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    Abbiamo estratto del ghiaccio di 1,2 milioni di anni fa dall’Antartide

    Giovedì il gruppo di ricerca europeo Beyond EPICA ha annunciato di essere riuscito a estrarre dalla calotta dell’Antartide del ghiaccio vecchio di almeno 1,2 milioni di anni. Per riuscirci ha dovuto scavare un foro profondo 2.800 metri, quasi la misura dell’altezza massima del Gran Sasso. Questo risultato è stato raggiunto dopo cinque anni di lavoro sul campo nella regione centrale dell’Antartide, dove quando fa meno freddo la temperatura media si aggira intorno ai -35 °C. Ora grazie al ghiaccio antichissimo che è stato ottenuto si potranno ricavare delle informazioni sulle condizioni climatiche della Terra ai tempi degli Homo erectus.I ghiacciai e le calotte polari infatti sono grandi depositi di successive nevicate avvenute nel corso del tempo. Dato che quando nevica i fiocchi di neve inglobano particelle di polvere e assorbono sostanze presenti nell’aria, in concentrazioni diverse in base alla composizione dell’atmosfera in quel momento, il ghiaccio che vanno a formare contiene delle informazioni sul clima. E il centro dell’Antartide è il luogo della Terra in cui questo tipo di “archivio” arriva più lontano nel tempo.
    Il gruppo di ricerca del progetto Beyond EPICA riunisce scienziati di dieci paesi diversi ed è guidato dall’italiano Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Barbante ha spiegato che con l’obiettivo raggiunto negli ultimi giorni abbiamo ottenuto «la più lunga documentazione continuativa del clima del passato in forma di ghiaccio». Non si tratta infatti del ghiaccio più antico mai trovato, che è molto più vecchio, ma dato che Beyond EPICA ha estratto un’intera colonna di ghiaccio dalla superficie dell’altopiano antartico fino a 2.800 metri di profondità, è il più lungo campione ininterrotto – per quanto sia frazionato in cilindri lunghi un metro.

    – Per approfondire: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide

    Il progetto è stato finanziato con 11 milioni di euro dalla Commissione Europea e il suo nome significa “Oltre EPICA”. È un riferimento alla precedente impresa europea per lo studio del clima attraverso il ghiaccio antartico, svolta tra il 1996 e il 2005, che si chiamava appunto EPICA: è l’acronimo di European Project for Ice Coring in Antarctica. Grazie a EPICA si poté ricostruire la storia dell’atmosfera fino a 800mila anni fa, la più lunga mai ottenuta finora grazie al ghiaccio.
    Com’è l’Antartide nella zona attorno al campo di ricerca di Beyond EPICA, cioè Little Dome C, che si intravede in fondo (Collino, ©PNRA/IPEV)
    Una volta analizzato nei laboratori, il ghiaccio estratto da Beyond EPICA potrà dirci qual era la concentrazione di gas serra nell’atmosfera 1,2 milioni di anni fa e dunque aiutarci a stimare la temperatura media sul pianeta a quel tempo. Ma soprattutto i campioni di ghiaccio potranno dirci qualcosa di nuovo sul periodo compreso tra 900mila e 1,2 milioni di anni fa, la cosiddetta “transizione del Pleistocene medio”, quando i cicli delle ere glaciali passarono da intervalli di 41mila a 100mila anni: non sappiamo ancora come mai ci fu questo cambiamento. Queste informazioni sono importanti anche per lo studio del clima attuale e per affinare i modelli climatologici per il futuro.
    Nel centro dell’Antartide è presente ghiaccio antichissimo perché la quantità di precipitazioni annuali nella regione è molto bassa, in media cadono solo 10 centimetri di neve in un anno: per questo nei circa tremila metri di ghiaccio della calotta si susseguono centinaia di migliaia di strati di neve. I primi strati sono più spessi, poi scendendo in profondità sono via via più sottili perché vengono compressi dal peso del ghiaccio sovrastante.
    Julien Westhoff, responsabile delle operazioni sul campo del progetto e ricercatore dell’Università di Copenaghen, ha detto che secondo le prime analisi del ghiaccio estratto negli ultimi giorni l’età dello strato che si trovava a 2.480 metri di profondità risale a 1,2 milioni di anni fa. A quella profondità un cilindro di ghiaccio di un metro contiene i dati climatici relativi a 13mila anni.
    Cilindri di ghiaccio estratti dalla calotta antartica all’inizio del 2024, fotografati il 25 novembre (Westhoff, ©PNRA/IPEV)
    Negli ultimi 210 metri di profondità che sono stati raggiunti il ghiaccio è altamente deformato a causa della pressione ed è probabilmente mescolato a ghiaccio di origine sconosciuta, o fuso e poi di nuovo congelato. Ci sono delle teorie sulla storia di questi strati di ghiaccio, che però devono essere studiati: potrebbero darci delle informazioni sulla storia glaciale dell’Antartide e sull’ultimo periodo in cui fu libera dal ghiaccio.
    I cilindri di ghiaccio estratti da Beyond EPICA saranno trasportati in Europa a bordo della rompighiaccio Laura Bassi (che deve il suo nome a una delle prime donne laureate italiane). A bordo della nave saranno mantenuti a una temperatura di -50 °C, una cosa non semplice per cui è stato necessario studiare numerosi accorgimenti logistici da parte dell’ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile.

    – Leggi anche: La vita degli scienziati che stanno per 9 mesi isolati in Antartide LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico fa allungare le giornate

    Caricamento playerLa fusione dei ghiacci e altri effetti collegati al cambiamento climatico stanno contribuendo a fare aumentare lievemente la durata dei giorni sulla Terra. Il fenomeno è noto da tempo, ma una ricerca pubblicata nel corso dell’estate ha segnalato che le giornate si stanno allungando più velocemente rispetto a quanto calcolato in passato, cosa che potrebbe avere conseguenze sulle tecnologie che si basano sull’ora esatta come per esempio i sistemi di navigazione satellitare.
    Il moto di rotazione della Terra non è regolare – a causa dell’influenza della Luna e di altri fattori – e ciò comporta che con il passare del tempo il nostro pianeta accumuli un certo ritardo, rispetto agli orologi atomici con i quali calcoliamo con maggiore precisione il trascorrere del tempo. Il rallentamento è in parte prevedibile e calcolabile, ma può cambiare nel caso in cui cambino alcune variabili.
    Per questo un gruppo internazionale di ricerca finanziato in parte dalla NASA ha utilizzato dati storici e osservazioni satellitari per valutare i cambiamenti nella distribuzione delle masse d’acqua nella Terra. Lo studio si è concentrato in particolare sui cambiamenti determinati dalla fusione dei ghiacci polari, che porta nuove masse d’acqua a distribuirsi intorno all’equatore facendo sì che il nostro pianeta, che non è una sfera perfetta, appaia lievemente schiacciato ai poli.
    Questa diversa distribuzione delle masse d’acqua, insieme ad altri fattori, fa sì che la Terra rallenti lievemente il proprio moto di rotazione e che le giornate si allunghino. Per intendersi, è un fenomeno simile a quello che avviene quando i pattinatori su ghiaccio si abbassano e allargano le braccia per ridurre la loro velocità di rotazione, o quando si gira su se stessi stando seduti su una sedia da ufficio e si allargano o chiudono le braccia modificando la velocità di rotazione.

    Lo studio ha valutato le variazioni prendendo in considerazione il periodo tra il 1900 e il 2018 e ha notato un’accelerazione nell’allungamento delle giornate a partire dal 2000. Negli ultimi 18 anni si è arrivati a una media di allungamento della durata del giorno di 1,33 millisecondi per secolo, il dato più alto mai registrato rispetto ai cento anni precedenti quando la variazione oscillava tra 0,3 e 1 millisecondi (la variazione non è costante e ci sono oscillazioni nel corso del tempo).
    Secondo il gruppo di ricerca il lieve allungamento delle giornate dovuto alla fusione dei ghiacci e alla ridistribuzione delle masse d’acqua, che si aggiunge agli altri fattori che determinano il fenomeno, potrebbe decelerare entro il 2100 nel caso dell’adozione di politiche efficaci per ridurre le emissioni di gas serra. Come per altri fenomeni legati al cambiamento climatico, infatti, anche se smettessimo oggi di immettere nell’atmosfera nuova anidride carbonica e altri gas serra sarebbero comunque necessari decenni prima di riscontrare benefici significativi, a causa di una certa inerzia del sistema.
    Lo studio ha inoltre calcolato che, nel caso di ulteriori aumenti delle emissioni, l’allungamento del giorno dovuto al cambiamento climatico potrebbe arrivare a 2,62 millisecondi per secolo, superando quindi gli effetti della Luna e degli altri fattori che contribuiscono al rallentamento del moto di rotazione. LEGGI TUTTO

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    8 persone su 10 vorrebbero che i loro governi facessero di più contro la crisi climatica

    Caricamento playerIl Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) ha pubblicato i risultati del Peoples’ Climate Vote 2024, il più grande sondaggio mai condotto dall’ONU sul tema del cambiamento climatico: sono state intervistate più di 75mila persone provenienti da 77 paesi che parlano 87 lingue diverse.
    Secondo i risultati aggregati globali la stragrande maggioranza di loro è insoddisfatta del modo in cui i governi stanno gestendo la crisi climatica: l’80 per cento delle persone intervistate, che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione globale, vorrebbe che i loro governi facessero di più per affrontare la crisi climatica, e l’86 per cento ritiene che sarebbe necessario mettere da parte le rivalità nazionali per lavorare a una soluzione comune. In Italia questi valori sono ancora più alti: il 93 per cento delle 900 persone italiane intervistate è d’accordo con entrambe le dichiarazioni.
    Altri risultati interessanti riguardano la cosiddetta “ansia climatica” e la transizione da combustibili fossili a energia rinnovabile. Il 56 per cento degli intervistati ha detto di pensare al cambiamento climatico quotidianamente o settimanalmente, un risultato a cui l’Italia si allinea, e il 53 per cento di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso per questo tema: in Italia a rispondere positivamente a questa domanda è stato il 65 per cento degli intervistati. Questi risultati arrivano però fino al 71 per cento nei nove Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS) in cui sono state condotte le interviste: sono quegli stati che rischiano di finire presto sotto il livello del mare e le cui popolazioni si stanno già parzialmente trasferendo in altri paesi. In generale, più persone che vivono in paesi meno sviluppati hanno detto che il cambiamento climatico sta già influenzando alcune importanti scelte di vita, come il luogo dove abitare o lavorare.

    – Leggi anche: Per quanto tempo esisterà ancora Tuvalu?

    Il 72 per cento degli intervistati si è poi detto a favore di una rapida transizione dai combustibili fossili a fonti di energia meno inquinanti. Risultati molto alti si sono registrati in alcuni paesi che sono fra i principali produttori o consumatori di combustibili fossili: in Nigeria era d’accordo l’89 per cento delle persone intervistate (lo stesso risultato dell’Italia e della Turchia); in Brasile era l’81 per cento; in Cina l’80; in Iran il 79 per cento e in Germania, Regno Unito e Arabia Saudita, il 76. Risultati molto bassi in questa categoria sono stati invece registrati in Russia, dove solo il 16 per cento degli intervistati si è detto d’accordo con questa dichiarazione.
    È stato inoltre notato come le donne si siano dimostrate più favorevoli all’impegno pubblico per il contrasto del cambiamento climatico. In cinque grandi paesi (Australia, Canada, Francia, Germania e Stati Uniti) la differenza di genere era tra i 10 e i 17 punti percentuali.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi

    Infine una domanda del sondaggio riguarda la responsabilità dei paesi più ricchi e con economie più sviluppate (che sono principalmente i paesi europei e gli Stati Uniti) nei confronti di quelli più poveri, che non hanno avuto la possibilità di industrializzarsi quando c’erano molte meno regole sull’inquinamento, e che in molti casi sono i più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico. A livello globale il 79 per cento degli intervistati ha detto che i paesi ricchi dovrebbero aiutare di più i paesi in via di sviluppo.
    Da anni questo tema è tra quelli al centro delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).
    Alla COP28 di Dubai del 2023 i paesi con economie sviluppate si sono impegnati per la prima volta a versare circa 380 milioni di euro in un fondo di compensazione per i danni e le perdite causate dal cambiamento climatico nei paesi più in difficoltà: si tratta di una cifra molto piccola, vista l’entità dei possibili danni. I paesi che hanno preso un impegno maggiore sono quelli dell’Unione Europea, mentre un contributo più piccolo è stato promesso dagli Stati Uniti, che non apprezzano che alcuni paesi, specialmente la Cina che è fra i principali produttori di combustibili fossili al mondo, vogliano ancora definirsi paesi in via di sviluppo.
    Proprio negli Stati Uniti il 64 degli intervistati si è detto favorevole all’aumento degli aiuti ai paesi poveri, mentre il 28 per cento ha sostenuto che i paesi ricchi debbano aiutare meno di quanto non lo stiano facendo adesso; nella media globale, solo il 6 per cento pensa che gli aiuti debbano diminuire. In altri paesi occidentali come la Francia, la Germania e il Regno Unito le persone che sostengono che i paesi ricchi dovrebbero fornire più aiuti sono le stesse degli Stati Uniti, ma quasi nessuno pensa che gli aiuti dovrebbero diminuire: un terzo degli intervistati sostiene piuttosto che dovrebbero rimanere uguali a quelli attuali. In questo quadro l’Italia si trova invece più d’accordo con i paesi in via di sviluppo, dato che oltre il 90 per cento degli intervistati è d’accordo con l’idea che i paesi ricchi forniscano più aiuti; solo il 5 per cento sostiene che questi debbano rimanere invariati e nessuno degli intervistati è d’accordo con una loro diminuzione.

    – Leggi anche: I paesi più ricchi aiuteranno gli altri ad affrontare i danni del cambiamento climatico?

    Secondo la direttrice della sezione dell’UNDP che si occupa dei cambiamenti climatici, Cassie Flynn, i dati sulla volontà di abbandonare l’uso di combustibili fossili sono notevoli, ma in generale questo largo consenso non dovrebbe stupirci: «Gli eventi estremi fanno già parte della nostra vita quotidiana», ha detto Flynn. «Dagli incendi boschivi in Canada alla siccità in Africa orientale, fino alle inondazioni negli Emirati Arabi Uniti e in Brasile, le persone vivono la crisi climatica», ha aggiunto. Proprio in queste settimane per esempio migliaia di persone stanno morendo a causa del caldo in diversi paesi del mondo, specialmente in India, che sta attraversando una delle peggiori ondate di calore della sua storia da oltre un mese, e in Arabia Saudita, dove si è appena concluso lo Hajj, il consueto pellegrinaggio annuale dei fedeli dell’Islam verso la Mecca.

    – Leggi anche: A New Delhi manca l’acqua e fa caldissimo

    Il sondaggio è stato svolto dall’UNDP in collaborazione con l’Università di Oxford, nel Regno Unito, e la società internazionale di sondaggi GeoPoll. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno stilato una lista di 15 domande da porre durante le interviste e hanno poi elaborato le risposte, ponderando il campione per renderlo rappresentativo dei profili di età, genere e istruzione della popolazione dei paesi coinvolti. GeoPoll ha condotto le interviste tramite chiamate telefoniche randomizzate al cellulare, ampliando quindi più possibile le persone raggiungibili. La maggior parte dei paesi è rappresentata da un gruppo di intervistati che va dalle 800 alle 1.000 persone (in Italia sono state 900). Il numero di intervistati non è relativo alla grandezza dello stato, dato che per esempio la Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è rappresentata da 921 persone, circa cento in meno del Buthan, dove la popolazione si aggira intorno alle 790mila persone.
    Secondo gli autori le stime a livello nazionale hanno margini di errore non superiori ai 3 punti percentuali in più o in meno, che diventano molto più bassi quando si tratta di stime globali.
    Un problema piuttosto comune dei sondaggi di questo tipo è il fatto che a rispondere al telefono e ad accettare di partecipare alla ricerca siano spesso persone con un alto livello di istruzione e che sono già più informate della media sul tema. L’UNDP ha però tenuto a specificare in questo caso che oltre il 10 per cento del campione totale comprendeva persone che non sono mai andate a scuola. Di questi 9.321 intervistati, 1.241 erano donne over 60 che non avevano mai neanche frequentato le scuole elementari, uno dei gruppi più difficili da raggiungere.
    Una prima edizione del sondaggio, che aveva coinvolto 50 paesi, era stata realizzata nel 2021 ma le persone erano state raggiunte attraverso annunci pubblicitari in famose app di gioco per cellulari, che escludevano intere fasce della popolazione anche solo per il fatto che per usare queste app bisognava essere connessi a internet. I dati delle due ricerche non sono quindi comparabili. LEGGI TUTTO

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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso marzo è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese è stato il marzo più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 14,14 °C, 0,10 °C più alta del precedente mese di marzo più caldo mai registrato, quello del 2016. Il Climate Change Service sottolinea inoltre come marzo del 2024 sia il decimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti.– Leggi anche: Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità LEGGI TUTTO

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    La polvere del Sahara fa molte cose in giro per il mondo

    Caricamento playerTra mercoledì e giovedì in molte zone del Sud Italia il cielo è stato offuscato dal venti che hanno portato verso l’Italia grandi quantità di polvere dal deserto del Sahara, in Nord Africa. È un fenomeno tutt’altro che raro: nei deserti ci sono grandi quantità di sedimenti leggeri e secchi, polveri appunto, che possono essere sollevate dal vento fino a migliaia di metri d’altezza e poi trasportate oltre mari e oceani.
    Dal solo Sahara, che è il deserto più grande del mondo, proviene più di metà della polvere presente nell’atmosfera della Terra. A seconda delle stagioni dell’anno, che influenzano le direzioni dei venti, le sue polveri sono trasportate in diverse direzioni: l’inizio della primavera è il periodo in cui succede più spesso che arrivino in Europa. Ma l’offuscamento dei cieli (e le eventuali conseguenze sulla qualità dell’aria) è solo uno degli effetti della polvere sahariana, che forse contribuisce alla crescita della vegetazione in Amazzonia ma anche alla fusione dei ghiacciai delle Alpi. Si pensa inoltre che influenzi il clima in vari modi, forse contrastando la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico, anche se gli studi sull’argomento sono ancora in corso.
    Quando si parla di polvere proveniente dal Sahara non bisogna immaginare la sabbia delle dune che solitamente associamo a questo deserto: i granelli di sabbia sono troppo pesanti per essere sollevati all’altezza delle correnti atmosferiche. La polvere è fatta di particelle molto più piccole che si accumulano nelle zone pianeggianti dei deserti, dove magari anticamente si trovavano dei laghi, come la depressione Bodélé, nel nord del Ciad.
    Polvere sahariana diretta verso l’Italia fotografata dal satellite Sentinel-3 il 28 marzo 2024 (Unione Europea, Copernicus Sentinel-3)
    L’effetto forse più stupefacente del trasporto di questa polvere attraverso l’atmosfera è la concimazione del fitoplancton dell’Atlantico, cioè dei microrganismi vegetali che vivono negli strati superficiali delle acque marine. Infatti le polveri sahariane contengono sostanze importanti per la crescita delle piante, come il fosforo, il ferro e l’azoto. Uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Science ha trovato una corrispondenza tra l’arrivo di polveri dal deserto e i periodi di grande crescita del fitoplancton, che si possono osservare dalle fotografie satellitari grazie al colore verde della clorofilla prodotta da questi organismi.
    Questo significa che il Sahara contribuisce alla vita negli oceani, perché il fitoplancton è alla base della catena alimentare marina, oltre ad assorbire anidride carbonica (la CO2, il principale gas serra) dall’atmosfera.
    C’è poi un dibattito tuttora aperto all’interno della comunità scientifica sul ruolo di concime che le polveri sahariane potrebbe svolgere in un altro contesto, cioè la foresta pluviale dell’Amazzonia. È uno degli ambienti della Terra in cui crescono più piante e più specie di piante diverse, tuttavia ha un suolo molto povero di sostanze nutritive: le piante quindi ricavano ciò di cui hanno bisogno per crescere dai resti di piante morte, che però vengono in parte portati via dalla pioggia e dai corsi d’acqua. Per questo da decenni si ritiene che la mancanza di nutrienti debba essere compensata anche da ciò che arriva attraverso l’atmosfera.
    Almeno per una parte dell’Amazzonia questo nutrimento arriverebbe proprio dalle polveri sahariane, secondo alcuni studi: nel 2015, usando dei dati satellitari, un gruppo di scienziati della NASA aveva stimato che in media ogni anno 22mila tonnellate di fosforo proveniente dal Sahara arrivino nell’Amazzonia.
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    La polvere sahariana che raggiunge le coste americane ci arriva con il cosiddetto “strato d’aria sahariana”, una massa d’aria calda e secca che tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno è periodicamente sospinta dal Sahara verso ovest. Si ritiene che quest’aria contribuisca alle condizioni meteorologiche dell’Atlantico e delle regioni che lo circondano, sebbene non sia ancora del tutto chiaro in quali modi.
    Prima di tutto si pensa che la polvere sospesa nell’atmosfera schermi la luce solare. Facendo ombra la polvere causa probabilmente un abbassamento della temperatura, ma al tempo stesso l’assorbimento della radiazione solare da parte delle particelle di polvere potrebbe anche provocare un riscaldamento localizzato nella porzione dell’atmosfera in cui si trovano. Non si sa ancora se il bilancio netto di questi effetti sia un riscaldamento o un raffreddamento.
    Allo stesso tempo non si sa bene in che modo la polvere sahariana influenzi la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico (ed eventualmente uragani, le tempeste tropicali più intense). In teoria la presenza di polvere nell’atmosfera dovrebbe favorire la formazione di nubi, perché le piccole quantità di acqua liquida che le formano hanno bisogno di particelle solide nell’aria attorno a cui condensare. Al tempo stesso però la temperatura relativamente alta dello strato d’aria sahariana e la sua bassa umidità potrebbero moderare lo sviluppo delle tempeste, legate allo spostamento di masse d’aria molto umida.
    Polvere sahariana sulla neve dei Pirenei francesi, il 16 marzo 2022 (Borja Delgado/Dersu.uz/via ZUMA Press, ANSA)
    Si sa invece che la polvere sahariana può accelerare i processi di fusione, cioè di scioglimento, delle nevi e dei ghiacci dei Pirenei e delle Alpi, le principali catene montuose europee. Posandosi sulla neve e sul ghiaccio infatti la polvere riduce l’albedo, cioè la quantità di radiazione solare riflessa nell’atmosfera: significa che una maggiore quantità di energia viene assorbita dalla neve e dal ghiaccio, che così fondono.
    Secondo uno studio del 2019, pubblicato sulla rivista The Cryosphere e realizzato da un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte alcuni scienziati dell’Università Bicocca di Milano, le polveri sahariane riducono il periodo dell’anno in cui le Alpi sono coperte da nevi e per questo possono avere degli effetti sugli equilibri idrogeologici della regione e, tra le altre cose, rendere il Nord Italia più vulnerabile alle siccità estive.
    La neve di una pista da sci di fondo di La Fouly, in Val Ferret, Svizzera, vicino al confine con l’Italia, colorata dalle polveri sahariane, il 6 febbraio 2021 (EPA/SALVATORE DI NOLFI, ANSA)
    Un altro effetto negativo della polvere del Sahara è l’abbassamento della qualità dell’aria per la salute umana che può provocare se si trova relativamente a bassa quota nell’atmosfera. È un problema che può riguardare soprattutto i paesi del Mediterraneo meridionale come la Spagna e l’Italia. Le polveri sahariane infatti hanno le dimensioni del particolato, le particelle solide e liquide che rappresentano una delle forme di inquinamento dell’aria e possono causare danni all’apparato respiratorio umano se inalate in quantità abbondanti.
    Per questo nelle regioni più colpite dall’arrivo delle polveri sahariane, come le isole Canarie, che si trovano nell’Atlantico al largo dell’Africa nord-occidentale, vengono diffuse allerte meteorologiche apposite per segnalare la loro presenza: in quei giorni le persone sono invitate dalle autorità a stare il più possibile al chiuso. Alle Canarie i venti che trasportano le polveri hanno anche un nome specifico: calima.
    Proprio in Spagna la polvere sahariana e i suoi effetti sono particolarmente studiati. A febbraio un gruppo di ricerca spagnolo ha pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment uno studio secondo cui tra il 1940 e il 2021 la frequenza degli eventi atmosferici che portano polveri sahariane in Spagna è aumentata. Si ipotizza che tale aumento – particolarmente osservato negli ultimi anni, anche nell’inverno appena concluso – sia legato ad alcuni cambiamenti nella circolazione atmosferica avvenuti negli ultimi decenni. Potrebbero entrarci l’aumento della temperatura del mar Mediterraneo, che è legata al più generale riscaldamento globale, e le siccità nel Nord Africa.
    Il cielo di Monaco di Baviera reso giallo dalle polveri sahariane, il 15 marzo 2022 (Sven Hoppe/dpa, ANSA) LEGGI TUTTO

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    La tecnica per far piovere di più

    Il cloud seeding, in italiano qualcosa come “inseminazione delle nuvole”, è una tecnica di stimolazione artificiale delle piogge basata sulla diffusione di getti di ioduro d’argento o di ghiaccio secco (anidride carbonica allo stato solido) all’interno di determinate nuvole, da aerei appositi o tramite cannoni da terra. È nota in meteorologia fin dagli anni Cinquanta, ma esistono da tempo dubbi e perplessità sulla sua efficacia e sulla sua concreta utilità. Per questo motivo, nel corso dei decenni, il suo utilizzo è sostanzialmente rimasto un fenomeno di nicchia.Da qualche tempo, anche a causa dell’intensificazione dei fenomeni associati al cambiamento climatico, il cloud seeding è tuttavia considerato da un crescente numero di agenzie governative, agricoltori e imprenditori un modo relativamente abbordabile di mitigare alcuni effetti a breve termine dei prolungati periodi di siccità. Ad aziende che offrono servizi di questo tipo ricorre da tempo il governo degli Emirati Arabi Uniti, un paese molto poco piovoso. Ma ultimamente la richiesta è aumentata anche negli Stati Uniti occidentali e in Messico, dove il cloud seeding è visto come un’alternativa più economica a tecnologie più impegnative come la desalinizzazione dell’acqua pompata nell’entroterra dall’Oceano Pacifico o dal Golfo del Messico.In Italia, dove esperimenti di stimolazione artificiale della pioggia furono condotti per alcuni anni in Puglia, Sicilia, Sardegna e Basilicata, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, il cloud seeding è generalmente tradotto come “inseminazione delle nuvole”. La sperimentazione diede buoni risultati soltanto nel primo anno, in Puglia: una media del 30 per cento in più di precipitazioni rispetto alla media cinquantennale nell’area di intervento. Dopo il primo anno una prolungata siccità condizionò i risultati dell’esperimento, riducendo drasticamente la presenza di sistemi nuvolosi adatti a stimolare le precipitazioni e mostrando uno dei principali limiti di questa tecnica.In sostanza ogni attività di cloud seeding richiede prima di tutto l’individuazione di nuvole sufficientemente cariche di umidità e adatte anche per altre caratteristiche, in cui iniettare le sostanze in grado di favorire la condensazione del vapore e aumentare le precipitazioni. «È come prendere una spugna gocciolante e strizzarla», ha spiegato al Wall Street Journal Jonathan Jennings, meteorologo della West Texas Weather Modification Association, un’associazione che su autorizzazione dello stato del Texas si occupa fin dagli anni Novanta di un progetto di induzione delle piogge in sei contee occidentali.Secondo dati condivisi dall’associazione il cloud seeding è in grado di aumentare del 15 per cento le piogge annuali in una determinata area, rispetto ai livelli normali. E questo aumento si traduce in circa 50 mm di precipitazioni in più all’anno: acqua che può essere utilizzata per irrigare le coltivazioni durante i periodi di siccità e in generale per ricaricare le falde acquifere sotterranee, a cui attingono agricoltori, allevatori e residenti nelle zone rurali del Texas occidentale. Altri utilizzi del cloud seeding – meno comuni ma in alcuni casi di lunghissima durata, come in Colorado – riguardano l’induzione di nevicate più abbondanti nelle stazioni sciistiche.(DooFi/Wikimedia)L’idea del cloud seeding risale alla fine della Seconda guerra mondiale: nel novembre 1946 il chimico e meteorologo statunitense Vincent Schaefer, dopo aver condotto diversi studi ed esperimenti sulla formazione del ghiaccio in alta quota, riuscì a stimolare la formazione di cristalli di ghiaccio tramite la dispersione di ghiaccio secco all’interno di una nube nelle montagne del Berkshire, in Massachusets. Schaefer lavorava da anni nell’impianto di ricerca industriale della General Electric, a Schenectady, nello stato di New York, e lì aveva avuto l’opportunità di collaborare stabilmente con il fisico e chimico statunitense Irving Langmuir, che nel 1932 aveva vinto il premio Nobel per le sue ricerche nell’ambito della chimica delle superfici.– Leggi anche: Le inusuali piogge artificiali negli Emirati Arabi UnitiOgni nube è formata da miliardi di goccioline d’acqua, che evapora da oceani, mari, corsi d’acqua, suolo e vegetazione. Perché si formi la pioggia è necessario che il vapore acqueo portato verso l’alto dalle correnti ascensionali e contenuto nell’atmosfera terrestre si condensi intorno ai nuclei di condensazione: minuscole particelle igroscopiche – cioè in grado di assorbire molecole d’acqua – che permettono alle goccioline di cui è composta la nube di aumentare di volume. Questo fa sì che la forza di gravità esercitata sulle goccioline diventi a un certo punto maggiore delle forze ascensionali che agiscono all’interno della nube, determinando l’effettiva caduta della pioggia (o della neve, a seconda della temperatura in quota).In pratica Schaefer scoprì, un po’ per caso e dopo vari tentativi, che il ghiaccio secco poteva fungere da nucleo di condensazione e favorire la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno della nube. Anche un altro suo collega alla General Electric, lo statunitense Bernard Vonnegut, peraltro fratello maggiore dello scrittore Kurt, lavorò alla ricerca sul cloud seeding. E scoprì che lo ioduro d’argento, un composto dalla struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio, poteva essere utilizzato al posto del ghiaccio secco e ancora più efficacemente per produrre pioggia e neve.Il direttore delle operazioni di volo della Weather Modification Inc., una società di cloud seeding del North Dakota, sistema su un aereo i contenitori di sostanze da disperdere in volo prima di un intervento, fuori dalla sede della compagnia a Fargo, il 20 settembre 2017 (Foto AP/Dave Kolpack)Nonostante la scoperta fosse stata accolta con entusiasmo da Schaefer, Langmuir e Vonnegut, e nonostante la tecnica fosse anche relativamente economica, il cloud seeding non attirò un esteso interesse da parte di governi e agenzie. O perlomeno non quello che ci si aspetterebbe che si sviluppi intorno a una scoperta potenzialmente in grado di modificare il clima. Negli Stati Uniti, come raccontato nel 2010 dallo Smithsonian, un fatto avvenuto nel 1947 in Florida condizionò in parte la percezione pubblica della scoperta.In uno dei suoi numerosi esperimenti con il ghiaccio secco e le nubi, Langmuir volle verificare l’ipotesi che il cloud seeding possa servire a disperdere l’energia degli uragani prima che si abbattano a terra, “prosciugando” le nuvole prima che si spostino verso i centri abitati. La mattina del 13 ottobre 1947, due giorni dopo che un uragano aveva colpito Miami per poi perdere potenza e spostarsi verso Jacksonville, Langmuir fece spargere un’ottantina di chilogrammi di ghiaccio secco da un Boeing B-17 dell’aeronautica statunitense mentre l’aereo, decollato da una base militare a Tampa, volava circa 150 metri sopra la tempesta. Una volta conclusa l’operazione il B-17 tornò alla base.La tempesta, che fino a quel momento si era spostata verso nord-est e aveva perso potenza, riprese slancio e si diresse verso la costa atlantica per poi abbattersi a terra vicino a Savannah, in Georgia. L’uragano causò danni per decine di milioni di dollari e provocò la morte di alcune persone. Nel giro di qualche giorno cominciarono a circolare sui giornali locali informazioni e racconti sull’operazione del B-17. I militari non condivisero dettagli sul volo, ma negarono che l’esperimento avesse potuto in alcun modo deviare la tempesta. Pur in mancanza di dati su cui basare una correlazione tra la forza e la direzione dell’uragano e il volo del B-17, l’esperimento di Langmuir influenzò l’opinione pubblica riguardo a quei primi tentativi di modificare artificialmente il clima.Un’altra ragione dello scetticismo che da sempre circola intorno al cloud seeding riguarda il fatto che non sia possibile avere alcuna prova definitiva della sua efficacia: come ha detto a The Hustle una persona che lavora nel settore, «non è che stai creando fiocchi di neve di colore diverso». In altre parole, dal momento che il tempo è imprevedibile, non è possibile avere alcuna certezza che nell’area in cui ghiaccio secco o ioduro d’argento sono stati diffusi nelle nuvole non avrebbe piovuto o nevicato comunque, anche senza cloud seeding.Lo scetticismo non ha tuttavia impedito che nel corso degli anni nascessero diverse società che si occupano di cloud seeding, tra cui la Seeding Operations and Atmospheric Research (SOAR), che lavora da oltre un decennio nel programma di induzione delle piogge nelle contee aderenti del Texas occidentale, con contratti da 300mila dollari all’anno.Secondo un dipendente della SOAR sentito da The Hustle l’intera industria statunitense del cloud seeding non supera i 10 milioni di dollari all’anno, il che lo rende in ogni caso un settore ancora abbastanza di nicchia. Altre società lavorano sia negli Stati Uniti che all’estero. La Weather Modification Inc., con sede nel North Dakota, è considerata la più grossa nel settore e ha contratti multimilionari in tutto il mondo, incluso un accordo a lungo termine con l’Arabia Saudita.Società come la SOAR e la Weather Modification Inc. utilizzano principalmente ioduro d’argento (ma anche ioduro di potassio o ghiaccio secco), che viene disperso in volo da aeroplani di piccole e medie dimensioni. Sono guidati da piloti abili a muoversi tra nuvole cariche di umidità e che di solito nei voli normali, sia per comodità che per sicurezza, si cerca perlopiù di evitare.Un’altra tecnica di cloud seeding è quella che utilizza le stesse sostanze ma erogandole da terra, in alcuni casi tramite mezzi di artiglieria. Nel 2008, in occasione dei Giochi olimpici a Pechino, circolarono a lungo le immagini di dipendenti pubblici impegnati a utilizzare cannoni antiaerei e lanciarazzi caricati a ioduro d’argento per indurre le piogge nelle periferie e disperdere nuvole che avrebbero potuto raggiungere il centro e disturbare la cerimonia di apertura. La Cina è uno dei paesi che investe di più nel cloud seeding: in totale circa 40mila persone per 500mila operazioni meteorologiche condotte tra il 2002 e il 2012.Un funzionario del programma di modifica del tempo nella contea cinese dello Xiangshan mostra un cannone utilizzato in operazioni di cloud seeding a Pechino, in Cina, il 19 luglio 2007 (China Photos/Getty Images)In uno studio del 2017 tre ricercatori del dipartimento di Scienze dell’atmosfera e geografia dell’Università Nazionale di Taiwan (NTU) associarono i regimi autoritari a un maggiore utilizzo del cloud seeding. Notarono in generale nei paesi non democratici una maggiore ambizione dei governi a modificare il clima, un minore dissenso nell’opinione pubblica riguardo a queste tecniche e una minore capacità di verificare e controllare i risultati delle operazioni meteorologiche.– Leggi anche: Come la Cina vuole controllare il meteoL’efficacia del cloud seeding nel produrre un aumento statisticamente significativo delle precipitazioni continua a essere oggetto di dibattito accademico, con risultati di volta in volta contrastanti a seconda dello studio e degli esperti presi in considerazione. Nel 2018, dopo aver esaminato i diversi programmi di cloud seeding attivi nel mondo, l’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) definì il cloud seeding una tecnologia promettente ma affermò che la variabilità naturale in ogni sistema di nubi rende difficile quantificare quanto sia efficace.Uno studio molto citato del 2014, condotto da diversi enti di ricerca per lo stato del Wyoming, stimò che le operazioni di cloud seeding erano riuscite a incrementare il livello delle precipitazioni del 5-15 per cento, ma il valore più alto riguardava soltanto i casi in cui erano comunque presenti condizioni ideali di partenza. E in ogni caso, come sintetizzato da The Hustle, «alcuni centimetri in più in una stagione non mettono fine a una siccità, né trasformano Phoenix in una palude».Rispetto ad altri interventi molto costosi e impegnativi, come per esempio la costruzione di impianti di desalinizzazione o la deviazione del corso dei fiumi, il cloud seeding rimane una tecnica sicuramente più economica: che è anche una delle ragioni principali per cui la ricerca in materia continua in molti stati e paesi a essere finanziata. Ma anche i sostenitori più autorevoli concordano nel considerarla, nella migliore delle ipotesi, una tecnica con un impatto molto limitato sulle precipitazioni e praticamente nullo sugli effetti a lungo termine del cambiamento climatico. «Non facciamo piovere. Possiamo soltanto ottenere più pioggia dalle nuvole che Dio ci manda», ha detto un dipendente della SOAR. LEGGI TUTTO

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    Ci saranno probabilmente altri giorni “più caldi mai registrati” quest’estate

    Caricamento playerMartedì 4 e mercoledì 5 luglio sono stati definiti i giorni più caldi mai registrati, a pari merito. E già lunedì 3 luglio la stima della temperatura media globale aveva superato i record precedenti: gli ultimi giorni insomma sono stati i più caldi sul pianeta dal 1979. I dati del Servizio meteorologico nazionale degli Stati Uniti su cui sono basate le stime sono ancora preliminari, ma poco sorprendenti. Gli esperti avevano previsto che probabilmente nel corso di quest’estate sarebbero stati raggiunti record di questo tipo, e dicono anche che da ora alla fine di agosto ce ne saranno altri.All’effetto del riscaldamento globale dovuto alle attività umane si sono infatti aggiunti due fenomeni naturali che causano un aumento delle temperature: l’estate nell’emisfero boreale e El Niño, quel periodico insieme di condizioni atmosferiche che avviene nell’oceano Pacifico ma influenza il clima di gran parte del pianeta. A giugno ne è cominciato uno nuovo e per quest’anno ci si aspetta un particolare aumento della temperatura media.Tutti i record di questo tipo avvengono quando è estate nell’emisfero boreale, quello in cui si trova anche l’Italia, perché la temperatura superficiale ha variazioni più ampie sulle terre emerse che sugli oceani. Dato che ci sono molte più terre emerse nell’emisfero settentrionale rispetto a quello meridionale, è il primo a influenzare di più le variazioni della temperatura media globale. Le temperature medie più alte si registrano dunque durante l’estate boreale, quelle più basse durante l’inverno boreale.Negli ultimi anni i valori delle temperature medie globali sono cresciuti progressivamente: nell’agosto del 2016 la temperatura media era di 16,92 °C; secondo le prime stime, lunedì di questa settimana era di 17,01 °C mentre martedì e mercoledì di 17,18 °C. Possono sembrare valori relativamente bassi, ma per interpretarli correttamente va ricordato che nell’emisfero australe siamo in inverno e che parliamo di una media.La temperatura media globale giornaliera viene stimata utilizzando modelli computazionali, cioè simulazioni basate su grandi modelli calcolati con i computer, che sono usati per fare previsioni meteorologiche e si basano su tantissimi valori di temperatura misurati in giro per il mondo e da dati ottenuti dai satelliti.Quando riferendosi alla temperatura si dice “mai registrata” si intende tecnicamente dal 1979 ad oggi: in quell’anno le tecnologie satellitari raggiunsero un livello tale da permettere misurazioni accurate. Si può andare però anche molto più indietro nel tempo grazie allo studio della climatologia, che si basa su dati di tipo diverso: per esempio quelli che si possono ottenere dai sedimenti marini, dai prelievi a grande profondità di ghiaccio dei ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide. Grazie alla climatologia sappiamo per esempio che per trovare un clima globale caldo come quello degli ultimi anni bisogna andare indietro di 120mila anni, al cosiddetto periodo Eemiano.I record degli ultimi giorni sono stati rilevati dal sistema di previsioni meteorologiche della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. È un sistema che permette di produrre stime molto velocemente, già il giorno successivo a quello su cui si vogliono ottenere informazioni. È meno avanzato di altri modelli, come l’“ERA5” del Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine (ECMWF), ma solitamente quando si tratta di variazioni notevoli delle medie globali, i risultati dei due modelli sono coerenti.Per ora l’ECMWF ha diffuso i propri dati relativi a lunedì 3 luglio e per tale giornata ha confermato il record. Sono diverse solo le stime della temperatura: per Copernicus due giorni fa è stata registrata una media globale di 16,88 °C, mentre il record dell’agosto del 2016 era di 16,80 °C. Le differenze con le stime statunitensi dipendono dai metodi leggermente diversi usati dai modelli computazionali e dai diversi insiemi di dati utilizzati. Sul fatto che siano giorni più caldi del solito sono comunque concordi.📈 According to preliminary data from the #ERA5 dataset, the global average 2m #temperature reached 16.88°C on Monday, breaking the previous record of 16.80°C from August 2016.Get the data 👉 https://t.co/V3rirrGxRD#Climate #ClimateChange pic.twitter.com/gwVEYxfPok— Copernicus ECMWF (@CopernicusECMWF) July 5, 2023– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027 LEGGI TUTTO