, ci sono molte incertezze su se e come il nuovo El Niño ne influenzerà le condizioni meteorologiche, sia per quanto riguarda la temperatura che le precipitazioni. Potrebbe causare inverni più freddi della media nel Nord Europa, ma non è certo: dipenderà da quanto sarà intenso, se fosse molto forte ci sarà invece una tendenza per temperature più alte. Altre possibilità sono che porti un’estate e un autunno più piovosi nella penisola iberica, cioè in Portogallo e Spagna, e un autunno più caldo nel Mediterraneo, Italia compresa.La terza fase di ENSO, quella di raffreddamento, è stata chiamata “La Niña”, al femminile, in quanto opposto di El Niño. Si verifica quando i venti diretti da est a ovest soffiano più forte, spingendo le acque calde ancora più a ovest rispetto alla fase neutra e rendendo particolarmente più fredde quelle del Pacifico orientale: succede infatti che acque più fredde risalgono dalle profondità oceaniche, raffreddando quelle in superficie.Generalmente due diverse fasi di El Niño avvengono a una distanza che va dai due ai sette anni e di solito durano dai nove mesi a un anno; non si alternano necessariamente con le fasi di La Niña, che peraltro sono meno frequenti.Fino allo scorso marzo eravamo in una fase di La Niña, la terza di fila dal 2020: nonostante il suo generale effetto di raffreddamento globale gli ultimi tre anni sono stati particolarmente caldi (il 2022 il terzo più caldo di sempre per temperatura media), un segno del fatto che anche in presenza di La Niña le conseguenze del cambiamento climatico causato dalle attività umane sono evidenti.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027 LEGGI TUTTO

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    Perché è così difficile trovare il sommergibile disperso vicino al Titanic

    Caricamento playerNell’Atlantico settentrionale a circa 700 chilometri dalla costa della provincia canadese Terranova e Labrador proseguono le ricerche del Titan, il sommergibile con cinque persone a bordo di cui non si hanno più notizie dalla mattina di domenica 18 giugno. L’immersione era stata organizzata dalla società OceanGate per esplorare il relitto del Titanic, il famoso transatlantico affondato nell’aprile del 1912. Le attività di ricerca sono complicate dalle condizioni del mare e più in generale dalla difficoltà di ritrovare oggetti di dimensioni relativamente contenute, come nel caso del Titan, in acqua a profondità che potrebbero essere di svariate migliaia di metri.OceanGate non ha fornito molti dettagli sulle persone a bordo, per tutelare la loro riservatezza e quella delle loro famiglie. Secondo le ricostruzioni, nel sommergibile dovrebbero comunque esserci il milionario britannico Hamish Harding, l’uomo d’affari pakistano Shahzada Dawood con il figlio Suleman, l’esploratore francese Paul-Henry Nargeolet e Stockton Rush, il CEO della società che organizza le esplorazioni sottomarine. La lista non è ufficiale e si attendono ancora conferme.La spedizione era partita dal Canada sulla nave di appoggio Polar Prince e l’immersione era iniziata nelle prime ore di domenica. Dopo poco meno di due ore, la Polar Prince aveva perso i contatti con il sommergibile e da allora non si sono più avute notizie delle persone a bordo. Da lunedì la Guardia Costiera degli Stati Uniti coordina le ricerche, cui partecipano anche la sua omologa canadese, alcune navi commerciali e altre organizzazioni che si occupano di esplorazioni sottomarine.Le attività di ricerca si stanno concentrando nell’area di mare in cui si trova il relitto del Titanic, a una profondità di 3.800 metri. È una zona molto ampia per trovare un sommergibile lungo poco meno di 7 metri e con un diametro di circa 2,5 metri. Di solito i veicoli sottomarini sono dotati di un dispositivo acustico che invia un segnale che si propaga nell’acqua e che può essere captato dalle squadre di soccorso nelle vicinanze. Non è al momento chiaro se il Titan sia dotato di uno strumento di questo tipo e se stia funzionando correttamente.Se la rilevazione non può essere effettuata in questo modo, si possono impiegare le “sonoboe”, particolari tipi di boe che emettono onde acustiche e che rilevano poi come queste vengono riflesse da ciò che si trova nell’acqua. L’analisi della riflessione può offrire importanti informazioni per scoprire la presenza di qualcosa di estraneo nell’ambiente marino, come un sommergibile. Queste tecnologie vengono spesso utilizzate in ambito militare per rilevare la presenza di sottomarini e altri dispositivi, ma il loro impiego per scopi civili è sempre più diffuso.Le sonoboe vengono lanciate in mare da un aereo e sono costituite da vari elementi che si inabissano nell’acqua, collegati a un trasmettitore che rimane invece sulla superficie. La profondità a cui scendono i sensori è variabile e può essere determinata prima del lancio in base alle necessità di ricerca. I sensori trasmettono via cavo i dati fino al trasmettitore sulla superficie dell’acqua che invia poi un segnale radio all’aeroplano che sta compiendo la ricognizione. Di solito si utilizzano più sonoboe in un ampio tratto di mare, con l’aereo che passa poi periodicamente per raccogliere i dati inviati dai trasmettitori.Cilindri contenenti le sonoboe in fase di preparazione (U.S. Navy photo by Chief Mass Communication Specialist Keith DeVinney/Released)La ricerca rende quindi necessaria la presenza di uno o più aerei, in grado di avere una buona autonomia per rimanere a lungo sul tratto di mare in cui si stanno effettuando le ricerche. Le condizioni del mare e del meteo possono rendere difficili le rilevazioni e in alcuni casi possono costringere gli aerei ad allontanarsi dalla zona in attesa di un miglioramento delle condizioni atmosferiche. Almeno quattro aerei C-130 sorvolano da lunedì la zona in cui è scomparso il Titan.Se il sommergibile si trova comunque a migliaia di metri di profondità, le ricerche potrebbero essere ancora più complicate dall’impossibilità di compiere ricognizioni in tempi rapidi. A causa della pressione molto alta, a quelle profondità non si possono inviare squadre di sommozzatori. L’unica opzione è l’impiego di altri sommergibili equipaggiati per muoversi a quelle profondità, con equipaggio o privi di equipaggio e guidati a distanza. Anche in questo caso si dovrebbero utilizzare sistemi di rilevazione basati sulle onde acustiche (sonar), perché a quelle profondità i raggi solari non arrivano e l’ambiente marino è completamente al buio.La Marina militare statunitense ha a disposizione alcuni veicoli sottomarini guidati a distanza, sostanzialmente dei droni che possono raggiungere profondità di oltre 3.500 metri. Ma ci sono comunque tempi tecnici per trasportare veicoli di questo tipo nella zona, utilizzando una nave di appoggio che sia adeguata per condurre poi le ricerche in mare, e il tempo a disposizione è sempre meno.Il CURV 21 è uno dei dispositivi sottomarini guidati a distanza di cui dispone la Marina militare statunitense (US Navy)OceanGate dice che il Titan ha un’autonomia di ossigeno per 96 ore circa, grazie a un sistema di riciclo e purificazione dell’aria. Considerato che si sono perse le tracce del sommergibile nelle prime ore di domenica, alle persone a bordo non resta molto tempo, ammesso che le batterie e i sistemi per purificare l’aria abbiano continuato a funzionare nelle ore dopo la scomparsa.Le batterie a bordo non servono solamente per l’aria, ma anche per scaldare l’interno del sommergibile a profondità in cui la temperatura è intorno ai 4 °C. Le persone a bordo potrebbero soffrire di ipotermia, una condizione che se prolungata può avere conseguenze gravi. In mancanza del sistema di pulizia dell’aria, gli occupanti perderebbero i sensi e morirebbero per asfissia in poco tempo.Il sommergibile Titan (OceanGate)Oltre alle difficoltà che si hanno in generale nel cercare qualcosa sott’acqua a grandi profondità c’è il problema di riuscire a recuperarlo. Se il Titan si fosse per esempio incastrato in parte del relitto del Titanic o in qualche altro oggetto che si trovava in acqua, potrebbe essere molto difficile liberarlo e riportarlo in superficie. Il veicolo sottomarino di soccorso potrebbe provare a urtare il più delicatamente possibile il Titan, cercando in questo modo di smuoverlo. In alternativa, sarebbe necessaria la presenza di un braccio robotico potente a sufficienza per liberare il sommergibile rimasto incastrato.Nella storia delle attività e delle esplorazioni sottomarine ci furono casi in cui fu possibile recuperare un sommergibile e metterne in salvo l’equipaggio, ma a profondità di poche centinaia di metri e non delle migliaia ipotizzate per il caso del Titan. Nel 1973, per esempio, il sommergibile canadese Pisces III per la posa di cavi per le telecomunicazioni perse la capacità di tornare a galla, mettendo a rischio la vita dei due tecnici che si trovavano a bordo. Due sommergibili di soccorso riuscirono a raggiungere la profondità di circa 500 metri a cui si trovava il Pisces III, agganciandolo e riportandolo in superficie anche con l’aiuto di un veicolo sottomarino guidato a distanza. I due tecnici sopravvissero. LEGGI TUTTO

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    Le Nazioni Unite hanno adottato il primo trattato per proteggere la vita marina in alto mare

    Lunedì i 193 paesi membri delle Nazioni Unite hanno adottato il trattato per proteggere la vita marina in alto mare. Il trattato mira a proteggere la biodiversità nelle acque al di fuori dei confini nazionali (l’”alto mare”), che coprono quasi la metà della superficie terrestre ma sono finora state in larga parte escluse da tutti i trattati esistenti sulla preservazione della biodiversità. Nelle Nazioni Unite si discuteva di questo trattato da vent’anni, ma si è trovato un accordo sul testo soltanto nel marzo di quest’anno.Il nuovo accordo è considerato particolarmente importante perché negli ultimi decenni gli animali e le piante marine sono diventati sempre più vulnerabili non solo a causa degli effetti del cambiamento climatico, ma anche per via della pesca eccessiva, del traffico navale e dell’inquinamento.Per entrare in vigore il testo dovrà essere ratificato da 60 paesi: lo si potrà fare a parrtire dal 20 settembre, quando i leader mondiali si troveranno per l’incontro annuale all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il nuovo accordo contiene 75 articoli: tra le altre cose, verrà creato un nuovo organismo per gestire la conservazione della vita oceanica e istituire aree marine protette in alto mare, con l’obiettivo di trasformare il 30 per cento delle acque internazionali in mare aperto in aree protette entro il 2030. Verranno inoltre stabilite delle regole su come svolgere le valutazioni di impatto ambientale sulle attività commerciali negli oceani.– Leggi anche: Nel 2022 le temperature medie degli oceani sono aumentate ancora (Pixabay) LEGGI TUTTO

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    I SUV sono ancora un grande problema per l’ambiente

    Caricamento playerI SUV, gli “sport utility vehicle”, sono tra i veicoli a motore più venduti degli ultimi anni a livello globale, come dimostra la loro crescente presenza nelle città e sulle strade anche in Italia. L’alta domanda è stata assecondata dalle aziende automobilistiche, che nel tempo hanno espanso la presenza dei SUV nei loro cataloghi, concentrando spesso l’offerta di nuove tecnologie e optional accattivanti su questi modelli. La loro grande diffusione ha permesso al settore dell’auto di subire meno le cicliche e ricorrenti crisi che lo interessano, ma ha anche portato a un paradosso: proprio in un momento in cui c’è una maggiore consapevolezza sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale, si vendono automobili più grandi e pesanti di un tempo, che in molti casi inquinano di più o comunque rallentano la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, il principale gas serra.I dati sulle vendite nel 2022 aiutano a farsi un’idea della dimensione del fenomeno. In generale l’anno scorso non è stata una buona annata per il settore dell’auto, con una riduzione dello 0,5 per cento rispetto all’anno precedente e una vendita complessiva di 75 milioni di automobili. La riduzione è stata più marcata nell’Unione Europea (-4 per cento) e negli Stati Uniti (-8 per cento), soprattutto a causa della mancanza dei componenti e delle materie prime.Le vendite dei SUV sono invece aumentate del 3 per cento tra il 2021 e il 2022 e quasi un’automobile su due (46 per cento) venduta lo scorso anno era un SUV. La crescita nelle vendite ha interessato soprattutto l’Europa, gli Stati Uniti e l’India, dove la domanda continua a mantenersi alta e quasi tutti i produttori danno molta più evidenza nelle pubblicità a questi modelli rispetto alle automobili compatte o totalmente elettriche.Naturalmente non tutti i SUV venduti nel 2022 erano a motore termico. Secondo uno dei rapporti dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) il 16 per cento dei SUV venduti erano elettrici, con una offerta di modelli di questo tipo mai raggiunta prima e superiore a quella delle altre tipologie di automobili elettriche. Per avere un’idea della dimensione del mercato, nel 2022 si stima siano stati venduti 10 milioni di automobili elettriche, con un aumento del 50 per cento rispetto al 2021 quando ne erano stati venduti 6,6 milioni.L’aumento dei SUV elettrici è di per sé positivo, ma non rimuove il problema del loro maggiore impatto ambientale rispetto ad altri veicoli. I SUV sono più pesanti e per questo meno efficienti dal punto di vista energetico, semplicemente perché occorre più energia per spostarli (a prescindere da come sia stata generata). Senza contare il maggiore impatto per costruire e trasportare automobili più pesanti e voluminose dalle fabbriche ai punti di vendita, circostanza che incide ampiamente sull’intero indotto dell’automobile.Sempre la IEA segnala che tra il 2021 e il 2022 il consumo di petrolio impiegato per i carburanti delle automobili è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato quello per i SUV. L’incremento stimato è stato di mezzo milione di barili di petrolio al giorno, circa un terzo dell’intera crescita di domanda di questa materia prima nel corso del 2022 rispetto all’anno precedente.Rispetto a un’automobile di medie dimensioni, un SUV consuma circa il 20 per cento in più di carburante, proprio perché è necessario un motore di una cilindrata maggiore per spostarlo. L’impiego di motori ibridi, che mettono insieme un motore termico e uno elettrico, consente di ridurre i consumi, che continuano comunque a essere alti se confrontati con quelli di un’automobile di medie dimensioni sempre dotata di tecnologia ibrida. Il risultato è che le emissioni prodotte non si riducono in maniera significativa.Autovetture totali (in blu), SUV (in verde) e percentuale di SUV (linea celeste) (IEA)L’IEA stima che nel 2022 le emissioni di anidride carbonica prodotte dai SUV siano aumentate di 70 milioni di tonnellate. In tutto il mondo i veicoli di questo tipo sulle strade sono circa 330 milioni che emettono un miliardo di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Un ipotetico luogo fatto solo di SUV sarebbe il sesto paese per emissioni di anidride carbonica annue, dopo il Giappone.Il motivo del successo dei SUV deriva da numerosi fattori che riguardano sia chi compra le automobili sia chi le vende. Fino agli anni Novanta erano poco diffusi, soprattutto in Europa, costosi e ricordavano esteticamente i classici fuoristrada. Alla fine di quel decennio, l’offerta iniziò a differenziarsi con la comparsa di modelli che erano una sorta di via di mezzo tra le normali automobili e i fuoristrada, riscuotendo un certo successo. Man mano che diventavano disponibili nuovi modelli e soprattutto che i prezzi si abbassavano, la domanda si fece più alta e in molti paesi oggi è più probabile che qualcuno esca da un concessionario con un SUV che con una berlina.Al crescente successo di questi veicoli ha contribuito anche una certa percezione sulla loro sicurezza da parte di chi li acquista. I SUV sono visti come automobili più “sicure”, perché più grandi e all’apparenza solide, quindi in grado di proteggere meglio chi si trova al loro interno. È una percezione che riveste un ruolo importante al momento della scelta di una nuova automobile: chi è abituato ad avere auto di medie-piccole dimensioni sa che cosa significa essere nel traffico circondato da auto molto più grandi e pesanti, si sente meno al sicuro e quando deve cambiare la propria automobile valuta di passare a un SUV, per ridurre quel senso di insicurezza.I produttori di automobili promuovono volentieri i loro SUV rispetto agli altri modelli perché da questi riescono quasi sempre ad avere margini di guadagno più alti. I SUV sono più cari, fino al 50 per cento in più rispetto alle berline o alle due volumi di dimensioni comparabili, ma la loro produzione non costa molto di più se confrontata con quella delle altre auto. C’è di conseguenza un forte interesse a orientare gli acquisti verso i SUV, specialmente se con tecnologie ibride sulle quali si può fare comunque leva per vincere le eventuali ritrosie di chi compra e pensa all’impatto ambientale della sua scelta.Oltre a richiedere più materiale per essere costruiti, ad avere un peso maggiore e a produrre più emissioni a parità di persone che possono trasportare, i SUV inquinano di più anche in altri modi. I veicoli più pesanti consumano in modo diverso gli pneumatici, per esempio, portando a una maggiore produzione di polveri sottili che rimangono a lungo in sospensione nell’aria e che possono costituire un rischio per la salute, specialmente nei contesti urbani. Le città in molti casi non sono inoltre attrezzate per veicoli che occupano molto più spazio rispetto alle normali automobili: ciò comporta maggiori problemi di traffico, tempi più lunghi per trovare parcheggi con relativi aumenti delle emissioni e problemi di sicurezza per chi va a piedi o utilizza la bicicletta.In generale, i SUV sono più sicuri per chi viaggia al loro interno e più pericolosi per gli altri, rispetto alle auto di medie dimensioni. Uno studio realizzato un paio di anni fa negli Stati Uniti ha rilevato come sia otto volte più probabile che una persona alla guida di un SUV investa e uccida un bambino in un incidente rispetto alle persone sulle altre automobili, e come quel tipo di veicolo sia più rischioso e a volte letale anche per i pedoni e i ciclisti. I dati e le loro analisi variano molto a seconda degli studi ed è quindi difficile stabilire quale sia l’effettivo impatto dei SUV in termini di sicurezza stradale. È stata comunque rilevata una maggiore pericolosità di questi veicoli nel caso di impatti laterali contro automobili più piccole, i cui sistemi di protezione non sono sempre sufficienti per ridurre gli effetti dello scontro e proteggere chi si trova nell’abitacolo da quel lato.Il problema era presente soprattutto con i primi modelli di SUV ed è stato affrontato, con qualche miglioramento, negli ultimi anni grazie all’introduzione di nuove regole di sicurezza per i costruttori. Le stime più recenti riferite al 2013-2016 dicono che chi si trova in auto ha il 28 per cento di probabilità in più di morire in uno scontro con un SUV rispetto a una normale automobile, rispetto al 59 per cento rilevato nel periodo tra il 2009 e il 2012.I problemi di sicurezza sono anche legati all’ingombro sulle strade più vecchie, dove il passaggio di due veicoli negli opposti sensi di marcia era già normalmente difficoltoso. Essendo più grandi e massicci, i SUV possono interferire con la visibilità nei veicoli di minori dimensioni, per esempio quando si vogliono effettuare sorpassi. Di notte ai problemi di visibilità si aggiungono i rischi legati ai fari più alti rispetto a quelli delle normali automobili, con il rischio di rimanere abbagliati se non sono orientati correttamente.Mentre gli effetti sulla sicurezza sono ancora dibattuti, quelli sull’impatto ambientale dei SUV sono ormai assodati grazie ai dati raccolti negli ultimi anni, nell’ambito di studi e ricerche sulle emissioni prodotte dai mezzi di trasporto. Le aziende che li producono sostengono spesso che con l’elettrificazione il problema sarà risolto, ma – al di là di alcuni processi industriali per la costruzione che avverranno ancora a lungo bruciando combustibili fossili – il consumo di energia continuerà a essere un punto critico soprattutto per un motivo: un’automobile elettrica pesa spesso di più del suo modello equivalente con motore termico. È un problema che riguarda molti modelli e non solo i SUV. Una FIAT 500 ha una massa intorno alla tonnellata, mentre una FIAT 500 elettrica ha una massa di circa 300 chilogrammi in più.L’aumento della massa è dovuto soprattutto alle batterie e alla necessità di rinforzare la scocca per reggerne il peso. Nel caso di alcuni modelli di SUV l’aumento è significativo perché la massa più grande dovuta alle maggiori dimensioni richiede di usare motori più potenti e batterie più grandi, portando a un veicolo piuttosto pesante.È un dilemma difficile da risolvere e che diventerà sempre più centrale se continuerà a esserci un’alta domanda di SUV, specialmente se saranno venduti come una alternativa “verde” perché completamente elettrici. Alcuni esperti segnalano che la soluzione al problema passi dall’introduzione di imposte più alte per l’acquisto dei SUV, in base alla loro massa, in modo da disincentivare almeno in parte l’acquisto di veicoli pesanti e voluminosi. Alcuni governi stanno valutando o hanno introdotto misure simili, che potrebbero aiutare a recuperare parte del denaro che veniva raccolto attraverso le accise sui carburanti, che diventeranno sempre più marginali man mano che si passerà ai motori elettrici.Veicoli più costosi a causa delle imposte potrebbero anche essere un incentivo per spingere i produttori di automobili a investire nella ricerca e nello sviluppo di batterie di nuova generazione, meno pesanti e comunque efficienti. Nell’ultimo decennio i progressi nel settore sono stati notevoli, ma sono stati sfruttati soprattutto per estendere la quantità di chilometri che un veicolo elettrico riesce a percorrere con una sola carica. Di conseguenza man man che diventavano più compatte si aggiungevano batterie, senza riduzioni significative della massa dei veicoli. La progressiva diffusione di stazioni di ricarica e tempi più rapidi per caricare le batterie stanno iniziando a cambiare le cose, rendendo meno centrale nella percezione delle persone l’autonomia. La maggior parte degli spostamenti giornalieri consiste inoltre in poche decine di chilometri, enormemente al di sotto della capacità degli ultimi modelli delle automobili elettriche.Alcune aziende automobilistiche come Tesla e Volvo sono inoltre al lavoro per ottimizzare il peso della scocca, per esempio integrandola con le batterie in modo da ridurre la massa complessiva. È un lavoro di ricerca complesso che richiede la sperimentazione di nuovi materiali da sostituire agli attuali. Rispetto a metà anni Novanta, mediamente un veicolo dei giorni nostri ha il 44 per cento in meno di acciaio, grazie all’impiego di alluminio, di altre leghe metalliche e di materiali come la fibra di carbonio. Non tutti i materiali sono però adeguati o in alcuni casi richiedono comunque molta energia nella loro fase di produzione, in un contesto in cui molta dell’energia viene ancora derivata dall’impiego dei combustibili fossili.Che siano SUV elettrici e a peso ridotto o veicoli compatti, le automobili continuano comunque a essere un sistema di trasporto inefficiente dal punto di vista energetico in buona parte dei contesti, soprattutto se confrontato con i trasporti collettivi. Alcune lo sono più delle altre. LEGGI TUTTO

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    Le creme solari, spalmate bene

    Questa estate nei Paesi Bassi la crema solare sarà offerta gratuitamente alla popolazione, attraverso distributori collocati nei parchi cittadini, nelle aree sportive, intorno agli ospedali e in diversi altri luoghi pubblici. Vari comuni si sono organizzati nell’ambito di un’iniziativa per sensibilizzare sull’importanza del proteggersi dai raggi dannosi del Sole, che possono causare numerosi problemi di salute a cominciare dai tumori della pelle. I Paesi Bassi negli ultimi anni hanno rilevato un sensibile aumento dei casi di tumore riconducibili all’esposizione solare, come del resto vari altri paesi in Europa.– Ascolta anche: La puntata speciale di “Ci vuole una scienza” sulle creme solariL’impiego delle creme solari è consigliato dai dermatologi non solo perché permette di evitare le scottature, ma anche perché il loro uso corretto consente di ridurre sensibilmente il rischio di sviluppare un tumore della pelle. Il problema è che in pochi fanno un “uso corretto” delle protezioni solari, applicandone la giusta quantità e ripetendo le applicazioni più volte nel corso della giornata, come indicato sulle confezioni e soprattutto nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità e di diverse altre istituzioni sanitarie.PelleLa pelle è la barriera più importante di protezione tra il nostro organismo e ciò che abbiamo intorno. Per tutta la vita è sottoposta a sollecitazioni fisiche e chimiche, compresa l’esposizione ai raggi solari che ne possono cambiare le caratteristiche, per esempio facendola disidratare e arrossare. Una eccessiva e prolungata esposizione ai raggi ultravioletti (UV), emessi dal Sole e che non vediamo a occhio nudo, è tra i fattori di rischio più importanti nell’insorgenza del melanoma e di altri tumori della pelle.UVA e UVBIn generale, la crema solare serve a ridurre la quantità di raggi ultravioletti che arrivano sulla nostra pelle. Gli UVB sono filtrati in buona parte dallo strato di ozono atmosferico, ma la quantità che arriva al suolo è comunque sufficiente per crearci qualche problema. Sono i principali responsabili delle scottature e anche per questo motivo sono quelli su cui ci si era concentrati più a lungo in passato, mentre emergevano ricerche e dati più chiari sugli effetti di un altro tipo di raggi ultravioletti: gli UVA.A differenza degli UVB, gli UVA hanno la capacità di penetrare in profondità nella pelle, stimolando la produzione di radicali liberi, atomi o molecole estremamente reattive che interagiscono con ciò che incontrano creando spesso danni. Possono per esempio deteriorare il collagene, una sostanza molto importante per la pelle, e accelerandone l’invecchiamento, oppure possono aumentare il rischio di tumore.Gli UVB sono di solito schermati dal vetro, per esempio dal parabrezza di un’automobile, mentre gli UVA no. Le creme solari moderne proteggono sia dagli UVA sia dagli UVB, ma è sempre opportuno controllare l’etichetta per accertarsi della protezione.AbbronzaturaLa pelle si scurisce al Sole come meccanismo di difesa per contrastare i raggi ultravioletti. Quando ci esponiamo alla luce solare si attivano i melanociti, cellule specializzate che producono melanina, una sostanza che si trova in vari tessuti del nostro organismo compresa la pelle.L’attivazione avviene sempre, anche in pieno inverno, ma la produzione di melanina aumenta quando ci si espone per lunghi periodi al Sole. È in questa circostanza che la pelle si scurisce e diventa abbronzata, ma la sua colorazione non è in alcun modo l’indicazione di essere “più in salute”: semplicemente, è il segno che l’organismo si è attivato per provare a proteggerci dai raggi solari. La capacità di protezione è però molto limitata e deriva da come si è fatti, cioè dal proprio fototipo.FototipoIl principale riferimento per determinare il fototipo fu elaborato a metà degli anni Settanta da Thomas B. Fitzpatrick della Harvard School of Medicine negli Stati Uniti. Formulò uno schema di classificazione per il colore della pelle umana in base alla risposta di diverse persone agli UV. Il sistema fu poi modificato e integrato una decina di anno dopo e raggruppa le persone in sei categorie: dal fototipo I in cui sono comprese le persone che si scottano e non si abbronzano, solitamente con capelli e occhi chiari, al fototipo VI in cui sono comprese le persone che non subiscono scottature e hanno la pelle più scura.IngredientiNell’Unione Europea le creme solari sono molto normate, pur essendo comprese nel grande gruppo dei cosmetici (che hanno regole diverse dai farmaci, per esempio). I filtri solari, cioè le molecole che hanno il compito di assorbire/riflettere gli UV, autorizzati per il commercio sono 28: ogni crema solare ha un componente di assorbimento e uno di riflessione, con proporzioni che variano a seconda dei prodotti e delle esigenze. Tra i componenti più diffusi c’è il biossido di titanio, che arriva a costituire un quarto del contenuto della crema solare, cui si aggiungono poi gli altri filtri: nel complesso le creme sono quindi molto concentrate, anche quando non è segnalato in etichetta (“concentrato” è uno di quei termini usati molto dal marketing).Fattore di protezione solare – SPFIl numero indicato sulle confezioni delle creme solari indica la capacità di proteggere la pelle dal Sole. Viene determinato sperimentalmente con test che vengono effettuati su una ventina di volontari, la cui schiena viene esposta a una lampada che emette raggi ultravioletti imitando quelli solari. Una parte della schiena rimane senza protezione mentre l’altra viene coperta dalla crema solare.La lampada è tarata per produrre una quantità di UV che porti a un eritema sulla pelle non protetta di ogni soggetto, poi si passa all’area con la crema solare aumentando via via la dose di raggi UV. Trascorse alcune ore, si valutano le differenze tra le varie aree e si calcola il rapporto fra la dose minima di UV necessaria per produrre un eritema sulla pelle protetta dalla crema e per la pelle senza protezione. Da questo calcolo deriva infine l’SPF, il numero che viene indicato sulle confezioni.(Getty Images)Per esempio: se serve una dose di UV cinquanta volte maggiore per far sviluppare l’eritema sulla pelle protetta dalla crema rispetto a quella non protetta, significa che la crema ha un SPF uguale a 50.La procedura viene effettuata per gli UVB, mentre per gli UVA il sistema è più complesso e rende necessario l’impiego di altri test. La sigla UVA-PF seguita da un numero indica il fattore di protezione per questi raggi ultravioletti, ma di solito sulle confezioni viene solo indicata la presenza della protezione UVB. I produttori possono metterlo sulle creme solo se l’UVA-PF nella crema è almeno un terzo dell’SPF, altrimenti non possono indicare nulla nell’etichetta.Quanto proteggono le creme solariUn SPF 10 lascia passare 1/10 degli UVB, di conseguenza ne ferma il 90 per cento, un SPF 20 lascia passare 1/20, quindi ne ferma il 95 per cento e così via. Questi sono i valori che si trovano solitamente sulle confezioni e la relativa percentuale di efficacia nel bloccare i raggi solari:SPF 10: 1/10 → 90%SPF 20: 1/20 → 95%SPF 30: 1/30 → 97%SPF 50: 1/50 → 98%SPF 100: 1/100 → 99%.Una protezione “totale” non esiste e nel caso dell’Unione Europea ai produttori viene consigliato di non usare numeri oltre l’indicazione “50+”, proprio per non indurre a pensare che con il numero di SPF più alto si abbia una protezione totale. In più occasioni si è anche discusso di eliminare l’indicazione numerica e di lasciarne una più generica che indichi protezione bassa, media, alta e molto alta, ma ci sono interessi (soprattutto commerciali) a mantenere l’indicazione numerica.Quanta crema solare si deve mettereIl numero di SPF dà la protezione corrispondente solo se la crema solare viene usata nel modo corretto, applicandone la giusta quantità e cioè 2 milligrammi ogni centimetro quadrato di pelle: utilizzandone meno si riduce notevolmente l’effetto protettivo. Servono più o meno 30 grammi di crema per tutto il corpo, circa un sesto di una normale confezione. Non è necessario essere precisi al decimo di grammo e per questo dermatologi e dermatologhe consigliano di abituarsi a usare l’equivalente della capacità di un cucchiaino di caffè (3 grammi) per viso e collo, altrettanto per ogni braccio e un cucchiaio da minestra (6 grammi) rispettivamente per ciascuna gamba, per la schiena, per il petto e per l’addome.Mettere metà della crema necessaria non fa semplicemente dimezzare il numero di SPF come credono in molti: la riduzione è pari alla radice quadrata del fattore di protezione di partenza. Un SPF 30 diventa quindi poco più di 5.(Olaf Kraak/Getty Images)Quando si mette la crema solareLa crema solare va applicata prima di esporsi al Sole, quindi è consigliabile spalmarsela prima di uscire all’aperto, per esempio per andare in spiaggia o in generale a fare una passeggiata. Ripetere l’applicazione periodicamente non serve solamente a ridurre il rischio di lasciare aree della pelle non protette, ma anche a ripristinare lo strato di crema che col passare delle ore tende a ridursi e rimuoversi.Ciò che dà protezione è infatti lo strato di crema solare stesso: funziona fino a quando è presente. Soprattutto d’estate, la sudorazione è una delle principali cause della sua rapida riduzione, così come qualsiasi altra azione meccanica sulla pelle, come infilarsi e sfilarsi degli abiti. Alcuni produttori indicano ancora sulle confezioni la capacità della crema di resistere all’acqua, ma dimostrarlo non è sempre semplice e per questo è consigliabile riapplicare la crema solare dopo un bagno. Anche l’azione dei granelli di sabbia può portare via parzialmente la protezione, comunque.E i vestiti?Esistono molti tessuti diversi tra loro e di conseguenza alcuni filtrano meglio di altri i raggi UV. Il denim dei jeans, per esempio, ha una buona capacità di bloccare i raggi ultravioletti, mentre tessuti più leggeri come il cotone delle magliette non fanno molto. Da qualche tempo si trovano comunque costumi da bagno, abiti da trekking e altri indumenti realizzati con tessuti tecnici con un alto fattore di protezione, solitamente indicato nell’etichetta. Questi prodotti devono essere lavati con attenzione e utilizzando detersivi specifici per ridurre l’usura dello strato che protegge dai raggi solari.Livello di abbronzaturaC’è la convinzione piuttosto diffusa che usando la crema solare “ci si abbronza di meno”. In realtà usando le creme solari ci si abbronza più lentamente, perché come abbiamo visto l’abbronzatura è un meccanismo di difesa della pelle: i filtri solari fanno parte di quel lavoro di protezione. Alla fine ci si abbronza ugualmente perché come abbiamo visto le creme solari non riescono a proteggere totalmente.Il livello di abbronzatura è comunque commisurato al proprio fototipo e in generale a come si è fatti. Arrivati al massimo possibile, non ci si abbronza ulteriormente. Non usare o usare poca crema solare mette sotto forte stress la pelle e può essere molto rischioso per la salute. LEGGI TUTTO

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    Gli Stati Uniti non lasciano in pace i limuli

    Negli Stati Uniti continuano a essere estratte grandi quantità di sangue blu dai limuli per effettuare test di sicurezza sui prodotti farmaceutici, nonostante sia disponibile ormai da tempo un’alternativa sintetica impiegata soprattutto in Europa. L’alta domanda del sangue dei limuli – che sono imparentati più con scorpioni, zecche e ragni che con i granchi – ha un forte impatto sulla popolazione di questi animali e sugli ecosistemi marini, anche perché la loro pesca non è sempre regolamentata a sufficienza.L’utilità del sangue dei granchi in ambito farmaceutico fu scoperta nella seconda metà degli anni Cinquanta dal ricercatore statunitense Frederik B. Bang, che spiegò come la sostanza fosse utile per immobilizzare i batteri, senza ucciderli. Nel sangue del limulo c’è infatti un composto chimico che rende possibile l’identificazione dei batteri: la sostanza si aggrega intorno a loro e crea una sorta di barriera, evitando che si formi una colonia batterica più grande. Per questo il composto viene solitamente indicato come “coagulogen” e negli anni è diventato sempre più importante per le aziende farmaceutiche, perché rende possibile l’identificazione di contaminazioni batteriche nelle sostanze che dovranno entrare in contatto con il nostro organismo, come per esempio un vaccino. Se nella soluzione da testare si forma un coaugulo dopo avere inserito il coagulogen, significa che questa è contaminata e che deve essere scartata.Gli Stati Uniti sono tradizionalmente tra i principali produttori di sangue blu, anche perché per molto tempo i limuli abbondavano lungo la costa orientale del paese, quella che dà sull’oceano Atlantico. Gli animali vengono raccolti a mano dalle spiagge, oppure pescati dai fondali utilizzando le reti. Dopo essere stati ammassati a centinaia, vengono trasportati agli impianti che si occupano di effettuare il prelievo del loro sangue. In ogni limulo viene inserito un lungo ago fino al suo cuore e viene avviata l’estrazione, con gli animali ancora vivi. La procedura porta a estrarre circa la metà del sangue in circolazione in ogni limulo.Al termine dell’estrazione, gli animali vengono restituiti ai pescatori, che hanno il compito di metterli nuovamente in mare. In altri casi, i limuli vengono venduti per essere uccisi e utilizzati come esche. Il tutto avviene nel contesto di una grande area grigia, perché molte regole adottate per tutelare gli animali in altri processi industriali non si applicano strettamente ai limuli. Vengono pescati, ma non per essere mangiati; sono impiegati per il settore farmaceutico, ma non negli iper regolamentati test clinici; sono sì animali, ma non a sangue caldo, di conseguenza non sono soggetti a molte leggi per la tutela dell’impiego degli animali in ambito sanitario.(Insider Business via YouTube)Secondo i dati raccolti da NPR, la radio pubblica statunitense, solo nel 2021 cinque aziende sulla costa orientale hanno estratto sangue blu da oltre 700mila limuli, il dato più alto registrato dal 2004 quando si è iniziato a tenere traccia delle attività intorno a questo animali. Si stima che il sangue estratto venga impiegato in media in 80 milioni di test effettuati in giro per il mondo. Il settore ha dunque continuato a espandersi, ma non è stato regolamentato e soprattutto non sono state introdotte iniziative per usare il metodo alternativo, che si ottiene attraverso processi di clonazione e senza disturbare i limuli.Un primo test alternativo fu reso disponibile nel 2003, ma la sua adozione era progredita molto a rilento anche in attesa di ricerche sulla sua affidabilità. Nel 2020 l’azienda farmaceutica statunitense Eli Lilly fu tra le prime ad adottarlo, in concomitanza con la pandemia da coronavirus e la necessità di verificare la sicurezza dei propri prodotti a base di anticorpi. La società dovette però richiedere una particolare autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale che tra le altre cose si occupa di farmaci, perché il test non era e non è ancora presente nella Farmacopea degli Stati Uniti, il codice farmaceutico contenente regole comuni per la qualità delle medicine.In Europa le cose erano andate diversamente perché già nell’estate del 2020 la Farmacopea europea aveva autorizzato e aggiunto il nuovo test, definendolo utile per avere un’alternativa e soprattutto per ridurre l’impatto sui limuli del prelievo di sangue blu, e in generale sugli ecosistemi marini. Un comitato di esperti dell’organizzazione omologa statunitense decise invece di non cambiare le cose, sostenendo che fossero necessari ulteriori approfondimenti. Due anni dopo il comitato fu sciolto, ma i membri di quello successivo non cambiarono orientamento e ancora oggi non ci sono notizie su una revisione delle regole per riconoscere in maniera più ampia e diffusa la sostanza alternativa al sangue blu dei limuli.Le aziende farmaceutiche hanno comunque margini per cambiare i metodi con cui svolgono i loro test, con le adeguate autorizzazioni come avvenuto nel 2020 con Eli Lilly. La grande azienda farmaceutica Roche ha iniziato a utilizzare la versione alternativa in alcuni processi di produzione e ha detto di volere estendere i test in altri ambiti, in modo da ridurre la dipendenza dal sangue blu. Molte altre società del settore preferiscono invece proseguire con il vecchio metodo, come dimostrato anche dall’aumento dei limuli coinvolti nei prelievi degli ultimi anni.A differenza del nostro, il loro sangue non è rosso ma quasi trasparente e assume una colorazione azzurro-blu appena entra in contatto con l’aria. Il fenomeno è dovuto all’ossidazione del rame presente nel loro sangue (nel nostro c’è il ferro, da qui il colore diverso). Dopo il prelievo vengono effettuati alcuni trattamenti per estrarre il coagulogen vero e proprio, che sarà poi utilizzato per i test. Non è chiaro quanto sia traumatico il prelievo per questi animali, che sembrano comunque riprendersi del tutto a pochi giorni di distanza dalla procedura. Alcune ricerche hanno indicato però che i prelievi rendono meno reattivi i limuli con evidenti conseguenze sulle loro capacità di riprodursi.Il sistema circolatorio dei limuli ricorda molto quello dei ragni ed è quindi diverso dal nostro. I limuli hanno ampie cavità che mettono direttamente in contatto il sangue con i tessuti, varchi ideali per i batteri che si trovano nella sabbia e che sono alla ricerca di un ospite da colonizzare. Il coagulogen evita che questo possa avvenire, incapsulando immediatamente i batteri formando il coagulo. Questa condizione ha permesso ai granchi di crescere in ambienti ricchi di batteri senza particolari problemi e di esistere da circa mezzo miliardo di anni.(AP Photo/Kathy Willens)Ora le loro popolazioni lungo la costa orientale degli Stati Uniti rischiano di ridursi sensibilmente, a quanto sembra non tanto per la pratica in sé dei prelievi, ma per il modo in cui i limuli vengono catturati sulle spiagge o rigettati in mare. Secondo documenti e registrazioni raccolte da NPR che riguardano le aziende che se ne occupano, gli operatori prendono i limuli soprattutto dalla coda, perché è più pratico e rapido, ma è sconsigliato perché può causare danni. Se si feriscono alla coda, questi animali sono più a rischio di non riuscire a girarsi, nel caso in cui si ribaltino trovandosi con le zampe all’aria. Il ribaltamento è una circostanza che si può verificare soprattutto quando le femmine si spostano dal fondale per deporre le loro uova.Maneggiarli in modo scorretto fa quindi aumentare il rischio che i limuli si riproducano di meno, peggiorando ulteriormente la situazione. I regolamenti su come trattarli sono decisi a livello statale, di conseguenza cambiano molto a seconda dei luoghi di raccolta così come cambiano le eventuali sanzioni nei confronti di chi non li rispetta.La minore disponibilità di limuli ha inoltre effetti sulle popolazioni di altri animali, come il piovanello maggiore (Calidris canutus, un uccello migratore diffuso in molte aree del mondo, ma che negli Stati Uniti è stato indicato come specie minacciata). Circa il 94 per cento di questi uccelli è scomparso negli ultimi 40 anni, in parte anche a causa della mancanza di quantità sufficienti di uova dei limuli, una importante fonte di energia per le loro migrazioni verso l’Artico.In una fase storica in cui si parla molto di sostenibilità e di impatto ambientale delle attività industriali, secondo i naturalisti sarebbe opportuno stimolare il dibattito anche intorno ai limuli e alle conseguenze del prelievo del loro sangue blu. L’alternativa altrettanto efficace per i test dovrebbe essere promossa soprattutto dalle istituzioni, in modo da indurre un cambiamento in un settore essenziale legato alla salute di tutti. LEGGI TUTTO

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    In Cina stanno scavando un buco profondissimo

    Alla fine di maggio in Cina è iniziata la perforazione del suolo per scavare un buco che supererà gli 11mila metri di profondità, nell’ambito di un’iniziativa scientifica che potrebbe avere esiti anche per la ricerca di gas e petrolio. Lo scavo è stato avviato in una zona del deserto del Taklamakan, nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest del paese. Una volta completato, il pozzo sarà il più profondo mai realizzato in Cina e uno dei più profondi mai scavati in tutto il mondo, per quanto con un diametro di poche decine di centimetri.L’attività di perforazione è sotto la responsabilità della China National Petroleum Corporation (CNPC) di proprietà del governo cinese e coinvolge Sinopec, altro grande gruppo petrolifero e petrolchimico della Cina. Secondo i responsabili dell’iniziativa, gli 11.100 metri di profondità previsti saranno raggiunti entro la fine di agosto del 2024, con poco meno di 460 giorni di scavo. I tempi previsti sono molto brevi, considerato che per perforazioni analoghe, ma a minori profondità, sono stati necessari anni.Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, sulla quale il governo cinese esercita un forte controllo, con la perforazione si potrà raggiungere lo strato di rocce che era in superficie durante il Cretaceo, il periodo compreso tra 66 e 145 milioni di anni fa. Altri esperti ritengono che l’iniziativa potrebbe consentire di arrivare ancora più in profondità, fino al periodo Cambriano, risalente a oltre 500 milioni di anni fa.Le perforazioni a grande profondità di questo tipo rendono di solito possibile il prelievo di campioni di rocce altrimenti inaccessibili, che vengono poi analizzati e studiati per ricostruire informazioni in generale su ere geologiche molto remote e per comprendere meglio le caratteristiche geologiche di un certo territorio. Il deserto del Taklamakan si trova quasi interamente nel bacino del Tarim, che si formò per la confluenza di acque superficiali in assenza di grandi corsi d’acqua (“bacino endoreico”). La sua storia geologica è particolare e la trivellazione potrebbe fornire nuovi spunti per il suo studio.La perforazione avviata dalla Cina non avrà necessariamente soli scopi di ricerca, come intuibile dal coinvolgimento di alcune delle più grandi aziende di idrocarburi del paese. Uno dei fini è scoprire se in strati così profondi ci sia comunque una quantità significativa di petrolio e gas, come riscontrato altrove e a profondità minori. Nell’area del bacino del Tarim sono già stati scavati alcuni pozzi molto profondi sfruttati da Sinopec, che negli anni ha affinato tecnologie e sistemi per scavare a svariati chilometri nel sottosuolo. Uno dei principali complessi di pozzi della società raggiunge gli 8mila metri di profondità.Il presidente cinese Xi Jinping ha in più occasioni esortato la Cina a condurre esplorazioni e ricerche in vari ambiti, non solo a scopo scientifico, ma anche per trovare nuove fonti da cui attingere per le materie prime. Il governo cinese ha l’obiettivo di rendere la Cina il più indipendente possibile sia nel settore dei combustibili fossili, sia dei minerali rari sempre più richiesti per l’elettronica. Per questo motivo per Xi la “Terra profonda” è da qualche anno uno dei principali obiettivi nella strategia di espansione economica della Cina.– Leggi anche: L’irresistibile fascino di scavare bucheCon 11.100 metri il buco nel deserto del Taklamakan diventerà uno dei più profondi al mondo, ma non supererà comunque il primato del pozzo superprofondo di Kola nella Russia nord-occidentale quasi al confine con la Norvegia. Il progetto fu avviato dall’Unione Sovietica nel 1970 e proseguì per quasi venti anni, fino a quando fu interrotto nel 1989 una volta raggiunta la profondità di 12.262 metri. La sua realizzazione ha reso possibile lo studio di alcune caratteristiche del cosiddetto “scudo baltico”, la grande massa continentale che comprende buona parte dei paesi scandinavi.Nel 1957 anche gli Stati Uniti avevano avviato un’iniziativa simile: era il Project Mohole, che aveva l’obiettivo di perforare il fondale oceanico nel Pacifico al largo della costa del Messico. Il progetto fu abbandonato dopo qualche anno per la mancanza di fondi, ma fu comunque importante per sperimentare tecniche impiegate in seguito in altre attività di esplorazioni del fondale oceanico. In Germania a Windischeschenbach, in Baviera, tra il 1987 e il 1995 fu scavato un pozzo fino alla profondità di 9.101 metri. LEGGI TUTTO