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    La multa Ue alle Big Tech e i nuovi scenari globali. Cosa potrebbe accadere

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    Già da un po’ di tempo è chiaro che l’era del potere assoluto delle Big Tech sia finito. Ma con la multa storica che l’Unione Europea ha inflitto a due giganti della tecnologia come Apple e Meta, lo scontro ora rischia di passare oltre, visto i rapporti difficili attuali tra il Vecchio Continente e gli Usa di Trump. L’accusa di violazione del Digital Markets Act, la normativa entrata in vigore nel 2022 con l’obiettivo di rafforzare la concorrenza nel mercato digitale e limitare il potere delle cosiddette “gatekeeper” del settore tech, è sfociata in una pesante multa per le due aziende: 500 milioni di euro per Apple e 200 per Meta. E al di là della cifra, che per imprese che fatturano centinaia di miliardi ogni anno sono quasi un buffetto, è quanto rappresenta questa sentenza che ora apre scenari nuovi nel mondo economico mondiale. Proprio mentre infuria la tempesta dei dazi.Le decisioni, annunciate mercoledì dalla Commissione Europea, rappresentano un primo, deciso passo nell’applicazione del DMA, considerato uno dei più ambiziosi tentativi a livello globale di regolamentare l’attività delle grandi piattaforme digitali. La normativa mira a impedire che le aziende dominanti possano imporre unilateralmente regole e condizioni agli utenti e alle imprese, ostacolando la libera concorrenza. Secondo Bruxelles, Apple ha infranto le regole limitando le possibilità per gli sviluppatori di app di comunicare liberamente con i propri utenti in merito a promozioni, sconti e offerte alternative rispetto a quelle disponibili sull’App Store. Questa pratica ha impedito ai consumatori di essere informati su opzioni potenzialmente più economiche e ha rafforzato il controllo di Apple sulle transazioni digitali effettuate attraverso le sue piattaforme. Meta, da parte sua, è stata sanzionata per l’introduzione di un modello “consenti o paga”, che obbliga gli utenti a scegliere se accettare l’utilizzo dei propri dati personali per la personalizzazione della pubblicità, oppure pagare un abbonamento per utilizzare versioni prive di inserzioni di Facebook e Instagram. Tale sistema, secondo la Commissione, viola i principi di equità e trasparenza previsti dal DMA, imponendo agli utenti una scelta forzata e potenzialmente discriminatoria.Come detto le sanzioni arrivano in un momento di tensione crescente tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti in tema di commercio, dazi e regolamentazione del digitale. Eppure la decisione della Commissione evidenzia una convergenza di vedute tra gli enti antitrust delle due sponde dell’Atlantico sulla necessità di arginare il potere delle big tech. Negli Stati Uniti, negli ultimi mesi, anche Google ha subito importanti sconfitte giudiziarie per abuso di posizione dominante nei settori della ricerca online e della pubblicità digitale, mentre Meta è attualmente sotto processo a Washington per presunte pratiche anticoncorrenziali legate alle sue acquisizioni strategiche. Anche Apple e Amazon, inoltre, sono attualmente oggetto di procedimenti da parte delle autorità americane. Resta, però, il problema politico. Apple, al momento, non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali, mentre Meta ha annunciato l’intenzione di impugnare la decisione dell’UE. Joel Kaplan, responsabile degli affari globali dell’azienda di Mark Zuckerberg, ha duramente criticato la Commissione, accusandola di voler “penalizzare il successo delle aziende americane” e di adottare standard diversi per le imprese europee e cinesi. “Non si tratta solo di una multa – ha dichiarato Kaplan -. La Commissione ci impone un cambio di modello di business che equivale, di fatto, a un dazio di miliardi di dollari su Meta, costringendoci a offrire un servizio inferiore”. E qui sta il punto. LEGGI TUTTO

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    Meno pensioni, spesa sotto controllo

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    Prosegue il calo delle pensioni anticipate, segnale chiaro dell’efficacia delle misure adottate per frenare la spesa. Secondo l’ultimo monitoraggio Inps sui flussi di pensionamento, nel primo trimestre 2025 le pensioni anticipate sono state 54.094, in calo del 23,1% rispetto allo stesso periodo del 2024 (quando erano 70.334).Tra i dipendenti del settore privato le uscite anticipate si sono fermate a 26.683 (-19,43), mentre tra i dipendenti pubblici si è registrato un crollo ancora più netto: 8.014 nuove pensioni, in calo del 33,9%.Il rallentamento delle uscite non è un incidente, ma una strategia. Nei primi tre mesi del 2025 l’Inps ha liquidato 194.582 nuove pensioni, in calo rispetto agli anni scorsi. È il risultato di un’impostazione prudente che mira a contenere una spesa previdenziale che, secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato, potrebbe impennarsi fino al 17% del Pil entro il 2040, se non si interviene ora.Il governo ha scelto di non ampliare le maglie dei prepensionamenti, confermando anche nel 2025 le regole più rigide già introdotte lo scorso anno. Quota 103, Opzione Donna e Ape Sociale sono state sì prorogate, ma in versione limitata. In tutto, potranno accedere alla flessibilità appena 25.000 lavoratori, un numero che consente di governare con cautela la pressione sulla finanza pubblica.Gli assegni medi restano in leggera crescita: 1.237 euro al mese nel primo trimestre contro i 1.229 euro del 2024. L’aumento riguarda in particolare gli uomini, che percepiscono mediamente 1.486 euro, mentre per le donne si scende a 1.011 euro. Il divario riflette le differenze contributive e retributive pregresse, non un difetto del sistema. Vale la pena ricordare che gli assegni più bassi sono integralmente protetti dall’inflazione grazie alla perequazione, un meccanismo che restituisce potere d’acquisto pieno a chi ha redditi più contenuti.Tra le varie gestioni previdenziali si confermano le differenze storiche: i dipendenti pubblici registrano assegni medi da 2.172 euro, i privati da 1.432, mentre per autonomi e parasubordinati la media scende a 879 euro e 320 euro rispettivamente. Ma anche qui si deve tener conto della diversa storia contributiva: chi ha avuto carriere più frammentate non può aspettarsi assegni elevati, e la sostenibilità del sistema richiede proprio di adeguare le prestazioni ai contributi versati.Con un sistema che resta tra i più generosi d’Europa — e ancora segnato da ampi segmenti retributivi, soprattutto per chi è andato in pensione prima della riforma — il contenimento attuale è non solo comprensibile, ma necessario. E il governo, in questo, sta facendo la cosa giusta.Il rallentamento delle uscite pensionistiche non è un incidente, ma una strategia. Nei primi tre mesi del 2025 l’Inps ha liquidato 194.582 nuove pensioni, in calo rispetto agli anni scorsi. È il risultato di un’impostazione prudente che mira a contenere una spesa previdenziale che, secondo le stime della Ragioneria generale dello Stato, potrebbe impennarsi fino al 17% del Pil entro il 2040, se non si interviene ora.Il governo ha scelto di non ampliare le maglie dei prepensionamenti, confermando anche nel 2025 le regole più rigide già introdotte lo scorso anno. Quota 103, Opzione Donna e Ape Sociale sono state sì prorogate, ma in versione limitata. In tutto, potranno accedere alla flessibilità appena 25.000 lavoratori, un numero che consente di governare con cautela la pressione sulla finanza pubblica.Gli assegni medi restano in leggera crescita: 1.237 euro al mese nel primo trimestre contro i 1.229 euro del 2024. L’aumento riguarda in particolare gli uomini, che percepiscono mediamente 1.486 euro, mentre per le donne si scende a 1.011 euro. Il divario riflette le differenze contributive e retributive pregresse, non un difetto del sistema. Vale la pena ricordare che gli assegni più bassi sono integralmente protetti dall’inflazione grazie alla perequazione, un meccanismo che restituisce potere d’acquisto pieno a chi ha redditi più contenuti.Tra le varie gestioni previdenziali si confermano le differenze storiche: i dipendenti pubblici registrano assegni medi da 2.172 euro, i privati da 1.432, mentre per autonomi e parasubordinati la media scende a 879 euro e 320 euro rispettivamente. Ma anche qui si deve tener conto della diversa storia contributiva: chi ha avuto carriere più frammentate non può aspettarsi assegni elevati, e la sostenibilità del sistema richiede proprio di adeguare le prestazioni ai contributi versati. LEGGI TUTTO

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    Quanto costano i funerali di Papa Francesco (e chi li paga)

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    I punti chiave

    Sarà un evento di risonanza mondiale, nel cuore del Giubileo 2025: i funerali di Papa Francesco si terranno sabato 26 aprile in Piazza San Pietro, richiamando fedeli e leader da ogni angolo del pianeta. Nonostante la volontà espressa dal Pontefice di mantenere una cerimonia sobria e in linea con il suo stile pastorale. A coprire le spese principali sarà un benefattore anonimo, legato alla Curia romana, che ha scelto di sostenere l’intero apparato cerimoniale in segno di gratitudine verso il Papa. Il governo italiano, dal canto suo, si è attivato con urgenza per gestire gli aspetti logistici e di sicurezza, fondamentali per un appuntamento di tale portata.La cifra stanziata“Abbiamo adottato il provvedimento che consente al Capo dipartimento della Protezione Civile, Fabio Ciciliano, di occuparsi di mobilità, assistenza e accoglienza in questi giorni fino all’elezione del nuovo pontefice”, ha spiegato il ministro per la Protezione Civile e le Politiche del Mare, Nello Musumeci, al termine del Consiglio dei Ministri. “È già stato adottato un provvedimento per i primi 5 milioni di euro”, ha aggiunto, sottolineando che la figura di Ciciliano “corrisponde a quella di un commissario”.La gestione delle attività straordinarieIl compito di Ciciliano sarà quello di gestire in deroga le attività straordinarie necessarie all’accoglienza delle circa 200mila persone attese per le esequie, a cui parteciperanno oltre 170 delegazioni internazionali, tra cui Donald Trump e Ursula von der Leyen. “Non è nulla di nuovo, perché anche nelle precedenti analoghe esperienze ci si è comportati in questo modo”, ha precisato Musumeci, lasciando intendere che l’operazione ricalca i protocolli adottati per i funerali papali precedenti.Quanto costa il funeraleDal punto di vista economico, sebbene non ci sia ancora una stima ufficiale definitiva, si prevede che i costi complessivi per l’organizzazione e la sicurezza possano aggirarsi tra i 1,5 e i 3 milioni di euro. Una cifra comunque contenuta rispetto ai 5 milioni spesi per i funerali di Giovanni Paolo II nel 2005, ma superiore a quelli di Papa Benedetto XVI, che nel 2023 aveva scelto una cerimonia ancora più sobria, con un costo finale stimato tra i 600mila e il milione e mezzo di euro.Le principali voci di spesa riguardano l’allestimento di Piazza San Pietro, il potenziamento dei servizi di sicurezza, la comunicazione e la trasmissione dell’evento a livello globale, oltre agli aspetti liturgici e protocollari. Va inoltre considerato l’impatto economico indiretto sul Comune di Roma e sul Ministero dell’Interno, chiamati a gestire la viabilità, il personale di emergenza e la logistica urbana, in un contesto di straordinaria complessità. LEGGI TUTTO

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    Bonomi punta sulla salute. Acquisizione da 1,2 miliardi

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    Investindustrial, attraverso Healthco Investment, ha sottoscritto un accordo per acquisire Dcc Healthcare dal gruppo irlandese Dcc Plc, quotato nel Regno Unito (ieri ha ceduto il 4,5%) e attivo nei settori energia, sanità e tecnologia. L’operazione attribuisce alla società obiettivo un enterprise value complessivo di 1,05 miliardi di sterline (circa 1,23 miliardi di euro), su base cash-only e priva di indebitamento, inclusivo di un corrispettivo differito di 130 milioni di sterline da versare entro due anni. Il closing è tuttavia atteso per il terzo trimestre del 2025.Con questa acquisizione, Investindustrial mira a valorizzare le due divisioni principali di Dcc Healthcare: Hbi, Cdmo focalizzato su integratori alimentari innovativi e cosmetici, e Vital, produttore di dispositivi medici di alta qualità. Entrambe operano in mercati in espansione e si prestano a una strategia di crescita «sia organica sia tramite M&A», si legge nella nota, coerente con l’approccio buy-and-build del fondo.Nell’esercizio chiuso al 31 marzo 2024, Dcc Healthcare ha realizzato ricavi per 859,4 milioni di sterline e un utile operativo rettificato di 88,1 milioni di sterline, pari al 13% dell’utile operativo del gruppo Dcc. La decisione di cedere la divisione è maturata dopo una revisione strategica, annunciata nel novembre 2024, che ha portato Dcc a focalizzarsi sul core business dell’energia.Andrea C. Bonomi (in foto), presidente dell’advisory board di Investindustrial, ha sottolineato come Hbi e Vital siano «leader nei rispettivi settori» e dotate di «relazioni solide e durature con i clienti». L’operazione, ha aggiunto, permette di «proseguire un percorso di crescita internazionale» attraverso acquisizioni complementari. Anche Donald Murphy, Ceo di Dcc, ha espresso soddisfazione, affermando che Dcc Healthcare è «una realtà con posizioni di mercato consolidate» e che la transazione riflette un «impegno condiviso verso una crescita sostenibile». LEGGI TUTTO

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    Unicredit ora prende tempo. Ma non molla la presa su Bpm

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    Unicredit prende tempo sull’Offerta di scambio su Banco Bpm, ma non molla la presa. Dopo le prescrizioni del governo, l’istituto guidato da Andrea Orcel ieri ha divulgato un comunicato per dire che, al momento, «non è in grado di prendere alcuna decisione definitiva sulla strada da seguire in merito all’offerta» pubblica di scambio su Piazza Meda. Allo stesso tempo, però, Piazza Gae Aulenti ha ributtato la palla nel campo del governo dicendo di aver «risposto all’autorità esprimendo il proprio punto di vista sul decreto» e dunque «resta in attesa di un riscontro». Ai piani alti dell’istituto, come anticipato dal Giornale, si stanno già affilando le armi per fare ricorso al Tribunale amministrativo. I motivi si lasciano intendere tra le righe del comunciato: «L’uso dei poteri speciali in un’operazione domestica tra due banche italiane non è comune e non è chiaro perché sia stato invocato in relazione a questa specifica operazione, ma non per altre operazioni simili». Il riferimento, in tal senso, è al via libera senza condizioni alle Ops di Bper sulla Popolare di Sondrio e a quella di Mps su Mediobanca.Il secondo affondo, inoltre, riguarda il merito delle prescrizioni, in particolare a finire nel mirino è il mantenimento del rapporto tra prestiti e depositi (quello di Bpm sarebbe a quota 125 e quello di Unicredit a 94) e l’obbligo di non diminuire l’esposizione a titoli italiani per Anima Holding, società dei fondi che Bpm ha ormai acquisito tramite Opa. Altro scoglio da superare è l’obbligo di uscire dalla Russia, aspetto che acquisirebbe ben altro peso a seconda che si tratti di ridurre l’esposizione con adeguati accantonamenti e stoppare la raccolta di nuovi prestiti e depositi (come sta facendo Unicredit che ha detto di voler azzerare la sua esposizione entro settembre) oppure se significasse un addio totale entro 9 mesi, il che sarebbe più complesso in un mercato dove il Cremlino ha voce in capitolo su chi vende e chi compra.Per questi e per altri motivi, la banca sostiene che «le prescrizioni si prestino a diverse interpretazioni e appaiano non completamente allineate con la legislazione italiana e comunitaria, oltre che con le decisioni delle autorità regolamentari». Una affermazione, quest’ultima, che sembra confermare la possibilità di una battaglia legale. L’appiglio è che «le prescrizioni imposte a Unicredit, potrebbero danneggiare la sua piena libertà e capacità di adottare decisioni conformi ai principi di sana e prudente gestione in futuro» e addirittura portarla al rischio di incorrere in sanzioni. LEGGI TUTTO

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    Mediobanca, le curiose reticenze di Nagel sull’esposto alla Bce

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    Decisamente per Alberto Nagel (foto), amministratore delegato di Mediobanca da quasi 18 anni, non è un buon momento. Non bastava la scalata organizzata da Banca Mps contro l’istituto milanese con un dispiego di forze decisamente inusitato; non bastava il contestuale accerchiamento partecipato da mezzo sistema finanziario in funzione di una nuova governance alla guida delle Generali; ora il dominus di Piazzetta Cuccia si trova a dover dirimere una questione interna, di gran lunga meno importante ma in tema di immagine non meno insidiosa, che probabilmente aveva sottovalutato. La questione è il suo rapporto con il collegio sindacale, che di recente gli avrebbe contestato atteggiamenti omissivi non degni di chi è alla guida di una banca.Il fatto. Come si ricorderà, a cavallo tra marzo e aprile le pagine economiche dei quotidiani hanno dato notizia di un esposto incrociato tra Mediobanca e Generali inviato alle diverse Vigilanze (Consob, Ivass e Banca centrale europea) sull’ipotesi di un concerto tra gli azionisti Caltagirone e Delfin nelle partita che non riguarda solo il Leone, ma coinvolge a monte anche Mediobanca e l’istituto senese. Subito dopo la Bce avrebbe acceso un faro – su sollecitazione appunto di Mediobanca – sulle eventuali relazione tra Caltagirone e Delfin quali azionisti rilevanti di Mediobanca stessa, in considerazione del fatto che la holding degli eredi Del Vecchio ne possiede il 20% circa e l’imprenditore-editore capitolino il 9 per cento. Su quegli esposti si è strologato sia a destra sia a manca, non senza aver rilevato – il Giornale tra i primi – il concerto di fatto tra Mediobanca e Generali, visto che si sono mosse all’unisono sullo stesso argomento e nelle stesse ore. Difficile pensare che si tratti di pura coincidenza. Naturalmente di prove del concerto Caltagirone-Delfin suggerito dagli esposti nemmeno l’ombra. Tanto è vero che al momento nessuna delle tre vigilanze sollecitate ha mosso un dito per fermare alcunchè.La denuncia alla Bce da parte di Nagel avrebbe però suscitato l’interesse del collegio sindacale di Mediobanca. Che, come suo precipuo compito, avrebbe chiesto al banchiere di poter visionare i contenuti dell’esposto. Per motivi che si ignorano, sull’esibire il documento Nagel avrebbe tergiversato senza dare una spiegazione esauriente, creando in tal modo un certo imbarazzo al presidente del collegio.Allo stato non è dato sapere come stiano oggi le cose, anche perchè a precisa domanda del Giornale inviata al portavoce dell’istituto e finalizzata a chiarire l’episodio, a ieri sera non era giunta alcuna risposta, se non un laconico «no comment». LEGGI TUTTO

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    Tavares pensionato d’oro si lancia in volo sulla Tap

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    Carlos Tavares, 67 anni il prossimo 14 agosto, è pronto ad aprire un nuovo capitolo professionale. Per l’ex ad di Stellantis, dunque, non è mai troppo tardi. Troppo tardi, invece, potrebbe essere per alcuni marchi storici, ma anche per parte del sistema produttivo italiano del gruppo automobilistico che ha guidato sino alla fine dello scorso novembre. E se grazie ai quasi 40 milioni di dollari (oltre 35 milioni di euro) ricevuti per il 2024, tra compensi e liquidazione, Tavares punterebbe ora a iniziative imprenditoriali nel suo Paese natale, il Portogallo, migliaia di lavoratori italiani guardano con sempre maggiore preoccupazione all’anno in corso che, data la mancanza oggettiva di novità che fanno volume (la Fiat 500 ibrida sarà assemblata a Mirafiori solo da novembre), sarà sostenuto dagli ammortizzatori sociali.Settore aereo, attraverso la compagnia di bandiera Tap, e vigneti nella valle del Douro, dove nascono i migliori vini portoghesi, definiti dagli enologi «eleganti, con trame complesse e sapori superbi», sono gli obiettivi del «nuovo» Tavares. «Dopo 50 anni all’estero – ha affermato in un’intervista a Bloomberg News – la mia intenzione è quella di dedicare le energie alle mie attività in Portogallo, utilizzando ciò che ho imparato durante questa mia intensa vita professionale». Con sul conto corrente 114 milioni di euro, quanto ha incassato nei quattro anni al volante di Stellantis, senza contare le laute entrate precedenti, Tavares non ha sicuramente problemi di liquidità e potrà volare alto. L’ambizione è quella di contribuire, con un ruolo di azionista, quindi non operativo, al rilancio della compagnia aerea Tap Air Portugal, alle prese con un programma di privatizzazione.Quando era ancora al volante di Stellantis, durante la presentazione di un modello, Tavares si era rivolto ad alcuni dei giornalisti presenti invitandoli in Portogallo a gustare e apprezzare il Porto di sua produzione. Visti i suoi piani, ora questa passione per i vini non sarà più «secondaria». Nuove proprietà e vigneti a 5 stelle sono ovviamente alla sua portata. LEGGI TUTTO

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    Fmi taglia la crescita 2025 dell’Italia

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    L’Italia rallenta, e con lei buona parte dell’economia mondiale. Il Fondo Monetario Internazionale, nell’ultimo World Economic Outlook pubblicato ieri, ha rivisto al ribasso le stime di crescita per il nostro Paese: nel 2025 il Pil aumenterà solo dello 0,4%, cioè 0,3 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni di gennaio (+0,7%). Per il 2026, la stima si ferma a +0,8% (-0,1 punti). Parallelamente, il debito salirà al 137,2% del Pil nel 2025 e al 138,4% nel 2026, in netto peggioramento rispetto al 135,2% del 2024. Il deficit, invece, scenderà al 2,8% l’anno prossimo, con la disoccupazione al 6,7 per cento.Dietro il raffreddamento globale c’è la guerra commerciale innescata dagli Stati Uniti. I nuovi dazi imposti dall’amministrazione Trump sospesi solo temporaneamente per 90 giorni pesano su mercati e prospettive. Un allarme chiaro, che arriva da Washington e chiama in causa la politica internazionale. «Il sistema che ha governato per 80 anni è soggetto a un riassetto», ha dichiarato il direttore generale del Fmi Kristalina Georgieva. «Stiamo entrando in una nuova era. C’è bisogno di un sistema commerciale chiaro e prevedibile, che affronti le lacune nelle regole internazionali», ha aggiunto.«Una escalation delle tariffe potrebbe causare un ulteriore rallentamento della crescita», ha ammonito il capo economista del Fondo Pierre-Olivier Gourinchas, difendendo la politica attendista della Fed. «La banca centrale fa bene a mantenere i tassi fermi e valutare l’impatto delle misure protezionistiche», ha aggiunto. Dello stesso avviso la presidente della Bce Christine Lagarde. «Ho un immenso rispetto per il lavoro di Jerome Powell, per la sua lealtà e disciplina», ha detto. E su un’eventuale rimozione del numero uno della Fed da parte di Trump è stata netta. «Mi auguro che non accada», ha aggiunto.Secondo il Fondo, i rischi per la stabilità globale sono «significativamente aumentati», a causa delle tensioni geopolitiche, della stretta monetaria e dell’incertezza commerciale». Il Global Financial Stability Report pubblicato in parallelo avverte che «le possibilità di una correzione dei prezzi delle attività sono in aumento», così come le «tensioni nei mercati obbligazionari sovrani fondamentali». LEGGI TUTTO