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    La ricercatrice che si è iniettata dei virus per curarsi un tumore

    Caricamento playerIn Croazia una ricercatrice ha sperimentato su sé stessa un trattamento che consiste nell’iniettare virus nei tessuti tumorali, in modo da indurre il sistema immunitario ad attaccarli, con l’obiettivo di curare in questo modo anche la malattia. A quattro anni di distanza, il tumore non si è più presentato e sembra quindi che la terapia abbia funzionato, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire. Non è la prima volta in cui viene provato un trattamento di questo tipo, ma il fatto che la ricercatrice lo abbia provato su di sé e al di fuori di un test clinico vero e proprio ha aperto un ampio dibattito, soprattutto sull’opportunità dell’iniziativa da un punto di vista etico.
    Beata Halassy ha 53 anni ed è una virologa dell’Università di Zagabria. Nel 2020 le era stato diagnosticato un tumore al seno in un’area già trattata in precedenza per un tumore dello stesso tipo. Non volendosi sottoporre a una chemioterapia per trattare la nuova recidiva, Halassy aveva iniziato a documentarsi su alcuni approcci alternativi e sperimentali per provare a trattare i tumori, arrivando alla conclusione che potesse applicarne uno direttamente a sé stessa, al di fuori delle normali sperimentazioni.
    Durante le ricerche Halassy si era in particolare concentrata sulla “viroterapia oncolitica” (OVT), cioè un tipo di trattamento che prevede l’impiego di particolari virus per indurre il sistema immunitario a reagire più efficacemente contro le cellule tumorali. L’OVT ha una storia relativamente lunga di test clinici su gruppi di pazienti con tumori ormai in stadio avanzato, mentre viene sperimentata da meno tempo sulle forme tumorali ai loro primi stadi. In alcuni paesi è permesso l’impiego di alcune tecniche specifiche di OVT per trattare i melanomi metastatici (i tumori della pelle che si diffondono ad altri tessuti), mentre a oggi non ci sono terapie autorizzate per trattare altre forme di tumore, come quello al seno.
    Da virologa, Halassy aveva le conoscenze e i mezzi per coltivare in laboratorio i virus che avrebbe poi potuto usare su sé stessa per tentare una OVT, a scopo sperimentale anche senza particolari autorizzazioni. Decise di utilizzare il virus del morbillo e il virus della stomatite vescicolare (VSV), che infetta principalmente il bestiame e che negli esseri umani causa sintomi simili a quelli di una lieve influenza. Entrambi i virus sono usati da tempo nelle sperimentazioni per infettare i tipi di cellule tumorali come quelle che aveva sviluppato Halassy, anche se con esiti alterni.
    In generale, un virus si lega alla membrana cellulare e inietta poi il proprio materiale genetico all’interno della cellula, sfruttandola per farle produrre nuove copie di sé stesso. Alla morte della cellula, le copie si diffondono e si legano ad altre cellule, iniettano il loro materiale genetico e la replicazione del virus prosegue. L’OVT ha tra i propri scopi lo sfruttamento di questo processo per far sì che i virus causino la morte delle cellule tumorali, attirando intanto l’attenzione del sistema immunitario che intercetta la presenza dei virus e reagisce distruggendo le cellule infettate che sono quelle che stanno causando il tumore (spesso il sistema immunitario non riesce a riconoscere come pericolosa una cellula tumorale e non interviene).
    Halassy ha utilizzato forme attenuate dei due virus per non ammalarsi, un po’ come si fa con i vaccini che contengono virus resi innocui, ma la cui presenza è sufficiente per insegnare al sistema immunitario a riconoscerli per eventuali incontri futuri coi virus veri e propri. Nel corso di due mesi, la virologa ha preparato più trattamenti a base dei virus che sono stati poi iniettati direttamente nell’area del suo tumore al seno. L’oncologa che l’aveva in cura ha accettato di seguirla durante la sperimentazione, in modo da intervenire rapidamente nel caso in cui si fosse reso necessario un ritorno a trattamenti più convenzionali basati sulla chemioterapia.
    Nel corso del trattamento, il tumore si è via via ridotto e si è separato dall’area in cui stava crescendo, rendendo più semplice la successiva rimozione chirurgica. I tessuti asportati sono stati poi analizzati ed è stata rilevata un’alta concentrazione di cellule immunitarie, il cui scopo è quello di segnalare e distruggere sia i virus sia le cellule infettate, che erano quelle tumorali.
    Considerati i risultati della sperimentazione, Halassy aveva pensato che potesse essere utile rendere pubblico il proprio caso personale, ma aveva faticato prima di trovare una rivista scientifica disposta a pubblicare il suo studio. La ricerca è stata infine pubblicata su Vaccines lo scorso agosto, ma è diventata molto commentata e discussa soprattutto nelle ultime settimane dopo essere stata notata da alcuni esperti. Nello studio Halassy spiega che dopo l’intervento chirurgico ha assunto per un anno il trastuzumab, un farmaco antitumorale che si è mostrato efficace nel bloccare la crescita e la diffusione di alcuni tipi di cellule del cancro al seno.
    È difficile stabilire che ruolo abbia avuto il trattamento adiuvante con trastuzumab nell’evitare nuove recidive negli ultimi quattro anni. La presenza di un’alta concentrazione di cellule del sistema immunitario suggerisce comunque che il trattamento con i due tipi di virus sia stato efficace proprio nello stimolare una risposta immunitaria, che insieme all’azione dei virus ha reso possibile la distruzione delle cellule tumorali.
    Diversi osservatori hanno fatto notare come Halassy abbia effettuato la sperimentazione su sé stessa senza organizzare un test clinico con più persone e senza seguire i criteri solitamente adottati in questi casi, facendo rientrare il proprio caso nell’aneddotica medica con una scarsa rilevanza. È difficile infatti derivare da un unico caso dati che possano essere applicati in generale a gruppi di persone più ampi con problemi di salute simili. L’autosomministrazione porta inoltre con sé numerose implicazioni etiche.
    Halassy si è assunta non pochi rischi per la salute: i virus del morbillo e della stomatite vescicolare sono considerati relativamente sicuri, ma l’uso di preparati virali non di grado clinico, prodotti in laboratorio e sottoposti a processi di purificazione fai-da-te, può rendere poco sicuro il trattamento. Halassy era chiaramente consapevole dei rischi e dei benefici del trattamento, ma data la propria condizione di paziente la sua stessa valutazione del rischio potrebbe essere stata deformata: per questo motivo di solito è prevista una revisione da parte di un comitato etico, proprio per valutare in maniera indipendente il rapporto tra i rischi e i benefici di una sperimentazione.
    È stato inoltre osservato come il lavoro di Halassy possa creare false speranze o incoraggiare altri pazienti, in difficoltà a causa della loro malattia, a cercare di replicare il suo trattamento, mettendo a rischio la loro salute. Halassy ha detto di ritenere basso il rischio di emulazione, considerato che il trattamento richiedeva comunque una particolare preparazione dei virus che non può essere effettuata in tutti i laboratori e che richiede diverse conoscenze, sia sul piano teorico sia su quello pratico. LEGGI TUTTO

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    La lotta di Bianca Balti contro il tumore in foto: dall’operazione alle chemio

    La lotta di Bianca Balti contro la malattia: dall’operazione alla chemioterapia a Los Angeles. La modella sta affrontando…

    1. L’operazione A metà settembre la top model Bianca Balti ha annunciato di avere un tumore ovarico al terzo stadio e di aver subito un’operazione. Lo ha fatto attraverso Instagram con il sorriso sulla bocca. “Ho un lungo viaggio davanti a me, ma so che ce la farò – ha detto -. Per me, per i miei cari (le mie figlie sono in cima alla lista) e per tutti voi che avete bisogno di forza, potete prenderne un po’ in prestito perché ne ho un sacco. Finora il cancro mi ha dato la possibilità di trovare la bellezza attraverso gli ostacoli della vita”.

    2. La cicatrice Dopo la scoperta del tumore e l’intervento chirurgico a cui i medici l’hanno sottoposta, ha continuato a sorridere e a cercare di affrontare con il suo ottimismo questo peso che sta gravando sulla sua esistenza e su quella della sua famiglia. La modella ha mostrato le cicatrici dell’intervento per dare forza e coraggio a tutte le persone che, come lei, stanno affrontando il suo stesso percorso terapeutico.

    3. Le cure Anche dal letto di ospedale la 40enne non aveva rinunciato a quell’ottimismo che le sta permettendo di affrontare tutto con più serenità: “Sto cercando di vivere una vita il più normale possibile”.

    4. La chemioPrimo giorno di chemio ad un mese dall’intervento per la modella di Lodi. Bianca condivide questo momento nelle stories.

    5. Una nuova fase La Balti era impaziente di iniziare le cure: ‘’Sono super felice, perché ora posso iniziare a pianificare. E ADORO pianificare ahahaha. Inoltre, prima inizio prima finirò! Grazie mille per i dolci messaggi! In realtà sto bene. Non preoccupatevi per me perché non sono preoccupata! Sono solo molto seccata perché avevo piani MOLTO diversi per il prossimo futuro… Ma ehi, l’accettazione alla fine mi renderà onore”, ha sottolineato sul suo profilo Instagram.

    6. Le medicine La modella vuole rimanere ottimista e nel frattempo si è tagliata i capelli  optando per un caschetto. Adesso, con coraggio e con accanto gli affetti più cari, inizia la battaglia per ricacciare indietro ‘l’intruso’.

    7. Le figlie Accanto a lei ci sono la figlia primogenita 17enne Matilde Lucidi (è pure madre di Mia, nata nel 2015 dalla relazione con il secondo marito Matthew McRae), due amici, Erica Dente degli Scrovegni e Ozzy Salvatierra, make-up artist, e l’uomo che ora è al suo fianco. 

    8. Il nuovo compagno A gennaio scorso la Balti aveva ufficializzato il legame con Helly Nahmad, ma adeso non è più il collezionista il suo compagno. La top model nelle su stories mostra un nuvo compagno, ma non svela il nome del fortunato. LEGGI TUTTO

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    Cosa vuol dire davvero un “esame del sangue per i tumori”

    Caricamento playerIn una delle sessioni di domenica dell’incontro annuale sul cancro organizzato dall’American Society of Clinical Oncology (ASCO) a Chicago, un gruppo di ricerca britannico ha presentato una versione “ultra sensibile” di esame del sangue per prevedere la ricomparsa del tumore al seno nelle pazienti, mesi se non anni prima che si verifichi una recidiva. L’annuncio è stato molto ripreso dai media e presentato come «rivoluzionario», ma per quanto importanti e utili in alcuni ambiti diagnostici, i test di questo tipo sono ancora discussi e non è sempre semplice valutarne costi e benefici.
    Il test presentato alla conferenza dell’ASCO rientra nelle cosiddette “biopsie liquide”, un tipo di esami diagnostici relativamente nuovi che servono per rilevare e analizzare tracce genetiche lasciate dalle cellule tumorali nel sangue o, in misura minore, in altri fluidi corporei. Alcuni esami servono per diagnosticare la presenza di un tumore e determinarne il tipo – insieme alle tecniche tradizionalmente impiegate come la diagnostica per immagini – altri come il test annunciato domenica servono invece per valutare l’andamento della malattia quando questa era già stata diagnosticata in precedenza.
    Una biopsia liquida può quindi essere impiegata per rilevare una “malattia minima residua”, cioè tracce di un tumore troppo piccole per notarne la presenza con i metodi tradizionali. Molto dipende però dalla tipologia del tumore e dalle eventuali possibilità di intervenire con terapie precocemente, in modo da ridurre la sua diffusione.
    “Cancro” è infatti una parola ombrello che usiamo comunemente, anche se descrive fenomeni e malattie molto diverse tra loro. I tumori sono strutture dinamiche e crescono più o meno velocemente, a seconda dei modi in cui avvengono le mutazioni nelle cellule che li costituiscono. Sono proprio queste mutazioni casuali nel loro materiale genetico a far sì che le cellule coinvolte si comportino in modo anomalo: in alcuni casi il sistema immunitario riesce a distruggerle e a tenerle sotto controllo, in altri non le riconosce come una minaccia e il tumore progredisce.
    Dal tumore iniziale possono staccarsi alcune cellule che, sempre grazie alle mutazioni accumulate, riescono a viaggiare nell’organismo e a insediarsi in altre parti del corpo (vengono definite “cellule tumorali circolanti” o CTC), creando quelle che vengono definite “metastasi”. Non tutti i tumori sono metastatici: alcuni danno problemi localmente senza che le loro cellule finiscano altrove nell’organismo e – quando possibile – possono essere trattati con tecniche di asportazione oppure con farmaci e radioterapia per distruggere le cellule tumorali. I tumori metastatici sono invece più difficili da trattare, soprattutto se la loro diffusione in altre parti del corpo è già avvenuta, perché non sempre ci sono terapie adatte per fermare il processo.
    Alcuni tipi di cellule tumorali circolanti possono essere rilevati con una biopsia liquida, un test meno invasivo rispetto alle classiche biopsie dove si rimuove del tessuto cellulare con un intervento chirurgico per poi analizzarlo. Identificare le CTC non è però semplice, perché queste sono rare e si trovano nel sangue in concentrazioni estremamente basse. Inoltre, le loro caratteristiche variano da paziente a paziente e rendono difficile l’impiego di sistemi sufficientemente sensibili e specifici. Ma non ci sono solamente le CTC.
    Come per le altre cellule, man mano che le cellule tumorali muoiono si producono dei detriti che finiscono nella circolazione sanguigna per essere poi smaltiti dall’organismo. Questi minuscoli resti del tumore contengono frammenti di DNA e altro materiale genetico che può essere identificato partendo da un prelievo di sangue. È una categoria di test relativamente nuova che rientra nell’analisi del cosiddetto “DNA tumorale circolante” (ctDNA) e che soprattutto nelle persone che hanno già avuto un tumore può essere impiegata per fare previsioni, più o meno accurate, sul rischio di sviluppare recidive.
    La tecnica annunciata a Chicago da un gruppo di ricerca dell’Institute of Cancer Research di Londra riguarda proprio una biopsia liquida del ctDNA, che era stata messa alla prova sui campioni di sangue prelevati da 78 donne con varie forme di tumore al seno, in diverse fasi della malattia e delle terapie per trattarla. Indicatori molecolari di malattia residua erano stati identificati in tutte le 11 pazienti che avevano poi avuto una recidiva, ha spiegato il gruppo di ricerca. Nella maggior parte delle altre pazienti in cui i livelli di ctDNA non erano stati individuati dal test non erano stati rilevati casi di recidiva.
    La maggiore sensibilità dell’esame è stata ottenuta utilizzando l’intero genoma, cioè tutto il DNA all’interno di una cellula, e non limitandosi ad alcune porzioni del materiale genetico come avviene con altre biopsie liquide. L’annuncio è stato accolto con grande interesse per i progressi nelle tecniche di analisi, ma è ancora presto per capire se e quali benefici pratici possa portare il nuovo esame, così come i test simili che verosimilmente saranno sviluppati per altre forme di tumore.
    Le biopsie liquide hanno il potenziale di essere utili per comprendere meglio le caratteristiche genetiche di un tumore, il modo in cui evolve nel tempo o come reagisce alle terapie, oppure ancora per individuare precocemente le recidive e stimare la probabilità con cui si potranno verificare. Soprattutto su quest’ultimo aspetto medici e pazienti si devono comunque confrontare con le grandi incertezze date dai falsi positivi o negativi dei test, nonché dagli approcci da seguire per ridurre i rischi. Il ricorso a forme di chemioterapia preventiva, per esempio, è discusso tra gli specialisti, con medici che preferiscono aumentare la frequenza dei controlli e agire semmai quando viene diagnosticata una recidiva vera e propria, cercando di affrontarla da subito.
    L’attesa rimane l’approccio più seguito, sia per non sottoporre i pazienti a terapie che possono essere pesanti e debilitanti, sia perché per varie forme di tumore non ci sono possibilità di agire prima che queste abbiano tornato a manifestarsi con una recidiva. Il rischio, almeno in questa fase iniziale, è che si ricorra con una frequenza eccessiva alle biopsie liquide, anche se il loro esito non porterà poi comunque a qualche azione concreta nell’immediato. Gli esami di questo tipo potrebbero gravare sui sistemi di salute pubblica, sia in termini pratici sia di risorse economiche, senza portare a effettivi benefici per i pazienti.
    Le biopsie liquide hanno comunque grandi potenzialità e per questo c’è un notevole interesse da parte della ricerca, sia in ambito pubblico sia in ambito privato. Gli investimenti nel settore non mancano soprattutto negli Stati Uniti, dove varie startup sono al lavoro per sviluppare e brevettare propri sistemi, che si potrebbero rivelare molto redditizi nel caso di un approccio sanitario orientato allo screening costante, non solo per le persone che hanno già avuto un tumore, ma anche per la popolazione sana. È stato proprio il grande interesse verso questi sistemi diagnostici di nuova generazione a portare allo scandalo di Theranos, società che prometteva di poter diagnosticare qualsiasi malattia da una goccia di sangue analizzata da un particolare scanner, che in realtà non aveva mai funzionato.
    Theranos aiuta a comprendere alcuni aspetti commerciali, ma fu naturalmente un caso estremo che non ha nulla a che vedere con i sistemi come quello annunciato per le biopsie liquide legate al tumore al seno. È bene però ricordare che lo studio realizzato dall’Institute of Cancer Research è stato effettuato per dimostrare il funzionamento del test in linea di principio, ma che saranno necessari molti altri approfondimenti per comprendere effettive potenzialità e opportunità offerte da questi nuovi approcci diagnostici, come ha detto Nicholas Turner, uno degli oncologi britannici coinvolti nel progetto: «L’analisi del sangue di un paziente per il ctDNA consentirà ai medici di diagnosticare la recidiva del cancro nella fase più precoce. Tuttavia, saranno necessari ulteriori test e ricerche prima di poter dimostrare se il rilevamento della malattia molecolare residua possa guidare la terapia in futuro». LEGGI TUTTO