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    Perché è piovuto così tanto nel Sud della Spagna

    Caricamento playerSu molti giornali il fenomeno meteorologico che ha causato le devastanti alluvioni nel Sud della Spagna è stato definito DANA, acronimo che sta per depresión aislada en niveles altos, “depressione isolata nei livelli alti” dell’atmosfera. È un fenomeno noto, che però in questa occasione ha causato precipitazioni molto abbondanti e prolungate. È successo per ragioni analoghe a quelle che a settembre avevano reso molto intensa la tempesta Boris sull’Europa centrale: le alte temperature delle settimane precedenti, che avevano contribuito a una maggiore evaporazione e dunque a una elevata umidità dell’aria, e la presenza di robuste zone anticicloniche attorno a quella ciclonica, che l’avevano bloccata a lungo sullo stesso territorio.
    La creazione di una DANA è dovuta in origine allo spostamento di una massa di aria fredda proveniente dalle correnti a getto, i forti venti d’alta quota che si possono immaginare come grandi fiumi che attraversano l’atmosfera. Una DANA si forma se da un’ansa di uno di questi fiumi d’aria, una “saccatura”, si separa una specie di isola di aria fredda. Se alle quote più basse ci sono temperature significativamente più alte, l’aria fredda in alta quota, più pesante, inizia a scendere e si crea un moto convettivo, cioè un’instabilità atmosferica che genera i temporali. Il vapor acqueo presente nell’aria calda che sale si trasforma in precipitazioni.
    In autunno è normale che sulla penisola iberica si creino le DANA, ma il fenomeno di questi giorni ha causato precipitazioni molto intense perché prima c’era stata una forte evaporazione dal mar Mediterraneo, e perché la depressione è rimasta bloccata a lungo sulla stessa zona, cosa che ha concentrato le piogge. In meteorologia si parla di “vortice stazionario”, o cut-off: la DANA era circondata da zone di alta pressione (anticicloniche) molto stabili che hanno impedito alle correnti a getto di spostare la zona ciclonica.

    A Chiva, poco fuori Valencia, sono stati misurati 491 millimetri di altezza pluviometrica in sole otto ore: «In pratica quello che normalmente piove in un anno intero», ha spiegato l’Agenzia statale di meteorologia (AEMET) spagnola. I confronti tra misure di precipitazione diverse vanno fatti tenendo conto dello storico della regione in questione, ma solo per avere un’idea di massima: nell’alluvione che ha interessato la città di Bologna il 19 e il 20 ottobre è stato misurato un massimo di 175 millimetri in sei ore.
    Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, ha accostato l’evento a cui sono dovute le alluvioni in Spagna alla tempesta Boris in una serie di post su X: entrambi sono stati causati «da una delle peggiori configurazioni possibili in termini di rischio» perché i vortici isolati «evolvono lentamente». Normalmente una zona ciclonica si indebolisce, cioè perde la capacità di causare precipitazioni, quando dei moti d’aria fredda provenienti dalle aree circostanti riducono i moti convettivi verticali, ma sia in questi giorni in Spagna che a settembre con Boris questo fenomeno non c’è stato per la stabilità delle zone anticicloniche.
    «Anche l’intensità di questi “blocchi anticiclonici” è “drogata” dall’eccesso di calore», ha spiegato Betti, perché le temperature particolarmente alte ad alta quota rendono tutta la colonna d’aria più stabile. Generalmente l’aria più calda che c’è vicino a terra si sposta verso l’alto, ma se l’aria negli strati superiori è già molto calda si ha un movimento discendente che blocca la zona anticiclonica.

    Il cambiamento climatico dovuto all’immissione nell’atmosfera di grandi quantità in eccesso di gas serra da parte dell’umanità non renderà le alluvioni più frequenti in tutto il pianeta: in alcune regioni sì, in altre no. Per quanto riguarda fenomeni simili a quelli degli ultimi mesi in Europa (quindi come questa DANA e come la tempesta Boris, entrambi vortici stazionari), con il riscaldamento globale in atto ci sono ragioni per temere che porteranno più spesso precipitazioni molto intense, proprio perché dipendenti da temperature più alte.
    Giovedì 31 ottobre le precipitazioni si sono spostate verso ovest e per venerdì c’è un’allerta rossa per la città di Huelva, che si trova nell’Andalusia meridionale, verso il confine col Portogallo. Ma anche nella zona di Valencia, più a est, potrebbe continuare a piovere fino a domenica per la creazione di una nuova perturbazione. LEGGI TUTTO

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    Cos’è esattamente la biodiversità

    Il 21 ottobre a Cali, in Colombia, è cominciata la 16esima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, che come le edizioni precedenti ha l’obiettivo di preservare la ricchezza di specie viventi del pianeta, anche a beneficio dell’umanità. Le conferenze sulla biodiversità sono iniziative analoghe alle conferenze sul clima, e a loro volta sono chiamate “COP”, ma si tengono ogni due anni. Quella appena iniziata è considerata particolarmente importante: alla fine della precedente, con l’accordo di Kunming-Montreal del 2022, i paesi del mondo si erano impegnati a rendere aree protette il 30 per cento delle superfici terrestri e delle superfici marine del pianeta entro il 2030, e a questo giro devono dire come pensano di farlo concretamente, con appositi piani nazionali.Al di là della conferenza delle Nazioni Unite e del contesto scientifico, il concetto di biodiversità è menzionato comunemente sui giornali, compare ogni tanto nei discorsi dei politici e nei messaggi promozionali delle aziende e due anni fa è stato introdotto anche nella Costituzione italiana. Tuttavia di frequente viene usato a sproposito, ad esempio quando si parla di agricoltura, forse anche perché sebbene si possa dire cosa si intenda con “biodiversità” con poche parole, non è così immediato spiegare perché è importante e, tra le altre cose, utile per l’umanità.
    La parola “biodiversità” cominciò a essere usata nella sua versione inglese intorno alla metà degli anni Ottanta, dopo essere stata probabilmente introdotta dallo scienziato statunitense Walter G. Rosen. Deriva dalla crasi dell’espressione “diversità biologica”, che tiene insieme tre diverse forme di variabilità che riguardano gli ambienti naturali.
    La prima è la diversità genetica tra individui di una stessa specie, cioè la ricchezza di caratteristiche diverse nel patrimonio genetico di un’unica specie.
    La seconda forma di biodiversità è la diversità di specie in un dato ecosistema, che si può misurare contandole; per avere un quadro completo bisogna comunque considerare anche l’abbondanza relativa tra le specie che condividono uno stesso ecosistema, cioè se i rapporti numerici tra le popolazioni delle diverse specie permettono di mantenere un buon equilibrio nella loro coesistenza. E bisogna tenere conto non solo di animali e piante, ma anche di funghi, batteri e archei; dunque non solo di organismi che si vedono ma anche di quelli, generalmente molto numerosi, che risultano invisibili per le loro dimensioni ridotte o perché vivono nel suolo, o all’interno di altri organismi. Tutte le specie che vivono in un certo ambiente hanno rapporti di dipendenza l’una dall’altra (perché alcune si cibano di altre, ma non solo) e quindi devono essere considerate insieme.
    Infine c’è la diversità ecosistemica, ovvero il numero di diversi ecosistemi in un’unica regione.
    Le tre forme di biodiversità rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente in caso di grossi cambiamenti, come quelli causati dalle attività umane, per quanto riguarda il clima e non solo. Ad esempio, maggiore è la biodiversità genetica, più una specie è adattabile, cioè ha probabilità di conservarsi: rappresenta infatti il suo potenziale evolutivo. Ma anche le altre forme di biodiversità rendono gli ambienti naturali più resistenti.
    Preservare la biodiversità comunque non è importante solo per il valore intrinseco degli ambienti naturali e delle specie che li abitano, ma anche per ragioni utilitaristiche che riguardano gli esseri umani. Per esempio gli insetti impollinatori hanno un ruolo importante nella riproduzione delle piante. Un gran numero di altri organismi viventi contribuisce a mantenere il suolo fertile, a decomporre i rifiuti, a pulire i corsi d’acqua e a fornire risorse alimentari e di sussistenza (la caccia e la raccolta di frutti spontanei sono ancora importanti per le comunità di persone in molte parti del mondo): si usa l’espressione “servizi ecosistemici” per comprendere tutti questi aspetti. Nei paesi meno ricchi, la perdita di biodiversità generalmente si lega a un aumento della povertà, magari non sul breve periodo, ma nel tempo.
    La biologia di altre specie inoltre può essere utile da studiare per consentire il progresso scientifico. Vale in ambito farmaceutico, per la ricerca di nuove molecole con effetti terapeutici che possono essere contenute in piante, funghi e via dicendo, ma anche per altri campi: le soluzioni “trovate” nel processo evolutivo per la risoluzione di un problema (per esempio, la struttura delle zampe dei gechi che permette loro di stare attaccati a pareti verticali e soffitti) possono darci delle idee su come realizzare nuove tecnologie. Infine, nella società contemporanea, la ricchezza degli ambienti naturali può essere una risorsa per le attività turistiche.
    Può sembrare che solo certe specie abbiano un’utilità per l’umanità, ma in realtà dato che gli ecosistemi sono basati su relazioni di interdipendenza, anche tutte le altre sono importanti.

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    Per garantire la conservazione della biodiversità tuttavia servono addirittura delle conferenze delle Nazioni Unite perché le attività umane causano in vari modi una sua riduzione. Le tre principali cause di perdita di biodiversità sono la riduzione degli habitat naturali, che avviene quando un territorio selvaggio viene sfruttato per qualche ragione dalle persone, il cambiamento climatico, e l’introduzione di specie aliene, che possono alterare gli equilibri di coesistenza preesistenti negli ecosistemi.
    Secondo il più recente rapporto sul Living Planet Index (letteralmente “indice della vitalità del pianeta”), realizzato dalla nota organizzazione ambientalista internazionale WWF e dall’organizzazione accademica Zoological Society of London, dal 1970 al 2020 le dimensioni medie delle popolazioni globali di animali vertebrati selvatici sono diminuite del 73 per cento. Complessivamente, nonostante i successi ottenuti da molte iniziative per la conservazione della natura, la biodiversità è diminuita notevolmente secondo il rapporto. È un problema noto da tempo, ed è per questo che dal 1992 i paesi delle Nazioni Unite si riuniscono per parlare di biodiversità.
    L’Italia è spesso descritta come un paese con una grande biodiversità, nonostante il suo territorio sia stato profondamente modificato dalle attività umane per più di due millenni. Evelina Isola, naturalista dell’Istituto Oikos, un’organizzazione non profit che lavora per la conservazione della biodiversità in Italia e in vari altri paesi del mondo, spiega: «L’Italia detiene un primato, è il paese con più biodiversità in Europa, e questo è dovuto alla sua storia geologica. Nel nostro paese infatti, sebbene sia relativamente piccolo, ci sono tre zone bio-geografiche diverse, quella mediterranea, quella alpina e quella continentale».
    La biodiversità italiana non è comparabile a quella delle foreste tropicali, note per ospitare un grandissimo numero di specie vegetali e animali diverse, ma nel paese ci sono «tantissime specie endemiche, ossia presenti solo all’interno del territorio italiano» e alcune di queste sono «specie endemiche ristrette, che cioè sono presenti solo in territori limitatissimi». È così per via della forma della penisola italiana, che crea molta varietà di ecosistemi vicini tra loro. C’è poi da considerare che fa parte della biodiversità italiana anche la biodiversità marina del Mediterraneo.
    Non si possono però considerare ambienti con una grande biodiversità le pianure italiane che sono prevalentemente sfruttate per l’agricoltura intensiva. Capita spesso di sentir parlare di biodiversità in riferimento alle varietà vegetali coltivate, ma è un equivoco. Per quanto la disponibilità di varietà agricole alternative possa essere una risorsa in caso di diffusione di malattie delle piante o di siccità, si tratta comunque di organismi viventi la cui presenza nell’ambiente dipende ed è regolata dall’attività umana: non dalle interazioni con altre specie. Un po’ diverso è il caso delle aree in cui si pratica una agricoltura di piccola scala: «C’è biodiversità nei contesti in cui ci sono le cosiddette zone ecotonali», spiega Isola, «che sono quelle zone di transizione da un habitat all’altro, da bosco ad arbusteto, a prato: dove ci sono i muretti a secco, le ceppaie, dove l’agricoltore lascia una parte del campo non coltivato o dove i pascoli non vengono falciati e dunque le specie selvatiche proliferano.
    Nell’ambito dell’agricoltura intensiva un’eccezione è costituita dalle risaie, note per attrarre e ospitare molte specie di uccelli.
    Si è poi osservato che anche gli ambienti urbani, quelli più profondamente modificati dall’umanità, hanno una propria biodiversità. Alcuni animali selvatici hanno trovato nelle città dei «surrogati di quelli che sarebbero stati i loro habitat naturali»: Isola fa l’esempio dei falchi pellegrini per cui i grattacieli, come il cosiddetto Pirellone di Milano, valgono come alte pareti rocciose e si prestano allo stesso modo alla nidificazione. «Diverso è il caso delle specie che si rifugiano nelle città anche per la pressione venatoria», aggiunge Isola, facendo riferimento ai cinghiali che negli ultimi anni si vedono sempre di più in contesti urbani di varie città italiane, come Roma.

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    Il contributo in termini di servizi ecosistemici della biodiversità urbana è fortemente condizionato dal ruolo delle persone, ma comunque c’è: «Si considera tra i servizi ecosistemici anche il senso di benessere psicologico che dà la presenza di piante e animali selvatici», spiega Isola. Inoltre la presenza di aree cittadine in cui il suolo non è coperto da edifici o strade, e non è dunque impermeabilizzato, può essere utile in caso di fenomeni meteorologici estremi come le alluvioni e contribuire. E la disponibilità di aree verdi fornisce zone ombreggiate e più fresche d’estate.
    La COP16 sulla biodiversità, che riunisce i rappresentanti di 196 paesi, durerà fino al primo novembre. L’obiettivo di mettere sotto protezione ambientale il 30 per cento delle aree marine e il 30 per cento delle aree terrestri del pianeta, e dunque di ciascun paese, entro il 2030 è solo uno di 23 impegni presi con l’accordo di Kunming-Montreal. Tra le altre cose c’è l’impegno a ridurre i sussidi statali alle attività economiche che danneggiano gli ecosistemi e a introdurre un obbligo per le aziende di rendere conto del proprio impatto sull’ambiente.
    A ciascun paese firmatario della Convenzione sulla biodiversità era richiesto di presentare alla COP in corso le proprie “Strategie e Piani di attuazione nazionali per la biodiversità (NBSAPs)” per rispettare gli obiettivi fissati nel 2022. Per ora non tutti i paesi li hanno consegnati: il WWF sta tenendo traccia di quelli che sono stati presentati e condivide le proprie analisi generali di come sono fatti.
    Quello dell’Italia ad esempio è stato giudicato non del tutto soddisfacente per quanto riguarda il raggiungimento dei 23 obiettivi. Attualmente la superficie terrestre protetta in Italia è pari al 21,68 del territorio nazionale. In 5 anni lo stato dovrebbe «creare la metà delle aree protette terrestri che ha creato in oltre 100 anni da quando nacquero i primi due parchi nazionali italiani, Parco Nazionale del Gran Paradiso e Parco Nazionale d’Abruzzo», ha spiegato il WWF: «E per il mare va ancora peggio perché solo l’11,62% della superficie marina italiana è protetta».
    In generale, secondo il WWF non sembra che le premesse poste nel 2022 saranno rispettate.
    Tra i vari temi in discussione c’è il progetto di creare un sistema che regolamenti l’uso delle informazioni genetiche di piante, animali e microrganismi, che sempre più spesso vengono sfruttate nella ricerca farmaceutica e non solo per sviluppare nuovi prodotti. Il rischio è che alcuni paesi non ricevano proventi economici derivanti dallo sfruttamento commerciale del DNA degli organismi che ospitano; è un problema che riguarda i tanti paesi poveri o in via di sviluppo che hanno nel proprio territorio una grande biodiversità.
    Un’altra questione di cui si parlerà sono i contributi finanziari con cui i paesi più ricchi hanno promesso di aiutare quelli in via di sviluppo a raggiungere i propri obiettivi. Alla COP15 del 2022 si era deciso che tali contributi dovessero ammontare ad almeno 20 miliardi di dollari annui dal 2025.

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    Il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato a causa della fusione dei ghiacciai alpini

    Caricamento playerA causa della fusione dei ghiacci nelle Alpi, il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato di alcuni metri nell’area del Plateau Rosa, uno dei più ampi pianori perennemente ghiacciati a sud-est del Cervino. Alla fine della scorsa settimana il Consiglio federale svizzero ha approvato la firma della nuova convenzione sui confini, che entrerà in vigore non appena il governo italiano farà altrettanto. Negli ultimi anni la fusione dei ghiacciai, dovuta in primo luogo al riscaldamento globale causato anche dalle attività umane, ha modificato sensibilmente la geografia dell’arco alpino rendendo sempre più necessari aggiustamenti ai confini che riguardano l’Italia.
    Per praticità e per ridurre i contenziosi, spesso i confini sono definiti dalla linea spartiacque delle montagne, cioè da come fluisce l’acqua da una parte o dall’altra di un versante creando bacini idrografici diversi e separati. Lo spartiacque alpino determina buona parte del confine tra Italia, Francia, Svizzera e Austria, con alcune eccezioni dovute a scelte politiche ed eventi storici. Uno spartiacque può essere relativamente stabile e corrispondere a un crinale di roccia esposta, oppure può essere più dinamico se corrispondente al crinale di un ghiacciaio, di un nevaio o ancora di nevi perenni.
    In questo secondo caso, la fusione e il ritiro dei ghiacci a causa del cambiamento climatico possono determinare uno spostamento dello spartiacque, che col passare del tempo può diventare di decine o centinaia di metri. Proprio per questo negli anni passati Svizzera e Italia avevano iniziato a discutere sull’opportunità di rivedere parte dei loro confini, in modo da farli corrispondere al nuovo spartiacque o trovando soluzioni tali da tutelare gli «interessi economici delle due parti».
    Lungo il confine, e soprattutto in quella zona, ci sono numerosi impianti sciistici e rifugi, che a seconda dei casi sono entro il confine italiano, quello svizzero o sostanzialmente a metà. È per esempio il caso del rifugio Guide del Cervino: una sua parte è italiana, nel comune di Valtournenche, in provincia di Aosta, e la parte rimanente è a Zermatt, in Svizzera. Queste strutture riescono comunque a lavorare senza troppi problemi, grazie alla collaborazione tra Italia e Svizzera, ma una definizione più chiara dei confini può rendere più pratica la gestione di alcune attività e soprattutto la gestione degli imprevisti, che ad alta quota spesso corrispondono a necessità di dare soccorso a sciatori e alpinisti.
    Il confronto tra governo italiano e svizzero negli anni passati aveva portato a qualche attrito, che si era comunque risolto tra il 9 e l’11 maggio del 2023 quando il Comitato per la manutenzione del confine nazionale tra Svizzera e Italia aveva discusso la ridefinizione del confine nell’area del Plateau Rosa in corrispondenza della Gobba di Rollin, che lo delimita a sud, e della Testa Grigia che lo delimita invece a ovest. Il confronto aveva anche riguardato l’area del rifugio Jean-Antoine Carrel, che si trova nel comune di Valtournenche in Valle d’Aosta. La convenzione ha richiesto diverso tempo per essere ratificata da parte della Svizzera e si è ora in attesa che il governo italiano faccia altrettanto.

    Non ci sono ancora molti dettagli, ma in diversi punti il confine sarà spostato verso l’Italia di alcune decine di metri, portando quindi la Svizzera ad avere un po’ più di territorio. Il cambiamento non dovrebbe comunque avere particolari conseguenze per le strutture costruite negli anni, come funivie e teleferiche, in uno dei comprensori sciistici più grandi e articolati delle Alpi occidentali.
    Nel 2023 i ghiacciai svizzeri hanno perso circa il 4 per cento del loro volume rispetto all’anno precedente, la seconda perdita più grande mai registrata dall’Accademia delle scienze della Svizzera (il precedente record del 6 per cento era del 2022). In alcune zone dell’arco alpino i ricercatori svizzeri hanno interrotto le misurazioni perché non ci sono più quantità di ghiaccio significative da misurare. Si prevede che a causa dell’aumento della temperatura media globale le Alpi perdano una parte rilevante dei loro ghiacciai nei prossimi decenni, cosa che porterà a nuovi cambiamenti della geografia e probabilmente a nuovi spostamenti dei confini. Oltre che con l’Italia, la Svizzera è impegnata da tempo con la Francia per ridefinire le loro aree confinanti su parte delle Alpi. LEGGI TUTTO

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    In Europa centrale alluvioni come quelle di settembre sono diventate più probabili

    Caricamento playerLe piogge intense che tra il 12 e il 15 settembre hanno causato esondazioni dei fiumi e grossi danni tra la Polonia e la Repubblica Ceca, in Austria e in Romania sono state eccezionali perché hanno interessato una regione molto vasta dell’Europa centrale. Un’analisi preliminare delle statistiche meteorologiche continentali indica che la probabilità che si verifichino fenomeni del genere è raddoppiata a causa del cambiamento climatico in atto.
    Lo studio è stato fatto dal World Weather Attribution (WWA), un gruppo di ricerca che riunisce scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo e che collaborano – a titolo gratuito – affinché ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso la comunità scientifica possa dare una risposta veloce alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?”. Nel caso delle recenti alluvioni in Europa centrale, che hanno causato la morte di 26 persone, ci sono larghi margini di incertezza ma il gruppo di ricerca ha concluso che un ruolo del cambiamento climatico ci sia.
    Il WWA, creato nel 2015 da Friederike Otto e Geert Jan van Oldenborgh, pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, gli studi del WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione da parte di altri scienziati competenti (peer review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dal WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.

    – Leggi anche: Come mai Vienna non è finita sott’acqua

    Le alluvioni di metà settembre in Europa centrale sono state causate dalla tempesta Boris che poi ha provocato esondazioni anche in alcune zone della Romagna e dell’Emilia orientale. Le misurazioni della quantità di acqua piovuta in un giorno nel corso del fenomeno hanno fatto registrare dei record in varie località. Per verificare se fosse possibile ricondurre il fenomeno al cambiamento climatico causato dalle attività umane gli scienziati del WWA hanno confrontato le misure delle precipitazioni dei giorni in cui complessivamente è piovuto di più, quelli tra il 12 e il 15 settembre, con le statistiche sulle precipitazioni massime annuali su archi di quattro giorni.
    Hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè programmi simili a quelli usati per le previsioni del tempo che mostrano quali eventi meteorologici potrebbero verificarsi in diversi scenari climatici futuri.
    Le conclusioni dello studio dicono che il cambiamento climatico non ha reso più probabili tempeste con caratteristiche generali analoghe a quelle di Boris (che sono piuttosto rare e di cui questa è stata la più intensa mai registrata), ma che in generale quattro giorni consecutivi piovosi come quelli che ci sono stati sono diventati più probabili in Europa centrale rispetto all’epoca preindustriale. Hanno anche stimato che la quantità di pioggia di tali eventi sia aumentata del 10 per cento, da allora. Secondo i modelli climatici basati su un ulteriore aumento delle temperature medie globali, di 2 °C rispetto all’epoca preindustriale invece che degli attuali 1,3 °C, in futuro sia la probabilità che l’intensità di questi eventi aumenterà ancora.
    Lo studio ricorda che comunque i danni delle alluvioni recenti sono dovuti anche allo scarso adattamento delle infrastrutture fluviali a eventi meteorologici estremi rispetto alle statistiche storiche. Tuttavia è stato anche osservato che rispetto a grandi alluvioni passate la situazione di emergenza probabilmente è stata gestita meglio: nel 2002 morirono 232 persone quando vaste aree dell’Austria, della Germania, della Repubblica Ceca, della Romania, della Slovacchia e dell’Ungheria furono interessate da un’alluvione, e nel 1997 ci furono almeno 100 morti per un’alluvione più ridotta in Germania, Polonia e Repubblica Ceca. Ancora nel luglio del 2021, la grande alluvione in Germania e Belgio causò la morte di più di 200 persone.
    In generale, la climatologia ha mostrato che il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. In certe parti del mondo inoltre è prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ad esempio ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.

    – Leggi anche: Gli abitanti di Borgo Durbecco devono rifare tutto, di nuovo LEGGI TUTTO

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    Perché è piovuto così tanto, sull’Europa e non solo

    Caricamento playerL’alluvione in Emilia-Romagna è solo uno degli effetti più recenti della tempesta Boris, che nell’ultima settimana ha causato grandi danni in vaste aree dell’Europa centrale, dalla Romania all’Austria, dove si stima siano morte circa 20 persone. Non è insolito che tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno ci siano giornate piovose, ma l’intensità delle piogge e la presenza di altre forti perturbazioni nelle settimane scorse in altre aree dell’emisfero boreale (il nostro) sono un’ulteriore indicazione di come stia cambiando il clima, soprattutto a causa del riscaldamento globale. Oltre all’intensità, le tempeste sono sempre più frequenti e ci dovremo confrontare con i loro costosi effetti, in tutti i termini.
    Attribuire con certezza un singolo evento atmosferico al riscaldamento globale non è semplice, soprattutto per l’alto numero di variabili coinvolte. I gruppi di ricerca mettono a confronto ciò che è accaduto in un determinato periodo di tempo con cosa ci si sarebbe dovuti attendere (basandosi sulle simulazioni e sui modelli riferiti ai dati delle serie storiche) e a seconda delle differenze e di altri fattori indicano quanto sia probabile che un certo evento sia dipeso dal cambiamento climatico. Questi studi di attribuzione richiedono tempo per essere effettuati e non sono quindi ancora disponibili per Boris, ma le caratteristiche della tempesta rispetto a quanto osservato in passato e la presenza di altre grandi perturbazioni tra Stati Uniti, Africa e Asia stanno già fornendo qualche indizio.
    La tempesta Boris si è per esempio formata alla fine dell’estate più calda mai registrata sulla Terra, secondo i dati raccolti dal Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa dell’osservazione satellitare e dello studio del nostro pianeta. L’estate del 2024 è stata di 0,69 °C più calda rispetto alla media del periodo 1991-2020 e ha superato di 0,03 °C il record precedente, che era stato stabilito appena l’estate precedente (il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato).
    Le temperature estive particolarmente alte hanno contribuito a produrre una maggiore evaporazione in alcune grandi masse d’acqua come il mar Mediterraneo e il mar Nero, con la produzione di fronti di aria umida provenienti da sud che si sono mescolati con l’aria a una temperatura inferiore proveniente dal Nord Europa. L’incontro tra queste masse di aria con temperatura e umidità differenti hanno favorito la produzione dei sistemi nuvolosi che hanno poi portato le grandi piogge dell’ultima settimana nell’Europa centrale e negli ultimi giorni in parte del versante adriatico dell’Italia.
    Un allagamento provocato dall’esondazione del fiume Lamone a Bagnacavallo (Fabrizio Zani/ LaPresse)
    La piogge sono state persistenti e la perturbazione si è dissipata lentamente a causa della presenza di due aree di alta pressione – solitamente associata al bel tempo – che l’hanno circondata sia a est sia a ovest, rendendo più lenti i movimenti lungo i suoi margini. Non è un fenomeno di per sé insolito, ma in questo caso particolare ha interessato un’area geografica molto ampia per diversi giorni, portando forti piogge su fiumi e laghi e saturando il terreno, con la conseguente formazione di grandi alluvioni.
    Le analisi condotte finora hanno evidenziato condizioni nell’atmosfera che hanno interessato la corrente a getto che fluisce da est a ovest. Le correnti a getto possono essere considerate come dei grandi fiumi d’aria che attraversano l’atmosfera e, proprio come i corsi d’acqua, possono produrre anse e rientranze che determinano i cambiamenti nella direzione del vento e dei movimenti delle nuvole. Grandi zone di alta e bassa pressione hanno deviato sensibilmente la corrente a getto, riducendo la mobilità di alcune masse d’aria sopra l’Europa e altre aree del nostro emisfero.

    È possibile che tra i fattori che hanno determinato questa situazione ci siano ancora una volta le alte temperature dell’estate, che hanno portato gli oceani a scaldarsi più del solito. La temperatura media della superficie marina a livello globale è stata di quasi 1 °C superiore ai valori medi di riferimento del secolo scorso (in alcune zone dell’Atlantico si sono raggiunti 2,53 °C). Gli oceani accumulano energia scaldandosi ed è poi questa ad alimentare parte dei meccanismi atmosferici che portano a perturbazioni intense e spesso persistenti.
    (NOAA)
    Uno studio di attribuzione condotto sulle alluvioni di luglio 2021 in Europa, che avevano interessato soprattutto la Germania e il Belgio, aveva per esempio concluso che il riscaldamento globale causato dalle attività umane avesse reso più probabili quegli eventi atmosferici. Anche in quel caso la tempesta si era formata soprattutto in seguito all’aria calda e umida proveniente dal Mediterraneo, che da diversi anni nella stagione calda fa registrare temperature superficiali sopra la media.
    Le maggiori conoscenze sui fenomeni di questo tipo, maturate soprattutto negli ultimi anni, hanno permesso ai governi di avere informazioni più tempestive sull’evoluzione delle condizioni atmosferiche per fare prevenzione e mettere per lo meno in sicurezza la popolazione. La vastità delle alluvioni in Europa ha comportato una quantità relativamente ridotta di incidenti mortali, ma lo stesso non è avvenuto in Africa dove almeno mille persone sono morte nelle ultime settimane a causa delle forti piogge e delle alluvioni.
    Nell’Africa centrale e occidentale ci sono circa 3 milioni di sfollati a causa di una stagione delle piogge molto più intensa del solito, che secondo alcune previsioni porterà cinque volte la quantità di piogge che cadono in media a settembre nell’area. In questo caso il probabile nesso è con il progressivo aumento della temperatura media nel Sahel, l’ampia fascia di territorio che si estende da nord a sud tra il deserto del Sahara e la savana sudanese, e da ovest a est dall’oceano Atlantico al mar Rosso. Le alluvioni hanno interessato finora 14 paesi, causando grandi danni soprattutto alle piantagioni e peggiorando le condizioni già difficili di approvvigionamento di cibo per le popolazioni locali.
    Il Sahel, evidenziato in azzurro (Flockedereisbaer via Wikimedia)
    Lungo la costa orientale degli Stati Uniti forti piogge a inizio settimana hanno causato alluvioni e danni tra North Carolina e South Carolina. In alcune zone sono caduti 45 centimetri di pioggia in appena 12 ore, secondo le prime rilevazioni, che se confermate porterebbero a uno degli eventi atmosferici più estremi per quelle zone degli ultimi secoli. Le piogge sono state causate da una perturbazione che si era formata sull’Atlantico, ma senza energia sufficiente per diventare un uragano.
    Nelle ultime settimane anche in Asia ci sono state forti piogge, con un tifone che ha portato forti venti e temporali a Shanghai all’inizio della settimana, tali da rendere necessaria la sospensione dei voli aerei e l’interruzione di varie linee di servizio del trasporto pubblico in un’area metropolitana in cui vivono circa 25 milioni di persone. In precedenza c’erano state altre forti tempeste su parte della Cina, del Giappone e del Vietnam, con alluvioni, grandi danni e decine di morti.
    Naturalmente questi eventi atmosferici hanno avuto caratteristiche ed evoluzioni diverse e non sono strettamente legati l’uno all’altro, anche perché riguardano luoghi distanti tra loro e con differenti caratteristiche geografiche. In molte zone dell’emisfero boreale il passaggio dall’estate all’autunno è da sempre caratterizzato da tempeste, uragani e tifoni, ma le serie storiche e i dati raccolti indicano una maggiore frequenza di eventi estremi e con forti conseguenze per la popolazione.
    I modelli basati anche su quei dati indicano un aumento dei fenomeni di questo tipo, ma gli eventi atmosferici che si sono verificati negli ultimi anni hanno superato alcuni dei modelli più pessimistici rivelandosi quindi più estremi del previsto. La temperatura media globale è del resto di 1,29 °C superiore rispetto al periodo preindustriale, quando con le attività umane si immettevano molti meno gas serra rispetto a quanto avvenga oggi. Se questa tendenza dovesse mantenersi, e al momento non ci sono elementi per ritenere il contrario, entro la fine del 2032 si potrebbe raggiungere la soglia degli 1,5 °C decisi dall’Accordo di Parigi come limite massimo per evitare conseguenze ancora più catastrofiche legate al riscaldamento globale.
    (Copernicus)
    Già nel 2021 il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite aveva segnalato in un proprio rapporto che: «L’impatto umano, in particolare legato alla produzione di gas serra, è probabilmente il principale fattore dell’intensificazione osservata su scala globale delle precipitazioni intense al suolo». Oltre a mostrare i primi indizi concreti sull’influenza delle attività umane per la maggiore intensificazione delle precipitazioni su Europa, Asia e Nordamerica, il rapporto aveva segnalato che le «precipitazioni diventeranno in genere più frequenti e più intense all’aumentare del riscaldamento globale». LEGGI TUTTO

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    Come facciamo a calcolare la temperatura media della Terra

    Negli ultimi anni sono stati costantemente superati record di temperatura massima di vario genere: oltre alle temperature più alte mai misurate in specifiche località di varie parti del mondo, escono spesso nuovi dati che ci dicono ad esempio che un certo mese di aprile o un certo mese di giugno, o l’anno scorso, sono stati i più caldi mai registrati tenendo conto delle temperature medie mondiali. A queste notizie ci siamo forse abituati, ma forse non tutti sanno in che modo vengono calcolate le temperature medie dell’intero pianeta, una cosa tutt’altro che semplice.Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, spesso intervistato dal Post e su Tienimi Bordone, spiega come si fa nel suo libro uscito da poco, Ha sempre fatto caldo! E altre comode bugie sul cambiamento climatico, che con uno stile divulgativo rispiega vari aspetti non banali del cambiamento climatico e smonta le obiezioni di chi nega che stia accadendo – o che sia causato dall’umanità. Pubblichiamo un estratto del libro.
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    L’essere umano si è evoluto insieme alla sua più grande ossessione: misurare e quantificare qualsiasi cosa, dalle particelle subatomiche, i quark e i leptoni (10-18 metri), all’intero universo osservabile, il cui diametro è calcolato in 94 miliardi di anni luce. Si tratta di misurazioni precise e molto attendibili, alle quali si arriva attraverso l’uso di supertelescopi, come il James Webb, e di acceleratori di particelle. Cosa volete che sia, quindi, per un animale intelligente come l’uomo, nel fantascientifico 2024, ottenere una stima attendibile e verificabile della temperatura terrestre?
    Effettivamente è ormai un processo consolidato e routinario, quasi “banale” rispetto ad altri tipi di misurazioni dalle quali dipendono centinaia di processi e attività che la maggior parte di noi ignora. Ma come funziona?
    Partiamo dalla base: la rilevazione del dato termico, demandata alle mitiche stazioni meteorologiche, meglio note come centraline meteo. Queste sono disseminate su tutto il globo, sebbene la loro densità vari molto da zona a zona. In Europa e in Nord America, ad esempio, il numero di stazioni meteorologiche attive è più elevato che in altre aree, sebbene ormai la copertura risulti ottimale su quasi tutte le terre emerse.
    Quando parliamo di “stazioni meteorologiche”, infatti, ci riferiamo alle centraline che registrano temperatura e altri parametri meteorologici nelle zone continentali, mentre quelle relative ai mari utilizzano strumenti differenti e più variegati.
    I dati meteorologici su terra provengono da diversi network di stazioni, il più importante dei quali, in termini numerici, è il GHCN (Global Historical Climatology Network) della NOAA che conta circa 100.000 serie termometriche provenienti da altrettante stazioni; ognuna di esse copre diversi periodi temporali, cioè non tutte iniziano e finiscono lo stesso anno. La lunghezza delle varie serie storiche, infatti, può variare da 1 a 175 anni. Di queste 100.000 stazioni meteorologiche, oltre 20.000 contribuiscono alle osservazioni quotidiane in tempo reale; il dato raddoppia (40.000) nel caso del network della Berkeley Earth. Alla NOAA e alla Berkeley Earth si aggiungono altre reti di osservazione globale, quali il GISTEMP della NASA, il JMA giapponese, e l’HadCRUT dell’Hadley Center-University of East Anglia (UK).
    Oltre ai cinque principali network citati si aggiungono le innumerevoli reti regionali e nazionali i cui dati contribuiscono ad alimentare il flusso quotidiano diretto verso i centri globali.
    Le rilevazioni a terra, però, sono soltanto una parte delle osservazioni necessarie per ricostruire la temperatura del nostro pianeta, a queste infatti va aggiunta la componente marina, che rappresenta due terzi dell’intera superficie del mondo.
    I valori termici (e non solo) di tutti gli oceani e i mari vengono rilevati ogni giorno grazie a una capillare e fitta rete di osservazione composta da navi commerciali, navi oceanografiche, navi militari, navi faro (light ships), stazioni a costa, boe stazionarie e boe mobili.
    Parliamo, come facilmente intuibile, di decine di migliaia di rilevazioni in tempo reale che vanno ad alimentare diversi database, il più importante dei quali è l’ICOADS (International Comprehensive Ocean-Atmosphere Data Set). Quest’ultimo è il frutto della collaborazione tra numerosi centri di ricerca e monitoraggio internazionali (NOC, NOAA, CIRES, CEN, DWD e UCAR). Tutti rintracciabili e consultabili sul web. I dati raccolti vengono utilizzati per ricostruire lo stato termico superficiale dei mari che, unito a quello delle terre emerse, fornisce un valore globale univoco e indica un eventuale scarto rispetto a uno specifico periodo climatico di riferimento.
    Come nel caso delle stazioni a terra, anche per le rilevazioni marine esistono numerosi servizi nazionali e regionali. Tra gli strumenti più moderni ed efficaci per il monitoraggio dello stato termico del mare vanno citati i galleggianti del progetto ARGO. Si tratta di una collaborazione internazionale alla quale partecipano 30 nazioni con quasi 4000 galleggianti di ultima generazione. Questi ultimi sono progettati per effettuare screening verticali delle acque oceaniche e marine fino a 2000 metri di profondità; la loro distribuzione è globale ed essi forniscono 12.000 profili ogni mese (400 al giorno) trasmettendoli ai satelliti e ai centri di elaborazione. I parametri rilevati dai sensori includono, oltre alla temperatura alle diverse profondità, anche salinità, indicatori biologici, chimici e fisici.
    I dati raccolti da ARGO contribuiscono ad alimentare i database oceanici che vanno a completare, insieme alle osservazioni a terra, lo stato termico del pianeta.Ma cosa avviene all’interno di questi mastodontici database che, tra le altre cose, sono indispensabili per lo sviluppo dei modelli meteorologici? Nonostante la copertura di stazioni meteorologiche e marine sia ormai capillare, restano alcune aree meno monitorate, come ad esempio l’Antartide o alcune porzioni del continente africano; in questi casi si ricorre alla tecnica dell’interpolazione spaziale, che, in estrema sintesi, utilizza punti aventi valori noti (in questo caso di temperatura) per stimare quelli di altri punti. La superficie interpolata è chiamata “superficie statistica” e il metodo risulta un valido strumento anche per precipitazioni e accumulo nevoso, sebbene quest’ultimo sia ormai appannaggio dei satelliti.
    Oltre all’interpolazione si utilizza anche la tecnica della omogeneizzazione, che serve per eliminare l’influenza di alterazioni di rilevamento che possono subire le stazioni meteorologiche nel corso del tempo, tra le quali lo spostamento della centralina o la sua sostituzione con strumentazione più moderna. Ovviamente, dietro queste due tecniche, frutto della necessità di ottenere valori il più possibile corretti e attendibili, esiste un universo statistico molto complesso, che per gentilezza vi risparmio.
    Tornando a monte del processo, vale a dire allo strumento che rileva il dato, si incappa nel più classico dei dubbi: ma la misurazione è attendibile? Se il valore di partenza è viziato da problemi strumentali o di posizionamento, ecco che tutto il processo va a farsi benedire.
    Per quanto sia semplice insinuare dubbi sull’osservazione, è bene sapere che tutte le centraline meteorologiche ufficiali devono soddisfare i requisiti imposti dall’Organizzazione Mondiale della Meteorologia e che il dato fornito deve sottostare al “controllo qualità”.
    Se il signor Tupato da Castelpippolo in Castagnaccio [nota: Tupato in lingua maori significa “diffidente”] asserisce che le rilevazioni termiche in città sono condizionate dall’isola di calore e quindi inattendibili, deve sapere che questa cosa è nota al mondo scientifico da decenni e che, nonostante la sua influenza a livello globale sia pressoché insignificante, vi sono stati posti rimedi molto efficaci.
    Partiamo dall’impatto delle isole di calore urbano sulle serie storiche di temperatura. Numerosi studi scientifici (disponibili e consultabili online da chiunque, compreso il signor Tupato) descrivono le tecniche più note per la rimozione del segnale di riscaldamento cittadino dalle osservazioni. Tra queste, il confronto tra la serie termica di una località urbana e quella di una vicina località rurale; l’eventuale surplus termico della serie relativa alla città viene rimosso, semplicemente.Un altro metodo è quello di dividere le varie città in categorie legate alla densità di popolazione e correggere lo scostamento termico di quelle più popolate con le serie di quelle più piccole.
    In alcuni casi si è ricorso alla rilocalizzazione in aree rurali limitrofe delle stazioni meteorologiche troppo condizionate dall’isola di calore urbana, in questo caso il correttivo viene applicato dopo almeno un anno di confronto tra il vecchio e il nuovo sito.
    Poiché gli scienziologi del clima sono fondamentalmente dei maniaci della purezza dei dati e sono soliti mangiare pane e regressioni lineari, negli ultimi anni l’influenza delle isole di calore urbane viene rimossa anche attraverso l’utilizzo dei satelliti (con una tecnica chiamata remote sensing). Insomma, una faticaccia, alla quale si aggiunge anche il controllo, per lo più automatico, della presenza di errori sistematici o di comunicazione nei processi di osservazione e trasferimento dei dati rilevati.
    Tutto questo sforzo statistico e computazionale viene profuso per rimuovere il contributo delle isole di calore urbane dalle tendenze di temperatura globale che, all’atto pratico, è praticamente nullo. L’impatto complessivo delle rilevazioni provenienti da località urbane che alimentano i dataset globali è, infatti, insignificante, in quanto la maggior parte delle osservazioni su terra è esterna all’influenza delle isole di calore e si somma alla mole di dati provenienti da mari e oceani che coprono, lo ricordo, due terzi della superficie del pianeta.Quindi, anche senza la rimozione del segnale descritta in precedenza, l’influenza delle isole di calore urbane sulla temperatura globale sarebbe comunque modestissima. Se poi il signor Tupato vuol confrontare l’andamento delle curve termiche nel tempo noterà che non ci sono sostanziali differenze tra località rurali e località urbane: la tendenza all’aumento nel corso degli anni è ben visibile e netta in entrambe le categorie.
    Infine, l’aumento delle temperature dal 1880 a oggi è stato maggiore in zone scarsamente urbanizzate e popolate come Polo Nord, Alaska, Canada settentrionale, Russia e Mongolia, mentre è risultato minore in zone densamente abitate come la penisola indiana.
    Ecco che tutto questo ragionamento si conclude con un’inversione del paradigma: l’isola di calore urbana non ha alcun impatto sull’aumento della temperatura globale, ma l’aumento della temperatura globale amplifica l’isola di calore urbana. Durante le ondate di calore, infatti, le città possono diventare molto opprimenti, non tanto di giorno, quanto piuttosto nelle ore serali e notturne, quando la dispersione termica rispetto alle zone rurali risulta molto minore. La scarsa presenza di verde e le numerose superfici assorbenti rallentano notevolmente il raffreddamento notturno, allungando così la durata del periodo caratterizzato da disagio termico. Nelle zone di campagna o semirurali, al contrario, per quanto alta la temperatura massima possa essere, l’irraggiamento notturno è comunque tale da garantire almeno alcune ore di comfort.
    © 2024 Aboca S.p.A. Società Agricola, Sansepolcro (Ar)
    Giulio Betti presenterà Ha sempre fatto caldo! a Milano, insieme a Matteo Bordone, il 16 novembre alle 16, alla Centrale dell’Acqua, in occasione di Bookcity. LEGGI TUTTO

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    La statistica falsa sull’80% della biodiversità protetta dagli indigeni

    Caricamento playerChi si interessa di ambiente potrebbe aver sentito dire che l’80 per cento della biodiversità del pianeta si trova nelle terre abitate dalle popolazioni indigene, che secondo le stime più diffuse comprendono oltre 370 milioni di persone in circa 70 paesi. Negli ultimi vent’anni questa statistica è circolata sia su pubblicazioni autorevoli che tra i gruppi ambientalisti e sui media, ma in base a uno studio pubblicato a inizio settembre sulla rivista Nature è sbagliata. Per quanto sia sicuro che le popolazioni indigene abbiano un ruolo essenziale nella tutela degli ecosistemi naturali, non ci sono prove scientifiche che sostengono quella statistica, che peraltro è di per sé problematica: la biodiversità infatti non è qualcosa che si possa quantificare con precisione.
    Lo studio è stato realizzato da tredici scienziati provenienti principalmente dall’Università autonoma di Barcellona e dall’Università australiana Charles Darwin, tre dei quali si identificano come persone indigene. Il gruppo ha usato le piattaforme Google Scholar e Web of Science per individuare i testi in cui comparivano le parole “indigeni”, “80 per cento” e “biodiversità”, oppure loro variazioni, come “ottanta per cento” o “diversità biologica”: ha così trovato 384 risultati che hanno formulazioni leggermente diverse dello stesso concetto, tra cui 186 articoli scientifici rivisti da altri esperti con la cosiddetta peer review e pubblicati anche su riviste molto prestigiose, come The Lancet e la stessa Nature.
    Il primo riferimento riscontrato dai ricercatori risale al 2002, quando la Commissione dell’ONU per lo sviluppo sostenibile diceva che le popolazioni indigene «si prendevano cura dell’80 per cento della biodiversità del mondo nelle terre e nei territori ancestrali». Da allora la statistica è stata usata in moltissime occasioni per sottolineare il ruolo delle popolazioni indigene nella conservazione dell’ambiente e come potrebbe essere preso a modello, per esempio in un rapporto del 2009 della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. È circolata così tanto e su fonti così autorevoli che nel 2020 la piattaforma online di fact checking Gigafact l’ha “dichiarata” vera; nel 2022 l’ha citata anche il noto regista James Cameron per pubblicizzare Avatar – La via dell’acqua, che come il primo film del 2009 parla di una civiltà di umanoidi blu in perfetta simbiosi con la natura.
    Il leader indigeno Raoni Metuktire in posa per una foto a Belem, nello stato brasiliano di Pará, il 5 agosto del 2023 (REUTERS/ Ueslei Marcelino)
    Stephen Garnett e Álvaro Fernández-Llamazares, due degli autori, hanno spiegato in un articolo pubblicato su The Conversation che la statistica sembra derivare da interpretazioni errate di studi precedenti, oppure ancora da sintesi affrettate. In base alle analisi dei ricercatori l’affermazione cominciò a diffondersi in particolare dopo la pubblicazione di un rapporto della Banca Mondiale nel 2008. Il fatto è che la fonte citata dalla Banca Mondiale è una pubblicazione del 2005 di un’organizzazione non profit di Washington DC (World Resources Institute), in cui però si parlava di sette popolazioni indigene delle Filippine che «gestivano oltre l’80 per cento della biodiversità originale» di una foresta.
    La fonte del rapporto della FAO invece non è chiara, ma sempre secondo lo studio potrebbe arrivare dall’edizione del 2001 dell’Enciclopedia della Biodiversità, dove comunque si diceva una cosa diversa: cioè che «quasi l’80 per cento delle regioni naturali terrestri è abitato da una o più popolazioni indigene», e non che «circa l’80 per cento della biodiversità restante sul pianeta si trova nei territori delle popolazioni indigene», come detto dalla FAO. In ogni caso quando la statistica comparve per la prima volta la superficie delle terre e delle acque di pertinenza delle popolazioni indigene non era ancora stata mappata, e per questo non sarebbe stato possibile determinare nemmeno quale percentuale di biodiversità contenesse.
    Un grafico dei testi che citano la statistica in base ai dati raccolti nello studio (dal sito di Nature)
    Per gli scienziati dire che l’80 per cento della biodiversità si trova nei territori delle popolazioni indigene non ha comunque basi scientifiche perché si parte da due presupposti sbagliati, ovvero che la biodiversità si possa suddividere in singole unità misurabili e che queste unità si possano mappare con precisione. Nessuna delle due cose però si può definire in maniera accurata.
    Intanto la Convenzione sulla diversità biologica – cioè il trattato per lo sviluppo di strategie per la tutela dell’ambiente firmato da quasi 200 paesi nel 1992 – definisce la biodiversità come le diversità nell’ambito delle specie, tra le specie e tra gli ecosistemi, quindi è difficile da descrivere con criteri univoci. In più anche i tentativi di definire la biodiversità in base alla quantità di specie presenti e di loro individui sono per necessità delle approssimazioni.
    Come ha spiegato al Guardian Erle Ellis, scienziato ambientale all’Università del Maryland, i modelli statistici impiegati per descrivere un fenomeno in biologia sono utili ma non affidabili, soprattutto su ampia scala. Gli autori dello studio di Nature ricordano inoltre che le informazioni sulla quantità e sulla distribuzione geografica delle specie sono necessariamente incomplete, visto che moltissime non sono ancora state studiate e descritte: quelle relative ai territori abitati dalle popolazioni indigene, remoti se non inesplorati, lo sono a maggior ragione.

    – Leggi anche: Non è facile capirsi su chi siano gli “indigeni”

    Lo studio ha richiesto cinque anni di lavoro ed è stato svolto anche attraverso discussioni negli eventi dedicati al tema e ricerche sul campo. I leader di alcune popolazioni indigene sentiti dai ricercatori hanno confermato di non avere prove a sostegno di questa statistica, mentre altri ne hanno preso le distanze. Solo due dei testi esaminati la mettevano in dubbio, dicono i ricercatori: uno di questi era una pubblicazione del Consorzio ICCA, un’organizzazione internazionale che promuove il riconoscimento dei territori delle popolazioni indigene e delle comunità locali.
    Secondo Garnett e Fernández-Llamazares ci sono «ampie prove per dire che le popolazioni indigene e i loro territori sono essenziali per la biodiversità del mondo», ma «la reale portata del loro contributo non può essere quantificata in un solo numero». A detta dei ricercatori l’affermazione sull’80 per cento rischia non solo di vanificare la solidità degli studi scientifici, ma anche di danneggiare l’obiettivo per cui viene citata, ovvero comprendere e sostenere le conoscenze dei popoli indigeni sul tema della conservazione della biodiversità e tutelare i loro diritti.
    Per valutare l’impatto delle popolazioni indigene nella tutela della biodiversità in un certo ecosistema o in una certa regione, serve anche e soprattutto prendere in considerazione le relazioni culturali, storiche e sociali stabilite tra i popoli indigeni e l’ambiente circostante, dicono i ricercatori: e questo può avvenire solo riconoscendo i loro territori e le loro comunità, coinvolgendoli nei processi decisionali e finanziando prima di tutto le loro iniziative.
    Sempre a detta di Garnett e Fernández-Llamazares citare una statistica sbagliata, al contrario, può implicare il rischio di snobbare gli appelli delle popolazioni indigene in tema di ambiente e lasciar sottendere che la conoscenza sui loro territori sia completa ed esaustiva, quando non lo è. Inoltre, come è successo a un evento internazionale a cui hanno partecipato i ricercatori, le espone a critiche sulla qualità della loro gestione da parte di chi collega il fatto che tutelerebbero una percentuale elevatissima di biodiversità al declino di molte specie.

    – Leggi anche: L’importanza dell’erba alta LEGGI TUTTO

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    In Austria centinaia di rondini sono morte per il maltempo e il freddo

    Caricamento playerIn Austria il maltempo e l’abbassamento delle temperature legati alla tempesta Boris hanno fatto danni anche tra gli uccelli migratori che si trovavano ancora nel paese, in particolare le rondini: sia a Vienna che in altre località sono state trovate centinaia di uccelli morti. Il freddo improvviso e i venti provenienti da sud li hanno bloccati a nord delle Alpi, poi le piogge intense e prolungate li hanno indeboliti, perché non hanno consentito loro di mangiare. Le diverse specie di rondini infatti mangiano gli insetti che catturano in volo e durante i temporali più forti non riescono a volare e non possono trovarne.

    L’organizzazione Tierschutz Austria, che si occupa di protezione degli animali, sta cercando di soccorrere quante più rondini possibili e attraverso i propri canali sui social network ha invitato chiunque abbia recuperato rondini cadute a terra a portarle alla propria sede per ospitarle in condizioni che ne permettano la sopravvivenza. La specie più interessata è il balestruccio (Delichon urbicum), che sverna in Africa a sud del deserto del Sahara; le rondini comuni (Hirundo rustica) infatti avevano già cominciato la migrazione, ha detto Stephan Scheidl di Tierschutz Austria a ORF News, il sito di notizie della radiotelevisione pubblica.
    Nelle condizioni di maltempo molte rondini si radunano sotto i tetti o i cornicioni dei palazzi nel tentativo di scaldarsi stando vicine, per questo gli uccelli morti sono stati spesso trovati vicini. Alcuni non sono riusciti a ripararsi a causa dei dissuasori per piccioni usati nelle città.

    In passato era già successo che delle condizioni meteorologiche simili a quelle di questi giorni impedissero alle rondini di migrare. Nel 1974 per cercare di salvare la vita a centinaia di rondini la NABU, un’organizzazione tedesca analoga alla LIPU, ne organizzò il trasporto in treno e su un aereo di linea Lufthansa, ma solo pochi uccelli sopravvissero.
    La tempesta Boris ha causato alluvioni in vari paesi dell’Europa centrale – Romania, Polonia, Repubblica Ceca e Austria – e la morte di almeno 15 persone. Per quanto riguarda le rondini non esiste al momento una stima precisa di quante siano morte. LEGGI TUTTO