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    La sonda spaziale indiana Aditya-L1 ha raggiunto con successo la sua destinazione in orbita attorno al Sole

    Sabato la sonda spaziale indiana Aditya-L1 ha raggiunto con successo la sua destinazione in orbita attorno al Sole, a 1,5 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. L’obiettivo della sonda è osservare il Sole con continuità, anche quando dalla Terra è nascosto a causa di eclissi, e portare avanti diversi studi: in particolare saranno analizzate la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera solare, la fotosfera, ossia la superficie solare, e la cromosfera, cioè il sottile strato dell’atmosfera solare spesso 10mila chilometri fra corona e fotosfera.La missione di Aditya-L1 era partita il 2 settembre, a pochi giorni di distanza da un risultato storico per l’agenzia spaziale indiana ISRO: l’atterraggio sulla Luna della missione Chandrayaan-3, che prevede di esplorare il suolo del satellite con un robot automatico (rover) per un paio di settimane. Tale missione è stata la prima ad approdare con successo al polo sud della Luna.
    La sonda realizzata per studiare la stella del Sistema solare è stata chiamata Aditya in onore della divinità indù del Sole, conosciuta con questo nome oltre che con quello di Surya. La sigla L1 rappresenta il punto di Lagrange 1, cioè la destinazione finale raggiunta oggi. Tra le altre cose Aditya-L1 permetterà di capire meglio i venti e le eruzioni solari, fenomeni dell’attività del Sole che influenzano la Terra e gli oggetti nella sua orbita (satelliti compresi) attraverso radiazioni, calore, flussi di particelle e flussi magnetici.

    India creates yet another landmark. India’s first solar observatory Aditya-L1 reaches it’s destination. It is a testament to the relentless dedication of our scientists in realising among the most complex and intricate space missions. I join the nation in applauding this…
    — Narendra Modi (@narendramodi) January 6, 2024 LEGGI TUTTO

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    Nettuno non è davvero di questo colore

    Caricamento playerNel 1989 la sonda Voyager 2 passò vicino a Nettuno, l’ottavo e più lontano pianeta del sistema solare partendo dal Sole, e raccolse dei dati che furono poi elaborati come immagini dalla NASA, l’agenzia spaziale statunitense. In queste fotografie Nettuno appare di un blu piuttosto acceso e da allora è questo il colore che gli associamo e che vediamo cercando online le sue rappresentazioni. Tuttavia non si tratta del suo colore reale, quello che vedremmo se ci trovassimo su un’astronave in viaggio vicino al pianeta. Nettuno è in realtà celeste, cioè azzurro molto tenue, un colore piuttosto simile a quello di Urano: lo ha chiarito uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

    New images reveal what Neptune and Uranus really look like: pic.twitter.com/e6Jah29mAv
    — University of Oxford (@UniofOxford) January 5, 2024

    L’origine del malinteso è in parte dovuta alla tecnica usata da Voyager 2 per fotografare i pianeti, ha spiegato l’astrofisico dell’Università di Oxford Patrick Gerard Joseph Irwin, primo autore dello studio, che è basata sul modello per la resa dei colori RGB, sigla che sta per “red, green, blue” cioè “rosso, verde, blu”. In pratica per produrre un’unica immagine di un pianeta la sonda registrava tre diverse immagini: ognuna conteneva informazioni sulla componente rossa, o verde, o blu del colore del pianeta in questione, e solo combinate insieme restituivano il colore vero e proprio.
    La resa finale di questa operazione tuttavia può cambiare significativamente a seconda di come viene eseguita e di quali scelte vengono fatte. Parametri regolati diversamente possono risultare in immagini che appaiono molto differenti, come sa chiunque abbia usato un filtro di Instagram per modificare una fotografia scattata con uno smartphone.
    La NASA ha spiegato che, nel caso delle foto di Nettuno, le immagini furono composte in modo da «evidenziare la visibilità di piccole caratteristiche, a scapito della fedeltà del colore». In particolare, gli scienziati fecero una scelta consapevole per far sì che si vedessero meglio le perturbazioni nell’atmosfera del pianeta. Queste infatti sono molto meno visibili nelle immagini più fedeli realizzate dagli autori del nuovo studio. Gli astrofisici, in realtà, hanno sempre saputo che il vero colore di Nettuno non era quello delle immagini diffuse nel 1989, ma nel tempo questa informazione si è perlopiù persa nella percezione collettiva.
    Per ottenere un’immagine più realistica del pianeta Irwin e i suoi colleghi hanno utilizzato dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble e altri ottenuti dal Very Large Telescope (VLT) dell’Osservatorio europeo australe, che si trova in Cile. Le immagini prodotte da questi strumenti più recenti sono composte da pixel che contengono ciascuno informazioni su tutti i colori dello spettro visibile all’occhio umano, e sono per questo più affidabili rispetto alle immagini registrate da Voyager 2. Grazie alle informazioni così ottenute è stato possibile riprocessare le immagini del 1989 per verificare di che colore fosse realmente Nettuno all’epoca.
    Nello stesso studio è stato anche verificato che Urano è un po’ più verde quando uno dei suoi poli è orientato verso il Sole, cioè durante le sue estati e i suoi inverni; è un po’ più bluastro invece nelle sue primavere e nei suoi autunni. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO

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    SpaceX ci riprova con Starship

    Oggi la compagnia spaziale statunitense SpaceX tenterà per la seconda volta di raggiungere lo Spazio con la sua gigantesca astronave Starship, che nel suo sistema di lancio comprende Super Heavy, il razzo più potente mai realizzato nella storia delle esplorazioni spaziali. Il lancio è previsto intorno alle 14 (ora italiana) ed è un secondo tentativo dopo quello non andato a buon fine dello scorso aprile, quando i tecnici avevano deciso di fare esplodere il veicolo spaziale a causa di vari malfunzionamenti emersi nei primi minuti di volo. Il nuovo test è considerato essenziale per dimostrare le capacità di Starship, che un giorno sarà impiegata per il primo allunaggio del programma lunare Artemis e in futuro per l’esplorazione con astronauti di Marte, almeno nei piani di Elon Musk, il fondatore di SpaceX.Il lancio avverrà da Boca Chica, la piccola località a pochi chilometri di distanza dalla costa del Golfo del Messico in Texas. In quella zona nell’ultima decina di anni SpaceX ha costruito un grande complesso che ha chiamato Starbase. L’area è servita sia all’assemblaggio di Starship e Super Heavy sia ai test delle prime versioni di prova dell’astronave, con grandi esplosioni e un solo tentativo riuscito di riportare al suolo intero il veicolo spaziale, seppure con qualche danno.Esteticamente, Starship ricorda l’astronave di Tintin nel raconto a fumetti Obiettivo Luna, ma è molto più grande e meno colorata. È alta 50 metri, quanto un palazzo di 16 piani, e ha un diametro di circa 9 metri; utilizza sei motori alimentati con ossigeno liquido e metano liquido, che a pieno carico aggiungono circa 300 tonnellate alle mille della massa dell’astronave. Una volta funzionante, potrà essere impiegata per il trasporto in orbita di satelliti di grandi dimensioni, di moduli per stazioni spaziali (compresa la base Gateway che dovrà essere costruita intorno alla Luna nell’ambito di Artemis) e di equipaggi anche verso la Luna o Marte.Per raggiungere l’orbita terrestre, la potenza di Starship non è sufficiente e per questo per darle la spinta necessaria viene utilizzato il grande razzo Super Heavy, alto quasi 70 metri e dotato di 33 motori, sempre alimentati da ossigeno liquido e metano liquido. Il lanciatore spinge Starship oltre l’atmosfera, poi compie una manovra per tornare sulla Terra come fanno già i Falcon 9, i razzi parzialmente riutilizzabili di SpaceX. Il sistema consente di non dovere costruire nuovi razzi per ogni lancio, come fanno diversi concorrenti di SpaceX, e ciò permette di ridurre molto i costi per i lanci e di renderli più frequenti.Super Heavy e Starship montata sulla sua sommità, sulla rampa di lancio (AP Photo/Eric Gay, File)Per Starship e Super Heavy l’obiettivo è ancora più ambizioso, perché la compagnia spaziale vuole ottenere un sistema di lancio che sia completamente riutilizzabile. Entrambi i veicoli spaziali dovrebbero avere la capacità di tornare sulla Terra effettuando un atterraggio controllato, in modo da essere pronti per un nuovo lancio dopo il rifornimento, un po’ come fanno gli aeroplani. Riuscirci non è però semplice, il sistema è complesso e questo spiega le numerose esplosioni che si sono viste in questi anni a Boca Chica, compresa quella fragorosa dello scorso aprile.La partenza del razzo era stata molto più energetica del previsto, aveva distrutto la piattaforma della rampa di lancio e aveva prodotto una forte onda d’urto, con conseguenze nel raggio di diversi chilometri. Starship non si era separata da Super Heavy per proseguire il proprio viaggio e aveva perso la traiettoria corretta, rendendo necessario l’innesco di alcune cariche esplosive per distruggere l’intero sistema. Nei mesi seguenti i tecnici di SpaceX si erano messi al lavoro per analizzare l’incidente e rivedere alcuni componenti e meccanismi sia su Starship sia su Super Heavy. In un rapporto pubblicato lo scorso settembre, SpaceX aveva segnalato che la causa principale dei problemi era stata una perdita di propellente da Super Heavy, che aveva poi avuto ripercussioni su altri componenti.L’incidente aveva portato la Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia governativa statunitense che si occupa delle autorizzazioni per l’aviazione civile, ad avviare una propria indagine che era terminata con la pubblicazione di un rapporto contenente 63 richieste a SpaceX, soprattutto per mettere in sicurezza l’area di lancio. L’onda d’urto aveva provocato il danneggiamento di vari edifici intorno a Boca Chica, alcuni detriti avevano colpito almeno un veicolo e le associazioni ambientaliste avevano segnalato il rischio di contaminazioni e inquinamento. SpaceX ha quindi dovuto rispettare le indicazioni della FAA per ottenere il nuovo permesso per un lancio sperimentale.Oltre ad apportare modifiche a Starship e Super Heavy, negli ultimi mesi SpaceX ha lavorato per rinforzare la base della rampa di lancio, aggiungendo un sistema più elaborato e potente di getti d’acqua, che si attivano per ridurre l’onda d’urto dei motori prodotta nei primi istanti dalla loro accensione. Sono stati assunti diversi altri accorgimenti legati alla riduzione del rischio nella dispersione di inquinanti.SpaceX proverà inoltre una procedura di separazione diversa tra Super Heavy e Starship, facendo accendere i motori all’astronave prima che si separi dal razzo. È una pratica seguita da tempo soprattutto sui razzi russi e consente di perdere meno potenza quando il lanciatore ha quasi terminato la propria spinta e si separa dal resto, visto che farebbe solamente da zavorra. Il passaggio a questa soluzione ha reso necessaria la revisione del funzionamento di alcuni sistemi e potrebbe aggiungere qualche complicazione. Dopo il primo tentativo ad aprile, Musk aveva detto che le probabilità di successo con un secondo lancio sarebbero state superiori al 50 per cento.Come in primavera, il lancio di oggi avverrà utilizzando “Mechazilla”, la particolare rampa di lancio dotata di due grandi bracci meccanici chiamati informalmente “chopsticks” (“bacchette” in inglese) che un giorno dovranno pinzare i razzi di ritorno: in questo secondo test non è previsto il recupero.Le “bacchette” di Mechazilla durante un test dei motori (SpaceX)Al termine del conto alla rovescia, Super Heavy accenderà i 33 motori e spingerà Starship per circa tre minuti, bruciando in poco tempo la grande quantità di propellente nei propri serbatoi. Si separerà poi da Starship e tornerà sulla Terra, effettuando un atterraggio controllato nelle acque del Golfo del Messico: si inabisserà e non sarà riutilizzato, mentre le sue versioni future torneranno automaticamente verso Mechazilla per essere recuperate e riutilizzate. Starship intanto proseguirà il proprio viaggio spingendosi oltre l’atmosfera terrestre e si inserirà in un’orbita per iniziare a girare intorno alla Terra a un’altitudine di circa 230 chilometri. I piani prevedono che sia effettuata un’orbita parziale, poi Starship effettuerà una manovra per rientrare nell’atmosfera e finire nell’oceano Pacifico, dove non sarà recuperata.Il nuovo lancio è molto atteso perché dallo sviluppo di Starship e Super Heavy dipende una parte importante dei piani per tornare sulla Luna e per costruire una stazione spaziale nella sua orbita. La NASA ha dato un appalto da 2,9 miliardi di dollari a SpaceX per realizzare il nuovo sistema e utilizzarlo come veicolo da trasporto per compiere gli allunaggi a partire dalla missione Artemis 3, in programma non prima della fine del 2025 (ci saranno probabilmente ritardi). Negli ultimi mesi sono stati sollevati dubbi e qualche preoccupazione sulla lentezza dei progressi raggiunti, soprattutto se confrontati con gli annunci fatti in passato da Musk che in più occasioni aveva definito imminente un volo orbitale di Starship, senza che questo venisse realizzato a causa dei ritardi e di vari inconvenienti tecnici.SpaceX confida comunque di accelerare i tempi di sviluppo, seguendo una strategia simile a quella adottata nei primi anni di realizzazione dei Falcon 9, i razzi che ormai impiega regolarmente per trasportare satelliti in orbita, materiale ed equipaggi verso la Stazione Spaziale Internazionale, sempre per conto della NASA. La compagnia spaziale ha un approccio alquanto aggressivo: sperimenta i propri sistemi consapevole dell’alta probabilità di un insuccesso, ma in questo modo può raccogliere grandi quantità di dati per correggere gli errori e produrre sistemi di lancio via via più affidabili. I primi voli orbitali di Starship saranno inoltre sfruttati per portare nello Spazio grandi quantità di satelliti Starlink, il sistema per fornire connessioni a Internet per le aree della Terra non raggiunte dai cavi in fibra ottica o dai ripetitori delle reti cellulari. Starlink è diventata un’importante fonte di ricavo per SpaceX e si parla di una sua probabile quotazione in borsa, anche se per ora Musk ha escluso che possa avvenire in tempi brevi. LEGGI TUTTO

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    È morto a 95 anni l’astronauta statunitense Frank Borman, comandante della prima missione spaziale con a bordo persone a orbitare intorno alla Luna

    È morto a 95 anni Frank Borman, astronauta statunitense che fu il comandante della missione spaziale Apollo 8, la prima con a bordo un equipaggio di esseri umani a orbitare intorno alla Luna. La missione Apollo 8 – di cui facevano parte anche i piloti James Lovell e William Anders – partì il 21 dicembre del 1968 e impiegò tre giorni per raggiungere la Luna. Orbitò intorno al satellite per dieci volte nel corso di 20 ore, durante le quali l’equipaggio effettuò una breve trasmissione in diretta televisiva e scattò una famosissima fotografia della Terra vista dallo Spazio. Gli astronauti tornarono sulla Terra il 27 dicembre, ammarando nell’Oceano Pacifico.– Leggi anche: La storia della foto scattata dall’Apollo 8 (Larry Mayer/The Billings Gazette via AP) LEGGI TUTTO

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    La NASA non riesce ad aprire questo barattolo

    Caricamento playerDa qualche giorno i tecnici della missione spaziale OSIRIS-REx della NASA hanno un problema: non riescono ad aprire completamente il contenitore che conserva al suo interno i campioni dell’asteroide Bennu, riportati sulla Terra alla fine di settembre dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Due elementi del sistema di chiusura si sono bloccati e per forzarli sarà necessario un nuovo strumento, non previsto dalle procedure che erano state definite per aprire il contenitore mantenendolo isolato, per evitare contaminazioni dall’esterno. Non è un problema insormontabile, ma richiederà diversi giorni per essere risolto.La sonda OSIRIS-REx aveva prelevato del materiale da Bennu nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche secondo sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico ora difficile da aprire, per la raccolta dei detriti. Era il componente più importante della missione e aveva richiesto diverso tempo per lo sviluppo e soprattutto per sperimentarne l’affidabilità qui sulla Terra, prima di utilizzarlo nello Spazio a grande distanza da noi.In un certo senso il sistema di prelievo era stato pensato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per creare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da far sollevare i detriti e farli confluire in una camera di raccolta, lungo la circonferenza del dispositivo. La parte inferiore del TAGSAM, quella entrata in contatto con la superficie di Bennu, è infatti parzialmente cava con un tronco di cono al suo centro, che favorisce il passaggio del materiale sollevato dall’asteroide verso una linguetta che fa da diaframma, impedendo che ciò che è passato oltre possa tornare indietro, perdendosi nuovamente nell’ambiente spaziale.Il prelievo tre anni fa era andato meglio del previsto, al punto da intasare parte del diaframma. Il braccio robotico aveva poi collocato il TAGSAM all’interno di una capsula, che a fine settembre di quest’anno aveva protetto il contenitore nel suo turbolento rientro nell’atmosfera terrestre. Il recupero nel deserto dello Utah (Stati Uniti) era stato un successo e la capsula con il suo contenuto era stata poi trasferita al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.Il momento del prelievo dall’asteroide, la struttura circolare al fondo del braccio robotico è il TAGSAMPer svolgere questa attività la NASA aveva predisposto vari sistemi di isolamento, in modo da evitare contaminazioni con l’ambiente terrestre, che renderebbero meno utili le analisi per scoprire che cosa c’è (o non c’è) su un asteroide come Bennu. Il contenitore era stato collocato in una teca isolata e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. All’interno della teca erano stati inseriti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione.Tecnici al lavoro intorno alla teca durante una simulazione (NASA)Ogni strumento era stato testato e certificato per essere presente all’interno della teca e questo spiega le difficoltà degli ultimi giorni per i tecnici della NASA. Dopo avere rimosso e raccolto il materiale in eccesso che si era depositato nel diaframma del TAGSAM, i tecnici hanno iniziato a rimuovere i 35 elementi che tengono chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano stati raccolti i detriti di Bennu. Sono riusciti a rimuoverli tutti tranne due, nonostante ripetuti tentativi: e questo impedisce di sollevare il coperchio per raggiungere il serbatoio con il resto dei pezzi di Bennu. Piegando il diaframma i tecnici sono comunque riusciti ad accedere almeno parzialmente ad alcune sezioni del serbatoio e hanno poi utilizzato pinze e altri strumenti per estrarre i detriti più piccoli, ma non sono riusciti a fare altrettanto con quelli più voluminosi.La parte inferiore del TAGSAM con alcuni detriti, l’anello scuro è il diaframma (NASA)Gli strumenti attualmente contenuti nella teca isolata non sono adatti per forzare i due elementi bloccati, di conseguenza si stanno studiando soluzioni alternative, che comporteranno o un uso più creativo degli strumenti già a disposizione o l’introduzione nella teca di nuove utensili (c’è una sorta di camera intermedia nella teca per evitare le contaminazioni). Prima di procedere, la NASA sperimenterà le nuove soluzioni con modelli del TAGSAM attraverso alcune simulazioni, in modo da poter poi procedere senza mettere a rischio l’integrità del contenuto.I responsabili della missione hanno atteso tre anni prima che OSIRIS-REx portasse sulla Terra alcuni frammenti di Bennu, quindi non hanno particolare fretta e la priorità rimane il recupero in sicurezza di quanto più materiale possibile. Il 12 ottobre nel corso di una conferenza stampa la NASA aveva intanto presentato i primi risultati raggiunti dall’analisi dei detriti accessibili nel TAGSAM, segnalando la presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo di formazione del sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibile la formazione della vita sulla Terra. LEGGI TUTTO

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    Sull’asteroide Bennu c’è molto carbonio

    I pezzi dell’asteroide Bennu portati sulla Terra dalla missione OSIRIS-REx della NASA contengono molto carbonio e molta acqua, secondo le prime analisi del materiale nella capsula recuperata un paio di settimane fa. È una scoperta importante perché queste sostanze sono necessarie allo sviluppo di esseri viventi e la loro presenza sugli asteroidi del sistema solare potrebbe aiutarci a capire come e dove ha avuto e può avere origine la vita.I campioni di Bennu sono atterrati nel deserto dello Utah alla fine di settembre all’interno di una capsula con un diametro di 81 centimetri e altezza di 50 e sono stati sottoposti a un esame preliminare al Johnson Space Center di Houston, in Texas. «Il campione di OSIRIS-REx è il pezzo di asteroide più ricco di carbonio che sia mai stato portato sulla Terra», ha detto l’amministratore dell’agenzia spaziale statunitense Bill Nelson nel presentare le prime scoperte mercoledì, «e aiuterà gli scienziati a indagare sulle origini della vita sul nostro pianeta».Gli asteroidi sono corpi spaziali rocciosi che orbitano nel sistema solare e hanno dimensioni molto inferiori ai pianeti e forme più irregolari. Secondo gli studi più condivisi, sono ciò che rimane del “disco protoplanetario”, l’enorme ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole dal quale miliardi di anni fa si formarono la Terra e gli altri pianeti del sistema solare, oltre ai satelliti naturali come la Luna. Per questo lo studio delle rocce raccolte su Bennu potrebbe darci informazioni aggiuntive sulle origini del sistema solare e sulla formazione degli elementi necessari all’origine della vita. Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona, che è lo scienziato a capo di OSIRIS-REx, ha definito i campioni di Bennu «una capsula del tempo» per ciò che potrebbe farci imparare sulla storia del sistema solare.L’interno della capsula della missione OSIRIS-REx, aperta all’interno di un contenitore trasparente al Johnson Space Center di Houston (Dante Lauretta/NASA via AP)La capsula che ha portato i pezzi di Bennu sulla Terra è stata esaminata dall’interno di un grosso contenitore sigillato costruito per evitare che i campioni fossero contaminati da sostanze di origine terrestre. Questo tipo di contenitore è chiamato “scatola a guanti” (in inglese glovebox) perché per manipolare il suo contenuto senza venire fisicamente in contatto con esso si usano dei guanti lunghi e robusti inseriti nella struttura della scatola.Mari Montoya, a sinistra, e Curtis Calva raccolgono dei pezzi dell’asteroide Bennu attraverso la scatola a guanti contenente la capsula di OSIRIS-REx, il 27 settembre 2023 (NASA via AP)Quando gli scienziati hanno aperto la capsula all’interno della scatola a guanti si sono accorti che probabilmente sono arrivati sulla Terra più dei 60 grammi di rocce di Bennu che erano state previsti dalla NASA: della polvere aggiuntiva dell’asteroide e alcuni piccoli pezzi di roccia sono rimasti al di fuori del contenitore interno per la conservazione del campione. Prima di procedere con l’osservazione del campione principale è stata studiata proprio questa polvere, che ammonta a 1,5 grammi di materiale. Il peso complessivo dei pezzi di Bennu portati sulla Terra invece non lo si conosce ancora, perché ritardati dallo studio della polvere gli scienziati non hanno ancora cominciato a studiare il campione principale.La parte esterna della capsula di OSIRIS-REx dove si è raccolta la polvere di Bennu (Erika Blumenfeld, Joseph Aebersold/NASA via APLa polvere è stata analizzata con un microscopio elettronico (cioè un microscopio che usa elettroni al posto della luce e così consente di “vedere” oggetti molto piccoli) e con altri strumenti che consentono di stabilire gli elementi chimici che compongono un campione.Così è stato scoperto che le rocce di Bennu sono ricche di carbonio. Uno dei pezzi esaminati è fatto per il 4,7 per cento di questo elemento, che è la base di tutte le macromolecole biologiche, le molecole fondamentali di cui sono fatti gli esseri viventi, umani compresi. Sono anche state trovate delle piccole quantità d’acqua all’interno dei cristalli che compongono i pezzi di Bennu analizzati finora. È possibile che all’interno del campione principale possano essere presenti anche maggiori quantità d’acqua.A sinistra la capsula di OSIRIS-REx aperta, a destra la polvere di Bennu presente nel riquadro bianco vista più da vicino (Dante Lauretta/NASA via AP)È previsto che lo studio dei pezzi di Bennu andrà avanti per i prossimi due anni: almeno il 70 per cento del campione resterà al Johnson Space Center, mentre il resto sarà analizzato da circa 200 scienziati in varie parti del mondo e una parte verrà esposta al pubblico temporaneamente a Washington, a Houston e a Tucson, in Arizona.Tra le altre cose il materiale proveniente da Bennu sarà confrontato con quello raccolto dall’agenzia spaziale giapponese JAXA su un altro asteroide, Ryugu. Alcune differenze sono già state notate: nei campioni di Ryugu c’era meno acqua. Poi verrà misurata la percentuale di deuterio al suo interno: il deuterio è uno degli isotopi dell’idrogeno, cioè una delle forme in cui questo elemento si presenta, e si vuole scoprire se è più o meno presente nell’acqua di Bennu rispetto all’acqua terrestre. Infine si cercheranno eventuali amminoacidi, quelle molecole biologiche che sono già state trovate all’interno di meteoriti caduti sulla Terra ma che potrebbero esservi arrivate a causa della contaminazione con materiali terrestri durante e dopo l’impatto sul pianeta. LEGGI TUTTO

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    L’astronauta Frank Rubio è tornato sulla Terra dopo 371 giorni consecutivi nello Spazio, più di ogni altro astronauta statunitense

    L’astronauta Frank Rubio è ritornato sulla Terra dopo 371 giorni: è la più lunga permanenza consecutiva nello Spazio di un astronauta statunitense. Inizialmente la sua missione doveva durare circa 6 mesi, ma la durata è stata raddoppiata dopo che il veicolo che doveva portare lui e altri due cosmonauti russi a terra era stato danneggiato da un asteroide o da un pezzo di spazzatura spaziale. Il veicolo aveva dovuto tornare a terra vuoto, e gli astronauti avevano dovuto aspettare altri sei mesi per l’invio di un nuovo sistema di trasporto e la possibilità di tornare sulla Terra.Prima di Rubio, il record statunitense per la permanenza nello Spazio più lunga era di Mark Vande Hei, che era stato nello Spazio per 355 giorni, fra il 2021 e il 2022. Il record mondiale è però detenuto da un cosmonauta russo, Valeri Polyakov, che rimase nello Spazio per 437 giorni, fra il 1994 e il 1995, a bordo della stazione spaziale russa Mir.Con Rubio sono tornati a terra anche i cosmonauti russi Sergey Prokopyev e Dmitri Petelin. Tutti e tre si trovavano a bordo della Stazione spaziale internazionale. Sono atterrati in Kazakistan e hanno usato il sistema di trasporto russo Soyuz, come avviene di frequente per i viaggi di andata e ritorno dalla Stazione spaziale internazionale.– Leggi anche: Qui dentro ci sono pezzi di un asteroide L’astronauta statunitense Frank Rubio (Ivan Timoshenko, Roscosmos space corporation via AP) LEGGI TUTTO