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    Dove finisce la chimica?

    Caricamento playerAlla fine del 2015 l’Unione internazionale di chimica pura e applicata (IUPAC) introdusse un importante aggiornamento della tavola periodica degli elementi, lo schema che mostra gli elementi chimici in base alle loro principali caratteristiche. I responsabili della IUPAC aggiunsero nihonio, moscovio, tennesso e oganesson, completando per la prima volta la settima riga (“periodo”) della tavola. Erano quattro nuovi elementi “superpesanti” scoperti e sintetizzati negli anni precedenti da laboratori alla ricerca della risposta a una delle domande più affascinanti e sfuggenti di sempre, con grandi implicazioni sulla nostra capacità di comprendere come funziona praticamente tutto: dove finisce la chimica?
    Negli anni se lo sono chiesto in molti, ma già oltre un secolo e mezzo fa la questione aveva probabilmente incuriosito Dmitrij Ivanovič Mendeleev, il chimico russo che trovò il modo di ordinare ossigeno, carbonio, ferro e tutti gli altri elementi scoperti – e ancora da scoprire – in una tabella per poterli classificare. Una prima versione del suo schema fu presentata nei primi mesi del 1869, mettendo le basi per lo studio e la ricerca di elementi all’epoca ancora ignoti che avrebbero permesso di riempire le caselle mancanti. In alcuni casi fu necessario più di un secolo per riuscirci, mentre già si ipotizzava che ci potessero essere ancora altri elementi che avrebbero resa necessaria l’aggiunta di nuove caselle nella tavola di Mendeleev.
    Nella tavola periodica, quella che studiano ogni anno milioni di studenti delle scuole superiori, le righe si chiamano periodi e ciascuno ospita gli elementi in una sequenza basata sul loro numero atomico, che indica la quantità di protoni contenuti nel nucleo (la parte centrale e densa di un atomo, formata da protoni che possiedono carica positiva e neutroni, invece privi di carica).
    Ogni nuovo periodo inizia dopo un gas nobile e il primo elemento è sempre un metallo alcalino, con un numero atomico più grande di un’unità rispetto all’elemento con cui si era conclusa la riga precedente. Nei sette periodi della tavola, i metalli sono sulla sinistra e gli altri tipi di elementi sulla destra. Ne consegue che man mano che ci si sposta lungo una riga verso destra si trovano elementi via via più pesanti, con caratteristiche differenti da metallo a gas.
    (Wikimedia)
    Se si legge la tavola in verticale, le colonne (gruppi o famiglie) contengono elementi con caratteristiche chimiche simili. Hanno per esempio una stessa configurazione elettronica esterna, cioè elettroni che si comportano allo stesso modo attorno ai nuclei dei loro atomi. Esistono 18 gruppi e si va da quello dei metalli alcalini fino a quello dei gas nobili.
    Gli elementi con numero atomico da 1 a 118 occupano i sette periodi della tavola periodica, ma come abbiamo visto non è sempre stato così. Per lungo tempo la tavola ebbe alcuni buchi, dovuti alla difficoltà di trovare in natura gli elementi che ci si attendeva di avere tra una casella e un’altra, o alla difficoltà di sintetizzarli nel caso in cui fosse impossibile reperirli nell’ambiente. Per questo si dice spesso che i primi 94 elementi sono tutti “naturali”, mentre quelli da 95 a 118 vengono definiti talvolta “artificiali” o “sintetici”, anche se la distinzione e la definizione sono dibattute.
    In questa ultima categoria ricadono anche gli elementi superpesanti, a partire dal rutherfordio che ha numero atomico 104. La loro caratteristica principale è quella di essere piuttosto schivi, al punto da preferire quasi sempre di non esistere o di farlo per pochissimo tempo. I nuclei dei loro atomi tendono a perdere pezzi, o per meglio dire a decadere, in alcuni casi pochi istanti dopo la loro creazione. Per questo è così difficile crearli, studiarli e immaginare applicazioni in cui potrebbero essere utili, per lo meno allo stato attuale delle conoscenze.
    Le fabbriche degli elementi superpesanti sono relativamente poche perché richiedono particolari acceleratori di particelle: sofisticati strumenti che vengono utilizzati per far scontrare tra loro gli atomi in modo che si uniscano producendo un elemento più pesante. Tra i vari centri, il Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL) in California è probabilmente il più conosciuto, per lo meno per una delle tante dispute che hanno riguardato la storia della chimica. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il laboratorio confermò di avere sintetizzato per la prima volta il rutherfordio, anche se un altro laboratorio nell’Unione Sovietica, l’Istituto unito per la ricerca nucleare di Dubna (JINR), anni prima aveva segnalato la prima rivelazione del nuovo elemento.
    Parte dell’Electron Cyclotron Resonance presso il Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab)
    La disputa nacque intorno al nome da dare, visto che i ricercatori sovietici proponevano di chiamarlo dubnio come la città in cui era avvenuta la scoperta o kurchatovio in onore di Igor Kurchatov, tra i principali fautori del programma di ricerca nucleare sovietico. La controversia fu risolta solamente nel 1997, quando la IUPAC decise di adottare il nome rutherfordio, in onore di Ernest Rutherford, il fisico neozelandese considerato il padre della fisica nucleare.
    Ancora oggi l’LBNL negli Stati Uniti e il JINR in Russia sono i centri di riferimento per la ricerca dei nuovi elementi, insieme alla Società per la ricerca sugli ioni pesanti a Darmstadt in Germania. Dagli anni Ottanta in particolare, i tre centri si sarebbero fatti una serrata concorrenza nella ricerca e nella produzione di nuovi elementi. Nel corso del tempo alla competizione si sarebbero aggiunti altri laboratori, che ancora oggi studiano il mondo sfuggente degli elementi superpesanti con un obiettivo molto ambizioso: trovare nuovi elementi che siano stabili, al punto da durare anni se non secoli prima di decadere in modo significativo.
    Per produrre uno di questi elementi si parte da un fascio di ioni pesanti (solitamente nuclei di atomi privati dei loro elettroni) che viene orientato verso un bersaglio, cercando di vincere la forza di repulsione tra i nuclei (sono entrambi positivi) e di farli unire. A seconda dei laboratori e dei risultati che si vogliono ottenere si seguono vari approcci con strumentazioni ed elementi diversi. Si usano microonde e campi magnetici molto intensi per rimuovere gli elettroni dall’elemento di partenza (spesso si usa il calcio) e gli ioni ottenuti vengono poi fatti passare attraverso un acceleratore, in modo che raggiungano velocità pari al 5-20 per cento di quella della luce, che è di circa 300 milioni di metri al secondo.
    Raggiunta la velocità desiderata, il fascio di ioni viene indirizzato verso il bersaglio, costituito da un elemento diverso a seconda del numero atomico finale che si sta provando a ottenere. Per ottenerne uno pari a 114 si parte dal calcio che ha numero atomico 20 e si usa come bersaglio il plutonio che ha invece numero atomico 94. Fare centro è però molto difficile e per questo si utilizzano enormi quantità di ioni in modo da rendere più probabile una collisione. Quando si riesce a ottenere un nucleo superpesante, questo viene rallentato e guidato in altri strumenti per essere misurato: è il momento in cui si ha la conferma di avere ottenuto un risultato.

    La misurazione finale non è semplice, così come la possibilità di poter fare qualcosa prima del decadimento dell’elemento appena ottenuto. In breve tempo infatti questi nuclei atomici instabili si trasformano (o per meglio dire “trasmutano”) in nuclei di energia inferiore; il riferimento è il tempo di dimezzamento, cioè quanto ci mette la metà degli atomi di un campione radioattivo a decadere. Nel caso di diversi superelementi, per riuscire a sperimentare e studiare reazioni chimiche con altri elementi è necessario almeno un tempo di dimezzamento di mezzo secondo.
    La difficoltà nel produrli e in molti casi il poco tempo per fare esperimenti spiega come mai sappiamo ancora poche cose su molti elementi superpesanti, al punto da non essere certi della loro classificazione nella tavola periodica, o per meglio dire della possibilità di continuare a utilizzare la tabella come prima. L’oganesson (118) è nella posizione dei gas nobili, l’ultima colonna a destra, ma secondo alcuni gruppi di ricerca probabilmente non è un gas. Ipotizzano che sia un solido in condizioni standard e che diventi un liquido quando viene portato a 52 °C.
    Il particolare comportamento di questi metalli è dovuto al modo in cui si distribuiscono gli elettroni nei loro atomi e al modo in cui interagiscono, raggiungendo altissime velocità quasi prossime a quelle della luce. In queste condizioni si verificano effetti relativistici che hanno conseguenze più importanti rispetto a quelli che si verificano negli elementi più leggeri. Studiandoli i gruppi di ricerca hanno l’opportunità di capire meglio il funzionamento di alcuni fenomeni nella fisica dell’infinitamente piccolo, che potrebbero poi essere applicati in altri ambiti della ricerca sulla materia, le sue caratteristiche e il suo funzionamento.
    I più ottimisti pensano inoltre che procedendo con questi esperimenti si possa approdare un giorno all’”isola della stabilità“, un modo per definire il luogo dove idealmente si trovano versioni (isotopi) di elementi transuranici particolarmente stabili e che quindi decadono molto lentamente rispetto ai tempi finora osservati. In questo modo potrebbero diventare utilizzabili non solo per ricerche più approfondite, ma anche per lo sviluppo di qualcosa che oggi non riusciamo a immaginare come materiali con insolite proprietà.
    La ricerca di base funziona del resto in questo modo, come ha ammesso di recente a Scientific American Jacklyn Gates, responsabile del gruppo di ricerca sugli elementi pesanti a Berkeley: «Tutto ciò che facciamo ora… non ha applicazioni pratiche. Ma se pensi ai nostri telefoni cellulari e a tutte le tecnologie che ci sono finite dentro, beh quelle tecnologie risalgono fino all’età del bronzo. Le persone all’epoca non avevano certo idea che la loro scoperta sarebbe finita in questi dispositivi cui siamo sempre incollati e dai quali siamo fortemente dipendenti. Quindi gli elementi superpesanti possono essere utili? Forse non in questa generazione, ma magari tra una o due potremo disporre di migliori tecnologie che ci rendano le cose e la vita un poco più semplici». LEGGI TUTTO

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    Fisica minima di Jenga

    Caricamento playerNel gennaio di 40 anni fa l’inventrice di giochi britannica Leslie Ann Scott portò alla London Toy Fair, una delle più importanti fiere di giocattoli al mondo, alcuni blocchetti di legno da impilare l’uno sull’altro costruendo una torre alquanto precaria. Quell’insieme di legnetti era una delle primissime versioni di Jenga, uno dei giochi da tavolo più conosciuti al mondo. Da allora ne sono stati venduti quasi 100 milioni di scatole, solo considerando le edizioni ufficiali, e il gioco tutto sommato semplice continua ad appassionare vecchie e nuove generazioni.Jenga deriva dalla parola kujenga, che significa “costruire” in swahili, la lingua ufficiale di alcuni stati africani come Tanzania, Kenya, Uganda e Ruanda. L’idea del gioco era un’evoluzione di un passatempo della famiglia di Scott, iniziato negli anni Settanta con alcuni semplici blocchetti di legno.La versione classica del gioco comprende 54 blocchi di legno, che formano una torre iniziale di 18 piani, quindi con tre blocchi per ogni piano. A turno, ogni giocatore deve togliere un blocco dalla torre e posizionarlo sulla sua sommità, utilizzando solamente una mano.Ne consegue che a ogni turno la torre diventa via via meno stabile, fino a quando non crolla. Il giocatore che fa cadere la torre oltre a perdere determina il vincitore, cioè il giocatore che lo ha preceduto e che era riuscito a far rimanere in piedi la pila di blocchi.Il fascino di Jenga deriva in parte dalle numerose conformazioni che può assumere la torre, visto l’alto numero di combinazioni possibili nella sottrazione dei pezzi per costruire i nuovi piani. Alcuni vincono soprattutto di destrezza, mentre altri provano a farsi un’idea delle forze in gioco, provando strategie a volte più stravaganti e che non sempre funzionano a dovere.Le variabili durante una partita sono molte, ma ci sono comunque alcuni punti fermi. Quando si prova a rimuovere un blocco, si devono fare i conti con la forza di gravità, la forza normale e con l’attrito. Come intuibile, la forza di gravità tende ad attrarre verso il basso i blocchi, ed è in fin dei conti la principale responsabile della vittoria di un giocatore e della sconfitta di tutti gli altri. La forza normale bilancia quella di gravità ed è sostanzialmente quella esercitata dal piano di appoggio per i blocchi alla base della torre, che a loro volta la esercitano sul piano seguente e così via (“normale” in questo caso è inteso come “ortogonale/verticale”).La forza di attrito è quella che si oppone al movimento dei blocchi di legno, relativamente alla superficie con cui sono a contatto. Le sue caratteristiche variano non solo a seconda delle altre forze, ma anche dal modo stesso in cui sono fatte le varie superfici a contatto.I blocchi di Jenga sono di legno, di conseguenza hanno caratteristiche che possono variare nel tempo, per esempio a causa dell’umidità o di come sono tagliati: alcuni hanno venature più rilevate di altri, altri hanno margini poco rifiniti o sono di dimensioni lievemente diverse. Ogni mossa legata a un blocco è in un certo senso unica e per questo i suoi esiti sono difficili da prevedere.Qualche tempo fa, il New York Times aveva analizzato alcune delle caratteristiche di Jenga, mettendo insieme qualche suggerimento per ottenere i migliori risultati.1. Rimuovi i blocchi che sono più vicini alla cimaRicordando che i blocchi possono essere rimossi solo al di sotto degli ultimi due piani in alto, in generale quelli comunque prossimi alla cima hanno meno peso sopra di loro, quindi sono più facili da rimuovere perché oppongono meno resistenza.2. Cerca i blocchi più sottili da rimuovereVisto che i blocchi di legno non sono tutti esattamente uguali, può accadere che il blocco centrale di un piano non sia completamente a contatto con gli altri blocchi e possa essere quindi sfilato molto più facilmente. È un trucco che usano spesso i giocatori più esperti, dopo avere sviluppato un certo occhio clinico per trovare i blocchi adatti.3. Pensa ai blocchi al centro di ogni piano e mira a quelli, prima che lo facciano gli altriLa torre deve buona parte della propria stabilità ai blocchi esterni di ogni piano, quelli centrali sono i più semplici da rimuovere senza conseguenze.4. Fai sempre attenzione al blocco sopra a quello che vuoi rimuovereAnche se il blocco che si vuole rimuovere sembra la scelta migliore, può accadere che la sua rimozione destabilizzi quello che ha subito sopra, specialmente se quest’ultimo è lievemente più grande e rimarrebbe quindi parzialmente in bilico. In molti casi la torre crolla proprio a causa di un blocco centrale che inizia a scivolare.5. Non picchiettare il blocco, fallo scorrere costantementeEssendoci di mezzo l’attrito, conviene applicare una forza uniforme nel momento in cui si sposta un blocco, proprio per evitare che con singoli strattoni ci si porti dietro altre parti della torre.6. Rimpiazza i blocchi coscienziosamenteSpesso dopo avere rimosso un blocco, la parte con più incognite, i giocatori mettono meno attenzione nel riposizionare il blocco nella parte superiore della torre. Se si rimuove un blocco laterale sulla sinistra, per esempio, di solito conviene piazzarlo in cima a destra (quindi dalla parte opposta) cercando di far trovare alla torre un nuovo equilibrio.7. Sposta lievemente i blocchi laterali verso l’esterno prima di rimuoverliSe si sta rimuovendo un blocco laterale, si può provare a farlo ruotare lievemente verso l’esterno, come se si stesse aprendo un libro. Il movimento può facilitare la sua successiva rimozione, riducendo almeno in parte l’attrito.Se siete in una situazione disperata, potete provare una mossa repentina. Che funzioni o fallisca, c’entrerà sempre la fisica. LEGGI TUTTO

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    Niente, un articolo sul vuoto

    Siete in un locale con un paio di amici che ordinano due birre, ma non avete molta voglia di bere e dite al cameriere che non prenderete niente. Ora dovete sapere che Werner H., il cameriere, lavora in quel bar da molto tempo ed è un tipo piuttosto zelante. Ne avete la conferma quando torna al tavolo e serve due boccali di birra ai vostri amici e lascia un bicchiere vuoto per voi. «Mi spiace, signore, ma non abbiamo esattamente niente, ho fatto comunque del mio meglio», vi dice con un lieve accento tedesco. Scrutate Werner H. e il vostro bicchiere che sembra effettivamente pieno di niente, ma è veramente vuoto?Non è un test per verificare quanto siate ottimisti o pessimisti, non è del resto una questione di bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma di fare i conti con un concetto spesso sfuggente e al tempo stesso dalle grandi implicazioni fisiche e filosofiche: il niente. Si può togliere qualcosa da una parte per ottenere l’assenza di tutto? E se lo facciamo, rimaniamo davvero con niente?Prendiamo il bicchiere che vi ha portato lo zelante cameriere, che come ormai avrete intuito non è tecnicamente vuoto. Certo, non c’è della birra al suo interno, ma è comunque ricolmo di aria, senza contare le minuscole particelle di polvere che contiene, insieme a qualche acaro che è certamente scivolato dalla manica di chi ve lo ha servito.Se consideriamo solo l’aria nella sua definizione più vaga e approssimativa – cioè una miscela in cui sono presenti soprattutto molecole di ossigeno e azoto – possiamo dire che in un bicchiere da 200 ml sono presenti circa 5 • 1021 molecole, o detto in altri termini 5mila miliardi di miliardi di molecole. Il calcolo è approssimativo, molto dipende dalla temperatura del locale e soprattutto dell’altitudine a cui si trova, ma l’ordine di grandezza rende l’idea di quante cose ci siano in un bicchiere che di solito definiamo vuoto.Per rimuovere le molecole di aria dal bicchiere e avere niente come avevate chiesto al cameriere occorre che nel contenitore la pressione sia molto inferiore rispetto a quella atmosferica. Quest’ultima non è altro che la pressione che esercita l’enorme quantità di aria che abbiamo sopra le nostre teste, pari in condizioni normali a circa 10 tonnellate per metro quadrato. In sostanza viviamo sul fondale di un gigantesco oceano di aria, ma non ce ne accorgiamo più di tanto perché la pressione all’interno del nostro organismo è pressoché identica a quella dell’ambiente esterno (che varia comunque a seconda della temperatura e soprattutto dell’altitudine).Quando facciamo le pulizie in casa, l’aspirapolvere usa una ventola per creare una depressione al proprio interno ed è la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno che fa sì che la polvere venga risucchiata nel contenitore. L’aspirapolvere ha quindi creato un vuoto parziale, che si riempie però di materia perché c’è un’estremità che consente all’aria e alla polvere di fluire nel contenitore. In laboratorio, si utilizzano sistemi molto più raffinati e potenti per estrarre quanta più materia possibile da un contenitore.Il vuoto che si ottiene è comunque parziale. I sistemi più affidabili consentono di rimanere con appena 10 miliardi di molecole per centimetro cubo (ovvero 2mila miliardi nel bicchiere che vi ha portato il cameriere). È ancora un sacco di materia, ma in termini relativi è comunque un bel passo avanti rispetto a una condizione standard in cui ci sono milioni di miliardi di miliardi di molecole.Sulla Terra i veri specialisti nel creare il vuoto parziale sono i gruppi di ricerca del CERN, vicino a Ginevra in Svizzera. Nel Large Hadron Collider (LHC), il gigantesco anello sotterraneo lungo 27 chilometri in cui fanno accelerare e scontrare le particelle, è fondamentale che ci sia il minor numero possibile di atomi per evitare collisioni incontrollate. L’acceleratore, in sostanza un lunghissimo tubo, è fatto di materiali particolari per ridurre il rischio che questi perdano alcune delle proprie molecole ed è rivestito con speciali sostanze per l’assorbimento di gas che non dovrebbero trovarsi nell’acceleratore. Ci sono poi sistemi per rimuovere l’umidità e una lunga serie di potenti estrattori che impiegano circa due settimane per produrre il vuoto parziale.Rappresentazione schematica del funzionamento degli acceleratori di particelle al CERNIl risultato finale è un vuoto migliore di quello che possiamo trovare nello Spazio interplanetario, cioè ciò che si trova tra un pianeta e un altro del nostro sistema solare. Come ricordano al CERN, il risultato è inoltre comparabile, se non migliore, rispetto al vuoto parziale che troviamo nello spazio tra una stella e l’altra: lo Spazio interstellare. Qui in media un centimetro cubo contiene un milione di molecole, poco, ma siamo ancora distanti dal vuoto ideale dove non c’è niente di niente. La scarsa densità ci ricorda comunque che dove la materia è più densa ci sono stelle, pianeti e in ultima istanza noi stessi con i nostri bicchieri al bar, e ci ricorda anche che dove non si è raccolta è molto più sparpagliata.Se lasciamo le singole stelle e ci spingiamo ancora oltre, raggiungiamo lo Spazio intergalattico, cioè lo spazio tra una galassia e l’altra. Non sappiamo moltissime cose sulle sue caratteristiche, ma calcoli e simulazioni al computer effettuate negli anni offrono comunque qualche spunto. In un solo centimetro cubo preso a caso difficilmente osserveremmo qualcosa, ma si stima che tra una galassia e un’altra ci siano fino a dieci particelle per metro cubo. È un ambiente in cui la densità della materia è bassissima per i nostri standard qui sulla Terra, ma se ne prendessimo un bicchiere potremmo trovarci dentro comunque qualcosa. Anche in un luogo così inaccessibile e remoto, non avremmo il vuoto propriamente detto.Ripercorriamo a ritroso le migliaia di anni luce che abbiamo percorso e torniamo sulla Terra. Immaginiamo che mentre eravamo via qualcuno abbia inventato il sistema per sbarazzarci anche degli ultimi rimasugli di materia ordinaria che troviamo nello Spazio intergalattico. Avremmo finalmente il bicchiere vuoto? Non proprio.Nel contenitore avverrebbero comunque fenomeni fisici dovuti all’affollarsi di particelle virtuali, che hanno origine e si annullano di continuo così velocemente da non darci il tempo di misurarle. È un effetto della teoria quantistica dei campi, ambito che mette insieme la meccanica quantistica, la relatività e la teoria dei campi classica. Semplificando enormemente, possiamo dire che i campi sono gli oggetti fondamentali dell’Universo: entità fisiche che assumono un valore in ogni punto nello spaziotempo. Questa teoria ci dice inoltre che le particelle sono il frutto di un passaggio a maggiore energia di un punto del campo.Werner Heisenberg nel 1947 (AP Photo/Gerhard Baatz)Il fisico tedesco Werner Heisenberg, considerato uno dei padri della teoria quantistica, espose quasi un secolo fa il proprio “principio di indeterminazione” che offrì importanti elementi per teorizzare che il vuoto non sia mai veramente vuoto. Heisenberg disse che i valori di alcune coppie di grandezze riferite a una particella, come la posizione e la velocità, non possono essere misurati contemporaneamente con un’infinita precisione. Se nel vuoto non ci fosse alcuna forma di energia, un’ipotetica particella avrebbe energia nulla per un tempo preciso: entrambe le grandezze sarebbero quindi misurabili con accuratezza infinita e in violazione del principio di indeterminazione. Nel vuoto devono quindi esserci fluttuazioni quantistiche, con particelle che si creano e si distruggono a vicenda (annichilazione) mantenendo una quantità minima di indeterminazione.In sostanza, e tagliando con l’accetta decenni di studi e teorie fisiche per spiegare come funziona praticamente tutto, possiamo dire che potremmo eliminare dal bicchiere la massa ordinaria, ma rimarremmo comunque con un brulicare di particelle virtuali. Sarebbe comunque il miglior vuoto ottenibile, almeno in questo universo.Simulazione al computer dell’attività delle particelle virtuali nel vuotoIpotizziamo che ci sia un universo in cui possiamo prenderci la libertà di escludere tutte le particelle e di rimuovere le leggi della fisica, quelle che governano il modo in cui le cose funzionano e la loro stessa esistenza. Rimarremmo con qualcosa che non possiamo nemmeno definire uno “spazio vuoto”, perché non esisterebbe nemmeno il concetto di spazio che a sua volta è strettamente legato al concetto di tempo (lo spaziotempo della relatività). Non ci sarebbe nemmeno l’energia, non ci sarebbe davvero nulla. Se potessimo applicare questa cosa al bicchiere, infine non avremmo davvero nulla al suo interno, ma avendo rinunciato a tutto non esisterebbe nemmeno il bicchiere.E qui la faccenda da fisica si farebbe alquanto filosofica. Del resto già i primi filosofi, come Leucippo e Democrito, vissuti verso la metà del V secolo a.C., si chiedevano se potesse esistere uno spazio completamente vuoto contrapposto a quello in cui si trovano gli atomi dell’Universo. Aristotele introdusse poi il concetto di horror vacui, concludendo che «la natura rifugge il vuoto» e che di conseguenza tende a riempirlo costantemente.Aristotele respingeva l’idea del vuoto assoluto e la sua teoria divenne dominante, al punto da essere mantenuta per i circa due millenni successivi da molti altri che affrontarono il problema, diventando anche uno degli assunti della Chiesa. Le cose cambiarono nel diciassettesimo secolo, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che consentirono di analizzare e comprendere i fenomeni legati alla pressione.L’italiano Galileo Galilei fu tra i primi a condurre esperimenti per misurare la forza necessaria per produrre il vuoto parziale in un cilindro. Nel 1644 Evangelista Torricelli introdusse il principio del barometro, grazie alla costruzione di un dispositivo – che oggi chiamiamo “tubo di Torricelli” – con il quale fece nuove dimostrazioni sul fatto che l’aria ha un peso, portando elementi scientifici nelle discussioni filosofiche che proseguivano da millenni sull’horror vacui.Evangelista Torricelli conduce uno dei suoi esperimenti sulla pressione (Wikimedia)Una delle tante unità di misura della pressione si chiama “torr” proprio in onore di Torricelli, ma è probabile che abbiate sentito parlare anche del pascal (Pa), l’unità di misura della pressione nel sistema internazionale. Si chiama così per ricordare Blaise Pascal, importante fisico e filosofo francese che più o meno nello stesso periodo di Torricelli con altri esperimenti portò nuove conferme alla teoria della pressione atmosferica.Nei tre secoli seguenti intorno alla pressione, al comportamento dei fluidi e al vuoto furono effettuate numerose altre scoperte, spesso grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che rendevano possibili esperimenti più complessi ed elaborati. La produzione di pompe per produrre il vuoto parziale ebbe un ruolo importante per esempio nella scoperta dell’elettrone, così come dei raggi X. Nei primi decenni del Novecento fu grazie al vuoto che scienziati e scienziate iniziarono a comprendere alcune caratteristiche della materia, ponendo le basi per lo studio delle particelle.Il vuoto parziale ebbe un ruolo molto importante anche in una tecnologia che abbiamo avuto per lungo tempo specialmente sopra le nostre teste: la lampadina a incandescenza. Questa produceva luce rendendo incandescente, in seguito al passaggio dell’energia elettrica, un filamento resistente alle alte temperature, ma fino dai primi esperimenti era diventato evidente che il filamento bruciava troppo rapidamente limitando molto la vita della lampadina. Fu anche in questo caso un italiano, Alessandro Cruto, a sviluppare un filamento di grafite che durava molto a lungo, risolvendo uno dei problemi con cui si era scontrato il più famoso Thomas Edison, che pochi mesi prima aveva presentato la propria lampada a incandescenza.Una lampadina di Cruto conservata al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano (Wikimedia)Per estendere ulteriormente la durata del filamento, nel bulbo delle lampadine a incandescenza veniva prodotto un vuoto parziale, in modo da ridurre la presenza di ossigeno che avrebbe favorito la combustione del filamento. In seguito le lampadine sarebbero state prodotte inserendo nel bulbo un gas nobile a bassa pressione, ottenendo un’ulteriore estensione della durata del filamento e riducendo l’effetto che portava il vetro della lampadina ad annerirsi.Forse anche per la storia delle lampadine molti associano il concetto di vuoto alla mancanza di ossigeno, ma come abbiamo visto nel nostro viaggio interstellare le cose sono più complicate di così. Da quella convinzione deriva comunque una domanda ricorrente: come fa il Sole a “bruciare” se non c’è ossigeno nello Spazio?Il Sole, come tutte le altre stelle, non brucia come farebbero dei ciocchi di legno in un caminetto. La sua luminosità è dovuta ai processi di fusione nucleare che avvengono nel suo nucleo, con una enorme produzione di energia che rende incandescente il resto del materiale della stella. A volte si dice che il Sole “brucia idrogeno”, ma è un modo di dire: tecnicamente con la fusione l’idrogeno fonde in elio, non trattandosi di un processo di combustione non è necessaria la presenza di ossigeno.I raggi solari impiegano circa otto minuti per attraversare i 150 milioni di chilometri che in media separano il Sole dalla Terra. Come abbiamo visto nello Spazio il vuoto è pressoché perfetto, di conseguenza la luce viaggia alla massima velocità possibile in quel mezzo, pari a circa 300mila chilometri al secondo (c). Per la teoria della relatività ristretta è un limite invalicabile: la velocità massima a cui può viaggiare qualsiasi informazione nell’Universo.Nell’aria, la luce va lievemente più piano a causa della rifrazione, che comporta una diminuzione della velocità di propagazione della radiazione elettromagnetica. A rallentarla è proprio ciò che non riusciamo a vedere, così impalpabile da farci pensare al vuoto, ma che rende possibile e condiziona la nostra esistenza da sempre. Un grande oceano di aria, che lascia sempre pieni i nostri bicchieri al bar. LEGGI TUTTO