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Cosa ci dice sulla morte la ricerca sulle “near death experience”

La presenza di funzioni autonome vitali nelle persone in arresto cardiaco è da tempo oggetto di studi, oltre che di riflessioni bioetiche complesse, generalmente basati sui segni rilevabili dall’“esterno” durante il che precede l’eventuale interruzione del supporto vitale. Altri studi, più limitati, si concentrano invece sull’esperienza personale del paziente e in particolare sulle cosiddette esperienze di pre-morte o ai confini della morte (near death experience, NDE): sensazioni di vario tipo riferite da alcune persone che sopravvivono a una condizione di morte clinica reversibile, tipicamente l’arresto cardiaco.

Uno recentemente pubblicato sulla rivista medica Resuscitation ha cercato di misurare l’attività cognitiva e il livello di coscienza in pazienti ospedalizzati in fase di arresto cardiaco sottoposti a rianimazione cardiopolmonare (RCP, la procedura nota come massaggio cardiaco). I parametri dei pazienti sono stati misurati da elettroencefalografia (EEG), l’esame che registra l’attività elettrica spontanea del cervello, e ossimetria cerebrale, che misura la saturazione di ossigeno nel cervello. I risultati dello studio, considerato abbastanza raro nel suo genere (e comunque molto limitato), hanno mostrato una parziale correlazione tra segni di attività cerebrale e presenza di esperienze di pre-morte riferite da alcuni pazienti.

Gli autori e le autrici dello studio hanno concluso che la quantità di dati raccolti non permette né di escludere né di dimostrare la presenza di attività cognitiva in persone il cui cuore abbia smesso di battere per un certo periodo di tempo. Lo studio è considerato comunque significativo: sia perché i risultati ammettono che la coscienza possa esistere in casi critici in cui i suoi segni non sono clinicamente rilevati, sia perché cerca di occuparsi in modo rigoroso – pur tra diversi limiti metodologici e strumentali – di un argomento comunemente trattato con o pseudoscientifici.

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Nella sulle esperienze di pre-morte (NDE) i resoconti delle persone che le riferiscono tendono ad avere caratteristiche simili. Le esperienze positive includono sensazioni di distacco dal corpo, levitazione, serenità e sicurezza, e quelle negative principalmente sensazioni di angoscia. Alcune persone raccontano di aver visto parenti morti, altre persone figure bianche luminose, e altre ancora di aver rivissuto momenti della loro vita.

Gli approcci sperimentali all’argomento e gli studi longitudinali sono tuttavia molto limitati: sia in termini di strumenti a disposizione per indagare il fenomeno (una cui dimensione soggettiva fondamentale rimane non misurabile), sia in termini di quantità di studi e ampiezza dei campioni analizzati. Alla guida del gruppo che ha pubblicato il recente articolo su Resuscitation c’era lo stesso ricercatore che condusse un altro simile nel 2013, già considerato tra i massimi esperti al mondo in materia: Sam Parnia, direttore di ricerca in rianimazione cardiopolmonare alla New York University School of Medicine e direttore del The Human Consciousness Project alla University of Southampton nel Regno Unito.

Nel 2019 un gruppo internazionale di specialisti di terapia intensiva (tra cui Parnia), anestesisti, psichiatri, neurologi e neurofisiologi si riunì a New York per discutere delle prospettive future della ricerca sulle esperienze di pre-morte. Tra le proposte emerse durante l’incontro, le cui conclusioni furono poi pubblicate nel 2022 in un su Annals of the New York Academy of Sciences, ci fu quella di cambiare il nome delle esperienze pre-morte da near death experience (NDE) in recalled experiences of death (RED), qualcosa come “esperienze di morte rievocate”. Secondo il gruppo questa nomenclatura renderebbe più chiaro che il campo di studi è limitato alle esperienze che si verificano quando una persona è in condizioni critiche, quando il cervello non riceve più sangue né ossigeno.

La domanda alla base della ricerca sulle NDE, Parnia alla rivista Nautilus nel 2022, è: «Cosa succede alla coscienza quando muori: muore a sua volta, o continua?». Parnia sostiene che, sulla base dei dati raccolti da lui e dai suoi colleghi e colleghe, l’attività cerebrale e un certo grado di coscienza possano ancora esistere anche quando altri parametri solitamente monitorati in fase di rianimazione cardiopolmonare (RCP) indicano che il paziente è clinicamente morto.

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In situazioni il quadro delle condizioni del paziente è determinato dagli strumenti di monitoraggio della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna e dei livelli di saturazione dell’ossigeno, che restano attivi fino a quando non viene accertata la cessazione irreversibile delle funzioni autonome vitali, condizione necessaria per interrompere la rianimazione. Ai 567 pazienti coinvolti nello studio prospettico più recente – ricoverati tra il 2017 e il 2020 in 25 ospedali, perlopiù negli Stati Uniti e in Regno Unito – sono stati applicati anche gli elettrodi per l’EEG in tempo reale e l’ossimetria cerebrale continua.

Per poter verificare in caso di successo della rianimazione anche le eventuali percezioni consce o inconsce durante l’emergenza, ai pazienti sono stati applicati degli auricolari Bluetooth, senza interferire con l’intervento dei medici. È stato quindi utilizzato un tablet per mostrare una serie di immagini casuali e per trasmettere tramite gli auricolari una registrazione di tre parole ripetute: “mela”, “pera”, “banana”. Nella ricerca sull’apprendimento implicito diversi studi citati da Parnia indicano che le persone che non ricordano di aver ascoltato questi nomi di frutti – anche persone in coma profondo – e a cui sia chiesto di pensare casualmente a tre frutti possono comunque dare la risposta corretta.

Soltanto 53 persone su 567 sono sopravvissute alla rianimazione, e 28 hanno risposto alle successive interviste: 11 hanno riferito percezioni o ricordi della rianimazione, e 6 di queste persone hanno descritto esperienze tipiche di pre-morte (NDE). La ridotta percentuale di sopravvivenza del campione, secondo gli autori e le autrici, ha condizionato in particolare la parte dello studio relativa alla verifica delle percezioni: su 28 pazienti intervistati nessuno ha riconosciuto le immagini proiettate sul tablet e soltanto uno ha riconosciuto lo stimolo sonoro (troppo poco per poter escludere che fosse casuale, secondo Parnia).

Secondo il gruppo di ricerca la parte più significativa dei risultati dello studio riguarda l’attività cerebrale. La maggior parte delle 53 persone sopravvissute ha mostrato un EEG “piatto” durante la rianimazione, oltre che una limitata saturazione di ossigeno nel cervello (43 per cento il valore medio). Circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha però dato per brevi istanti segni di attività elettrica spontanea: onde cerebrali normali o quasi normali (Delta, Theta e Alfa), teoricamente compatibili con un qualche livello di coscienza. Inoltre i segni di attività rilevati tramite EEG emergevano in alcuni casi molto tempo dopo l’inizio della rianimazione cardiopolmonare: fino a un’ora dopo.

Per ampliare il campione di 28 persone intervistate nel nuovo studio sono state coinvolte altre 126 persone che avevano subìto in passato arresti cardiaci. Quasi il 40 per cento del campione complessivo ha riportato una certa consapevolezza percepita dell’evento, ma senza ricordi specifici: «Ho sentito come se qualcuno mi stesse spingendo forte sul petto, cercavo di spingerli via ma mi sentivo le mani legate», ha detto una persona. Il 20 per cento delle persone ha raccontato esperienze di pre-morte. «Non ero più nel mio corpo. Galleggiavo senza peso. Ero sopra il mio corpo, direttamente sotto il soffitto della sala di terapia intensiva», ha detto una di loro. «Ricordo di essere entrato in un tunnel. Le sensazioni erano molto più intense del solito, la prima è stata di pace intesa», ha detto un’altra.

La conclusione tratta dal gruppo di ricerca è che, sulla base dei risultati dell’EEG e compatibilmente con alcuni racconti dei pazienti, alcune persone sottoposte a rianimazione cardiopolmonare potrebbero essere coscienti durante la rianimazione anche in assenza di segni esterni visibili di coscienza.

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Un’ipotesi di spiegazione delle esperienze di pre-morte proposta dal gruppo guidato da Parnia è che in condizioni normali il cervello disponga di un sistema che filtra la maggior parte degli elementi coinvolti nelle funzioni cerebrali, tenendoli fuori dalla nostra esperienza cosciente. Questo permette alle persone di funzionare normalmente nella quotidianità, dato che in circostanze normali «non potremmo funzionare con un accesso all’intera attività del nostro cervello nella sfera della coscienza», Parnia alla rivista Scientific American.

In caso di morte imminente è invece possibile che nel cervello questo sistema di filtraggio venga rimosso, con il risultato che parti solitamente non attive diventino attive permettendo alla persona morente di avere accesso all’intera coscienza: «Tutti i tuoi pensieri, tutti i tuoi ricordi, tutto ciò che è stato immagazzinato prima», ha detto Parnia. Sebbene il beneficio evolutivo di questo ipotetico meccanismo non sia chiaro, questo tipo di esperienze potrebbe «preparare le persone alla transizione dalla vita alla morte».

Indipendentemente dall’ipotesi di spiegazione delle NDE, lo studio pubblicato su Resuscitation pone una serie di domande riguardo alle conoscenze sulla resistenza del cervello a fronte della prolungata privazione di ossigeno. «L’idea tradizionale è che il cervello muoia, una volta privato di ossigeno per 5-10 minuti», ha detto Parnia, aggiungendo che i risultati dello studio suggeriscono una capacità di resistenza a periodi più lunghi, «il che apre nuove strade per trovare trattamenti per i danni cerebrali in futuro».

Lakhmir Chawla, un medico dell’unità di terapia intensiva dell’ospedale Jennifer Moreno di San Diego, in California, e autore di sull’attività cerebrale in pazienti morenti sottoposti a EEG, ha detto a Scientific American che i dati raccolti dal gruppo di ricerca guidato da Parnia forniscono alcune importanti indicazioni. Per prima cosa suggeriscono che sarebbe opportuno «trattare le persone che stanno ricevendo la rianimazione cardiopolmonare come se fossero sveglie» (cosa che «raramente facciamo», ha aggiunto). I medici potrebbero inoltre considerare, per quei pazienti che considerano non più salvabili, di permettere ai loro familiari di salutarli, visto che «i pazienti potrebbero ancora essere in grado di sentirli».


Fonte: https://www.ilpost.it/scienza/feed/


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