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Perché Meloni vuole cambiare il Rosatellum per un proporzionale con premio oltre il 40%

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Premio di maggioranza al posto dei collegi, preferenze e/o listini bloccati, soglie di sbarramento. E chi più ne ha più ne metta. La riforma della legge elettorale è un evergreen, un classico di ogni legislatura. Con la maggioranza di turno che, va da sé, prova ad acconciarsi il sistema elettorale che più la potrebbe favorire. A volte riuscendoci (Silvio Berlusconi con il Porcellum che cancellò in Mattarellum) a volte no (Matteo Renzi con l’Italicum prima, bocciato dalla Corte costituzionale, e con il proporzionale con sbarramento al 5% poi, affossato nel segreto dell’urna alla Camera).

Al via l’eterno gioco della legge elettorale: perché ora, visto che si vota a giugno 2027?

Il gioco del cambio delle regole elettorali è dunque, se non lecito, sdoganato dalla prassi degli ultimi lustri. C’è solo una regola, rigorosamente non scritta: la legge per eleggere il Parlamento, se va cambiata, va cambiata nell’ultimo anno di legislatura, se non altro perché nessun parlamentare ha la sicurezza di essere rieletto e di conseguenza nessun parlamentare ha interesse a mettere sul tavolo della politica la pistola carica di un nuovo sistema elettorale pronto all’uso per eventuali elezioni anticipate. E allora perché il tema è tornato d’attualità, quando le prossime elezioni politiche si dovrebbero tenere solo a giugno 2027, con soli tre mesi di anticipo rispetto alla scadenza naturale della legislatura? (La volta scorsa si è votato il 23 settembre per la repentina caduta del governo Draghi, ma l’accordo tra Palazzo Chigi e Quirinale è già quello di un leggero anticipo per non interferire con la sessione di bilancio e quindi l’approvazione della finanziaria di fine anno). Ma, soprattutto, che interesse ha la premier a cambiare la legge elettorale che l’ha fatta vincere tre anni fa quando il suo partito è saldamente primo nei sondaggi, tra il 28 e il 30%, e la coalizione di centrodestra supera la somma delle opposizioni, somma per altro politicamente molto difficile?

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Tutti i rischi del Rosatellum per la premier Meloni: con le opposizioni unite esito incerto

Qui occorre fare un passo indietro. Giorgia Meloni lo aveva già fatto capire nella conferenza stampa di fine/inizio anno: anche se la riforma del premierato non dovesse essere pronta all’uso in tempo per la prossima legislatura, la legge elettorale con cui andremo a votare tra la fine del 2027 e l’inizio del 2028 potrà subire “migliorie”. L’idea ormai prevalente a Palazzo Chigi è quella di approvare il premierato in Parlamento con calma e di celebrare il referendum confermativo solo dopo le politiche per non correre troppi rischi (il tonfo di Renzi, costretto a lasciare Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 2016, è sempre ben presente ai nostri politici). Ma l’attuale legge elettorale – ossia il Rosatellum, basato sul 37% di collegi uninominali e per il resto su un proporzionale con liste bloccate – ha agli occhi della premier il difetto di costringerla a una defatigante trattativa con i partiti minori del centrodestra per la “spartizione” dei collegi uninominali. Basta un dato: oggi la Lega, che nel 2022 ha ben fatto pesare il suo radicamento al Nord, ha 94 parlamentari sul totale di 600, corrispondenti al 16 per cento degli eletti, quando alle urne prese poco meno del 9%. Ma non solo. C’è soprattutto il dato di fatto che con il Rosatellum non c’è la certezza della vittoria: nel 2018 l’esito è stato quello di nessuna maggioranza, tanto che nella scorsa legislatura sono nati tre governi di segno politico diverso (giallo-verde M5s-Lega, giallo-rosso a guida M5s-Pd, la grande coalizione di Draghi); al contrario nel 2022, grazie al fatto che il centrosinistra si è presentato diviso in tre (Pd con Avs e Più Europa, M5s da solo e Terzo polo di Renzi e Calenda), il centrodestra è riuscito a vincere nella quasi totalità dei collegi ottenendo una supermaggioranza.

Per non correre rischi al Sud meglio un proporzionale con premio al di sopra del 40%

E se alla fine le opposizioni dovessero trovare l’accordo mettendosi tutte assieme, magari solo per un accordo elettorale nei collegi come ha proposto un big del Pd come Dario Franceschini? Secondo le proiezioni il centrosinistra unito, dal M5s ai centristi passando naturalmente per il Pd, vincerebbe tutti i collegi uninominali di regioni come la Campania e la Puglia: grazie al recupero al Sud, in particolare al Senato il centrosinistra potrebbe dunque impedire la formazione di una maggioranza chiara di centrodestra. Dal punto di vista di Palazzo Chigi meglio optare subito, anche senza premierato, sulla soluzione da sempre preferita dal centrodestra e che è anche il “canovaccio” per la futura elezione diretta del premier: un proporzionale con un premio che assicuri a chi vince una maggioranza del 55%. Insomma, sul tavolo c’è un Porcellum che però preveda una soglia per far scattare il premio: nel 2014 la Corte costituzionale, nel bocciare quella legge, ha stabilito infatti che il premio non può in ogni caso superare il 15%. Soglia al 40%, dunque. Cosa fare al di sotto di quella soglia, vista l’allergia del centrodestra e in particolare della Lega al ballottaggio nazionale, non è chiaro. Meloni sarebbe favorevole a prevedere in questo caso residuale un ballottaggio tra le prime due coalizioni, ma la resistenza degli alleati è tale che in Fratelli d’Italia non si esclude di non prevedere alcuna norma di chiusura: se nessuno raggiunge il 40% non scatta il premio e la fotografia del Parlamento resta proporzionale. Ipotesi considerata appunto men che residuale a Palazzo Chigi, a meno che uno degli alleati non voglia affossare Sansone (ossia Meloni) con tutti i filistei sfilandosi dalla coalizione. Un suicidio, insomma.

La mina piazzata sotto il campo largo: l’indicazione del capo della coalizione

Quanto alla scelta degli eletti, le ipotesi sul tavolo sono due: o piccoli listini bloccati di tre o quattro nomi riconoscibili da parte degli elettori oppure capilista bloccati e preferenza per tutti gli altri, il che significherebbe però che i partiti piccoli e medi riuscirebbero ad eleggere quasi solo i capilista. Un motivo, questo, di scontro con il Pd e con il M5s, che insistono almeno formalmente sulle preferenze tout court (meno formalmente è vero che tutti i leader di partito vogliono controllare e scegliere le candidature). Ma, preferenze a parte, il Porcellum rivisitato contiene una vera e propria bomba pronta ad esplodere sotto il Pd di Elly Schlein e di conseguenza sotto l’intero centrosinistra: il premio di maggioranza, così come era nel Porcellum, si porta dietro il vincolo del nome del capo della coalizione e quindi il candidato premier. Per Meloni è un modo per avere già alle prossime politiche un premierato di fatto, con la scelta del premier anche se non con la sua elezione diretta, pur senza riforma della Costituzione. Ma questo si traduce in problemi a non finire per il costituendo campo largo, visto che non c’è una premiership riconosciuta da tutti e visto che il leader del M5s Giuseppe Conte non nasconde la sua ambizione di tornare un giorno a Palazzo Chigi. Come dice il costituzionalista ed ex parlamentare del Pd Stefano Ceccanti, «finché si resta nel Rosatellum si possono anche fare accordi solo “in negativo” e non chiarire la questione dei candidati premier, ma se si passa ad una legge con il premio di maggioranza puoi fare le primarie di coalizione, puoi indicare di comune accordo un federatore, puoi anche indicare un nome temporaneo e dire che comunque verrà proposto il nome del leader del partito che prenderà più voti: l’unica cosa che non puoi fare è eludere il problema». Già.


Fonte: http://www.ilsole24ore.com/rss/notizie/politica.xml


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