Il senso comune non è poi così comune
Il concetto di “senso comune” o “buon senso” è utilizzato con grande frequenza in molti contesti diversi, dalle conversazioni quotidiane ai dibattiti politici ai consigli sulla salute. È però un concetto abbastanza ambiguo e difficile da definire, perché in generale non esiste accordo tra le persone su quali conoscenze siano parte del senso comune e quali no. Non è noto nemmeno quanto sia concretamente condiviso il senso comune, che pur chiamandosi così non è appunto chiaro esattamente quanto lo sia.In un articolo pubblicato a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) Mark Whiting e Duncan Watts, due ricercatori in scienze dell’informazione della University of Pennsylvania, hanno misurato il grado di condivisione del senso comune all’interno di un gruppo di 2.046 persone. Per cercare di comprendere come i partecipanti intendessero questo concetto, hanno chiesto loro di valutare oltre 4mila affermazioni secondo una scala di buon senso, e hanno scoperto che non esistevano valutazioni universalmente condivise all’interno del gruppo.
Soltanto affermazioni molto generiche relative a conoscenze empiriche, come «i triangoli hanno tre lati» e «una batteria non può fornire energia per sempre», erano considerate di senso comune da un numero ampio di persone. Su altre come «evitare contatti ravvicinati con persone malate», «tutti gli esseri umani sono creati uguali» o «tutte le persone devono avere le stesse opportunità di accesso all’istruzione» c’erano invece grandi divergenze di opinione riguardo al fatto se fossero o meno un esempio di affermazione di buon senso. Uno degli aspetti che hanno attirato maggiormente l’attenzione dei ricercatori è che variabili demografiche come l’età, il genere o il reddito delle persone non erano rilevanti sulla valutazione di cosa fosse per loro il senso comune.
I partecipanti dovevano esprimere sia quanto ciascuna affermazione fosse di senso comune secondo loro, sia quanto pensavano che lo fosse per le altre persone. In molti casi le valutazioni andavano di pari passo e le convinzioni personali erano molto influenti su cosa le persone pensavano che fosse il senso comune. Per esempio, se un partecipante non condivideva l’affermazione secondo cui «tutti gli esseri umani sono creati uguali», la sua inclinazione a giudicarla di buon senso in termini collettivi diminuiva (e, viceversa, aumentava quando era d’accordo con l’affermazione).
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La condivisione delle opinioni all’interno del gruppo tende tuttavia a diminuire man mano che aumenta il numero di persone prese in considerazione. «I nostri risultati suggeriscono che tende a esserci una ragionevole quantità di convinzioni in comune tra due persone, ma come società manca un senso comune a tutti», ha detto Whiting. In generale, secondo lui, le persone tendono a essere d’accordo su cosa sia il buon senso se sono persone che interagiscono regolarmente, ma non si rendono conto che esistono poche cose su cui tutte le persone sono universalmente d’accordo.
Una delle possibili obiezioni rispetto alle conclusioni dello studio pubblicato su PNAS è che il modo in cui le persone intendono il senso comune ha più a che fare con le loro azioni quotidiane che con le loro opinioni, come ha detto al quotidiano El País Javier Vilanova, professore di logica e filosofia del linguaggio all’università Complutense di Madrid. «Il luogo in cui il buon senso si vede davvero e si sviluppa è nella vita di tutti i giorni», ha detto Vilanova, e ha fatto l’esempio del denaro come di qualcosa che esiste perché esiste una convinzione condivisa sul valore che ha.
Altre ricerche hanno descritto negli ultimi anni, in un modo simile a quello dello studio di Whiting e Watts, quanto sia problematico il concetto di senso comune. Ha alcuni aspetti in comune con il concetto di moderazione, che è quello che i ricercatori definiscono uno «standard ambiguo», scrisse nel 2020 la psicologa Michelle vanDellen, professoressa di scienze comportamentali alla University of Georgia e coautrice di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Appetite e intitolato Come le persone definiscono la moderazione?.
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Per uno degli esperimenti dello studio, vanDellen e altre due ricercatrici coinvolsero un gruppo di 89 persone. A ciascun partecipante, seduto a un tavolo davanti a un piatto di 24 biscotti al cioccolato appena sfornati, chiesero di indicare la quantità di biscotti che avrebbe «dovuto» mangiare, quella che considerava un consumo «moderato» e quella che considerava un consumo «autoindulgente». I risultati mostrarono che la quantità moderata di biscotti indicata dai partecipanti era mediamente molto meno della quantità autoindulgente, ma anche una volta e mezzo la quantità di biscotti ammessa dalle linee guida per un’alimentazione equilibrata: che è una differenza significativa sia statisticamente che praticamente, secondo vanDellen.
«Se le persone prendessero una sola decisione alimentare al giorno come fecero nel nostro laboratorio di ricerca, se mangiassero cioè con “moderazione” anziché quanto dovrebbero per un solo pasto o spuntino una volta al giorno, consumerebbero circa 25mila calorie extra in un anno», scrisse vanDellen. Lei e le altre ricercatrici scoprirono inoltre che le definizioni cambiavano a seconda dei gusti personali: le persone a cui piacevano molto determinati alimenti tendevano a essere più generose nella definizione della moderazione, ma solo relativamente agli alimenti che apprezzavano.
Secondo vanDellen il concetto di senso comune, così come quello di moderazione, «non è affatto comune»: perché nessuno è d’accordo su cosa sia, e le differenze dipendono da molte variabili contestuali e individuali. Il buon senso in una città sarà diverso da quello in un piccolo paese, per esempio. Ma in altri casi le differenze possono essere più problematiche, perché è probabile che le persone siano influenzate dalle loro intenzioni: più le persone vogliono fare una certa cosa, più penseranno che farla sia un’azione di buon senso.
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