More stories

  • in

    Abbiamo estratto del ghiaccio di 1,2 milioni di anni fa dall’Antartide

    Giovedì il gruppo di ricerca europeo Beyond EPICA ha annunciato di essere riuscito a estrarre dalla calotta dell’Antartide del ghiaccio vecchio di almeno 1,2 milioni di anni. Per riuscirci ha dovuto scavare un foro profondo 2.800 metri, quasi la misura dell’altezza massima del Gran Sasso. Questo risultato è stato raggiunto dopo cinque anni di lavoro sul campo nella regione centrale dell’Antartide, dove quando fa meno freddo la temperatura media si aggira intorno ai -35 °C. Ora grazie al ghiaccio antichissimo che è stato ottenuto si potranno ricavare delle informazioni sulle condizioni climatiche della Terra ai tempi degli Homo erectus.I ghiacciai e le calotte polari infatti sono grandi depositi di successive nevicate avvenute nel corso del tempo. Dato che quando nevica i fiocchi di neve inglobano particelle di polvere e assorbono sostanze presenti nell’aria, in concentrazioni diverse in base alla composizione dell’atmosfera in quel momento, il ghiaccio che vanno a formare contiene delle informazioni sul clima. E il centro dell’Antartide è il luogo della Terra in cui questo tipo di “archivio” arriva più lontano nel tempo.
    Il gruppo di ricerca del progetto Beyond EPICA riunisce scienziati di dieci paesi diversi ed è guidato dall’italiano Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Barbante ha spiegato che con l’obiettivo raggiunto negli ultimi giorni abbiamo ottenuto «la più lunga documentazione continuativa del clima del passato in forma di ghiaccio». Non si tratta infatti del ghiaccio più antico mai trovato, che è molto più vecchio, ma dato che Beyond EPICA ha estratto un’intera colonna di ghiaccio dalla superficie dell’altopiano antartico fino a 2.800 metri di profondità, è il più lungo campione ininterrotto – per quanto sia frazionato in cilindri lunghi un metro.

    – Per approfondire: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide

    Il progetto è stato finanziato con 11 milioni di euro dalla Commissione Europea e il suo nome significa “Oltre EPICA”. È un riferimento alla precedente impresa europea per lo studio del clima attraverso il ghiaccio antartico, svolta tra il 1996 e il 2005, che si chiamava appunto EPICA: è l’acronimo di European Project for Ice Coring in Antarctica. Grazie a EPICA si poté ricostruire la storia dell’atmosfera fino a 800mila anni fa, la più lunga mai ottenuta finora grazie al ghiaccio.
    Com’è l’Antartide nella zona attorno al campo di ricerca di Beyond EPICA, cioè Little Dome C, che si intravede in fondo (Collino, ©PNRA/IPEV)
    Una volta analizzato nei laboratori, il ghiaccio estratto da Beyond EPICA potrà dirci qual era la concentrazione di gas serra nell’atmosfera 1,2 milioni di anni fa e dunque aiutarci a stimare la temperatura media sul pianeta a quel tempo. Ma soprattutto i campioni di ghiaccio potranno dirci qualcosa di nuovo sul periodo compreso tra 900mila e 1,2 milioni di anni fa, la cosiddetta “transizione del Pleistocene medio”, quando i cicli delle ere glaciali passarono da intervalli di 41mila a 100mila anni: non sappiamo ancora come mai ci fu questo cambiamento. Queste informazioni sono importanti anche per lo studio del clima attuale e per affinare i modelli climatologici per il futuro.
    Nel centro dell’Antartide è presente ghiaccio antichissimo perché la quantità di precipitazioni annuali nella regione è molto bassa, in media cadono solo 10 centimetri di neve in un anno: per questo nei circa tremila metri di ghiaccio della calotta si susseguono centinaia di migliaia di strati di neve. I primi strati sono più spessi, poi scendendo in profondità sono via via più sottili perché vengono compressi dal peso del ghiaccio sovrastante.
    Julien Westhoff, responsabile delle operazioni sul campo del progetto e ricercatore dell’Università di Copenaghen, ha detto che secondo le prime analisi del ghiaccio estratto negli ultimi giorni l’età dello strato che si trovava a 2.480 metri di profondità risale a 1,2 milioni di anni fa. A quella profondità un cilindro di ghiaccio di un metro contiene i dati climatici relativi a 13mila anni.
    Cilindri di ghiaccio estratti dalla calotta antartica all’inizio del 2024, fotografati il 25 novembre (Westhoff, ©PNRA/IPEV)
    Negli ultimi 210 metri di profondità che sono stati raggiunti il ghiaccio è altamente deformato a causa della pressione ed è probabilmente mescolato a ghiaccio di origine sconosciuta, o fuso e poi di nuovo congelato. Ci sono delle teorie sulla storia di questi strati di ghiaccio, che però devono essere studiati: potrebbero darci delle informazioni sulla storia glaciale dell’Antartide e sull’ultimo periodo in cui fu libera dal ghiaccio.
    I cilindri di ghiaccio estratti da Beyond EPICA saranno trasportati in Europa a bordo della rompighiaccio Laura Bassi (che deve il suo nome a una delle prime donne laureate italiane). A bordo della nave saranno mantenuti a una temperatura di -50 °C, una cosa non semplice per cui è stato necessario studiare numerosi accorgimenti logistici da parte dell’ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile.

    – Leggi anche: La vita degli scienziati che stanno per 9 mesi isolati in Antartide LEGGI TUTTO

  • in

    Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato

    Il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato e ha comportato un superamento della soglia di 1,5 °C in più della temperatura media globale rispetto al periodo pre-industriale, il limite più importante deciso dall’accordo di Parigi sul clima. I due record sono stati confermati da Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, e dalle principali agenzie del Regno Unito e del Giappone che effettuano analisi del clima. Nei mesi scorsi diversi osservatori e l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite avevano anticipato che con ogni probabilità il 2024 sarebbe stato l’anno più caldo, superando il precedente record fissato appena nel 2023.Copernicus ha calcolato un aumento della temperatura media globale per il 2024 di 1,6 °C, l’Agenzia meteorologica del Giappone di 1,57 °C e il Met Office britannico di 1,53 °C. La lieve differenza è dovuta ai set di dati e alle metodologie impiegate nel calcolo delle rilevazioni, ma è ampiamente entro il margine di errore per questo tipo di analisi. Entro la fine della settimana saranno diffusi anche i rapporti della NASA e della National Oceanic and Atmospheric Administration, le due principali agenzie statunitensi che si occupano di analizzare l’andamento del clima, e ci si attendono valori analoghi.
    Il superamento della soglia di 1,5 °C era dato per scontato da diverso tempo, anche in considerazione dei dati sulla scorsa estate, che era già risultata la più calda mai registrata. Il riferimento per valutare l’andamento della temperatura media globale sono gli ultimi decenni dell’Ottocento, quando i livelli di industrializzazione erano bassi e di conseguenza l’immissione nell’atmosfera di grandi quantità di anidride carbonica (il principale gas serra) derivante dalle attività umane era scarso. I responsabili di Copernicus e delle altre agenzie hanno ricordato che la principale causa dell’aumento della temperatura media globale è proprio l’accumulo di gas serra, dovuto soprattutto all’utilizzo dei combustibili fossili.
    (Copernicus)
    Secondo i dati di Copernicus, il 2024 è stato di 0,12 °C più caldo rispetto al 2023 ed è stato di 0,72 °C più caldo rispetto alla media del periodo 1991-2020. Tutti i mesi da gennaio a giugno del 2024 sono stati più caldi degli stessi mesi negli anni precedenti, da quando si raccolgono questi dati. Agosto è stato pressoché caldo come agosto 2023 e i restanti mesi del 2024 sono stati i secondi più caldi rispetto ai corrispondenti del 2023. Nel complesso, gli ultimi 10 anni sono stati i più caldi mai registrati.
    (Copernicus)
    Oltre alle emissioni dovute al consumo di combustibili fossili, sull’aumento della temperatura media globale hanno anche inciso gli effetti del Niño, l’insieme di fenomeni atmosferici che si verifica periodicamente nell’oceano Pacifico e che influenza il clima di gran parte del pianeta, portando tra le altre cose a un aumento della temperatura e a una riduzione delle precipitazioni. El Niño aveva interessato soprattutto il 2023, ma alcuni suoi effetti residui hanno influenzato parte del 2024. Per contro, la grande produzione di particolato (polveri e gas in sospensione nell’aria) dovuta all’enorme eruzione sottomarina del vulcano Tonga-Hunga Ha’apai nel gennaio del 2020 ha in parte riflesso i raggi solari, riducendo il calore.
    Lo scorso giugno l’Organizzazione meteorologica mondiale aveva stimato che almeno un anno tra il 2024 e il 2028 avrebbe superato il limite degli 1,5 °C, segnalando che in quel periodo un singolo anno potrebbe raggiungere un aumento di 1,9 °C rispetto ai livelli del 1850-1900. Il rapporto indicava anche una probabilità del 47 per cento che la media di cinque anni superi la soglia di 1,5 °C.
    Il superamento temporaneo della soglia di 1,5 °C non implica che l’accordo di Parigi non abbia più senso di esistere. Il documento su cui si sono messi d’accordo praticamente tutti i governi del mondo è riferito al decennio in corso e ha come obiettivo di arrivare al 2030 con una media dell’aumento di temperatura che non superi quella soglia. Con gli attuali andamenti è però molto probabile che entro il 2030 venga mancato l’obiettivo.
    Il superamento della soglia non significa che i danni saranno immediati o universali, ma che aumenterà la probabilità di avere eventi atmosferici estremi, più costosi da affrontare e a cui adattarsi. Ondate di calore, uragani, inondazioni e siccità diventeranno ancora più frequenti e intensi, con maggiori rischi per la diffusione di malattie e un aumento dei flussi di persone legati alle migrazioni climatiche. La fusione delle calotte glaciali in Groenlandia e Antartide subirebbe un’ulteriore accelerazione; è stato inoltre stimato che ecosistemi vulnerabili come le barriere coralline, che già subiscono gravi danni, potrebbero scomparire del tutto, mentre alcune specie potrebbero non adattarsi rapidamente, portando a estinzioni locali o a livello globale. LEGGI TUTTO

  • in

    Una delle più grandi morie di uccelli della storia moderna

    Caricamento playerTra il 2015 e il 2016 lungo la costa nordamericana dell’oceano Pacifico furono trovati i corpi di oltre 60mila uccelli marini, morti durante una delle più gravi ondate di calore marine mai registrate nella zona. Erano individui di uria comune (Uria aalge), uccelli grandi più o meno quanto un pollo, ma decisamente più agili e abituati a vivere per mesi sul mare aperto, prima di tornare verso la costa per riprodursi. Sulla base di quei ritrovamenti, alcuni gruppi di ricerca stimarono che fossero morti in tutto almeno mezzo milione di uccelli, ma a quanto pare avevano a dir poco sottostimato il problema.
    Un nuovo studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica Science ha infatti calcolato che in quell’ondata di calore marina, chiamata “The Blob”, morirono almeno quattro milioni di urie comuni, circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli censita in Alaska prima che si verificasse il marcato aumento della temperatura in quella zona del Pacifico. Se confermata, si tratterebbe della più grande moria di uccelli appartenenti alla stessa specie nella storia moderna.
    “The Blob”, la grande massa d’acqua insolitamente più calda, fu rilevata per la prima volta intorno al 2013 e continuò a diffondersi nei due anni seguenti, stabilizzandosi poi per diverso tempo lungo la costa occidentale del Nordamerica. Portò a un aumento di 2 °C della temperatura media dell’acqua marina, rispetto ai dati storici, mettendo sotto forte stress numerosi ecosistemi marini. Le popolazioni di alcune specie di pesci si dimezzarono, migliaia di megattere scomparvero da quella zona del Pacifico e ci furono forti conseguenze anche per la pesca, soprattutto a causa della minore disponibilità di merluzzo. Mancando i pesci, ci furono conseguenze anche per diverse specie di uccelli marini che se ne nutrono.
    Anomalie nella temperatura marina nel Pacifico settentrionale durante “The Blob” (NOAA)
    L’uria comune ha bisogno di grandi quantità di energia per sostenersi, riprodursi e provvedere alla prole. Sbattendo forsennatamente le piccole ali per mantenersi in volo, questi uccelli riescono a raggiungere una velocità massima di 80 chilometri orari, importante per rincorrere le prede che avvistano sotto la superficie marina. Quando si tuffano per pescare, possono spingersi fino a 200 metri di profondità, andando alla ricerca di pesci più piccoli e facili da ingerire. La grande attività fisica comporta un notevole dispendio di energia e per questo devono assumere ogni giorno cibo equivalente a circa la metà del loro peso. Il consumo di energia è più marcato nei lunghi mesi trascorsi lontano dalle coste.
    Con l’arrivo di “The Blob” i ricercatori marini intuirono che potessero esserci serie conseguenze per varie specie. E fu proprio l’avvistamento di decine di migliaia di urie comuni morte lungo la costa dell’Alaska a dare le prime conferme sugli effetti del riscaldamento anomalo dell’acqua. Per gli oltre 60mila individui morti censiti lungo le coste, c’erano probabilmente altre centinaia di migliaia di uccelli morti in mare, ma calcolare quanti non era semplice.
    Per lo studio da poco pubblicato su Science, sono stati utilizzati i censimenti effettuati negli anni su alcune delle principali colonie di urie comuni nel golfo dell’Alaska e nel mare di Bering, dove gli uccelli si raccolgono per riprodursi. L’analisi ha tenuto in considerazione molti anni, per evitare di sovrastimare la scomparsa degli uccelli, magari semplicemente denutriti e quindi non in grado di compiere il lungo viaggio stagionale verso le isole. Confrontando la quantità di urie negli anni è emerso che molte colonie si sono più che dimezzate durante “The Blob”. I dati sono stati poi utilizzati per stimare la moria nel suo complesso, arrivando a 4 milioni, cioè circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli che frequentava di solito le coste dell’Alaska.
    La colonia di urie comuni nell’isola sud delle Isole Semidi: nel 2014 prima dell’ondata di calore nel Pacifico settentrionale (sopra) e nel 2021 dopo l’ondata di calore (sotto) (U.S. Fish and Wildlife Service)
    Al momento non è chiaro se la popolazione di urie comuni tornerà a crescere anche in seguito alla fine del periodo di riscaldamento delle acque marine. Merluzzi e altre specie di pesci hanno iniziato ad aumentare in quantità, quindi il cibo è meno scarso per le urie, ma non ci sono segni di una marcata ripresa della loro popolazione. L’ipotesi è che le colonie più piccole fatichino a proteggere uova e nuovi nati lungo le coste, perché non sono in numero sufficiente per contrastare i predatori. C’è quindi l’eventualità che un intero ecosistema sia cambiato per sempre e che possa subire ulteriori conseguenze nel caso in cui si presentino nuove ondate di calore.
    Negli ultimi dieci anni il Pacifico settentrionale si è scaldato più velocemente rispetto agli altri bacini oceanici, con due ondate di calore in appena cinque anni che hanno avuto effetti su molti animali. L’aumento dei gas serra nell’atmosfera, derivanti soprattutto dalle attività umane, è ritenuto la principale causa del riscaldamento globale che si riflette fortemente sugli oceani, che assorbono buona parte del calore. LEGGI TUTTO

  • in

    Pando, l’albero più grande di tutti

    Caricamento playerUn paio di anni fa il fumettista Randall Munroe propose nel suo apprezzato fumetto online xkcd di realizzare il più grande albero di Natale di sempre, utilizzando quasi 3 chilometri di lucine colorate. Munroe non aveva in mente di disporle intorno a un gigantesco abete immaginario, ma tra i rami di un concretissimo e sterminato pioppo tremulo: Pando, il più grande di tutti.
    Pando vive da migliaia di anni (le stime variano molto) su un pianoro a 2.700 metri nelle vicinanze del Fish Lake, un lago che si trova 250 chilometri a sud di Salt Lake City, la capitale dello Utah, negli Stati Uniti. A prima vista sembra una piccola foresta, come ce ne sono tante, ma è in realtà una “colonia clonale”: ogni albero è geneticamente identico all’altro e fa parte di un unico sistema diffuso che copre un’area di 0,4 chilometri quadrati, più o meno quanto la Città del Vaticano. Si ritiene che abbia una massa di 6mila tonnellate e che sia quindi l’organismo vivente più pesante conosciuto, nonché probabilmente uno dei più vecchi.
    I botanici statunitensi Jerry Kemperman e Burton V. Barnes si accorsero di Pando tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, ma il nome fu scelto nel 1992 da un gruppo di ricerca che si era interessato agli studi effettuati precedentemente nella zona. Si decise di chiamare l’albero “Pando” dal verbo latino “pandĕre”, che tra i suoi vari significati ha quelli di “estendersi” ed “espandersi”. Il nome, semplice e orecchiabile, avrebbe contribuito alla fama della pianta, e sarebbe stato usato in seguito in libri, film e perfino per dare il nome a un microprocessore.
    Come altre piante, i pioppi tremuli (Populus tremuloides) hanno la capacità di riprodursi sia in maniera sessuata sia asessuata, con la produzione di cloni. Di solito se le condizioni ambientali non sono molto favorevoli, prevale la riproduzione sessuata perché aumenta la probabilità che la pianta possa stabilirsi altrove e sopravvivere meglio. Ovviamente una pianta non si sposta, ma può fare in modo che il polline dei suoi fiori raggiunga altre piante e le fecondi. Il fiore produce dei frutti e i semi al loro interno possono poi essere trasportati a grandi distanze, sempre dal vento o da qualche uccello, germinando dove le condizioni sono più favorevoli.
    Evidenziata in verde, l’area occupata da Pando (Wikimedia)
    Probabilmente fu in questo modo che migliaia di anni fa Pando raggiunse la zona vicina a Lake Fish dove vive ormai stabilmente. Le condizioni ambientali molto favorevoli fecero sì che dopo qualche anno Pando iniziasse a riprodursi per via asessuata, che richiede un diverso dispendio di energie e permette di continuare a crescere dove ci sono le risorse per farlo.
    I pioppi tremuli hanno un sistema di radici molto esteso che si diffonde sottoterra e dalle quali possono poi emergere nuovi tronchi, che hanno quindi lo stesso materiale genetico della pianta originaria. Queste piante sono “ramet”, unità che hanno la capacità di svilupparsi e continuare poi a vivere con un certo grado di autonomia.
    In media ogni ramet vive per circa 130 anni, poi muore e cade al suolo, dove si decompone e restituisce importanti nutrienti, che saranno usati dalla pianta per la sua crescita. Questo significa che non si possono contare gli anelli nella sezione di un tronco per stabilire l’età complessiva di Pando, come si fa con altri alberi. Occorrono ricerche più elaborate e da diverso tempo i gruppi di ricerca fanno studi e ipotesi su quale possa essere l’età effettiva di questo grande sistema vegetale integrato. Oltre a essere probabilmente l’organismo vivente più pesante conosciuto, è anche il più vecchio?
    Per rispondere a questa domanda di recente un gruppo di ricerca ha raccolto una grande quantità di campioni ottenuti dalle radici, dalla corteccia, dai rami e dalle foglie di Pando. Ne ha poi analizzato il materiale genetico e lo ha confrontato con quelli di altri pioppi tremuli che vivono altrove. In questo modo hanno ottenuto il genoma (pressoché tutto il DNA che troviamo all’interno di una cellula) delle piante e lo hanno studiato, sviluppando un modello che sulla base dei tempi di evoluzione dei pioppi può dare qualche indizio sull’età di Pando.
    Pando e, sullo sfondo, Fish Lake (Wikimedia)
    La ricerca, che deve essere ancora sottoposta a una revisione per essere pubblicata, è stata accolta con interesse perché è una delle più complete tra quelle svolte sulla questione. Ha stimato che Pando abbia almeno 16mila anni, ma che potrebbe essere ancora più antico con un’età di 80mila anni. Questa seconda possibilità è molto dibattuta perché così indietro nel tempo la zona di Fish Lake era periodicamente ricoperta da ghiacciai e difficilmente un pioppo tremulo sarebbe sopravvissuto a quelle rigide temperature.
    Lo studio in compenso ha contribuito a offrire qualche nuovo indizio sul perché Pando si sia clonato così tante volte, rendendo marginale la riproduzione sessuata. La pianta è “triploide”, cioè le sue cellule contengono tre copie di ogni cromosoma, invece di due come avviene di solito. Pando ha perso la capacità di riprodursi per via sessuata, mescolando il proprio materiale con piante geneticamente diverse, e di conseguenza prosegue col clonarsi. I nuovi tronchi hanno comunque talvolta qualche mutazione, derivante da errori casuali che si possono verificare quando le cellule producono nuove copie di sé stesse. Il gruppo di ricerca ha identificato quasi 4mila varianti, che probabilmente hanno contribuito a mantenere in salute la pianta, riducendo i rischi di subire danni dai parassiti per esempio.
    Pando rientra in un’area protetta, ma le conoscenze su grandi colonie clonali di questo tipo sono ancora limitate ed è difficile stabilire il loro grado di salute. Negli ultimi anni sono stati analizzati alcuni fattori che potrebbero incidere negativamente come la siccità, la pratica di estinguere gli incendi naturali (che hanno un ruolo importante nella rigenerazione del suolo) e la presenza di animali che pascolano nei dintorni. La longevità di Pando indica che la pianta sopravvisse senza problemi a diversi periodi in cui il clima nella zona era molto diverso dall’attuale, per esempio, o rigenerandosi dopo grandi incendi. Lo United States Forest Service e alcune associazioni collaborano comunque per tenere sotto controllo l’albero più grande di tutti per le generazioni future. LEGGI TUTTO

  • in

    Il mondo non si mette d’accordo sulla plastica

    Caricamento playerManca meno di un mese alla fine di un anno che si sarebbe dovuto concludere con l’approvazione del primo trattato internazionale delle Nazioni Unite per ridurre l’inquinamento causato dalla plastica, ma qualcosa è andato storto. I paesi coinvolti non si sono messi d’accordo nel corso dell’ultima sessione di trattative a Busan, in Corea del Sud, soprattutto a causa dell’opposizione delle nazioni che producono grandi quantità di petrolio, la principale materia prima per produrre la plastica. Il confronto riprenderà il prossimo anno, ma al momento i programmi sono vaghi.
    Come dimostrato in questi anni dalle Conferenze contro il cambiamento climatico, mettere d’accordo molti paesi sul modo per affrontare i problemi ambientali non è semplice, soprattutto se alcuni provvedimenti si scontrano con gli interessi di certe nazioni. I principali produttori di petrolio, come l’Arabia Saudita, non vogliono regole troppo stringenti per la produzione di nuova plastica perché potrebbero incidere sulla domanda di idrocarburi, e di conseguenza sulle loro possibilità di sviluppo.
    In più occasioni il trattato sulla plastica era stato definito come la prima vera occasione per regolamentare meglio un settore che si è espanso molto velocemente nell’ultimo secolo, senza che fossero decise regole comuni tra le nazioni per lo smaltimento dei suoi rifiuti. L’iniziativa era nata poco meno di tre anni fa, nel marzo del 2022, quando 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per adottare un documento internazionale sulla plastica. Da quel momento erano state avviate le trattative ed era stato costituito un comitato intergovernativo, con l’obiettivo molto ambizioso di arrivare all’approvazione di un trattato entro la fine di quest’anno.
    L’incontro di Busan era considerato come l’occasione più importante per raggiungere un accordo, dopo gli alti e bassi delle trattative negli scorsi anni. Un centinaio di paesi, compresi quelli dell’Unione Europea e quindi l’Italia, aveva scelto di sostenere una proposta di Panama per inserire nel testo un chiaro riferimento alla necessità di ridurre la produzione di plastica portandola a «livelli sostenibili». La proposta non era però piaciuta ai rappresentanti dell’Arabia Saudita e di altri grandi produttori di petrolio, secondo i quali il trattato deve avere il solo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica nell’ambiente e non la sua produzione. (Le trattative sono segrete, ma più fonti interne ai negoziati hanno confermato la contrarietà dei produttori di petrolio guidati dall’Arabia Saudita.)

    I paesi che fanno parte della “High Ambition Coalition” (HAC), una coalizione internazionale che ha l’obiettivo di mettere fine all’inquinamento causato dalla plastica, avevano criticato già in passato i produttori di petrolio accusandoli di fare ostruzionismo durante le trattative. Tra i paesi che più o meno direttamente hanno ostacolato i lavori sono stati spesso segnalati la Russia e l’Iran, che come l’Arabia Saudita hanno economie che dipendono dall’estrazione dei combustibili fossili.
    La scelta degli Stati Uniti nel corso dell’estate di sostenere con maggior forza la riduzione della produzione di plastica sembrava che potesse condizionare i lavori di Busan, ma secondo alcuni analisti la vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi ha cambiato gli equilibri. Trump ha in più occasioni dimostrato di non avere un particolare interesse per le questioni ambientali ed è a favore di un potenziamento delle attività estrattive. Facendo fallire i negoziati, gli stati interessati hanno ottenuto di prendere tempo in attesa dell’insediamento di Trump all’inizio del prossimo anno.
    Anche la Cina, il principale produttore di plastica del mondo, non fa parte della HAC, ma ha comunque mantenuto un atteggiamento più aperto per lo meno nelle trattative sull’identificazione dei prodotti di plastica che inquinano di più. Sulla riduzione della produzione il governo cinese è invece contrario, sempre per l’impatto economico che potrebbe esserci per molti settori produttivi. Il coinvolgimento della Cina è però essenziale per intervenire sull’inquinamento da plastica.
    Le stime variano molto, ma secondo quelle delle Nazioni Unite ogni anno si producono mediamente circa 400 milioni di tonnellate di nuova plastica, e il suo impiego è più che quadruplicato negli ultimi trent’anni. Agli attuali ritmi di crescita, entro il 2040 si potrebbe arrivare a oltre 700 milioni di tonnellate di nuova plastica prodotta ogni anno, con un aumentato rischio di inquinamento dei corsi d’acqua e dei mari, dove finisce una parte importante dei rifiuti.
    Una sessione delle trattative a Busan, Corea del Sud, il primo dicembre 2024 (AP Photo/Ahn Young-joon)
    Le attività di riciclo sono importanti per ridurre l’inquinamento ed evitare che si produca nuova plastica, ma la raccolta e il corretto trattamento dei rifiuti per riciclarli sono ancora poco diffusi. A livello globale si stima che meno del 10 per cento della plastica venga riciclato, il resto finisce nelle discariche, viene incenerito oppure disperso impropriamente nell’ambiente. Si stima che negli ambienti marini circa l’85 per cento di tutti i rifiuti siano materie plastiche.
    Molti tipi di plastica impiegano decine di anni prima di iniziare a degradarsi e a separarsi in frammenti sempre più piccoli. Quelle con dimensioni inferiori a cinque millimetri sono definite “microplastiche” e si stima che abbiano contaminato praticamente qualsiasi ambiente conosciuto, con un impatto sulle specie viventi ancora in corso di valutazione, soprattutto per la salute umana.
    La plastica è tra i materiali più diffusi e utilizzati al mondo, ha reso possibili importanti attività di ricerca, lo sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti e ha migliorato la qualità della vita di milioni di persone. La conservazione e la sicurezza dei cibi sono strettamente legate allo sviluppo della plastica, per esempio, così come molte attività in ambito sanitario. Metterla al bando sarebbe impossibile e non è nemmeno l’obiettivo del trattato, il cui scopo è di trovare regole comuni per evitare il più possibile che la plastica contamini gli ambienti e che se ne faccia un uso non responsabile.
    Gli interessi economici sono però molto forti e sono diventati evidenti nell’aprile di quest’anno in Canada, durante alcune delle trattative per la stesura del trattato. Agli incontri erano presenti circa 200 lobbisti delle industrie petrolchimiche, più degli scienziati presenti per fornire dati e informazioni sull’impatto ambientale della plastica ai rappresentanti politici.
    Come per altri negoziati sul clima, anche per il trattato sulla plastica è prevista un’approvazione all’unanimità ed è quindi sufficiente l’opposizione di uno o più stati per rallentare il processo o fermarlo completamente. Alcuni paesi approfittano della mancanza di una votazione vera e propria per ostacolare i negoziati, al tempo stesso senza esporsi più di tanto. Difficilmente le regole di approvazione saranno modificate per i prossimi passaggi delle trattative.
    Il mancato accordo a Busan non è arrivato completamente inatteso, visti i tempi stretti che erano stati decisi per l’approvazione del trattato, ma avrà comunque conseguenze sulle prossime iniziative. Le trattative proseguiranno con nuovi negoziati, per i quali non sono ancora noti tempi e luogo. LEGGI TUTTO

  • in

    Manca tantissimo per sfruttare la fusione nucleare

    Caricamento playerLa presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha citato l’importanza della fusione nucleare per produrre energia elettrica nel corso del suo discorso alla 29esima conferenza delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico (COP29), prospettando un futuro che è però ancora molto lontano e secondo i più scettici addirittura impossibile da realizzare. Nel suo intervento Meloni ha detto che, oltre a mantenere i propri impegni nella riduzione delle emissioni di gas serra e nel sostenere i paesi in via di sviluppo, l’Italia è «in prima linea» nello sviluppo della fusione nucleare e che questa sarà essenziale per arricchire la varietà di risorse impiegate per produrre energia elettrica senza ricorrere ai combustibili fossili. In realtà, sarà ancora necessario tantissimo tempo per avere qualche risultato.
    Nonostante anni di lavoro, la ricerca nel settore è infatti ancora indietro e potrebbero essere necessari decenni prima di avere un impiego a livello commerciale delle tecnologie legate alla fusione. Per questo motivo molti esperti ritengono che indicare la fusione nucleare come la soluzione a buona parte dei problemi delle emissioni, che contribuiscono al riscaldamento globale, sia una distrazione e che ci si dovrebbe concentrare sulle tecnologie già disponibili per produrre quanta più energia elettrica possibile utilizzando fonti rinnovabili e – in una certa misura – le tecnologie nucleari di cui già disponiamo basate sulla fissione.
    Da più di mezzo secolo produciamo infatti energia elettrica dal nucleare attraverso la fissione, cioè una reazione in cui i nuclei di atomi pesanti (come gli isotopi plutonio 239 e uranio 235) vengono indotti a spezzarsi, con un processo che libera una grande quantità di energia termica. Questa viene sfruttata per trasformare acqua ad alta pressione in vapore, che fa poi girare turbine cui sono collegati alternatori per produrre energia elettrica. È un sistema che dopo gli importanti investimenti iniziali per costruire un reattore, dove la reazione di fissione viene tenuta sotto controllo, permette di produrre energia elettrica a costi contenuti e con un basso impatto ambientale rispetto alla produzione dai combustibili fossili.
    La fissione comporta però la produzione di residui altamente pericolosi, le “scorie radioattive”, che devono essere conservati con cura e isolati dall’ambiente circostante. Per questo da tempo si cercano alternative, provando a imitare la fonte più grande di energia nelle nostre vicinanze: il Sole.
    Mentre nella fissione i nuclei pesanti vengono spezzati in frammenti più piccoli, nella fusione si uniscono i nuclei leggeri (come quello dell’idrogeno) per ottenerne di più pesanti. Nel processo si formano nuovi nuclei la cui massa è minore rispetto alla somma delle masse di quelli di partenza: ciò che manca è emesso come energia, che può poi essere sfruttato. È un processo semplice da descrivere, ma estremamente difficile da riprodurre artificialmente sulla Terra in modo da ottenere più energia di quanta ne venga immessa nel sistema.
    I nuclei di deuterio e di trizio (due forme più pesanti di idrogeno) si uniscono formando un nucleo di elio; la reazione libera un neutrone ed energia (Zanichelli)
    I nuclei degli atomi tendono a respingersi a vicenda (repulsione elettrica) e sono quindi necessarie temperature nell’ordine di vari milioni di °C per farli unire. Negli anni si è ottenuto qualche risultato su piccola scala, ma nelle sperimentazioni si consuma quasi sempre più energia per gestire il processo rispetto a quella che si ottiene alla fine. Il bilancio energetico è quindi negativo e il sistema non è efficiente a sufficienza. I progressi annunciati negli ultimi anni spesso con grande enfasi sono quasi sempre legati al raggiungimento di una migliore efficienza, ma i risultati sono distanti da un sistema che possa essere impiegato su larga scala e con chiari vantaggi economici.
    L’ambito di ricerca è talmente vasto e articolato da avere portato negli anni all’avvio di alcune collaborazioni internazionali, con l’obiettivo di condividere le conoscenze e i risultati. Tra le più importanti c’è ITER, progetto che coinvolge più di 30 paesi per costruire un primo reattore sperimentale a Cadarache, nel sud della Francia. Al consorzio partecipano tra gli altri l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’India e il Giappone. ITER ha subìto numerosi ritardi, ha richiesto svariati miliardi di investimenti e si stima che una centrale dimostrativa basata sulle ricerche di ITER non sarà pronta prima del 2050, ammesso sia possibile realizzarne una.
    Il sito di ITER in fase di costruzione in Francia (Commissione europea)
    Negli ultimi anni la Cina ha investito grandi risorse nella ricerca sulla fusione. All’Istituto di fisica del plasma dell’Accademia delle scienze a Hefei gli esperimenti principali sono legati al “Tokamak superconduttore avanzato sperimentale” (EAST), una sorta di grande ciambella dove si provano a riprodurre le reazioni nucleari che avvengono nel Sole. In media vengono effettuati circa 100 test al giorno, contro i 20-30 realizzati quotidianamente nel principale centro di ricerca sulla fusione in Europa. I ritmi dei gruppi di ricerca cinesi sono serrati per recuperare il divario tecnologico e rendersi ancora più competitivi.
    I tokamak sono grandi macchine sperimentali a forma di ciambella (“toroidali”) nelle quali si producono il vuoto e un intenso campo magnetico necessari per isolare (o per meglio dire “confinare”) il plasma (un fluido estremamente caldo e carico elettricamente), in modo che non entri in contatto con le pareti della ciambella. Si ritiene che in questo modo si possano creare le condizioni per la fusione termonucleare in modo controllato, ma per farlo sono necessari un importante dispendio di energia e la regolazione della densità del plasma stesso, cioè della quantità di particelle presenti al suo interno.
    Il Tokamak di JET nell’Oxfordshire, nel Regno Unito (JET)
    Più il plasma è denso e più frequentemente le particelle possono scontrarsi e fondersi, liberando energia. Un plasma molto denso è però più difficile da confinare con il campo magnetico generato dal tokamak e si deve quindi trovare un equilibrio tra la densità e la qualità del confinamento. Solo in questo modo si ottiene una reazione di fusione attiva e sostenibile, producendo più energia di quella necessaria per mantenere il plasma confinato.
    Nella primavera di quest’anno, un gruppo di ricerca della National Fusion Facility di San Diego (California) ha annunciato di avere ottenuto per un paio di secondi un progresso significativo nella densità del plasma, pur mantenendo un buon confinamento grazie a una nuova configurazione del tokamak. Le conoscenze acquisite con l’esperimento potrebbero essere applicate al reattore di ITER, migliorando la sua capacità di produzione dell’energia elettrica, ma anche per questo saranno necessari anni di lavoro.
    Un approccio alternativo ai tokamak prevede invece l’impiego di potenti laser, che convogliano in contemporanea un impulso luminoso verso un minuscolo cilindro di metallo, che raggiunge in pochi istanti una temperatura intorno ai 3 milioni di °C. Il cilindro viene vaporizzato e si produce un’implosione che comprime una sfera di pochi millimetri di deuterio e trizio, due forme più pesanti di idrogeno. L’implosione fa sì che i due elementi fondano in elio, producendo la fusione vera e propria. Anche in questo caso, il problema rimane il bilancio energetico.
    Alla COP29 Meloni ha citato la fusione nucleare anche per ricordare il recente incontro del World Fusion Energy Group, un gruppo di lavoro organizzato dal ministero degli Esteri e dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) che si è riunito per la prima volta a Roma lo scorso 6 novembre. Il gruppo ha lo scopo di promuovere la cooperazione internazionale tra governi, centri di ricerca e imprese per la condivisione di conoscenze sulla fusione e la definizione di standard condivisi. Il governo ha legato il suo avvio alle attività connesse alla transizione energetica, ma al momento appare improbabile che una tecnologia distante decenni da eventuali applicazioni commerciali possa avere un ruolo nel passaggio dal consumo dei combustibili fossili a fonti sostenibili per la produzione di energia elettrica.
    Fare previsioni sulla fusione nucleare è pressoché impossibile e secondo i più scettici non si riuscirà mai a ottenere sistemi efficienti per la produzione di energia elettrica. Al di là degli annunci politici, le aspettative rimangono comunque alte, con miliardi di euro investiti a livello mondiale per finanziare ricerca e sviluppo per una tecnologia che segnerebbe una trasformazione radicale nella produzione di energia elettrica, che diventerebbe enormemente più economica e accessibile. LEGGI TUTTO

  • in

    Perché è piovuto così tanto nel Sud della Spagna

    Caricamento playerSu molti giornali il fenomeno meteorologico che ha causato le devastanti alluvioni nel Sud della Spagna è stato definito DANA, acronimo che sta per depresión aislada en niveles altos, “depressione isolata nei livelli alti” dell’atmosfera. È un fenomeno noto, che però in questa occasione ha causato precipitazioni molto abbondanti e prolungate. È successo per ragioni analoghe a quelle che a settembre avevano reso molto intensa la tempesta Boris sull’Europa centrale: le alte temperature delle settimane precedenti, che avevano contribuito a una maggiore evaporazione e dunque a una elevata umidità dell’aria, e la presenza di robuste zone anticicloniche attorno a quella ciclonica, che l’avevano bloccata a lungo sullo stesso territorio.
    La creazione di una DANA è dovuta in origine allo spostamento di una massa di aria fredda proveniente dalle correnti a getto, i forti venti d’alta quota che si possono immaginare come grandi fiumi che attraversano l’atmosfera. Una DANA si forma se da un’ansa di uno di questi fiumi d’aria, una “saccatura”, si separa una specie di isola di aria fredda. Se alle quote più basse ci sono temperature significativamente più alte, l’aria fredda in alta quota, più pesante, inizia a scendere e si crea un moto convettivo, cioè un’instabilità atmosferica che genera i temporali. Il vapor acqueo presente nell’aria calda che sale si trasforma in precipitazioni.
    In autunno è normale che sulla penisola iberica si creino le DANA, ma il fenomeno di questi giorni ha causato precipitazioni molto intense perché prima c’era stata una forte evaporazione dal mar Mediterraneo, e perché la depressione è rimasta bloccata a lungo sulla stessa zona, cosa che ha concentrato le piogge. In meteorologia si parla di “vortice stazionario”, o cut-off: la DANA era circondata da zone di alta pressione (anticicloniche) molto stabili che hanno impedito alle correnti a getto di spostare la zona ciclonica.

    A Chiva, poco fuori Valencia, sono stati misurati 491 millimetri di altezza pluviometrica in sole otto ore: «In pratica quello che normalmente piove in un anno intero», ha spiegato l’Agenzia statale di meteorologia (AEMET) spagnola. I confronti tra misure di precipitazione diverse vanno fatti tenendo conto dello storico della regione in questione, ma solo per avere un’idea di massima: nell’alluvione che ha interessato la città di Bologna il 19 e il 20 ottobre è stato misurato un massimo di 175 millimetri in sei ore.
    Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, ha accostato l’evento a cui sono dovute le alluvioni in Spagna alla tempesta Boris in una serie di post su X: entrambi sono stati causati «da una delle peggiori configurazioni possibili in termini di rischio» perché i vortici isolati «evolvono lentamente». Normalmente una zona ciclonica si indebolisce, cioè perde la capacità di causare precipitazioni, quando dei moti d’aria fredda provenienti dalle aree circostanti riducono i moti convettivi verticali, ma sia in questi giorni in Spagna che a settembre con Boris questo fenomeno non c’è stato per la stabilità delle zone anticicloniche.
    «Anche l’intensità di questi “blocchi anticiclonici” è “drogata” dall’eccesso di calore», ha spiegato Betti, perché le temperature particolarmente alte ad alta quota rendono tutta la colonna d’aria più stabile. Generalmente l’aria più calda che c’è vicino a terra si sposta verso l’alto, ma se l’aria negli strati superiori è già molto calda si ha un movimento discendente che blocca la zona anticiclonica.

    Il cambiamento climatico dovuto all’immissione nell’atmosfera di grandi quantità in eccesso di gas serra da parte dell’umanità non renderà le alluvioni più frequenti in tutto il pianeta: in alcune regioni sì, in altre no. Per quanto riguarda fenomeni simili a quelli degli ultimi mesi in Europa (quindi come questa DANA e come la tempesta Boris, entrambi vortici stazionari), con il riscaldamento globale in atto ci sono ragioni per temere che porteranno più spesso precipitazioni molto intense, proprio perché dipendenti da temperature più alte.
    Giovedì 31 ottobre le precipitazioni si sono spostate verso ovest e per venerdì c’è un’allerta rossa per la città di Huelva, che si trova nell’Andalusia meridionale, verso il confine col Portogallo. Ma anche nella zona di Valencia, più a est, potrebbe continuare a piovere fino a domenica per la creazione di una nuova perturbazione. LEGGI TUTTO

  • in

    Cos’è esattamente la biodiversità

    Il 21 ottobre a Cali, in Colombia, è cominciata la 16esima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, che come le edizioni precedenti ha l’obiettivo di preservare la ricchezza di specie viventi del pianeta, anche a beneficio dell’umanità. Le conferenze sulla biodiversità sono iniziative analoghe alle conferenze sul clima, e a loro volta sono chiamate “COP”, ma si tengono ogni due anni. Quella appena iniziata è considerata particolarmente importante: alla fine della precedente, con l’accordo di Kunming-Montreal del 2022, i paesi del mondo si erano impegnati a rendere aree protette il 30 per cento delle superfici terrestri e delle superfici marine del pianeta entro il 2030, e a questo giro devono dire come pensano di farlo concretamente, con appositi piani nazionali.Al di là della conferenza delle Nazioni Unite e del contesto scientifico, il concetto di biodiversità è menzionato comunemente sui giornali, compare ogni tanto nei discorsi dei politici e nei messaggi promozionali delle aziende e due anni fa è stato introdotto anche nella Costituzione italiana. Tuttavia di frequente viene usato a sproposito, ad esempio quando si parla di agricoltura, forse anche perché sebbene si possa dire cosa si intenda con “biodiversità” con poche parole, non è così immediato spiegare perché è importante e, tra le altre cose, utile per l’umanità.
    La parola “biodiversità” cominciò a essere usata nella sua versione inglese intorno alla metà degli anni Ottanta, dopo essere stata probabilmente introdotta dallo scienziato statunitense Walter G. Rosen. Deriva dalla crasi dell’espressione “diversità biologica”, che tiene insieme tre diverse forme di variabilità che riguardano gli ambienti naturali.
    La prima è la diversità genetica tra individui di una stessa specie, cioè la ricchezza di caratteristiche diverse nel patrimonio genetico di un’unica specie.
    La seconda forma di biodiversità è la diversità di specie in un dato ecosistema, che si può misurare contandole; per avere un quadro completo bisogna comunque considerare anche l’abbondanza relativa tra le specie che condividono uno stesso ecosistema, cioè se i rapporti numerici tra le popolazioni delle diverse specie permettono di mantenere un buon equilibrio nella loro coesistenza. E bisogna tenere conto non solo di animali e piante, ma anche di funghi, batteri e archei; dunque non solo di organismi che si vedono ma anche di quelli, generalmente molto numerosi, che risultano invisibili per le loro dimensioni ridotte o perché vivono nel suolo, o all’interno di altri organismi. Tutte le specie che vivono in un certo ambiente hanno rapporti di dipendenza l’una dall’altra (perché alcune si cibano di altre, ma non solo) e quindi devono essere considerate insieme.
    Infine c’è la diversità ecosistemica, ovvero il numero di diversi ecosistemi in un’unica regione.
    Le tre forme di biodiversità rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente in caso di grossi cambiamenti, come quelli causati dalle attività umane, per quanto riguarda il clima e non solo. Ad esempio, maggiore è la biodiversità genetica, più una specie è adattabile, cioè ha probabilità di conservarsi: rappresenta infatti il suo potenziale evolutivo. Ma anche le altre forme di biodiversità rendono gli ambienti naturali più resistenti.
    Preservare la biodiversità comunque non è importante solo per il valore intrinseco degli ambienti naturali e delle specie che li abitano, ma anche per ragioni utilitaristiche che riguardano gli esseri umani. Per esempio gli insetti impollinatori hanno un ruolo importante nella riproduzione delle piante. Un gran numero di altri organismi viventi contribuisce a mantenere il suolo fertile, a decomporre i rifiuti, a pulire i corsi d’acqua e a fornire risorse alimentari e di sussistenza (la caccia e la raccolta di frutti spontanei sono ancora importanti per le comunità di persone in molte parti del mondo): si usa l’espressione “servizi ecosistemici” per comprendere tutti questi aspetti. Nei paesi meno ricchi, la perdita di biodiversità generalmente si lega a un aumento della povertà, magari non sul breve periodo, ma nel tempo.
    La biologia di altre specie inoltre può essere utile da studiare per consentire il progresso scientifico. Vale in ambito farmaceutico, per la ricerca di nuove molecole con effetti terapeutici che possono essere contenute in piante, funghi e via dicendo, ma anche per altri campi: le soluzioni “trovate” nel processo evolutivo per la risoluzione di un problema (per esempio, la struttura delle zampe dei gechi che permette loro di stare attaccati a pareti verticali e soffitti) possono darci delle idee su come realizzare nuove tecnologie. Infine, nella società contemporanea, la ricchezza degli ambienti naturali può essere una risorsa per le attività turistiche.
    Può sembrare che solo certe specie abbiano un’utilità per l’umanità, ma in realtà dato che gli ecosistemi sono basati su relazioni di interdipendenza, anche tutte le altre sono importanti.

    – Leggi anche: Dovremmo sterminare tutte le zanzare?

    Per garantire la conservazione della biodiversità tuttavia servono addirittura delle conferenze delle Nazioni Unite perché le attività umane causano in vari modi una sua riduzione. Le tre principali cause di perdita di biodiversità sono la riduzione degli habitat naturali, che avviene quando un territorio selvaggio viene sfruttato per qualche ragione dalle persone, il cambiamento climatico, e l’introduzione di specie aliene, che possono alterare gli equilibri di coesistenza preesistenti negli ecosistemi.
    Secondo il più recente rapporto sul Living Planet Index (letteralmente “indice della vitalità del pianeta”), realizzato dalla nota organizzazione ambientalista internazionale WWF e dall’organizzazione accademica Zoological Society of London, dal 1970 al 2020 le dimensioni medie delle popolazioni globali di animali vertebrati selvatici sono diminuite del 73 per cento. Complessivamente, nonostante i successi ottenuti da molte iniziative per la conservazione della natura, la biodiversità è diminuita notevolmente secondo il rapporto. È un problema noto da tempo, ed è per questo che dal 1992 i paesi delle Nazioni Unite si riuniscono per parlare di biodiversità.
    L’Italia è spesso descritta come un paese con una grande biodiversità, nonostante il suo territorio sia stato profondamente modificato dalle attività umane per più di due millenni. Evelina Isola, naturalista dell’Istituto Oikos, un’organizzazione non profit che lavora per la conservazione della biodiversità in Italia e in vari altri paesi del mondo, spiega: «L’Italia detiene un primato, è il paese con più biodiversità in Europa, e questo è dovuto alla sua storia geologica. Nel nostro paese infatti, sebbene sia relativamente piccolo, ci sono tre zone bio-geografiche diverse, quella mediterranea, quella alpina e quella continentale».
    La biodiversità italiana non è comparabile a quella delle foreste tropicali, note per ospitare un grandissimo numero di specie vegetali e animali diverse, ma nel paese ci sono «tantissime specie endemiche, ossia presenti solo all’interno del territorio italiano» e alcune di queste sono «specie endemiche ristrette, che cioè sono presenti solo in territori limitatissimi». È così per via della forma della penisola italiana, che crea molta varietà di ecosistemi vicini tra loro. C’è poi da considerare che fa parte della biodiversità italiana anche la biodiversità marina del Mediterraneo.
    Non si possono però considerare ambienti con una grande biodiversità le pianure italiane che sono prevalentemente sfruttate per l’agricoltura intensiva. Capita spesso di sentir parlare di biodiversità in riferimento alle varietà vegetali coltivate, ma è un equivoco. Per quanto la disponibilità di varietà agricole alternative possa essere una risorsa in caso di diffusione di malattie delle piante o di siccità, si tratta comunque di organismi viventi la cui presenza nell’ambiente dipende ed è regolata dall’attività umana: non dalle interazioni con altre specie. Un po’ diverso è il caso delle aree in cui si pratica una agricoltura di piccola scala: «C’è biodiversità nei contesti in cui ci sono le cosiddette zone ecotonali», spiega Isola, «che sono quelle zone di transizione da un habitat all’altro, da bosco ad arbusteto, a prato: dove ci sono i muretti a secco, le ceppaie, dove l’agricoltore lascia una parte del campo non coltivato o dove i pascoli non vengono falciati e dunque le specie selvatiche proliferano.
    Nell’ambito dell’agricoltura intensiva un’eccezione è costituita dalle risaie, note per attrarre e ospitare molte specie di uccelli.
    Si è poi osservato che anche gli ambienti urbani, quelli più profondamente modificati dall’umanità, hanno una propria biodiversità. Alcuni animali selvatici hanno trovato nelle città dei «surrogati di quelli che sarebbero stati i loro habitat naturali»: Isola fa l’esempio dei falchi pellegrini per cui i grattacieli, come il cosiddetto Pirellone di Milano, valgono come alte pareti rocciose e si prestano allo stesso modo alla nidificazione. «Diverso è il caso delle specie che si rifugiano nelle città anche per la pressione venatoria», aggiunge Isola, facendo riferimento ai cinghiali che negli ultimi anni si vedono sempre di più in contesti urbani di varie città italiane, come Roma.

    – Leggi anche: I falchi pellegrini si trovano bene nelle grandi città

    Il contributo in termini di servizi ecosistemici della biodiversità urbana è fortemente condizionato dal ruolo delle persone, ma comunque c’è: «Si considera tra i servizi ecosistemici anche il senso di benessere psicologico che dà la presenza di piante e animali selvatici», spiega Isola. Inoltre la presenza di aree cittadine in cui il suolo non è coperto da edifici o strade, e non è dunque impermeabilizzato, può essere utile in caso di fenomeni meteorologici estremi come le alluvioni e contribuire. E la disponibilità di aree verdi fornisce zone ombreggiate e più fresche d’estate.
    La COP16 sulla biodiversità, che riunisce i rappresentanti di 196 paesi, durerà fino al primo novembre. L’obiettivo di mettere sotto protezione ambientale il 30 per cento delle aree marine e il 30 per cento delle aree terrestri del pianeta, e dunque di ciascun paese, entro il 2030 è solo uno di 23 impegni presi con l’accordo di Kunming-Montreal. Tra le altre cose c’è l’impegno a ridurre i sussidi statali alle attività economiche che danneggiano gli ecosistemi e a introdurre un obbligo per le aziende di rendere conto del proprio impatto sull’ambiente.
    A ciascun paese firmatario della Convenzione sulla biodiversità era richiesto di presentare alla COP in corso le proprie “Strategie e Piani di attuazione nazionali per la biodiversità (NBSAPs)” per rispettare gli obiettivi fissati nel 2022. Per ora non tutti i paesi li hanno consegnati: il WWF sta tenendo traccia di quelli che sono stati presentati e condivide le proprie analisi generali di come sono fatti.
    Quello dell’Italia ad esempio è stato giudicato non del tutto soddisfacente per quanto riguarda il raggiungimento dei 23 obiettivi. Attualmente la superficie terrestre protetta in Italia è pari al 21,68 del territorio nazionale. In 5 anni lo stato dovrebbe «creare la metà delle aree protette terrestri che ha creato in oltre 100 anni da quando nacquero i primi due parchi nazionali italiani, Parco Nazionale del Gran Paradiso e Parco Nazionale d’Abruzzo», ha spiegato il WWF: «E per il mare va ancora peggio perché solo l’11,62% della superficie marina italiana è protetta».
    In generale, secondo il WWF non sembra che le premesse poste nel 2022 saranno rispettate.
    Tra i vari temi in discussione c’è il progetto di creare un sistema che regolamenti l’uso delle informazioni genetiche di piante, animali e microrganismi, che sempre più spesso vengono sfruttate nella ricerca farmaceutica e non solo per sviluppare nuovi prodotti. Il rischio è che alcuni paesi non ricevano proventi economici derivanti dallo sfruttamento commerciale del DNA degli organismi che ospitano; è un problema che riguarda i tanti paesi poveri o in via di sviluppo che hanno nel proprio territorio una grande biodiversità.
    Un’altra questione di cui si parlerà sono i contributi finanziari con cui i paesi più ricchi hanno promesso di aiutare quelli in via di sviluppo a raggiungere i propri obiettivi. Alla COP15 del 2022 si era deciso che tali contributi dovessero ammontare ad almeno 20 miliardi di dollari annui dal 2025.

    – Leggi anche: La statistica falsa sull’80% della biodiversità protetta dagli indigeni LEGGI TUTTO